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N.B. CAUSA LAVORI DI RISTRUTTURAZIONE SEDE GLI AGGIORNAMENTI SETTIMANALI RIPRENDERANNO QUANTO PRIMA
27 Giugno 2010
Il Papa: Aspirare a potere e successo contraddice il sacerdozio La miglior catechesi eucaristica, l'Eucaristia ben celebrata La Caritas esorta a una maggiore difesa delle donne rifugiate La "dolce morte" senza consenso: com’è facile essere uccisi in Belgio... Benedetto XVI tradotto in arabo Gli Operatori Pastorali uccisi nell’anno 2009 Trenta chilometri a piedi per "allenarsi" a chiedere Mondiali di calcio: Un'occasione per l'intero continente africano Legionari di Cristo, il “delegato” sarà Mons. De Paolis Vivere è meglio che vivacchiare Un’isola di silenzio: La Certosa di Farneta Alimenti: aumentano i prodotti contaminati da residui di pesticidi Il Vaticano «beatifica» i Blues Brothers Si comprano il palazzo per non avere la moschea
Il Papa: Aspirare a potere e successo contraddice il sacerdozio
Papa Benedetto XVI lancia un monito all'integrità morale e al vero senso del ministero sacerdotale avvertendo che aspirare al potere e al successo personale contraddice la missione del sacerdozio. Il Santo Padre ne ha parlato celebrando nella Basilica Vaticana la Santa Messa nel corso della quale ha conferito l'Ordinazione presbiterale a 14 nuovi sacerdoti della Diocesi di Roma. "Il sacerdozio, non può mai rappresentare un modo per raggiungere la sicurezza nella vita o per conquistarsi una posizione sociale - ha detto il Papa -. Chi aspira al sacerdozio per un accrescimento del proprio prestigio personale e del proprio potere ha frainteso alla radice il senso di questo ministero". Dal Pontefice, ovviamente nessun riferimento diretto all'inchiesta di Perugia che vede il coinvolgimento di Propaganda Fide nelle vicende di appaltopoli, ma un fermo richiamo a moralità e purezza nelle vocazioni sacerdotali. Chi vuole soprattutto realizzare una propria ambizione, raggiungere un proprio successo – ha aggiunto Benedetto XVI – sarà sempre schiavo di se stesso e dell'opinione pubblica. Per essere considerato, dovrà adulare; dovrà dire quello che piace alla gente; dovrà adattarsi al mutare delle mode e delle opinioni e, così, si priverà del rapporto vitale con la verità, riducendosi a condannare domani quel che avrà lodato oggi. Un uomo che imposti così la sua vita, un sacerdote che veda in questi termini il proprio ministero, non ama veramente Dio e gli altri, ma solo se stesso e, paradossalmente, finisce per perdere se stesso. Il sacerdozio - ricordiamolo sempre - si fonda sul coraggio di dire sì ad un'altra volontà, nella consapevolezza, da far crescere ogni giorno, che proprio conformandoci alla volontà di Dio, immersi in questa volontà". (© Copyright Apcom, 20 giugno 2010)
La miglior catechesi eucaristica, l'Eucaristia ben celebrata
"La migliore catechesi sull'Eucaristia è la stessa Eucaristia ben celebrata", ha affermato Benedetto XVI esortando tutta la Chiesa a celebrarla in modo degno. Il Pontefice ha lasciato questa consegna ai partecipanti al convegno della Diocesi di Roma che ha inaugurato martedì nella Basilica di San Giovanni in Laterano, Cattedrale del Vescovo della Città eterna. "La Santa Messa, celebrata nel rispetto delle norme liturgiche e con un'adeguata valorizzazione della ricchezza dei segni e dei gesti, favorisce e promuove la crescita della fede eucaristica", ha affermato il Pontefice. "Nella celebrazione eucaristica noi non inventiamo qualcosa - ha avvertito -, ma entriamo in una realtà che ci precede, anzi che abbraccia cielo e terra e quindi anche passato, futuro e presente". "Questa apertura universale, questo incontro con tutti i figli e le figlie di Dio è la grandezza dell'Eucaristia: andiamo incontro alla realtà di Dio presente nel corpo e sangue del Risorto tra di noi". Per questo, "le prescrizioni liturgiche dettate dalla Chiesa non sono cose esteriori, ma esprimono concretamente questa realtà della rivelazione del corpo e sangue di Cristo e così la preghiera rivela la fede". Secondo il Vescovo di Roma, "è necessario che nella liturgia emerga con chiarezza la dimensione trascendente, quella del Mistero, dell'incontro con il Divino, che illumina ed eleva anche quella 'orizzontale', ossia il legame di comunione e di solidarietà che esiste fra quanti appartengono alla Chiesa". Quando prevale quest'ultima, infatti, " non si comprende pienamente la bellezza, la profondità e l'importanza del mistero celebrato". Il Papa ha quindi chiesto ai fedeli di Roma, e in particolare ai sacerdoti, di celebrare "i divini misteri con intensa partecipazione interiore, perché gli uomini e le donne della nostra Città possano essere santificati, messi in contatto con Dio, verità assoluta e amore eterno". Allo stesso modo, ha esortato i cattolici a "curare al meglio, anche attraverso appositi gruppi liturgici, la preparazione e la celebrazione dell'Eucaristia, perché quanti vi partecipano possano incontrare il Signore. È Cristo risorto, che si rende presente nel nostro oggi e ci raduna intorno a sé". (Zenit, 18 giugno 2010)
Anticipiamo ampi stralci dell'editoriale dell'ultimo numero de "La Civiltà cattolica" intitolato "Il crocifisso nelle scuole". L'articolo è interamente dedicato all'esame, fissato per il 30 giugno prossimo, da parte della Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell'uomo del ricorso presentato dal Governo italiano verso la sentenza della Corte di Strasburgo che vieta l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. «Il ricorso presentato dal Governo italiano contro la sentenza della Corte di Strasburgo del 3 novembre 2009 critica la decisione della Corte, la quale ha affermato che la presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche contrasta con la necessaria neutralità che uno Stato dovrebbe avere nell'esercizio delle proprie funzioni pubbliche. Anzi, ha ritenuto che questo simbolo possa essere una fonte di turbamento emotivo per gli alunni che credono in un'altra religione o che non credono affatto. Insomma, per i giudici di Strasburgo l'esposizione del Crocifisso contrasterebbe con le necessarie garanzie di pluralismo educativo di una società democratica. Per giustificare la rimozione del Crocifisso dalle aule scolastiche - scrivevamo nel quaderno del 5 gennaio 2002 - in Italia ci si appella alla laicità dello Stato: lo Stato italiano, si dice, non riconosce più la religione cattolica come religione di Stato; la Repubblica è diventata uno Stato laico e, perciò, non può accettare che simboli religiosi siano esposti in un luogo pubblico come la scuola. Che valore ha questo argomento? Il suo valore dipende dal significato che si attribuisce al termine "Stato laico". Infatti, secondo molti, oggi questo termine significa che lo Stato deve ignorare il fatto religioso, anzi deve positivamente escluderlo; in altri termini deve essere, se non dichiaratamente contro la religione, positivamente areligioso e considerare la religione un fatto privato, senza alcuna rilevanza pubblica. Ma, così inteso, lo Stato non è "laico", ma "laicista". In realtà, la laicità è cosa diversa dal laicismo. Infatti, a differenza di quest'ultimo, la laicità dello Stato significa che lo Stato non fa propria nessuna religione particolare, in quanto è incompetente in campo religioso e non persegue finalità religiose, ma deve riconoscere e rispettare il fatto religioso, promuovere, favorire la più ampia libertà religiosa e facilitare l'esercizio della loro religione a coloro che lo desiderano, nel rispetto dell'ordine pubblico, della pubblica moralità e della legalità. Agendo in tal modo lo Stato laico riconosce e favorisce il diritto dei cittadini a praticare la propria religione. Carlo Cardia (cfr. Identità religiosa e culturale europea, 2010, p. 23) riconosce che, "anche in termini giuridici, la sentenza costituisce un vero e proprio strappo nei confronti dei cardini essenziali sui quali sono nati e si sono sviluppati i processi di integrazione europea. (...) Uno strappo che ha fatto temere a molti l'incrinatura di quegli equilibri tra Stati membri e istituzioni europee che nessuno fino a oggi aveva messo in discussione". Fra gli altri riprendiamo quanto ebbe a dire il professor Francesco Margiotta Broglio nel 2006. "Non esiste - disse - una definizione comune o univoca di laicità. Ciascuno Stato ha la sua storia di libertà religiosa; ciascun sistema giuridico ha, a modo suo, integrato le religioni nella democrazia e definito la neutralità nello spazio pubblico; ciascun sistema giuridico, infine, ha stabilito la propria specificità nella gestione del pluralismo religioso, nella regolamentazione delle confessioni religiose e delle organizzazioni non confessionali". Perciò in una tale materia è il principio di sussidiarietà che viene messo da parte nella sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Invece, secondo la precedente giurisprudenza della Corte di Strasburgo, agli Stati viene lasciato un ampio margine in tema di libertà religiosa. Citando affermazioni della stessa Corte si può dire: "In ragione del loro diretto e continuo contatto con le forze vitali dei loro Paesi, le autorità degli Stati sono in linea di principio in una posizione avvantaggiata rispetto al giudice internazionale". Fra l'altro, andando contro la propria giurisprudenza più volte confermata e contro quanto scrivevamo nel quaderno del 5 dicembre 2009, la Corte non ha tenuto nel dovuto conto il principio della rilevanza dell'appartenenza della stragrande maggioranza della popolazione italiana alla religione cattolica. La sentenza in tal modo - nota C. Cardia (cfr. ivi, p. 50 s) - evita di riconoscere (come sarebbe stato doveroso) che la presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche ha il valore di un semplice e coerente richiamo a questa realtà sociale tanto antica quanto attuale e che esso quindi non assume alcun carattere di imposizione, ma costituisce il riflesso di uno dei caratteri di identità dell'Italia conosciuto in tutto il mondo. Nella relazione che accompagna la Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione, elaborata dal ministero dell'Interno italiano, si afferma positivamente: "Il segno, o il simbolo religioso, non è, non può essere mai uno strumento di offesa per chi ha un'altra fede. Esso costituisce un mezzo che esprime le diversità e può arricchire gli altri interlocutori. Se non si afferma questo principio le società multiculturali sono destinate a vivere in un continuo stato di fibrillazione, facile a sfociare in veri conflitti interconfessionali, e rischiano così di ricadere nel passato. Per entrare nel merito, se in un Paese i segni o i simboli della religione tradizionale sono collocati in edifici pubblici non si può chiedere di toglierli per motivi di multiculturalità, perché essi esprimono, secondo le leggi di quell'ordinamento, una identità o una radice storica che meritano rispetto e considerazione. Altrettanto, se in un Paese esistono tradizioni culturali legate a festività religiose - in Italia a festività natalizie, al culto mariano, ad altre ricorrenze - nella scuola, in ambienti giovanili o in altri momenti della vita associativa, volerle eliminare vorrebbe dire proprio intaccare quella ricchezza multiculturale che si vuole invece tutelare e promuovere. D'altronde, nessuno ha mai pensato di eliminare le statue di Buddha nei Paesi nei quali il buddismo vanta una lunga tradizione, o di cancellare festività nazionali che hanno una chiara impronta religiosa riferibile alla religione di maggioranza". Infine, conclude il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta: "Il simbolo della Croce, esposto nelle scuole italiane e in quelle di moltissimi altri Paesi europei, ma anche nelle bandiere delle nazioni del Nord Europa è qualcosa che non appartiene soltanto alla più gran parte dei cittadini europei, né è espressione esclusiva di un indirizzo confessionale, ma è diventato, per usare le parole di Gandhi, un simbolo universale che parla di fratellanza e di pace a tutti gli uomini di buona volontà. Su questa base si può chiedere una giusta revisione della sentenza di Strasburgo del 2009 per tener ferma la coesione e la solidarietà spirituale dei popoli europei che vogliono camminare insieme mantenendo le proprie identità e tradizioni"» (© L'Osservatore Romano, 19 giugno 2010)
La Caritas esorta a una maggiore difesa delle donne rifugiate
Tre milioni. Tante sono le donne rifugiate a lungo termine nel mondo, ha ricordato la Caritas in questa domenica in cui si celebra la Giornata Mondiale del Rifugiato. Le donne rifugiate, spiega l'organizzazione, “sono particolarmente vulnerabili ad abusi dei diritti umani nel caso in cui siano costrette ad abbandonare le proprie case per lunghi periodi”. Di fronte a questo, la comunità internazionale “può fare di meglio per difenderle dalla violenza”. “La comunità internazionale deve mostrare la volontà politica di assicurare una difesa come garantita nei trattati internazionali”, ha dichiarato Martina Liebsch, direttore delle Politiche di Caritas Internationalis. Attualmente nel mondo ci sono più di 10 milioni di rifugiati. Circa i due terzi sono vittime di crisi di 5 anni o più lunghe. Le donne fuggono spesso da conflitti in Paesi come la Colombia, il Sudan, l'Iraq e l'Afghanistan, vivendo il più delle volte in luoghi insicuri come campi improvvisati senza protezione. “In questi campi le donne possono diventare vittime di violenza”, ha detto Martina Liebsch. “Sono più vulnerabili agli attacchi perché devono spesso uscire dal campo per far fronte alle necessità fondamentali delle famiglie, come procurarsi legna per il fuoco e acqua”. Per questo motivo, per la Caritas è essenziale garantire una migliore sicurezza nei campi e favorire le donne al momento di riferire atti di violenza per avere accesso alle procedure giudiziarie. “I programmi di sussistenza per le donne sono un fattore chiave”, ha aggiunto la Liebsch. “Se si dà a una donna la capacità di provvedere a sé e alla propria famiglia in un ambiente sicuro, non sarà costretta a correre rischi fuori dal campo”. L'esperienza pratica della Caritas nei campi di rifugiati del Benin, nell'Africa occidentale, mostra che fornire ruoli di leadership alle donne migliora la loro sicurezza. “Il modo migliore per fornire sicurezza è risolvere le crisi perché i rifugiati possano tornare a casa”, ha concluso la Liebsch. “Le alternative sono sostenere l'integrazione nella comunità ospite o il reinserimento in un altro Paese”, favorendo l'acquisizione di capacità “perché la gente possa crearsi una nuova vita”. (Zenit, 20 giugno 2010)
La "dolce morte" senza consenso: com’è facile essere uccisi in Belgio...
Due studi pubblicati dal prestigioso Canadian Medical Association Journal (Cmaj) hanno rivelato che in Belgio la metà circa dei procedimenti di eutanasia praticati nei confronti di malati terminali avverrebbe senza il consenso dei pazienti, e che in molti casi sono le stesse infermiere, al posto dei medici, a dare la dolce morte, anche quando non è richiesta. I dati scuotono l’opinione pubblica e il mondo si interroga scioccato su un fatto che, in fondo, era facilmente prevedibile. Anzi, direi scontato. Una volta attraversato il Rubicone della legalizzazione, il passo verso l’eutanasia non volontaria è assolutamente breve. Un passo quasi inevitabile e non sempre indotto da ragioni nobili. Mi sono preso la briga di leggere attentamente i due studi pubblicati dalla Cmaj. Il primo, denominato «La morte medicalmente assistita secondo la legge belga: una ricerca statistica nella popolazione» (DOI:10.1503/Cmaj.091876) mostra un dato allarmante: su 208 decessi per eutanasia, 142 sono risultati consenzienti, e 66 privi di una preventiva autorizzazione da parte del paziente. Un elemento interessante emerge dall’analisi dei casi di eutanasia non volontaria. Soltanto nel 22,1% di essi, infatti, è stata almeno intavolata una discussione sulla possibilità di porre fine alla vita. Nei casi in cui, invece, tale discussione non vi è stata, i medici hanno specificato che le ragioni del mancato confronto con gli interessati erano dovute al fatto che si trattasse di pazienti in stato comatoso (70,1%), o affetti da demenza (21,1%), oppure di pazienti che avevano precedentemente espresso una volontà verbale di morire (40,4%), circostanza, quest’ultima, che non può considerarsi come valido consenso. Altre ragioni sulla mancata discussione preventiva sono state individuate dagli stessi medici nel fatto che la decisione di effettuare l’eutanasia corrispondesse comunque, secondo il loro giudizio professionale, al “best interest” del paziente (17,0%), e perché lo stesso fatto di affrontare l’argomento sarebbe stato dannoso per lo stato psicofisico del malato (8,2%). Il secondo studio del Cmaj, intitolato «Il ruolo delle infermiere nella morte assistita in Belgio» (DOI:10.1503/Cmaj.091881) mostra che 248 nurse, un quinto circa di tutte le infermiere belghe, hanno praticato l’eutanasia, in violazione della legge che in quel Paese riserva esclusivamente al medico tale operazione. Il dato interessante è che di quelle 248, ben 120 hanno agito senza il consenso espresso del paziente. Per avere un’idea numerica delle dimensioni della questione basti pensare che in Belgio, da quando è entrata in vigore la legge che ha legalizzato l’eutanasia, otto anni fa, i soggetti eliminati a seguito di tale pratica rappresentano il 2% di tutti i decessi della popolazione belga, raggiungendo la cifra di circa 2.000 all’anno. Per comprendere, poi, quali possano essere i rischi di ordine etico di una simile deriva, basti considerare, tra le altre cose, che un mese fa Wesley Smith, bioeticista e Senior Fellow al Discovery Institute di Washington, lanciò un allarme proprio su un caso di eutanasia accaduto in Belgio. A una donna paralizzata fu fatto firmare un atto di consenso all’espianto dei propri organi, solo dieci minuti prima che il suo cuore si fermasse per effetto della letale iniezione intravenosa. A quella donna, che non era una malata terminale, sono stati prelevati fegato e reni, subito dopo il decesso avvenuto per eutanasia. Questa del prelievo post-eutanasico di organi rappresenta una deriva pericolosissima, se si collega al dato emerso dai due citati studi del Cmaj. Si aprono, infatti, scenari inquietanti, ad esempio, sulla liceità di utilizzare organi di soggetti che, pur essendosi in vita dichiarati donatori, sono poi deceduti per eutanasia non volontaria, ovvero condannati a una morte non richiesta. Ma anche senza arrivare a simili casi estremi, il rischio che si corre è quello che la società cominci a guardare ai soggetti più deboli e indifesi non solo come un peso (per se stessi, per le famiglie e per la società) ma anche come oggetto di una possibile attività di sfruttamento, una potenziale riserva di organi umani da destinare a chi più di loro merita di vivere. «Il prelievo di organi da chi è stato sottoposto ad eutanasia», ha affermato Wesley Smith, «introduce la prospettiva assolutamente realistica per cui persone disperate a causa di una malattia terminale o di una grave disabilità (o, forse, semplicemente disperate) potrebbero aggrapparsi all’idea di essere uccisi per consentire il prelievo dei loro organi, come un modo per dare un senso alla propria esistenza». Una volta che passi il messaggio culturale - trasmesso da esimi luminari, da prestigiosi giornali medici, da coniugi, parenti, amici - per cui l’uccisione di un uomo può assumere una valenza positiva se serve a salvare altri essere umani, allora significa che il limite tra la civiltà e la barbarie è già superato. Tutto ciò prova ancora una volta, se ve ne fosse bisogno, il fatto che la legalizzazione dell’eutanasia determini non solo la perdita della necessaria fiducia da parte dei pazienti nei confronti dei medici, ma apra anche la strada a ogni sorta di abusi e ingiustizie, specialmente a svantaggio dei più deboli. Ciò che sta accadendo in Belgio dimostra che il passaggio dall’eutanasia all’omicidio degli indifesi è un processo pressoché ineluttabile. Non c’è nulla da fare: in tema di vita e di morte non sono possibili compromessi al ribasso, né giova scendere a patti col Male. «Nolite locum dare Diabolo», ammoniva San Paolo. Chi si illudeva che la Legge 194 avrebbe limitato il ricorso all’aborto - accettando tale normativa come male minore -, è stato smentito dall’utilizzo strumentale del concetto di “tutela della salute psichica della donna”, che ha concesso a quest’ultima un pieno e assoluto diritto di vita e di morte nei confronti del nascituro. Chi si illudeva che la Legge 40 avrebbe limitato gli abusi della fecondazione assistita - accettando tale normativa come male minore -, è stato smentito dagli interventi giurisprudenziali di magistrati eugenisti, che stanno smantellando ciò che di positivo poteva contemplare quella legge. Chi si illudeva che la somministrazione della pillola abortiva RU486 sarebbe avvenuta con ricovero in una struttura sanitaria pubblica - accettando l’applicazione della Legge 194 come male minore -, è stato smentito dal riconoscimento alla donna del diritto al rifiuto delle cure ospedaliere, che ha portato, di fatto, all’aborto a domicilio. E potremmo continuare. C’è, ora, qualcuno in Italia davvero disposto a credere che simili illusioni non sarebbero valse anche per l’eutanasia? Se c’è, guardi cosa sta accadendo in Belgio. (Gianfranco Amato, il Sussidiario.net, 15 giugno 2010)
Benedetto XVI tradotto in arabo
Anticipiamo la prefazione che il cardinale patriarca di Venezia ha scritto per la traduzione in arabo dei testi di Benedetto XVI su san Paolo nel volume, appena pubblicato in Libano, Bûlus ar-Rasûl ("L'apostolo Paolo", Jounieh - Venezia, Librairie Pauliste - Marcianum Press, 2010). «Benedetto XVI è un grande teologo. E proprio perché grande, è capace di presentare con semplicità le verità di fede, anche le più ardue. Egli prende per mano i fedeli e li porta ad alzare lo sguardo, per arrivare a comprendere "l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità" (Efesini, 3, 18) del mistero di Cristo. Le catechesi su san Paolo ne sono un esempio eloquente. Nate durante l'Anno paolino, portano il marchio inconfondibile del Pontefice, che in venti brevi testi ha saputo riassumere i principali aspetti della straordinaria vicenda personale ed ecclesiale dell'Apostolo delle genti. Mai disgiunto da una preoccupazione pastorale, il discorso di Benedetto XVI segue un ordinamento tendenzialmente cronologico. Al centro, del volume come della vita, si trova l'incontro con il Crocifisso risorto, autentico cuore della riflessione paolina. È dunque un onore per la Fondazione Internazionale Oasis pubblicare, grazie al sostegno di Kirche in Not, la traduzione araba di queste catechesi presso la casa editrice dei padri paolisti. E mentre ci auguriamo che questo libro possa inaugurare una serie di traduzioni che offrano al pubblico arabo tutti gli straordinari ritratti dei Padri della Chiesa e degli scrittori ecclesiastici che da qualche anno Benedetto XVI va delineando, cogliamo l'occasione per rivolgere una parola alle principali categorie di lettori che immaginiamo si troveranno in mano questo volume. In primo luogo pensiamo naturalmente ai cattolici dei diversi riti, che mostrano in Medio Oriente una vitalità ben superiore al loro numero. Conoscere e approfondire l'insegnamento del Papa è certamente il miglior modo per rinsaldare il dono più grande che il Signore ha lasciato ai suoi discepoli: quella communio che unisce uomini di diversi popoli e culture, giungendo a farne, secondo l'ardita espressione di Paolo vi, "un'entità etnica sui generis". Siamo tuttavia certi che il volume troverà buona accoglienza anche presso i fratelli cristiani delle altre Chiese e comunità ecclesiali, spesso di antichissima tradizione, talora nate proprio nel solco della predicazione di Paolo. Andare alle radici della comune fede ripercorrendo insieme le principali tappe della vita di questo campione del Vangelo sarà l'occasione per riscoprire la nostra comune eredità cristiana. Da ultimo, ci auguriamo che il libro possa trovare diffusione anche nel mondo islamico. È noto come diversi pensatori e teologi musulmani, già prima dell'avvento della moderna critica ottocentesca, abbiano espresso forti dubbi in merito all'attendibilità degli scritti paolini, accusando l'Apostolo di aver alterato l'originario messaggio cristiano. A questa tesi il Papa dedica alcune pagine, evidenziando quali sono da un punto di vista cristiano gli elementi che dimostrano la completa continuità tra l'annuncio paolino e la missione del Crocifisso risorto. È evidente a tutti che una delle necessità più urgenti del nostro tempo è una migliore conoscenza reciproca tra i fedeli delle diverse religioni. Diventa perciò fondamentale che cristiani e musulmani possano conoscere la visione che l'altro ha di sé e della propria fede, senza ridurla preventivamente entro le proprie categorie. È questo del resto l'esempio che ci offrono alcuni dei più alti esponenti della civiltà arabo-islamica, come lo scienziato al-Bîrûnî che, senza rinunciare alla propria fede musulmana, diede un resoconto della civiltà indiana talmente accurato da conservare valore documentario fino a oggi. Il lettore non cristiano sia dunque certo di trovare in questo libro una presentazione autorevole di chi è san Paolo e di che ruolo egli ha all'interno del cristianesimo. Conoscere il punto di vista che più di un miliardo di fedeli hanno maturato intorno a questa figura eccezionale ha un interesse culturale innegabile. Che poi questo punto di vista sia anche ben fondato, potrà verificarlo ciascuno dei lettori nel confronto oggettivo con i dati storici a disposizione». (Card. Angelo Scola, ©L'Osservatore Romano, 19 giugno 2010)
Gli Operatori Pastorali uccisi nell’anno 2009
Come è consuetudine, l’Agenzia Fides pubblica l’elenco degli operatori pastorali che hanno perso la vita in modo violento nel corso del 2009. Secondo le informazioni in nostro possesso, nei 12 mesi dello scorso anno sono stati uccisi 37 operatori pastorali: 30 sacerdoti, 2 religiose, 2 seminaristi, 3 volontari laici. Sono quasi il doppio rispetto al precedente anno 2008, ed è il numero più alto registrato negli ultimi dieci anni. Analizzando l’elenco per continente, quest’anno figura al primo posto, con un numero estremamente elevato, l’America, bagnata dal sangue di 23 operatori pastorali (18 sacerdoti, 2 seminaristi, 1 suora, 2 laici), seguita dall’Africa, dove hanno perso la vita in modo violento 9 sacerdoti, 1 religiosa ed 1 laico, dall’Asia, con 2 sacerdoti uccisi e infine dall’Europa, con un sacerdote assassinato. Il conteggio di Fides non riguarda solo i missionari ad gentes in senso stretto, ma tutti gli operatori pastorali morti in modo violento. Ma vediamo il conteggio nel dettaglio a) Per stato religioso: Sacerdoti: 30 (19 diocesani; 1 Fidei donum; 3 Redentoristi; 1 Missionari della Consolata; 1 Missionari Oblati di Maria Immacolata; 1 Missionari di Mariannhill; 1 Stimmatini; 1 Padri Bianchi; 1 Società di S. Patrizio; 1 Cappuccino). Seminaristi: 2; Religiose: 2; Laici: 3. b) Per Paesi di origine: Asia 2 (India, Filippine); America 19 (6 Colombia, 4 Brasile, 3 Stati Uniti, 3 Messico, 2 El Salvador, 1 Guatemala); Africa 7 (4 R.D.Congo, 2 Sudafrica, 1 Burundi); Europa 9 (3 Spagna, 2 Francia, 2 Italia, 1 Irlanda, 1 Austria) c) Per luoghi della morte: Asia 2 (India, Filippine); America 23 (6 Brasile, 6 Colombia, 3 Messico, 2 Cuba, 2 El Salvador, 2 Stati Uniti, 1 Guatemala, 1 Honduras); Africa 11 (4 R.D.Congo, 4 Sudafrica, 2 Kenya, 1 Burundi): Europa 1 (Francia) Alcuni di questi servitori della Chiesa sono stati vittime proprio di quella violenza che stavano combattendo o della disponibilità ad andare in soccorso degli altri mettendo in secondo piano la propria sicurezza. Molti sono stati uccisi in tentativi di rapina o di sequestro, sorpresi nelle loro abitazioni da banditi alla ricerca di fantomatici tesori che il più delle volte si sono dovuti accontentare di una vecchia automobile o del telefono cellulare delle vittime, portandosi via però il tesoro più prezioso, una vita donata per Amore. Altri sono stati eliminati solo perché nel nome di Cristo opponevano l’amore all’odio, la speranza alla disperazione, il dialogo alla contrapposizione violenta, il diritto al sopruso. Ricordare i tanti operatori pastorali uccisi nel mondo e pregare in loro suffragio “è un dovere di gratitudine per tutta la Chiesa e uno stimolo per ciascuno di noi a testimoniare in modo sempre più coraggioso la nostra fede e la nostra speranza in Colui che sulla Croce ha vinto per sempre il potere dell’odio e della violenza con l’onnipotenza del suo amore” (Benedetto XVI, Regina Coeli, 24 marzo 2008). A questo elenco provvisorio stilato annualmente dall’Agenzia Fides, deve comunque essere sempre aggiunta la lunga lista dei tanti di cui forse non si avrà mai notizia, che in ogni angolo del pianeta soffrono e pagano anche con la vita la loro fede in Cristo. Si tratta di quella “nube di militi ignoti della grande causa di Dio” - secondo l’espressione di Papa Giovanni Paolo II - a cui guardiamo con gratitudine e venerazione, pur senza conoscerne i volti, senza i quali la Chiesa e il mondo sarebbero enormemente impoveriti. (Agengia Fides, 21 giugno 2010)
Trenta chilometri a piedi per "allenarsi" a chiedere
"Ti consiglio di leggere i cartelli" dice un volontario dell'ufficio stampa a un giornalista appena arrivato nello stadio Helvia Recina, spiegandogli da dove si comincia a descrivere un evento come il pellegrinaggio Macerata-Loreto, "questa notte così strana in cui si cammina verso il luogo in cui Dio si è fatto carne" come la definisce il vescovo di Fabriano, monsignor Giancarlo Vecerrica, promotore di un gesto che si ripete ogni anno dal 1978. Guardare i cartelli, scritti all'ultimo minuto con un pennarello e illuminati da una torcia elettrica fissata con il nastro adesivo, o preparati con cura da casa, decorati da led luminosi o incorniciati da complesse architetture di neon, è un modo per capire cosa muove le novantamila persone che si sono messe in cammino per raggiungere la loro meta; i cartelli non indicano solo la provenienza dei singoli gruppi, ma anche la gioia di appartenere a un popolo, a un'"etnia sui generis" come la definiva Paolo VI. Dal modellino a intaglio del santuario alle strutture gonfiabili - per ridurre al massimo il peso senza rinunciare alla creatività - con le scritte "Noto", "Lugano", "Buccinasco", incastrati alla bell'e meglio dentro uno zaino o portati in processione - perché di questo si tratta, di una processione lunga una notte - con solennità e compostezza, i cartelli sono il simbolo visibile della decisione di condividere la fatica ma anche la gioia di consegnare tutta la propria storia e le intenzioni proprie e degli amici alla Madonna; nei foglietti piegati in tasca ci sono volti amati, ferite che non si rimarginano, la gioia di un sogno realizzato, insieme all'amarezza per il proprio male e al dolore di non essere neppure capaci di pregare. Per i tanti fiorentini presenti, partecipare al pellegrinaggio è anche un modo per capire come doveva essere, ancora all'inizio del Novecento, la festa della Rificolona che si celebra ogni anno il 7 settembre, oggi ridotta spesso a un'occasione di gioco per i bambini che costruiscono lanterne di carta colorata o si armano di palline di stucco e cerbottane per rompere le luminarie dei vicini. In origine la festa voleva ricordare il cammino delle "fierucolone", le donne che si incamminavano in piena notte per raggiungere il santuario mariano più vicino, illuminando la strada con lanterne fissate su lunghe canne. Anche a Loreto si arriva "armati" di luci colorate, che un colpo di vento o un attimo di distrazione bastano a spegnere; l'attenzione a che la fiamma non entri in contatto con la carta è simbolo della cura che meritano i nostri desideri più grandi e più veri, così facili da dimenticare sotto la pressione continua della mentalità dominante. Ma camminando nella notte, per fortuna, la realtà prevale sui pensieri; basta guardarsi intorno per vedere le migliaia di persone che precedono e seguono sulla stessa strada, per ascoltare l'eco dei canti attraverso i campi di Fontenoce, punteggiati di lucciole, e oltre l'abbazia di San Firmano, quando nelle pause tra una testimonianza e una preghiera è ancora possibile ascoltare il gracidare delle rane. Durante il cammino tutto si carica di senso: un distributore di benzina diventa un'oasi dove attingere acqua o riposare due minuti, la tazza di caffè offerta dal vicino a notte fonda o la torcia che illumina il ciglio della strada sono l'aiuto necessario per continuare a camminare. Già a Sambucheto, al termine della prima tappa del percorso, ci si accorge che da soli sarebbe quasi impossibile non cedere al sonno o alla stanchezza. Lungo il cammino tutto parla di una bellezza incontrabile, nascosta nella realtà di ogni giorno, dal profumo dolce dei tigli all'odore acre dei bracieri che ai due lati della piazza, all'ingresso del Santuario, portano verso il cielo le domande dei pellegrini. A sorpresa, quest'anno è arrivato anche il saluto della Nazionale italiana di Marcello Lippi dal Sud Africa - "Saremo idealmente con voi in questo cammino" - insieme alle intenzioni dei tanti "supporter a distanza". Hanno inviato messaggi e intenzioni via mail (tra cui Aldo Cazzullo, giornalista del "Corriere della Sera", e i fedeli di cinque parrocchie a Chia, in Colombia, che hanno pregato per accompagnare il loro vescovo, Hector Cubillos). Sono giunte le testimonianze di Rose Busingye, infermiera Avsi in Uganda (che ha citato la Deus caritas est, parlando della "pazzia divina" che travolge e riempie di dolcezza la vita di chi incontra Cristo), di tre ragazzi della comunità Pars di Guidonia ("non sono cristiano, voglio solo imparare uno sguardo nuovo sulle cose" ha detto uno di loro), di Claudia Koll (che sta girando un film su La bottega dell'orefice di Giovanni Paolo II) e di Alessandro Banfi, vicedirettore del Tg5, che ha letto un brano dello scrittore ungherese Imre Kertész, Nobel per la letteratura nel 2002, e un passo tratto da Se questo è un uomo. Come Primo Levi, anche Kertész è un sopravvissuto di Auschwitz; otto anni fa l'Accademia svedese l'ha premiato per il suo Essere senza destino, un'opera "che pone la fragile esperienza dell'individuo contro la barbara arbitrarietà della storia". Per Kertész, vittima del nazifascismo ma anche del totalitarismo comunista che ha messo al bando la sua opera, Auschwitz non è un "corpo estraneo" nella storia del mondo occidentale, ma l'immagine dell'ultima verità sul degrado dell'uomo nella vita moderna. "Che significa "non sono pronto per un figlio" o "non sono pronto per sposarmi"? - si domanda Laura, in attesa del quarto figlio, durante il cammino, commentando le parole di Claudia Koll sulla nostra paura del "per sempre" - non si è mai pronti per le cose importanti della vita. Per me la certezza arriva solo chiedendo alla Madonna la forza di fare un passo dopo l'altro". (Silvia Guidi, ©L'Osservatore Romano, 15 giugno 2010)
Mondiali di calcio: Un'occasione per l'intero continente africano
Lo sport a volte può incidere su un'intera società, divenendo il volano di un cambiamento significativo. E nessun Paese come il Sud Africa sa quanto ciò sia vero. Accadde nel 1995 in occasione della Coppa del mondo di rugby disputata proprio nella "nazione arcobaleno", che rappresentò un momento cruciale della sua storia. Tra lo scetticismo dei collaboratori, il nuovo presidente Nelson Mandela comprese l'importanza di quell'evento per il suo popolo, fortemente diviso dalla drammatica esperienza dell'apartheid. S'impegnò affinché la squadra sudafricana - sostenuta fino ad allora solo dagli afrikaners e odiata dai nativi per i colori verde e oro simbolo della segregazione - divenisse il motore della riconciliazione. Con il motto "una squadra, una nazione" e sotto i riflettori del mondo intero, Mandela riuscì a far convergere il tifo di tutti su quel gruppo di atleti che investì personalmente del compito, politico prima ancora che sportivo, di vincere. E così avvenne, contro ogni pronostico. La posta in gioco era alta: riunire una nazione divisa dalle ferite del passato e aprire il futuro a nuova speranza dopo la vergogna dell'apartheid. Fu un passo significativo, ma non definitivo. L'illusione durò poco. Il rugby tornò a essere sostanzialmente lo sport dei bianchi e il processo di riconciliazione riprese il suo lento cammino, sempre in salita. Ma qualcosa era comunque accaduto. Quindici anni dopo, e ancora grazie allo sport, al Sud Africa si offre un'occasione ancora più importante, ospitando, primo Paese africano nella storia, la Coppa del mondo di calcio. E così come allora i neri furono chiamati a tifare la squadra dei bianchi (gli Springboks) nello sport dei bianchi, il rugby, allo stesso modo oggi i bianchi sono invitati a sostenere la squadra dei neri (i Bafana Bafana) nello sport dei neri, il soccer. Non è detto che ciò accada e che tutti i bianchi si mettano a cantare Shosholoza, l'inno in passato simbolo dei neri. Ma il ricordo di bianchi e neri, uniti per la prima volta per incitare la loro squadra nella storica finale del 1995 all'Ellis Park Stadium di Johannesburg, lascia ben sperare. Certo lo scenario è diverso. Molta strada è stata percorsa, il governo del Paese è cambiato, ma il retaggio del passato pesa. La coscienza civile è cresciuta, ma non a sufficienza per superare una mentalità abituata a ragionare in termini di razza. Nella bandiera della nazione arcobaleno il bianco e il nero non si fondono ancora armonicamente con gli altri colori. Sono recenti le immagini del funerale di Eugène Terreblanche, estremista del movimento boero, con una minoranza di nostalgici a innalzare orgogliosi i vessilli separatisti. Fortunatamente però capita anche che la squadra di rugby dei Bulls, afrikaner doc, vada a disputare - per la prima volta - una partita a Soweto, quartiere simbolo dei neri. Potere economico e ricchezza sono ancora detenuti in gran parte dai bianchi, che rappresentano appena l'11 per cento della popolazione. Non mancano i neri che si sono fatti strada, ma restano una minoranza. La distanza che separa i due mondi è tuttora ampia e dietro la facciata degli stadi moderni e delle città tirate a lucido, ci sono le township con il loro degrado e l'attesa di un riscatto che tarda ad arrivare. L'illusione seguita alle prime elezioni libere sedici anni dopo lascia il campo al disincanto di una realtà che ha realizzato solo in parte il sogno di Mandela fondato sul perdono. Tuttavia molti sperano che i mondiali di calcio - che da oggi, 11 giugno, attireranno per un mese l'attenzione del pianeta sul Sud Africa - possano dare un nuovo impulso a un cammino di riconciliazione in grado di riconoscere e di valorizzare le differenze, integrandole in uno sviluppo comune. Non solo. Pur nel contrasto evidente tra un fenomeno come quello calcistico, in cui il mercato detta più che mai le regole di un business milionario, e il contesto di povertà e di sottosviluppo in cui arriva lo scintillante grande circo, questo appuntamento rappresenta una sfida anche per l'intero continente africano, per dimostrare al mondo di avere la capacità di organizzare un evento planetario. Per i sudafricani una responsabilità in più. Anche per questo non possono permettersi di fallire. Lo ha scritto chiaramente Mandela in un messaggio: "Dobbiamo sforzarci per dimostrare la nostra eccellenza e allo stesso tempo assicurarci che l'evento lasci un duraturo beneficio a tutta la nostra popolazione. Il popolo africano ha imparato una lezione di pazienza e di resistenza nella lunga battaglia per la libertà. Possa l'opportunità di aver avuto la Coppa del mondo dimostrare che è valsa la pena di aspettare così tanto il suo arrivo sul suolo africano". Se poi questo mondiale di calcio servirà anche al resto del mondo - soprattutto al cosiddetto nord sviluppato - per andare oltre l'evento sportivo e per capire di più l'Africa, con i suoi problemi e le sue potenzialità al di là di stereotipi e preconcetti, allora si sarà raggiunto un obiettivo importante. (Gaetano Vallini, ©L'Osservatore Romano, 12 giugno 2010)
«I nostri canti colpiscono chiunque. Perché? Perché sottolineano la cultura di tutti e danno un senso di appartenenza: ai valori della nostra tradizione cristiana, al senso del Divino, dell’infinito. Si figuri dunque se li cantiamo in aperta montagna». A parlare è Mauro Pedrotti, direttore del coro della SAT (Società degli alpinisti tridentini), fondato a Trento nel 1926 da suo padre coi suoi tre fratelli, dando il via a una tradizione: «Sì, e oggi ci sono 180 cori solo nella nostra provincia: ovvero circa seimila persone che si riuniscono per cantare». E molti di costoro daranno vita, domenica alle 11, all’evento di apertura de «I Suoni delle Dolomiti 2010»: undici cori storici in undici rifugi a tenere altrettanti concerti. Dolomiti d’inCanto è il titolo: l’incanto delle montagne, l’incanto della nostra tradizione corale. Maestro Pedrotti, questo evento è dedicato alle Dolomiti elette patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco. Ma cos’è la montagna per chi la vive? «È silenzio, profondità nei rapporti umani. Cose che il turismo un po’ fa perdere: per fortuna non in occasioni come queste, che permettono di valorizzare con il nostro canto anche le nostre montagne. Voglio sottolineare però che cori come il nostro agiscono oltre i concerti: cantiamo, ma aggreghiamo anche. E facciamo solidarietà». La montagna è pure luogo per eccellenza della spiritualità. Come entra questo nel vostro cantare? «È sempre presente. Anche quando trattiamo di guerra nei testi ci sono valori come l’accettazione del volere divino. Del resto accompagniamo spesso messe e funzioni, e sempre con canti popolari. Che scegliamo per i valori che comunicano e, quindi, hanno dentro». Che tradizioni rappresentano gli undici cori scelti? «Siamo tutti parte del grande patrimonio trentino, da cori storici come Sasso Rosso e Valsella ad altri più giovani. Certo, ognuno ha scelte e stili diversi». Due i brani in tutti i concerti: «Le Dolomiti» e «La Montanara», che verranno intonati a mezzogiorno. «La Montanara non si può tralasciare, non è un canto popolare perché ha un autore, Toni Ortelli, ma la facciamo anche noi che di solito cantiamo solo brani popolari in senso stretto: perché ormai è come se lo fosse. Quasi un inno». Le scelte di repertorio del Coro SAT quali sono? «Tutto nacque da mio padre e dai miei zii. Da bambini impararono i canti della gente, profughi in Boemia impararono brani della zona, a militare assorbirono da altri alpini canti veneti, piemontesi, lombardi. E mio zio Silvio andava nelle valli col registratore, cinquant’anni fa, ad incidere le voci dei vecchi». Con poi un Benedetti Michelangeli ad armonizzare… «Eh, il grande pianista fu tra chi capì la forza di un coro maschile. Ci ha armonizzato 19 brani: Che fai bella pastora, La bella e il mulino, La figlia di Eulalia… Noi abbiamo sempre rispettato la sua privacy, e lui a noi non si è mai negato». Ma oggi i giovani vi seguono? E poi voi cantate dagli Usa alla Corea: l’Italia vi apprezza abbastanza? «I giovani oggi non hanno solo il coro per passare il tempo, va detto. Ma se ci conoscono si entusiasmano. E dovunque andiamo c’è gente che si commuove, forse ha anche bisogno della spiritualità dei nostri canti. È chiaro che per essere conosciuti di più occorrerebbe altro. La tv, per esempio. Ma saremmo noi stessi, in tv? No. Noi testimoniamo un’arte di nicchia concerto per concerto, ed è giusto così». In pratica, lei è nel Coro della Sat da sempre. Cosa le ha insegnato, stare in un coro? «È come avere una seconda famiglia. Una famiglia che con i suoi valori fa dimenticare ogni sacrificio». (Andrea Pedrinelli, Avvenire, 17 giugno 2010)
Tra le sedici "Mele d'oro" del 2010, il riconoscimento che la Fondazione Marisa Bellisario assegna da 22 anni ad altrettante italiane di particolare valore, c'è anche Madre Maria Nazarena Di Paolo. E' lei la suora scelta quest'anno come simbolo di tante religiose che vivono ogni giorno all'insegna di fede e carità. Madre Di Paolo è la Superiora generale delle suore Missionarie della dottrina cristiana, un ordine al quale si avvicinò a 13 anni perché "erano nel mio paese, in provincia di L'Aquila, e mi davano un grande esempio ecclesiale e di servizio al popolo". Ha trascorso quasi tutta la vita a L'Aquila, ma è di casa nel mondo: per visitarie le comunità delle Missionarie della dottrina cristiana, per realizzare opere destinate ai più poveri, è stata 19 volte in Bolivia e 6 in Congo, i due Paesi ai quali ha dedicato la maggior parte della sua attività internazionale. Madre Di Paolo, qual è stato il suo ruolo in tante iniziative? «Soprattutto di coordinamento: verifico le necessità sul posto e poi in Italia organizzo lavoro e aiuti per sopperire a queste necessità. Cito due esempi. Quando nel 1989 ci fu un'alluvione in Bolivia, con un'associazione presieduta da Maria Pia Fanfani e con l'aiuto del ministero degli Esteri facemmo arrivare sul posto 36 container con cibo, vestiti, arnesi da lavoro per una regione grande come l'Abruzzo. Ora, in uno dei nostri progetti con l'8 per mille, seguiamo le detenute di un carcere molto duro a Santa Cruz de la Sierra, dando loro formazione professionale e lavoro». Cos'è cambiato per voi a L'Aquila dopo il terremoto? «Noi Missionarie della dottrina cristiana abbiamo perso due case importanti nel centro storico, per un valore che supera gli 8 milioni di euro. Sono da rifare. Da 30 suore che eravamo qui, abbiamo dovuto ridurci a 17-18. Abbiamo una casetta in legno con 9 posti letto, e per le nostre scuole ci hanno costruito un bel "modulo per uso scolastico provvisorio". Lì faremo scuola fino alla fine di luglio per andare incontro alle necessità delle famiglie, che quest'anno non potranno permettersi le vacanze. Il nostro primo impegno è stato credere che attraverso i bambini avremmo potuto recuperare alla speranza anche gli adulti. Abbiamo fatto moltissime feste, uscite, incontri con altre scuole, coinvolgendo anche i genitori. Così, anche loro hanno trovato un modo per uscire dalla disperazione». (Rosanna Biffi, Famiglia Cristiana, 21 giugno 2010)
Legionari di Cristo, il “delegato” sarà Mons. De Paolis
Il Papa ha deciso il nome del delegato che si dovrà occupare della congregazione dei Legionari di Cristo, facendo da commissario dopo la grave crisi e l’emergere dell’immoralità del fondatore padre Marcial Maciel. Il nuovo delegato sarà l’arcivescovo Velasio De Paolis, fine canonista, presidente della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede, vicino al Segretario di Stato Tarcisio Bertone. La nomina sarà resa nota nei prossimo giorni, insieme a quella di due vice-delegati, uno per l’area ispanofona e l’altro per l’area anglofona. Nei prossimi giorni saranno rese note anche altre nomine, sulle quali i lettori di questo blog e del Giornale sono già informati: quella del cardinale Marc Ouellet quale successore del cardinale Giovanni Battista Re alla guida della Congregazione dei vescovi, quella del vescovo svizzero Kurt Koch quale successore del cardinale Kasper al Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, e quella dell’arcivescovo Rino Fisichella alla guida del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, creato ad hoc da Benedetto XVI su un’idea del cardinale patriarca di Venezia Angelo Scola. Il posto di rettore della Pontificia università lateranense lasciato da Fisichella dovrebbe essere preso dal salesiano Enrico Dal Covolo. (Blog di Andrea Tornielli, 21 giugno 2010)
Vivere è meglio che vivacchiare
I vescovi italiani hanno deciso: gli Orientamenti pastorali per il decennio 2011-2020 saranno incentrati sulla dimensione educativa. È una sfida che i pastori desiderano intraprendere insieme con tutta la comunità ecclesiale, nella consapevolezza che il senso pieno dell’educare consiste nell’aiutare l’altro «a introdursi in modo critico e responsabile alla realtà intera». Troppo spesso le vicende della cronaca quotidiana ci mettono dinanzi agli occhi episodi che vengono liquidati come «bravate» o «raptus», e altre simili definizioni più o meno assolutorie. Ma in realtà, come ha sottolineato il presidente della Conferenza episcopale italiana Angelo Bagnasco, «con evidenza si tratta anzitutto di vistosi deficit nella filiera educativa», sintomi di una situazione in cui «il vuoto di valori sfocia immediatamente nel disagio, se non nella disintegrazione sociale». Sintetizzando quale sia il compito che ci attende tutti, il cardinale Bagnasco ha utilizzato parole forti: «Bisogna che si affermi una generazione di adulti che non sfuggano dalle proprie responsabilità, perché disposti a mettersi in gioco, a onorare le scelte qualificanti e definitive, a cogliere – loro per primi – la differenza abissale tra il vivere e il vivacchiare». Nella capacità di distinguere ciò che è bene da ciò che è male, nell’attenzione a disciplinare i sentimenti e le emozioni, nella serietà con cui ci si alza ogni mattina per adempiere il proprio compito si incarna, secondo l’illuminato giudizio dei vescovi, la vera educazione. Che non è qualcosa di decisivo unicamente sotto il profilo ecclesiale, ma ha una ineludibile valenza anche storica, sociale e politica. (Saverio Gaeta, Blog “e gioia sia”,15 giugno 2010)
Un’isola di silenzio: La Certosa di Farneta
In Italia e in Toscana, in particolare, le Certose furono tutte fondate nel corso del Trecento, a iniziare dalla certosa di Maggiano, negli immediati dintorni di Siena. Quella di Maggiano era ancora la sola certosa esistente in Toscana, quando il ricco mercante lucchese ser Gardo di Bartolomeo Aldibrandi dispose, nel 1329, che venisse fondato con i suoi averi un monastero dell’ordine certosino nella città di Lucca o nel suo contado. Non sappiamo dove egli ne avesse sentito parlare, sta di fatto che volle chiamare i certosini a stabilirsi nella sua patria. Forse ne aveva udito lodarne le virtù, l’austerità di vita e, soprattutto, l’intenso spirito di preghiera che regnava nei monasteri dell’ordine. Ser Gardo stesso volle che questo monastero con la sua chiesa “decorosa e bella” fosse dedicato allo Spirito Santo e in esso avrebbero dovuto risiedere almeno dieci religiosi certosini dei quali per lo meno quattro sacerdoti, che avrebbero dovuto celebrare di continuo i divini uffici diurni e notturni, raccomandando “a Dio e alla santa Trinità e alla beata Vergine Maria e al santo Spirito e a tutti i Santi” l’anima del testatore medesimo e di tutti i suoi parenti. Dopo la sua morte, il figlio Nicolosio e la seconda moglie Puccina, intendendo dare adempimento alle ultime volontà del defunto, si rivolsero nei primi mesi del 1338 al capitolo generale dell’ordine certosino, che, dopo il parere favorevole, nominò i priori delle certose di Maggiano e di Bologna per dare l’avvio alla fondazione delle due certose. I primi terreni destinati all’erezione della nuova certosa dello Spirito Santo furono acquistati nel 1338 presso di San Lorenzo a Farneta, a circa 7 Km a ponente di Lucca tra prati, campi e boschi, al centro di un’amena e verdeggiante valletta ricca d’acqua che si apre verso l’ampia valle del Serchio. Non sappiamo precisamente quando si iniziò la costruzione del monastero, ma è probabile che ciò sia avvenuto già prima dell’anno 1340, e non sappiamo neppure quali siano stati i tempi necessari all’edificazione della nuova certosa, ma non dovrebbero essere stati eccessivamente lunghi: da alcune ricerche risulta che alcune celle per i monaci erano già costruite nel 1344, il refettorio nel 1345, il piccolo chiostro nel 1353. La chiesa stessa, per l’edificazione della quale furono sicuramente spesi diversi anni di lavoro, poté essere consacrata il 14 ottobre 1358. Le sue mura perimetrali, salvo che per la facciata, sono le stesse di quella oggi esistente, come pure al suo interno si trova tuttora la lastra tombale con l’effigie a rilievo del defunto, Nicolosio figlio di Gardo Aldibrandi (1388). Di queste più antiche costruzioni della certosa, oltre alla struttura della chiesa, rimane unicamente il piccolo chiostro, per quanto rimaneggiato. Le notizie concernenti la certosa di Farneta, soprattutto le vicende della sua fabbrica e della vita claustrale, sono purtroppo assai scarse. L’instabilità politica, le difficoltà economiche, la frequenza di azioni guerresche, che ancora caratterizzano il territorio lucchese nel XIV e nel XV secolo, certo ritardarono il pieno sviluppo del monastero certosino, anche se sembra che non intaccassero, a differenza di quanto avvenne per altre famiglie religiose, la santità dì vita dei pochi monaci che vi risiedevano. Sappiamo però che nel 1472 lo stato materiale delle fabbriche monastiche risultava molto cattivo, tanto che proprio in quegli anni si iniziò una ristrutturazione generale del monastero, culminante agli inizi del Cinquecento con la ricostruzione del grande chiostro. In un cartiglio scolpito sopra uno dei capitelli del colonnato troviamo una epigrafe che ci rivela il nome del maestro che operò, Bartolomeo da Corno della valle d’Intelvi da Scaria, nell’anno 1509. A partire dal XVI secolo la certosa visse una certa prosperità e ciò è testimoniato dalle numerose opere di architettura e di decorazione, così anche nel Seicento si procedette a diverse trasformazioni, tra cui il rinnovamento generale della chiesa, pur mantenendone la pianta e l’ossatura originaria. Tuttavia abbiamo poche testimonianze documentate circa gli interventi condotti: probabilmente fu sistemata la sala capitolare (1512) Nel 1688 veniva deciso il restauro della cupola che copriva il santuario e la sua decorazione. Nessun evento di rilievo avvenne sotto il dominio napoleonico, se non che nel 1806 tutti gli ordini religiosi dello stato lucchese furono soppressi e anche i certosini di Farneta furono costretti ad abbandonare il monastero. Il vasto complesso entrò a far parte del demanio e poi man mano fu venduto a dei privati che per buona sorte ne mantennero pressoché intatte le strutture, conservando anche parte dei suoi arredi. Dopo una seconda espulsione nel 1903 Padre don Michel Baglin, dopo aver predisposto un sopralluogo per constatare le condizioni di manutenzione dell’ex certosa, decise dì farne acquisto per trasferirvi la propria comunità in esilio dalla Grande Chartreuse francese. Si dette avvio ai lavori per il riadattamento e l’ampliamento dei locali, che si rendeva tanto più necessario in quanto la nuova comunità monastica era molto più numerosa di quella che per il passato era stata solita occupare il monastero. La certosa di Farneta diventava così la casa generalizia dell’ordine ed in essa vi furono trasportati, tra l’altro l’importante archivio e la grande biblioteca provenienti dalla Grande Chartreuse. Per le nuove necessità vennero approntate nuove strutture tra cui la costruzione di due grandi corpi di fabbrica presso la nuova entrata del monastero per adibirli a foresteria; l’ampliamento della chiesa mediante un suo prolungamento dalla parte della facciata; la costruzione di un secondo grande chiostro attiguo a quello originario, in modo da rendere il numero delle celle più che raddoppiato. Nel 1940 però la comunità poté rientrare in Francia, fatto che fu accelerato anche per l’ingresso in guerra dell’Italia contro la Francia. Alcuni monaci e conversi restarono tuttavia a Farneta, che fu allora eretta comunità autonoma dell’ordine; essi peraltro furono gli eroici protagonisti di un eccidio da parte dei nazisti nel 1944. (Anna Roda, CulturaCattolica.it, 1 giugno 2010)
Alimenti: aumentano i prodotti contaminati da residui di pesticidi
Con frutta e verdura, pane, miele e vino, mangiamo anche chimica. Nei nostri piatti, infatti, aumentano i prodotti contaminati da uno o più residui di pesticidi passati dal 27,5% del 2009 al 32,7% nel 2010 e salgono anche i campioni irregolari che quest'anno crescono dall'1,2% del 2009 all'1,5%. Diminuiscono, di conseguenza, a 65,8% i prodotti ritenuti sani, cioè senza tracce di molecole chimiche (71,3% nel 2009) ma soprattutto, scende anche il numero di campioni analizzati, che passano dagli 8.764 dello scorso anno, agli attuali 8560, facendo registrare un -204. Insomma quest'anno solo il 50% della frutta risulta incontaminata mentre, a 32 anni dalla sua messa al bando, ricompaiono tracce di Ddt in un campione di insalata analizzato in Friuli. A rilevarlo e' l'annuale "Rapporto sui residui di fitofarmaci nei prodotti ortofrutticoli e derivati commercializzati in Italia" di Legambiente elaborato sulla base dei dati ufficiali forniti da Arpa, Asl e laboratori zooprofilattici di tutte le regioni italiane e diffuso oggi a Roma nel corso di una conferenza stampa cui hanno preso parte il responsabile Agricoltura di Legambiente e senatore del Pd Fracesco ferrante, il presidente del Movimento Difesa del Cittadino, Antonio Longo, il presidente dell'Unione nazionale associazioni apicoltori italiani (Unaapi), Francesco Panella, ed il presidente nazionale di legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. In particolare, rileva il Rapporto di Legambiente, tra le verdure il 76,4% dei campioni risulta regolare senza residui (erano l'82,9% nel 2009); 45 sono i campioni fuori legge (1,3% contro lo 0,8% dello scorso anno), mentre il 22,3% risulta contaminato da uno (15,8%) o più residui (6,5%, erano il 3,5% nel 2009). E ancora. Diminuiscono i campioni di frutta irregolari per residui oltre i limiti consentiti o per molecole non autorizzate, passando dal 2,3% dello scorso anno all'1,2% dell'attuale, mentre aumentano quelli regolari ma contaminati da uno (22%) o più residui (26,4%) che passano nel complesso dal 43,9 al 48,4%. Nel Rapporto di Legambiente non mancano anche dati sui prodotti derivati, tra i quali miele, pane o vino, rilevando che nel 2010 il 77,7% risulta regolare senza residui, contro l'80,5% del 2009, il 10,3% e' regolare con un residuo e il 9,3% contiene più di un residuo contemporaneamente. Il 2,7% di questi prodotti, inoltre, risulta invece addirittura irregolare (39 campioni su 1.435), segnalando una novità rispetto agli anni precedenti, quando la percentuale era pari a zero. E lo scenario vede coinvolte tutte le Regioni italiane tranne il Molise che, riferisce Daniela Sciarra, curatrice del Rapporto di Legambiente che ha raggiunto la sua decima edizione, "si e' dimostrata la regione meno virtuosa nel fornire dati e informazioni, contro l'Emilia Romagna in testa per collaborazione e informazioni". "Anche quest'anno, insomma, -aggiunge Sciarra- al Molise va la maglia nera, non ci ha mandato nessuna notizia". Virtuose, invece, in termini di informazioni si sono rivelate regioni quali la Campania, la Basilicata, la Toscana ed il Friuli che hanno fornito i dati più copiosi ed i migliori risultati. "Anche se i produttori puntano di più alla qualità sono ancora troppi i campioni più irregolari ed e' ancora fuorilegge l'1% dei prodotti" spiega Ferrante che, riguardo i comportamenti virtuosi o meno delle regioni, sottolinea: "I campioni sono rilevati nei mercati e la provenienza dei prodotti e' varia, arrivano cioè anche da mercati stranieri. Quest'anno però non ci sono pervenute informazioni sulla provenienza degli alimenti mentre negli anni passati quelli Made in Italy risultavano più sani". "L'obiettivo di Legambiente -aggiunge Sciarra- e' quello di dare la maggiore completezza di informazioni possibili, continueremo a chiedere alle Arpa anche la tracciabilità e la provenienza dei prodotti in analisi". "La normativa vigente ha portato ad un maggiore controllo delle sostanze attive impiegate nella produzione dei formulati e l'armonizzazione europea dei limiti massimi di residuo consentito (Lmr), ha rappresentato un importante passo in avanti" afferma Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente. "Il Rapporto -continua- registra poi un lento ma graduale miglioramento rispetto agli anni passati, a testimonianza della maggiore attenzione da parte degli operatori agricoli alla salubrità dei cibi e alle richieste dei consumatori, sempre più favorevoli ai prodotti provenienti da un'agricoltura di qualità. Nonostante ciò, però, risulta ancora troppo alta la percentuale dei prodotti contaminati da uno o più tipi di pesticidi". "La strada da percorrere per raggiungere un uso sostenibile dei fitofarmaci -sottolinea Ferrante- e' ancora molto lunga. Rimane, infatti, il problema del cosiddetto multi residuo cioè, l'effetto sinergico dovuto alla presenza contemporanea di differenti principi attivi sul medesimo prodotto, e quello della rintracciabilità di pesticidi revocati oltre il termine fissato per lo smaltimento delle scorte". "Non esiste un riferimento specifico nella normativa che stabilisca per i laboratori un termine temporale oltre il quale tracce, anche al di sotto del limite consentito di pesticidi revocati, come il Ddt, siano da indicare come irregolari" afferma ancora Ferrante che per questo ha presentato un disegno di legge che, con l'obiettivo di contribuire a ridurre ed armonizzare l'uso dei fitofarmaci in agricoltura, mira, in particolare, a promuovere la ricerca sugli effetti sinergici del cocktail chimico e la regolamentazione della normativa sul multi residuo. (Adnkronos, 18 giugno 2010)
Il Vaticano «beatifica» i Blues Brothers
Blues Brothers santi subito. Sono passati trent’anni dall’uscita del film che ha segnato una generazione ed è entrato nel mito: la storia dei fratelli Blues, scritta da Dan Aykroyd e interpretata dallo stesso Aykroyd in coppia con John Belushi (nella foto). Per celebrarlo, sulle pagine de L’Osservatore Romano, il quotidiano del Papa, è sceso in campo lo stesso direttore, Gian Maria Vian, con un editoriale intitolato «un film cattolico». Vian ricorda i tanti indizi disseminati nel film, a iniziare dalla foto incorniciata di un giovane Giovanni Paolo II «nella casa dell’affittacamere - dall’accento siciliano e vestita di nero, dunque cattolica - di Lou “Blue” Marini». Senz’altro cattolico, «come Alan “Mr. Fabulous” Rubin, di origine polacca, e come soprattutto i fratelli Jake ed Elwood Blues. E a notarlo, con maligna ostilità, sono gli avversari più determinati, cioè gli insopportabili nazisti dell’Illinois». Jake ed Elwood, i protagonisti, sono infatti cresciuti nell’orfanotrofio intitolato a sant’Elena e alla santa Sindone, governato dalla terribile Sister Mary Stigmata, detta «la Pinguina», e ora a rischio di sopravvivenza per cinquemila dollari di tasse non versate. «Ma per i due - ricorda il direttore del quotidiano vaticano - quella istituzione cattolica è tutta la loro famiglia e decidono di salvarla a ogni costo con i suoi piccoli ospiti». È grazie a un’illuminazione, che raggiunge Jake (John Belushi) nella chiesa battista di Triple Rock dove ascoltano un sermone del reverendo Cleophus James sulla necessità di non sprecare la propria vita. Qui Jake «vede la luce» e decide di rimettere insieme la vecchia banda per raccogliere i dollari necessari alla salvezza dell’orfanotrofio. «A fianco dei piccoli (e della Pinguina) - ricorda Vian - i fratelli Blues sono capaci di toccanti attenzioni: così Elwood non si dimentica di una terribile crema al formaggio commissionatagli da un anziano amico. E nulla antepongono - Elwood, il più galante, rinuncia persino all’avventura con una fascinosa signorina - alla “missione per conto di Dio”. Che alla fine riuscirà. Consegnando alla storia del cinema e della musica un film memorabile. Stando ai fatti, cattolico». Indimenticabile è pure la lunga scena dell’inseguimento finale, rimasta nella storia del cinema, con i fratelli Blues che riescono, pur avendo alle calcagna l’esercito e la polizia della città, a consegnare in tempo il pagamento all’ufficio delle imposte, salvando così l’orfanotrofio. Prima di finire, immancabilmente, dietro le sbarre. (Andrea Tornielli, Il Giornale, 16 giugno 2010)
Si comprano il palazzo per non avere la moschea
Il preliminare era già firmato con tanto di caparra: il centro culturale islamico Annur avrebbe comprato un vecchio laboratorio tessile da trasformare in moschea. Proprio in questo angolino di Veneto, contrada Tomasoni, una cinquantina di case, una corte, la fontana, la chiesetta, dove si vive come cinquant'anni fa, che quando vai in vacanza il vicino ti arieggia le stanze, sfama il cane e innaffia le piante. Veneto profondo, laborioso. Dove la gente è disposta a mettere mano al portafoglio pur di dirottare altrove i musulmani. Così, dopo un lavorìo durato un anno, i 150 abitanti dei Tomasoni hanno deciso di comprare loro l'edificio destinato a luogo di ritrovo e di culto per i fedeli del Corano che vivono lungo il torrente Agno, una vallata che da Recoaro Terme scende verso Montecchio Maggiore. Dodici mesi fitti di incontri, vertici in comune, mediazioni con il proprietario del laboratorio artigianale. «Un'ora e mezzo dopo la mia elezione erano già sotto casa mia a chiedere udienza», ricorda il primo cittadino Martino Montagna, 44 anni, giornalista prestato alla vita amministrativa. È stata una battaglia estenuante. Il padrone dello stabile aveva già firmato il compromesso di vendita con l'associazione Annur e intascato la caparra. «I residenti si lamentavano per non essere stati informati da nessuno, a cominciare dal comune - spiega il sindaco che guida una lista civica -. Non c'era ostilità verso i musulmani, ma una questione di ordine pubblico». Una sola strada, niente parcheggi, dalle 300 alle 500 persone che ogni venerdì pregano Allah e raddoppiano nelle principali festività dell'Islam. «Nella contrada si vive benissimo come una volta», racconta Gaetano Dalla Gassa, uno dei leader della protesta, titolare di una ditta di palificazione e consolidamento di terreni e membro del direttivo delle Piccole industrie di Valdagno: «È un nucleo tradizionale di 150 persone molto unite, facciamo tre sagre all'anno, una piccola comunità coesa che sarebbe stata stravolta dall'arrivo di centinaia di musulmani». Gente molto pratica, che ha capito in fretta l'unico modo per rovesciare la situazione: mettere sul piatto una bella cifra e ricomprarsi lo stabile, anche se non sono tempi favorevoli per investire nel mattone. Ci sono voluti lunghi mesi di trattative complicate, assemblee ogni lunedì sera, la collaborazione del sindaco, il coinvolgimento dell'associazione Annur. «Persone per bene e disponibili al dialogo - assicura Dalla Gassa -. Noi non ce l'abbiamo con gli stranieri, ai Tomasoni vivono una trentina di extracomunitari, famiglie provenienti dall'India e dall'Europa orientale. Anche alcuni di loro partecipano alla nostra operazione immobiliare». Dove operava l'artigiano delle confezioni verranno costruiti quattro o cinque appartamenti da 80-100 metri quadrati. La gente della contrada e qualche amico stanno per sborsare 50mila euro (che saranno restituiti a cose fatte) per stracciare il vecchio preliminare e firmarne uno nuovo. Un'impresa edile realizzerà le opere con un po' di sconto: il valore dell'operazione supera i 200mila euro. Alcuni abitanti, tra cui Dalla Gassa che ha un figlio da sistemare, hanno già garantito l'acquisto degli alloggi: ne resta ancora uno da piazzare. Il centro culturale islamico ha riavuto i soldi versati ed entro l'anno troverà un accordo con il comune di Cornedo per una sistemazione alternativa, più grande, con un piazzale comodo per le auto, che non dia problemi di ordine pubblico. E sia lontana dal piccolo mondo antico dei Tomasoni. (Stefano Filippi, Il Giornale, 22 giugno 2010)
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