TESTI MAGISTERO PAPALE

 GIOVANNI PAOLO II

 

 

 

 Mulieris dignitatem

Lettera Enciclica sulla dignità e vocazione della donna in occasione dell'anno mariano

(15 agosto 1988)

 

I. Introduzione

Un segno dei tempi

1. La dignità della donna e la sua vocazione - oggetto costante della riflessione umana e cristiana - hanno assunto un rilievo tutto particolare negli anni più recenti. Ciò è dimostrato, tra l’altro, dagli interventi del Magistero della Chiesa, rispecchiati in vari documenti del Concilio Vaticano II, il quale afferma poi nel messaggio finale: "Viene l’ora, l’ora è venuta, in cui la vocazione della donna si svolge con pienezza, l’ora in cui la donna acquista nella società un’influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto. E per questo che, in un momento in cui l’umanità conosce una così profonda trasformazione, le donne illuminate dallo spirito evangelico possono tanto operare per aiutare l’umanità a non decadere". (Conc. Oecum. Vat. II "Nuntius ad Mulieres", die 8 dec. 1965: AAS 58 [1966] 13-14) Le parole di questo messaggio riassumono ciò che aveva già trovato espressione nel Magistero conciliare, specie nella costituzione pastorale "Gaudium et Spes" (cf. "Gaudium et Spes", 8.9.60) e nel decreto sull’apostolato dei laici "Apostolicam Actuositatem" (cf. "Apostolicam Actuositatem", 9).

Simili prese di posizione si erano manifestate nel periodo preconciliare, per esempio in non pochi discorsi del Papa Pio XII (cf. Pii XII "Allocutio ad Mulieres e Societatibus Christianis Italiae delegatas", die 21 oct. 1945: AAS 37 [1945] 284-295; Pii XII "Allocutio ad delegatas Conventui Unionis universalis Sodalitatum mulierum catholicarum", die 24 apr. 1952: AAS 44 [1952] 420-424; Pii XII "Allocutio ad eas quae interfuerunt XIV Conventui Internationali ex "Union Mondiale des Organisations féminines catholiques"", die 29 sept. 1957: AAS 49 [1957] 906-922) e nell’enciclica "Pacem in Terris" di Papa Giovanni XXIII (cf. Ioannis XXIII "Pacem in Terris", die 11 apr. 1963: AAS 55 [1963] 267-268). Dopo il Concilio Vaticano II, il mio predecessore Paolo VI ha esplicitato il significato di questo "segno dei tempi", attribuendo il titolo di dottore della Chiesa a santa Teresa di Gesù e a santa Caterina da Siena (Pauli VI "Declaratio S. Teresiae de Avila, Virginis, "Doctoris universalis Ecclesiae"", die 27 sept. 1970: Insegnamenti di Paolo VI, VIII [1970] 949-957; Pauli VI "Declaratio S. Catherinae Senensis, Virginis, "Doctoris universalis Ecclesiae"", die 4 oct. 1970: Insegnamenti di Paolo VI, VIII [1970] 982-988) ed istituendo, altresì, su richiesta dell’assemblea del Sinodo dei Vescovi nel 1971, un’apposita commissione, il cui scopo era lo studio dei problemi contemporanei riguardanti la "promozione effettiva della dignità e della responsabilità delle donne" (AAS 65 [1973] 284s). In uno dei suoi discorsi Paolo VI disse tra l’altro: "Nel cristianesimo, infatti, più che in ogni altra religione, la donna ha fin dalle origini uno speciale statuto di dignità, di cui il nuovo testamento ci attesta non pochi e non piccoli aspetti...; appare all’evidenza che la donna è posta a far parte della struttura vivente ed operante del cristianesimo in modo così rilevante che non ne sono forse ancora state enucleate tutte le virtualità" (Pauli VI "Allocutio ad eas quae interfuerunt Nationali Conventui Consociationis Italicarum Mulierum", CIF, die 6 dec. 1976: Insegnamenti di Paolo VI, XIV [1976] 1017).

I Padri della recente assemblea del Sinodo dei Vescovi (ottobre 1987), dedicata a "la vocazione e la missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’anni dal Concilio Vaticano II", si sono di nuovo occupati della dignità e della vocazione della donna. Essi hanno auspicato, tra l’altro, l’approfondimento dei fondamenti antropologici e teologici necessari a risolvere i problemi relativi al significato e alla dignità dell’essere donna e dell’essere uomo. Si tratta di comprendere la ragione e le conseguenze della decisione del Creatore che l’essere umano esista sempre e solo come femmina e come maschio. Solo partendo da questi fondamenti, che consentono di cogliere la profondità della dignità e della vocazione della donna, è possibile parlare della sua presenza attiva nella Chiesa e nella società.

È quanto intendo trattare nel presente documento. L’esortazione post-sinodale, che verrà resa pubblica dopo di esso, presenterà le proposte di indole pastorale circa il posto della donna nella Chiesa e nella società, sulle quali i Padri sinodali hanno fatto importanti considerazioni, avendo anche vagliato le testimonianze degli uditori laici - donne e uomini - provenienti dalle Chiese particolari di tutti i continenti.

L’anno mariano

 2. L’ultimo Sinodo si è svolto durante l’anno mariano, che offre un particolare impulso ad affrontare questo tempo, come indica anche la enciclica "Redemptoris Mater" (cf. "Redemptoris Mater", 46). Questa enciclica sviluppa e attualizza l’insegnamento del Concilio Vaticano II, contenuto nel capitolo VIII della costituzione dogmatica sulla Chiesa "Lumen Gentium". Tale capitolo reca un titolo significativo: "La beata Vergine Maria, Madre di Dio, nel mistero di Cristo e della Chiesa". Maria - questa "donna" della Bibbia (cf. Gen 3,15; Gv 2,4;19,26) - appartiene intimamente al mistero salvifico di Cristo, e perciò è presente in modo speciale anche nel mistero della Chiesa. Poiché "la Chiesa è in Cristo come un sacramento... dell’intima unione con Dio e della unità di tutto il genere umano" ("Lumen Gentium", 1), la speciale presenza della Madre di Dio nel mistero della Chiesa ci lascia pensare all’eccezionale legame tra questa "donna" e l’intera famiglia umana. Si tratta qui di ciascuno e di ciascuna, di tutti i figli e di tutte le figlie del genere umano, nei quali si realizza nel corso delle generazioni quella fondamentale eredità dell’intera umanità che è legata al mistero del "principio" biblico: "Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò" (Gen 1,27; un’illustrazione del significato antropologico e teologico del "principio" può vedersi nella prima parte delle allocuzioni del mercoledì dedicate alla "teologia del corpo", a partire dal 5 settembre 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 234-236).

Questa eterna verità sull’uomo, uomo e donna - verità che è anche immutabilmente fissata nell’esperienza di tutti - costituisce contemporaneamente il mistero che soltanto nel "Verbo incarnato trova vera luce... Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione", come insegna il Concilio ("Gaudium et Spes", 22). In questo "svelare l’uomo all’uomo" non bisogna forse scoprire un posto particolare per quella "donna", che fu la Madre di Cristo? Il "messaggio" di Cristo, contenuto nel Vangelo e che ha per sfondo tutta la Scrittura, antico e nuovo testamento, non può forse dire molto alla Chiesa e all’umanità circa la dignità e la vocazione della donna?

Proprio questa vuol essere la trama del presente documento, che si inquadra nel vasto contesto dell’anno mariano, mentre ci si avvia al termine del secondo millennio dalla nascita di Cristo e all’inizio del terzo. E mi sembra che la cosa migliore sia quella di dare a questo testo l

2. L’ultimo Sinodo si è svolto durante l’anno mariano, che offre un particolare impulso ad affrontare questo tempo, come indica anche la enciclica "Redemptoris Mater" (cf. "Redemptoris Mater", 46). Questa enciclica sviluppa e attualizza l’insegnamento del Concilio Vaticano II, contenuto nel capitolo VIII della costituzione dogmatica sulla Chiesa "Lumen Gentium". Tale capitolo reca un titolo significativo: "La beata Vergine Maria, Madre di Dio, nel mistero di Cristo e della Chiesa". Maria - questa "donna" della Bibbia (cf. Gen 3,15; Gv 2,4;19,26) - appartiene intimamente al mistero salvifico di Cristo, e perciò è presente in modo speciale anche nel mistero della Chiesa. Poiché "la Chiesa è in Cristo come un sacramento... dell’intima unione con Dio e della unità di tutto il genere umano" ("Lumen Gentium", 1), la speciale presenza della Madre di Dio nel mistero della Chiesa ci lascia pensare all’eccezionale legame tra questa "donna" e l’intera famiglia umana. Si tratta qui di ciascuno e di ciascuna, di tutti i figli e di tutte le figlie del genere umano, nei quali si realizza nel corso delle generazioni quella fondamentale eredità dell’intera umanità che è legata al mistero del "principio" biblico: "Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò" (Gen 1,27; un’illustrazione del significato antropologico e teologico del "principio" può vedersi nella prima parte delle allocuzioni del mercoledì dedicate alla "teologia del corpo", a partire dal 5 settembre 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 234-236).

Questa eterna verità sull’uomo, uomo e donna - verità che è anche immutabilmente fissata nell’esperienza di tutti - costituisce contemporaneamente il mistero che soltanto nel "Verbo incarnato trova vera luce... Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione", come insegna il Concilio ("Gaudium et Spes", 22). In questo "svelare l’uomo all’uomo" non bisogna forse scoprire un posto particolare per quella "donna", che fu la Madre di Cristo? Il "messaggio" di Cristo, contenuto nel Vangelo e che ha per sfondo tutta la Scrittura, antico e nuovo testamento, non può forse dire molto alla Chiesa e all’umanità circa la dignità e la vocazione della donna?

Proprio questa vuol essere la trama del presente documento, che si inquadra nel vasto contesto dell’anno mariano, mentre ci si avvia al termine del secondo millennio dalla nascita di Cristo e all’inizio del terzo. E mi sembra che la cosa migliore sia quella di dare a questo testo lo stile e il carattere di una meditazione.

II. Donna-Madre di Dio (Theotókos)

Unione con Dio

3. Quando "venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna". Con queste parole della lettera ai Galati (Gal 4,4) l’apostolo Paolo unisce tra loro i momenti principali che determinano in modo essenziale il compimento del mistero "prestabilito in Dio" (cf. Ef 1,9). Il Figlio, Verbo consostanziale al Padre, nasce come uomo da una donna, quando viene "la pienezza del tempo". Questo avvenimento conduce al punto chiave della storia dell’uomo sulla terra, intesa come storia della salvezza. È significativo che l’Apostolo non chiami la Madre di Cristo col nome proprio di "Maria", ma la definisca "donna": ciò stabilisce una concordanza con le parole del protoevangelo nel libro della Genesi (cf. Gen 3,15). Proprio quella "donna" è presente nell’evento centrale salvifico, che decide della "pienezza del tempo": questo evento si realizza in lei e per mezzo di lei.

Così inizia l’evento centrale, l’evento chiave nella storia della salvezza, la Pasqua del Signore. Tuttavia, vale forse la pena di riconsiderarlo a partire dalla storia spirituale dell’uomo intesa nel modo più ampio, così come si esprime attraverso le diverse religioni del mondo. Appelliamoci qui alle parole del Concilio Vaticano II: "Gli uomini si attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana che, ieri come oggi, turbano profondamente il cuore umano: che cosa sia l’uomo, quale sia il senso e il fine della nostra vita, che cosa siano il bene e il peccato, quale origine e fine abbia il dolore, quale sia la via per raggiungere la vera felicità, che cosa siano la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, dal quale traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo" ("Nostra Aetate", 1). "Dai tempi più antichi fino ad oggi, presso i vari popoli si trova una certa percezione di quella forza arcana che è presente nel corso delle cose e negli avvenimenti della vita umana, e anzi talvolta si ha riconoscimento della suprema divinità o anche del padre" ("Nostra Aetate", 2).

Sullo sfondo di questo vasto panorama, che pone in evidenza le aspirazioni dello spirito umano in cerca di Dio - a volte quasi "andando come a tentoni" (cf. At 17,27) -, la "pienezza del tempo", di cui parla Paolo nella sua lettera, mette in rilievo la risposta di Dio stesso, di colui "in cui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" (cf. At 17,28). È questi il Dio che "aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, e ultimamente ha parlato a noi per mezzo del Figlio" (cf. Eb 1,1-2). L’invio di questo Figlio, consostanziale al Padre, come uomo "nato da donna", costituisce il culminante e definitivo punto dell’autorivelazione di Dio all’umanità. Questa autorivelazione possiede un carattere salvifico, come insegna in un altro passo il Concilio Vaticano II: "Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cf. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura" (cf. Ef 2,18; 2Pt 1,4; "Dei Verbum", 2).

La donna si trova al cuore di questo evento salvifico. L’autorivelazione di Dio, che è l’imperscrutabile unità della Trinità, è contenuta nelle sue linee fondamentali nell’annunciazione di Nazaret. "Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Egli sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo". "Come avverrà questo? Non conosco uomo". "Lo Spirito Santo scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio... Nulla è impossibile a Dio" (cf. Lc 1,31-37). Già secondo i Padri della Chiesa, la prima rivelazione della Trinità nel nuovo testamento è avvenuta nell’annunciazione. In un’omelia attribuita a S. Gregorio il Taumaturgo si legge: "Sei splendore di luce, o Maria, nel sublime regno spirituale! In te il Padre, che è senza principio e la cui potenza ti ha ricoperto, è glorificato. In te il Figlio, che hai portato secondo la carne, è adorato. In te lo Spirito Santo, che ha operato nelle tue viscere la nascita del grande Re, è celebrato. È grazie a te, o piena di grazia, che la Trinità santa e consustanziale ha potuto essere conosciuta nel mondo" . Cfr. S. Andreae Cretensis "In Annuntiat. B. Mariae": PG 97, 909).

È facile pensare a questo evento nella prospettiva della storia d’Israele, il popolo eletto di cui Maria è figlia; ma è facile anche pensarvi nella prospettiva di tutte quelle vie, lungo le quali l’umanità da sempre cerca risposta agli interrogativi fondamentali ed insieme definitivi che più l’assillano. Non si trova forse nell’annunciazione di Nazaret l’inizio di quella risposta definitiva, mediante la quale Dio stesso viene incontro alle inquietudini del cuore dell’uomo? (cf. "Nostra Aetate", 2) Qui non si tratta solo di parole di Dio rivelate per mezzo dei profeti, ma, con questa risposta, realmente "il Verbo si fa carne" (cf. Gv 1,14). Maria raggiunge così un’unione con Dio tale da superare tutte le attese dello spirito umano. Supera persino le attese di tutto Israele e, in particolare, delle figlie di questo popolo eletto, le quali, in base alla promessa, potevano sperare che una di esse sarebbe un giorno divenuta madre del Messia. Chi di loro, tuttavia, poteva supporre che il Messia promesso sarebbe stato il "Figlio dell’Altissimo"? A partire dalla fede monoteista veterotestamentaria ciò era difficilmente ipotizzabile. Solamente in forza dello Spirito Santo, che "stese la sua ombra" su di lei, Maria poteva accettare ciò che è "impossibile presso gli uomini, ma possibile presso Dio" (cf. Mc 10,27).

Theotókos

4. In tal modo "la pienezza del tempo" manifesta la straordinaria dignità della "donna". Questa dignità consiste, da una parte, nell’elevazione soprannaturale all’unione con Dio in Gesù Cristo, che determina la profondissima finalità dell’esistenza di ogni uomo sia sulla terra che nell’eternità. Da questo punto di vista, la "donna" è la rappresentante e l’archetipo di tutto il genere umano: rappresenta l’umanità che appartiene a tutti gli esseri umani, sia uomini che donne. D’altra parte, però, l’evento di Nazaret mette in rilievo una forma di unione col Dio vivo, che può appartenere solo alla "donna", Maria: l’unione tra madre e figlio. La Vergine di Nazaret diventa, infatti, la Madre di Dio.

Questa verità, accolta sin dall’inizio dalla fede cristiana, ebbe solenne formulazione nel Concilio di Efeso (anno 431) (La dottrina teologica sulla Madre di Dio sostenuta da molti Padri della Chiesa, chiarita e definita nei Concilii di Efeso e di Calcedonia , è stata riproposta dal Concilio Vaticano II, nel capitolo VIII della "Lumen Gentium", 52-69. Cfr. "Redemptoris Mater", 4.31-32 et notae 9.78-83). Contrapponendosi all’opinione di Nestorio, che riteneva Maria esclusivamente madre di Gesù-uomo, questo Concilio mise in rilievo l’essenziale significato della maternità di Maria Vergine. Al momento dell’annunciazione, rispondendo col suo "fiat", Maria concepì un uomo che era Figlio di Dio, consostanziale al Padre. Dunque, è veramente la Madre di Dio, poiché la maternità riguarda tutta la persona, e non solo il corpo, e neppure solo la "natura" umana. In questo modo il nome "Theotókos" - Madre di Dio - divenne il nome proprio dell’unione con Dio, concessa a Maria Vergine.

La particolare unione della "Theotókos" con Dio, che realizza nel modo più eminente la predestinazione soprannaturale all’unione col Padre elargita ad ogni uomo ("filii in Filio"), è pura grazia e, come tale, un dono dello Spirito. Nello stesso tempo, però, mediante la risposta di fede Maria esprime la sua libera volontà, e dunque la piena partecipazione dell’"io" personale e femminile all’evento dell’ncarnazione. Col suo "fiat", Maria diviene l’autentico soggetto di quell’unione con Dio, che si è realizzata nel mistero dell’incarnazione del Verbo consostanziale al Padre. Tutta l’azione di Dio nella storia degli uomini rispetta sempre la libera volontà dell’"io" umano. Lo stesso avviene nell’annunciazione a Nazaret.

"Servire vuol dire regnare"

5. Questo evento possiede un chiaro carattere interpersonale: è un dialogo. Non lo comprendiamo pienamente se non inquadriamo tutta la conversazione tra l’angelo e Maria nel saluto: "piena di grazia" (cf. "Redemptoris Mater", 7-11, "atque textus Patrum ibi memorati" in nota 31). L’intero dialogo dell’annunciazione rivela l’essenziale dimensione dell’evento: la dimensione soprannaturale . Ma la grazia non mette mai da parte la natura né la annulla, anzi la perfeziona e nobilita. Pertanto, quella "pienezza di grazia", concessa alla Vergine di Nazaret, in vista del suo divenire "Theotókos", significa allo stesso tempo la pienezza della perfezione di ciò "che è caratteristico della donna", di "ciò che è femminile". Ci troviamo qui, in un certo senso, al punto culminante, all’archetipo della personale dignità della donna.

Quando Maria risponde alle parole del celeste messaggero col suo "fiat", la "piena di grazia" sente il bisogno di esprimere il suo personale rapporto riguardo al dono che le è stato rivelato, dicendo: "Eccomi, sono la serva del Signore" (Lc 1,38). Questa frase non può essere privata né sminuita del suo senso profondo, estraendola artificialmente da tutto il contesto dell’evento e da tutto il contenuto della verità rivelata su Dio e sull’uomo. Nell’espressione "serva del Signore" si fa sentire tutta la consapevolezza di Maria di essere creatura in rapporto a Dio. Tuttavia, la parola "serva", verso la fine del dialogo dell’annunciazione, si inscrive nell’intera prospettiva della storia della Madre e del Figlio. Difatti, questo Figlio, che è vero e consostanziale "Figlio dell’Altissimo", dirà molte volte di sé, specialmente nel momento culminante della sua missione: "Il Figlio dell’uomo... non è venuto per essere servito, ma per servire" (Mc 10,45).

Cristo porta sempre in sé la coscienza di essere "servo del Signore", secondo la profezia di Isaia (cf. Is 42,1;49,3.6;52,13), in cui è racchiuso il contenuto essenziale della sua missione messianica: la consapevolezza di essere il redentore del mondo. Maria sin dal primo momento della sua maternità divina, della sua unione col Figlio che "il Padre ha mandato nel mondo, perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (cf. Gv 3,17), si inserisce nel servizio messianico di Cristo (cf. "Redemptoris Mater", 39-41). È proprio questo servizio a costituire il fondamento stesso di quel regno, in cui "servire... vuol dire regnare" ("Lumen Gentium", 36). Cristo, "servo del Signore", manifesterà a tutti gli uomini la dignità regale del servizio, con la quale è strettamente collegata la vocazione d’ogni uomo.

Così considerando la realtà donna-Madre di Dio, entriamo nel modo più opportuno nella presente meditazione dell’anno mariano. Tale realtà determina anche l’essenziale orizzonte della riflessione sulla dignità e sulla vocazione della donna. Nel pensare, dire, o fare qualcosa in ordine alla dignità e alla vocazione della donna non si devono distaccare il pensiero, il cuore e le opere da questo orizzonte. La dignità di ogni uomo e la vocazione ad essa corrispondente trovano la loro misura definitiva nell’unione con Dio. Maria - la donna della Bibbia - è la più compiuta espressione di questa dignità e di questa vocazione. Infatti, ogni uomo, maschio o femmina, creato a immagine e somiglianza di Dio, non può realizzarsi al di fuori della dimensione di questa immagine e somiglianza.

III. Immagine e somiglianza di Dio

Libro della Genesi

6. Dobbiamo collocarci nel contesto di quel "principio" biblico, in cui la verità rivelata sull’uomo come "immagine e somiglianza di Dio" costituisce l’immutabile base di tutta l’antropologia cristiana (cf. S. Iranaei "Adv. haereses", V, 6, 1; V, 16, 2-3: S. Ch. 153, 72-81 et 216-221; S. Gregorii Nysseni "De hom. op.", 16: PG 44, 180; "In Cant. hom.", 2: PG 44, 805-808; S. Augustini "In Ps. 4,8": CCL 38, 17). "Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò" (Gen 1,27). Questo passo conciso contiene le verità antropologiche fondamentali: l’uomo è l’apice di tutto l’ordine del creato nel mondo visibile - il genere umano, che prende inizio dalla chiamata all’esistenza dell’uomo e della donna, corona tutta l’opera della creazione -; ambedue sono esseri umani, in egual grado l’uomo e la donna, ambedue creati a immagine di Dio. Questa immagine e somiglianza con Dio, essenziale per l’uomo, dall’uomo e dalla donna, come sposi e genitori, viene trasmessa ai loro discendenti: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela" (Gen 1,28). Il Creatore affida il "dominio" della terra al genere umano, a tutte le persone, a tutti gli uomini e a tutte le donne, che attingono la loro dignità e vocazione dal comune "principio".

Nella Genesi troviamo ancora un’altra descrizione della creazione dell’uomo - uomo e donna (cf. Gen 2,18-25) -, alla quale ci si riferirà in seguito. Fin d’ora, tuttavia, bisogna affermare che dalla notazione biblica emerge la verità sul carattere personale dell’essere umano. L’uomo è una persona, in egual misura l’uomo e la donna: ambedue, infatti, sono stati creati ad immagine e somiglianza del Dio personale. Ciò che rende l’uomo simile a Dio è il fatto che - diversamente da tutto il mondo delle creature viventi, compresi gli esseri dotati di sensi ("animalia") - l’uomo è anche un essere razionale ("animal rationale") ("Persona est naturae rationalis individua substantia": Manlii Severini Boëthii "Liber de persona et duabus naturis" III: PL &$, 1443; cf. S. Thomae Aquinatis "Summa Theologiae", I, q. XXIX, art. I). Grazie a questa proprietà l’uomo e la donna possono "dominare" sulle altre creature del mondo visibile (cf. Gen 1,28).

Nella seconda descrizione della creazione dell’uomo (cf. Gen 2,18-25) il linguaggio in cui viene espressa la verità sulla creazione dell’uomo e, specialmente, della donna, è diverso, in un certo senso è meno preciso, è - si potrebbe dire - più descrittivo e metaforico: più vicino al linguaggio dei miti allora conosciuti. Tuttavia, non si riscontra alcuna essenziale contraddizione tra i due testi. Il testo di Genesi 2,18-25 aiuta a comprendere bene ciò che troviamo nel passo conciso di Genesi 1,27-28 e, al tempo stesso, se letto unitamente ad esso, aiuta a comprendere in modo ancora più profondo la fondamentale verità, ivi racchiusa, sull’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio come uomo e donna.

Nella descrizione di Genesi 2,18-25 la donna viene creata da Dio "dalla costola" dell’uomo ed è posta come un altro "io", come un interlocutore accanto all’uomo, il quale nel mondo circostante delle creature animate è solo e non trova in nessuna di esse un "aiuto" adatto a sé. La donna, chiamata in tal modo all’esistenza, è immediatamente riconosciuta dall’uomo come "carne della sua carne e osso delle sue ossa" (cf. Gen 2,23) e appunto per questo è chiamata "donna". Nella lingua biblica questo nome indica l’essenziale identità nei riguardi dell’uomo: "’is-’issah", cosa che in generale le lingue moderne non possono purtroppo esprimere. "La si chiamerà donna ("’issah"), perché dall’uomo ("’is") è stata tolta" (Gen 2,23).

Il testo biblico fornisce sufficienti basi per ravvisare l’essenziale uguaglianza dell’uomo e della donna dal punto di vista dell’umanità (Tra i Padri della Chiesa che affermano l’eguaglianza fondamentale dell’uomo e della donna davanti a Dio cf. Origenis "In Iesu nave", IX, 9: PG 12, 878; Clementis Alexandrini "Paed.", I, 4: S. Ch. 70, 128-131; S. Augustini "Sermo 51", II, 3: PL 38, 334-335). Ambedue sin dall’inizio sono persone, a differenza degli altri esseri viventi del mondo che li circonda. La donna è un altro "io" nella comune umanità. Sin dall’inizio essi appaiono come "unità dei due" e ciò significa il superamento dell’originaria solitudine, nella quale l’uomo non trova "un aiuto che gli sia simile" (Gen 2,20). Si tratta qui solo dell’"aiuto" nell’azione, nel "soggiogare la terra"? (cf. Gen 1,28). Certamente si tratta della compagna della vita, con la quale, come con una moglie, l’uomo può unirsi divenendo con lei "una sola carne" e abbandonando per questo "suo padre e sua madre" (cf. Gen 2,24). La descrizione biblica, dunque, parla dell’istituzione, da parte di Dio, del matrimonio contestualmente con la creazione dell’uomo e della donna, come condizione indispensabile della trasmissione della vita alle nuove generazioni degli uomini, alla quale il matrimonio e l’amore coniugale per loro natura sono ordinati: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela" (Gen 1,28).

Persona - comunione - dono

7. Penetrando col pensiero l’insieme della descrizione di Genesi (Gen 2,18-25), ed interpretandola alla luce della verità sull’immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27), possiamo comprendere ancora più pienamente in che cosa consista il carattere personale dell’essere umano, grazie al quale ambedue - l’uomo e la donna - sono simili a Dio. Ogni singolo uomo, infatti, è ad immagine di Dio in quanto creatura razionale e libera, capace di conoscerlo e di amarlo. Leggiamo, inoltre, che l’uomo non può esistere "solo" (cf. Gen 2,18); può esistere soltanto come "unità dei due", e dunque in relazione ad un’altra persona umana. Si tratta di una relazione reciproca: dell’uomo verso la donna e della donna verso l’uomo. Essere persona ad immagine e somiglianza di Dio comporta, quindi, anche un esistere in relazione, in rapporto all’altro "io". Ciò prelude alla definitiva autorivelazione di Dio uno e trino: unità vivente nella comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

All’inizio della Bibbia non sentiamo ancora dire questo direttamente. Tutto l’antico testamento è soprattutto la rivelazione della verità circa l’unicità e unità di Dio. In questa fondamentale verità su Dio il nuovo testamento introdurrà la rivelazione dell’imperscrutabile mistero della vita intima di Dio. Dio, che si lascia conoscere dagli uomini per mezzo di Cristo, è unità nella Trinità: è unità nella comunione. In tal modo è gettata una nuova luce anche su quella somiglianza ed immagine di Dio nell’uomo, di cui parla il libro della Genesi. Il fatto che l’uomo, creato come uomo e donna, sia immagine di Dio non significa solo che ciascuno di loro individualmente è simile a Dio, come essere razionale e libero. Significa anche che l’uomo e la donna, creati come "unità dei due" nella comune umanità, sono chiamati a vivere una comunione d’amore e in tal modo a rispecchiare nel mondo la comunione d’amore che è in Dio, per la quale le tre Persone si amano nell’intimo mistero dell’unica vita divina. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, un solo Dio per l’unità della divinità, esistono come persone per le imperscrutabili relazioni divine. Solamente in questo modo diventa comprensibile la verità che Dio in se stesso è amore (cf. 1Gv 4,16).

L’immagine e somiglianza di Dio nell’uomo, creato come uomo e donna (per l’analogia che si può presumere tra il Creatore e la creatura), esprime pertanto anche l’"unità dei due" nella comune umanità. Questa "unità dei due", che è segno della comunione interpersonale, indica che nella creazione dell’uomo è stata inscritta anche una certa somiglianza della comunione divina ("communio"). Questa somiglianza è stata inscritta come qualità dell’essere personale di tutti e due, dell’uomo e della donna, ed insieme come una chiamata e un compito. Sull’immagine e somiglianza di Dio, che il genere umano porta in sé fin dal "principio", è radicato il fondamento di tutto l’"ethos" umano: l’antico e il nuovo testamento svilupperanno tale "ethos", il cui vertice è il comandamento dell’amore (Dice S. Gregorio di Nissa: "Dio è inoltre amore e fonte di amore. Dice questo il grande Giovanni: "L’amore è da Dio" e "Dio è amore" . Il Creatore ha impresso in noi anche questo carattere. "Da questo tutti sapranno se siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" . Dunque, se questo non c’è, tutta l’immagine viene sfigurata" ).

Nell’"unità dei due" l’uomo e la donna sono chiamati sin dall’inizio non solo ad esistere "uno accanto all’altra" oppure "insieme", ma sono anche chiamati ad esistere reciprocamente "l’uno per l’altro".

Viene così spiegato anche il significato di quell’"aiuto", di cui si parla in Genesi 2,18-25: "Gli darò un aiuto simile a lui". Il contesto biblico permette di intenderlo anche nel senso che la donna deve "aiutare" l’uomo - e a sua volta questi deve aiutare lei - prima di tutto a causa del loro stesso "essere persona umana": il che, in un certo senso, permette all’uno e all’altra di scoprire sempre di nuovo e confermare il senso integrale della propria umanità. È facile comprendere che - su questo piano fondamentale - si tratta di un "aiuto" da ambedue le parti e di un "aiuto" reciproco. Umanità significa chiamata alla comunione interpersonale. Il testo di Genesi 2,18-25 indica che il matrimonio è la prima e, in un certo senso, la fondamentale dimensione di questa chiamata. Però non è l’unica. Tutta la storia dell’uomo sulla terra si realizza nell’ambito di questa chiamata. In base al principio del reciproco essere "per" l’altro, nella "comunione" interpersonale, si sviluppa in questa storia l’integrazione nell’umanità stessa, voluta da Dio, di ciò che è "maschile" e di ciò che è "femminile". I testi biblici, a cominciare dalla Genesi, ci permettono costantemente di ritrovare il terreno in cui si radica la verità sull’uomo, il terreno solido ed inviolabile in mezzo ai tanti mutamenti dell’esistenza umana.

Questa verità riguarda anche la storia della salvezza. Al riguardo, è particolarmente significativo un enunciato del Concilio Vaticano II. Nel capitolo sulla "comunità degli uomini" della costituzione pastorale "Gaudium et Spes" leggiamo: "Il Signore Gesù, quando prega il Padre, perché "tutti siamo una cosa sola" (Gv 17,21-22), mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle Persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che l’uomo, il quale sulla terra è la sola creatura che Dio ha voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono sincero di sé" ("Gaudium et Spes". 24).

Con queste parole il testo conciliare presenta sinteticamente l’insieme della verità sull’uomo e sulla donna - verità che si delinea già nei primi capitoli del libro della Genesi - come la stessa struttura portante dell’antropologia biblica e cristiana. L’uomo - sia uomo che donna - è l’unico essere tra le creature del mondo visibile che Dio creatore "ha voluto per se stesso": è dunque una persona. L’essere persona significa: tendere alla realizzazione di sé (il testo conciliare parla del "ritrovarsi"), che non può compiersi se non "mediante un dono sincero di sé". Modello di una tale interpretazione della persona è Dio stesso come Trinità, come comunione di Persone. Dire che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di questo Dio vuol dire anche che l’uomo è chiamato ad esistere "per" gli altri, a diventare un dono.

Ciò riguarda ogni essere umano, sia donna che uomo, i quali lo attuano nella peculiarità propria dell’una e dell’altro. Nell’ambito della presente meditazione circa la dignità e la vocazione della donna, questa verità sull’essere umano costituisce l’indispensabile punto di partenza. Già il libro della Genesi permette di scorgere, come in un primo abbozzo, questo carattere sponsale della relazione tra le persone, sul cui terreno si svilupperà a sua volta la verità sulla maternità, nonché quella sulla verginità, come due dimensioni particolari della vocazione della donna alla luce della rivelazione divina. Queste due dimensioni troveranno la loro più alta espressione all’avvento della "pienezza del tempo" (cf. Gal 4,4) nella figura della "donna" di Nazaret: Madre-Vergine.

L’antropomorfismo del linguaggio biblico

8. La presentazione dell’uomo come "immagine e somiglianza di Dio" subito all’inizio della Sacra Scrittura riveste anche un altro significato. Questo fatto costituisce la chiave per comprendere la rivelazione biblica come un discorso di Dio su se stesso. Parlando di sé sia "per mezzo dei profeti, sia per mezzo del Figlio" (cf. Eb 1,1.2) fattosi uomo, Dio parla con linguaggio umano, usa concetti e immagini umane. Se questo modo di esprimersi è caratterizzato da un certo antropomorfismo, la ragione sta nel fatto che l’uomo è "simile" a Dio: creato a sua immagine e somiglianza. E allora anche Dio è in qualche misura "simile" all’uomo, e, proprio in base a questa somiglianza, egli può essere conosciuto dagli uomini. Allo stesso tempo il linguaggio della Bibbia è sufficientemente preciso per segnare i limiti della "somiglianza" i limiti dell’"analogia". Infatti, la rivelazione biblica afferma che, se è vera la "somiglianza" dell’uomo con Dio, è ancor più essenzialmente vera la "non-somiglianza" (cf. Nm 23,19; Os 11,9; Is 40,18; 46,5; cf. "insuper Conc. Oec. Later. IV": Denz-Schönm, 806), che separa dal Creatore tutta la creazione. In definitiva, per l’uomo creato a somiglianza di Dio, Dio non cessa di essere colui "che abita una luce inaccessibile" (1Tm 6,16): è il "diverso" per essenza, il "totalmente altro".

Questa osservazione sui limiti dell’analogia - limiti della somiglianza dell’uomo con Dio nel linguaggio biblico - deve essere tenuta in considerazione anche quando, in diversi passi della Sacra Scrittura (specie nell’antico testamento), troviamo dei paragoni che attribuiscono a Dio qualità "maschili" oppure "femminili". Troviamo in essi l’indiretta conferma della verità che ambedue, sia l’uomo che la donna, sono stati creati ad immagine e somiglianza di Dio. Se c’è somiglianza tra il Creatore e le creature, è comprensibile che la Bibbia abbia usato nei suoi riguardi espressioni che gli attribuiscono qualità sia "maschili" sia "femminili".

Riportiamo qui qualche passo caratteristico del profeta Isaia: "Sion ha detto: "Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato". Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se una donna si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai" (Is 49,14-15). E altrove: "Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; in Gerusalemme sarete consolati" (Is 66,13). Anche nei salmi Dio viene paragonato a una madre premurosa: "Come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia. Speri Israele nel Signore" (Sal 131,2-3). In diversi passi l’amore di Dio, sollecito per il suo popolo, è presentato a somiglianza di quello di una madre: così come una madre, Dio "a portato" l’umanità e, in particolare, il suo popolo eletto nel proprio seno, lo ha partorito nei dolori, lo ha nutrito e consolato (cf. Is 42,14;46,3-4). L’amore di Dio è presentato in molti passi come amore "maschile" dello sposo e padre (cf. Os 11,1-4; Ger 3,4-19), ma talvolta anche come amore "femminile" della madre.

Questa caratteristica del linguaggio biblico, il suo modo antropomorfico di parlare di Dio, indica anche indirettamente il mistero dell’eterno "generare", che appartiene alla vita intima di Dio. Tuttavia, questo "generare" in sé stesso non possiede qualità "maschili" né "femminili". È di natura totalmente divina. È spirituale nel modo più perfetto, poiché "Dio è spirito" (Gv 4,24), e non possiede nessuna proprietà tipica del corpo, né "femminile" né "maschile". Dunque, anche la "paternità" in Dio è del tutto divina, libera dalla caratteristica corporale "maschile", che è propria della paternità umana. In questo senso l’antico testamento parlava di Dio come di un padre e si rivolgeva a lui come ad un padre. Gesù Cristo, che ha posto questa verità al centro stesso del suo Vangelo come normativa della preghiera cristiana, e che si rivolgeva a Dio chiamandolo: "Abbà - Padre" (Mc 14,36), quale Figlio unigenito e consostanziale, indicava la paternità in questo senso ultra-corporale, sovrumano, totalmente divino. Parlava come Figlio, legato al Padre dall’eterno mistero del generare divino, e ciò faceva essendo nello stesso tempo Figlio autenticamente umano della sua Madre Vergine.

Se all’eterna generazione del Verbo di Dio non si possono attribuire qualità umane, né la paternità divina possiede caratteri "maschili" in senso fisico, si deve invece cercare in Dio il modello assoluto di ogni "generazione" nel mondo degli esseri umani. In un tale senso - sembra - leggiamo nella lettera agli Efesini: "Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome" (Ef 3,14-15). Ogni "generare" nella dimensione delle creature trova il suo primo modello in quel generare che è in Dio in modo completamente divino, cioè spirituale. A questo modello assoluto, non-creato, viene assimilato ogni "generare" nel mondo creato. Perciò tutto quanto nel generare umano è proprio dell’uomo, come pure tutto quanto è proprio della donna, ossia la "paternità" e la "maternità" umane, porta in sé la somiglianza, ossia l’analogia col "generare" divino e con quella "paternità" che in Dio è "totalmente diversa": completamente spirituale e divina per essenza. Nell’ordine umano, invece, il generare è proprio dell’"unità dei due": ambedue sono "genitori", sia l’uomo sia la donna.

IV. Eva-Maria

Il "principio" e il peccato

9. "Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l’uomo, però, tentato dal maligno, fin dagli inizi della storia abusò della sua libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio" ("Gaudium et Spes", 13). Con queste parole l’insegnamento dell’ultimo Concilio ricorda la dottrina rivelata sul peccato e, in particolare, su quel primo peccato che è quello "originale". Il biblico "principio" - la creazione del mondo e dell’uomo nel mondo - contiene in sé al tempo spesso la verità su questo peccato, che può essere chiamato anche il peccato del "principio" dell’uomo sulla terra. Anche se ciò che è scritto nel libro della Genesi è espresso in forma di narrazione simbolica, come nel caso della descrizione della creazione dell’uomo come maschio e femmina (cf. Gen 2,18-25), al tempo stesso svela ciò che bisogna chiamare "il mistero del peccato" e, più pienamente ancora, "il mistero del male" esistente nel mondo creato da Dio.

Non è possibile leggere "il mistero del peccato" senza fare riferimento a tutta la verità circa l’"immagine e somiglianza" con Dio, che sta alla base dell’antropologia biblica. Questa verità presenta la creazione dell’uomo come una speciale donazione da parte del Creatore, nella quale sono contenuti non solo il fondamento e la fonte dell’essenziale dignità dell’essere umano - uomo e donna - nel mondo creato, ma anche l’inizio della chiamata di tutt’e due a partecipare alla vita intima di Dio stesso. Alla luce della rivelazione creazione significa nello stesso tempo inizio della storia della salvezza. Proprio in questo inizio il peccato si inscrive e si configura come contrasto e negazione.

Si può dire paradossalmente che il peccato presentato in Genesi (Gen 3) è la conferma della verità circa l’immagine e somiglianza di Dio nell’uomo, se questa verità significa la libertà, cioè la libera volontà, di cui l’uomo può usare scegliendo il bene, ma può anche abusare scegliendo, contro la volontà di Dio, il male. Nel suo significato essenziale, tuttavia, il peccato è negazione di ciò che Dio è - come creatore - in relazione all’uomo e di ciò che Dio vuole, sin dall’inizio e per sempre, per l’uomo. Creando l’uomo e la donna a propria immagine e somiglianza, Dio vuole per loro la pienezza del bene, ossia la felicità soprannaturale, che scaturisce dalla partecipazione alla sua stessa vita. Commettendo il peccato l’uomo respinge questo dono e contemporaneamente vuol diventare egli stesso "come Dio, conoscendo il bene e il male" (Gen 3,5), cioè decidendo del bene e del male indipendentemente da Dio, suo creatore. Il peccato delle origini ha la sua "misura" umana, il suo metro interiore nella libera volontà dell’uomo ed insieme porta in sé una certa caratteristica "diabolica" ("Diabolicus" e lingua Graeca = "divido, separo, calumnior"), come è messo chiaramente in rilievo nel libro della Genesi (Gen 3,1-5). Il peccato opera la rottura dell’unità originaria, di cui l’uomo godeva nello stato di giustizia originale: l’unione con Dio come fonte dell’unità all’interno del proprio "io", nel reciproco rapporto dell’uomo e della donna ("communio personarum") e, infine, nei confronti del mondo esterno, della natura.

La descrizione biblica del peccato originale in Genesi (Gen 3) in un certo modo "distribuisce i ruoli" che in esso hanno avuto la donna e l’uomo. A ciò faranno riferimento ancora più tardi alcuni passi della Bibbia, come, per esempio, la lettera paolina a Timoteo: "Prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna" (1Tm 2,13-14). Non c’è dubbio, tuttavia, che, indipendentemente da questa "distribuzione delle parti" nella descrizione biblica, quel primo peccato è il peccato dell’uomo, creato da Dio maschio e femmina. Esso è anche il peccato dei "progenitori", al quale è collegato il suo carattere ereditario. In questo senso lo chiamiamo "peccato originale".

Tale peccato, come già è stato detto, non può essere compreso adeguatamente senza riferirsi al mistero della creazione dell’essere umano - uomo e donna - a immagine e somiglianza di Dio. Per mezzo di tale riferimento si può capire anche il mistero dei quella "non-somiglianza" con Dio, nella quale consiste il peccato e che si manifesta nel male presente nella storia del mondo; di quella "non-somiglianza" con Dio, che "solo è buono" (cf. Mt 19,17) ed è la pienezza del bene. Se questa "non-somiglianza" del peccato con Dio, la stessa santità, presuppone la "somiglianza" nel campo della libertà, della libera volontà, si può allora dire che proprio per questa ragione la "non somiglianza" contenuta nel peccato è tanto più drammatica e tanto più dolorosa. Bisogna anche ammettere che Dio, come creatore e Padre, viene qui toccato, "offeso" e, ovviamente, offeso nel cuore stesso di quella donazione che appartiene all’eterno disegno di Dio nei riguardi dell’uomo.

Nello stesso tempo, però, anche l’essere umano - uomo e donna - viene toccato dal male del peccato, di cui è autore. Il testo biblico di Genesi (Gen 3) lo mostra con le parole che descrivono chiaramente la nuova situazione dell’uomo nel mondo creato. Esso mostra la prospettiva della "fatica" con cui l’uomo si procurerà i mezzi per vivere (cf. Gen 3,17-19), nonché quella dei grandi "dolori" con i quali la donna partorirà i suoi figli (cf. Gen 3,16). Tutto ciò, poi, è segnato dalla necessità della morte, che costituisce il termine della vita umana sulla terra. In questo modo l’uomo, come polvere, "tornerà alla terra, perché da essa è stato tratto": "Polvere tu sei e in polvere tornerai" (cf. Gen 3,19).

Queste parole trovano conferma di generazione in generazione. Esse non significano che l’immagine e la somiglianza di Dio nell’essere umano, sia donna che uomo, è stata distrutta dal peccato; significano, invece, che è stata "offuscata" (cf. Origenis "In Gen. hom.", 13, 4: PG 12, 234; S. Gregorii Nysseni "De virg.", 12: S. Ch. 119, 404-419; S. Gregorii Nysseni "De Beat.", VI: PG 44, 1272) e, in un certo senso, "diminuita". Il peccato, infatti, "diminuisce" l’uomo, come ricorda anche il Concilio Vaticano II (cf. "Gaudium et Spes", 13). Se l’uomo, già per la sua stessa natura di persona, è immagine e somiglianza di Dio, allora la sua grandezza e la sua dignità si realizzano nell’alleanza con Dio, nell’unione con lui, nel tendere a quella fondamentale unità che appartiene alla "logica" interiore del mistero stesso della creazione. Questa unità corrisponde alla profonda verità di tutte le creature dotate di intelligenza e, in particolare, dell’uomo, il quale tra le creature del mondo visibile è stato sin dall’inizio elevato, mediante l’eterna elezione da parte di Dio in Gesù: "In Cristo... egli ci ha scelti prima della creazione del mondo... nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà" (cf. Ef 1,4-6). L’insegnamento biblico nel suo insieme ci consente di dire che la predestinazione riguarda tutte le persone umane, uomini e donne, ciascuno e ciascuna senza eccezione.

"Egli ti dominerà"

10. La descrizione biblica del libro della Genesi delinea la verità circa le conseguenze del peccato dell’uomo come indica, altresì, il turbamento di quell’originaria relazione tra l’uomo e la donna che corrisponde alla dignità personale di ciascuno di essi. L’uomo, sia maschio che femmina, è una persona e, dunque "la sola creatura che sulla terra Dio abbia voluto per se stessa"; e nello stesso tempo proprio questa creatura unica e irripetibile "non può ritrovarsi se non mediante un dono sincero di sé" (cf. "Gaudium et Spes", 24). Da qui prende inizio il rapporto di "comunione", nella quale si esprimono l’"unità dei due" e la dignità personale sia dell’uomo che della donna. Quando dunque leggiamo nella descrizione biblica le parole rivolte alla donna: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà" (Gen 3,16), scopriamo una rottura e una costante minaccia proprio nei riguardi di questa "unità dei due", che corrisponde alla dignità dell’immagine e della somiglianza di Dio in ambedue. Tale minaccia risulta, però, più grave per la donna. Infatti, all’essere un dono sincero, e perciò al vivere "per" l’altro subentra il dominio: "Egli ti dominerà". Questo "dominio" indica il turbamento e la perdita della stabilità di quella fondamentale eguaglianza, che nell’"unità dei due" possiedono l’uomo e la donna: e ciò è soprattutto a sfavore della donna, mentre soltanto l’uguaglianza, risultante dalla dignità di ambedue come persone, può dare ai reciproci rapporti il carattere di un’autentica "communio personarum". Se la violazione di questa eguaglianza, che è insieme dono e diritto derivante dallo stesso Dio creatore, comporta un elemento a sfavore della donna, nello stesso tempo essa diminuisce anche la vera dignità dell’uomo. Tocchiamo qui un punto estremamente sensibile nella dimensione di quell’"ethos" che è inscritto originariamente dal Creatore già nel fatto stesso della creazione di ambedue a sua immagine e somiglianza.

Questa affermazione di Genesi (Gen 3,16) è di una grande, significativa portata. Essa implica un riferimento alla reciproca relazione dell’uomo e della donna nel matrimonio. Si tratta del desiderio nato nel clima dell’amore sponsale, che fa si che "il dono sincero di sé" da parte della donna trovi risposta e completamento in un analogo "dono" da parte del marito. Solamente in base a questo principio tutt’e due, e in particolare la donna, possono "ritrovarsi" come vera "unità dei due" secondo la dignità della persona. L’unione matrimoniale esige il rispetto e il perfezionamento della vera soggettività personale di tutti e due. La donna non può diventare "oggetto" di "dominio" e di "possesso" maschile. Ma le parole del testo biblico riguardano direttamente il peccato originale e le sue durature conseguenze nell’uomo e nella donna. Gravati dalla peccaminosità ereditaria, essi portano in sé il costante "fomite del peccato", cioè la tendenza a intaccare quell’ordine morale, che corrisponde alla stessa natura razionale ed alla dignità dell’uomo come persona. Questa tendenza si esprime nella triplice concupiscenza, che il testo apostolico precisa come concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne e superbia della vita (cf. 1Gv 2,16). Le parole della Genesi, riportate precedentemente (Gen 3,16), indicano in che modo questa triplice concupiscenza, quale "fomite del peccato", graverà sul reciproco rapporto dell’uomo e della donna.

Quelle stesse parole si riferiscono direttamente al matrimonio, ma indirettamente raggiungono i diversi campi della convivenza sociale: le situazioni in cui la donna rimane svantaggiata o discriminata per il fatto di essere donna. La verità rivelata sulla creazione dell’uomo come maschio e femmina costituisce il principale argomento contro tutte le situazioni, che, essendo oggettivamente dannose, cioè ingiuste, contengono ed esprimono l’eredità del peccato che tutti gli esseri umani portano in sé. I libri della Sacra Scrittura confermano in diversi punti l’effettiva esistenza di tali situazioni ed insieme proclamano la necessità di convertirsi, cioè di purificarsi dal male e di liberarsi dal peccato: da ciò che reca offesa all’altro, che "sminuisce" l’uomo, non solo colui a cui vien fatta offesa, ma anche colui che la reca. Tale è l’immutabile messaggio della Parola rivelata da Dio. In ciò si esprime l’"ethos" biblico sino alla fine (È appunto appellandosi alla legge divina che i Padri del IV secolo reagirono fortemente contro la discriminazione ancora in vigore, nei confronti della donna, nel costume e nella legislazione civile del loro tempo. Cfr. S. Gregorii Nazianzeni "Or.", 37, 6: PG 36, 290; S. Hieronymi "Ad Oceanum ep.", 77, 3: PL 22, 691; S. Ambrosii "De instit. virg.", III, 16: PL 16, 309; S. Augustini "Sermo 152", 2: PL 38, 735; "Sermo 392", 4: PL 39, 1711).

Ai nostri tempi la questione dei "diritti della donna" ha acquistato un nuovo significato nel vasto contesto dei diritti della persona umana. Illuminando questo programma, costantemente dichiarato e in vari modi ricordato, il messaggio biblico ed evangelico custodisce la verità sull’"unità" dei "due", cioè su quella dignità e quella vocazione che risultano dalla specifica diversità e originalità personale dell’uomo e della donna. Perciò, anche la giusta opposizione della donna di fronte a ciò che esprimono le parole bibliche: "Egli ti dominerà" (Gen 3,16) non può a nessuna condizione condurre alla "mascolinizzazione" delle donne. La donna - nel nome della liberazione dal "dominio" dell’uomo - non può tendere ad appropriarsi le caratteristiche maschili, contro la sua propria "originalità" femminile. Esiste il fondato timore che su questa via la donna non si "realizzerà", ma potrebbe invece deformare e perdere ciò che costituisce la sua essenziale ricchezza. Si tratta di una ricchezza enorme. Nella descrizione biblica l’esclamazione del primo uomo alla vista della donna creata è un’esclamazione di ammirazione e di incanto, che attraversa tutta la storia dell’uomo sulla terra.

Le risorse personali della femminilità non sono certamente minori delle risorse della mascolinità, ma sono solamente diverse. La donna dunque - come, del resto, anche l’uomo - deve intendere la sua "realizzazione" come persona, la sua dignità e vocazione sulla base di queste risorse, secondo la ricchezza della femminilità, che ella ricevette nel giorno della creazione e che eredita come espressione a lei peculiare dell’"immagine e somiglianza di Dio". Solamente su questa via può essere superata anche quell’eredità del peccato che è suggerita dalle parole della Bibbia: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà". Il superamento di questa cattiva eredità è, di generazione in generazione, compito di ogni uomo, sia donna che uomo. Infatti, in tutti i casi nei quali l’uomo è responsabile di quanto offende la dignità personale e la vocazione della donna, egli agisce contro la propria dignità personale e la propria vocazione.

Protoevangelo

11. Il libro della Genesi attesta il peccato che è il male del "principio" dell’uomo, le sue conseguenze che sin da allora gravano su tutto il genere umano, ed insieme contiene il primo annuncio della vittoria sul male, sul peccato. Lo provano le parole che leggiamo in Genesi 3,15 solitamente dette "Protoevangelo": "Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno". È significativo che l’annuncio del redentore, del salvatore del mondo, contenuto in queste parole, riguardi "la donna". Questa è nominata al primo posto nel Protoevangelo come progenitrice di colui che sarà il Redentore dell’uomo (cf.S. Irenaei "Adv. haereses", III, 23, 7: S. Ch. 211, 462-465; V, 21, 1: S. Ch. 153, 260-265; S. Epiphanii "Panar.", III, 2,78: PG 42, 728-729; S. Augustini "Enarr. in Ps. 103s." 4, 6: CCL 40, 1525). E, se la redenzione deve compiersi mediante la lotta contro il male, per mezzo dell’"inimicizia" tra la stirpe della donna e la stirpe di colui che, come "padre della menzogna" (Gv 8,44), è il primo autore del peccato nella storia dell’uomo, questa sarà anche l’inimicizia tra lui e la donna.

In queste parole si schiude la prospettiva di tutta la rivelazione, prima come preparazione al Vangelo e poi come Vangelo stesso. In questa prospettiva si congiungono sotto il nome della donna le due figure femminili: Eva e Maria.

Le parole del Protoevangelo, rilette alla luce del nuovo testamento, esprimono adeguatamente la missione della donna nella lotta salvifica del Redentore contro l’autore del male nella storia dell’uomo.

Il confronto Eva-Maria ritorna costantemente nel corso della riflessione sul deposito della fede ricevuta dalla rivelazione divina ed è uno dei temi ripresi frequentemente dai Padri, dagli scrittori ecclesiastici e dai teologi (cf. S. Iustini "Dial. cum Thryph.", 100: PG 6, 709-712; S. Irenaei "Adv. haereses", III, 22, 4: S. Ch. 211, 438-445; V, 19, 1: S. Ch. 153, 248-251; S. Cyrilli Hierosolymitani "Catech.", 12, 15: PG 33, 741; S. Ioannis Chrysostomi "In Ps. 44,7": PG 55, 193; S. Ioannis Damasceni "Hom. II in dorm. B. V. M.", 3: S. Ch. 80, 130- 135; Esychii Hierosolymitani "Sermo V in Deiparam": PG 93, 1464s.; Tertulliani "De carne Christi", 17: CCL 2, 904s.; S. Hieronymi "Epist. 22", 21: PL 22, 408; S. Augustini "Sermo 51", 2-3: PL 38, 335; "Sermo 232", 2: PL 38, 1108; Card. I. H. Newman "A Letter to the rev. E. B. Pusey", Longman, London 1865; M. I. Scheeben "Handbuch der Katholischen Dogmatik", V, 1 , 243-266; V, 2 Freiburg 1954], 306-499. Cfr. "Lumen Gentium", 56). Di solito in questo paragone emerge a prima vista una differenza, una contrapposizione. Eva, come "madre di tutti i viventi" (Gen 3,20), è testimone del "principio" biblico, in cui sono contenute le verità sulla creazione dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio e la verità sul peccato originale. Maria è testimone del nuovo "principio" e della "creatura nuova" (cf. 2Cor 5,17). Anzi, ella stessa, come la prima redenta nella storia della salvezza, è "creatura nuova": è la "piena di grazia". È difficile comprendere perché le parole del Protoevangelo mettano così fortemente in risalto la "donna" se non si ammette che in lei ha il suo inizio la nuova e definitiva alleanza di Dio con l’umanità, l’alleanza nel sangue redentore di Cristo. Essa ha inizio con una donna, la "donna", nell’annunciazione a Nazaret. Questa è l’assoluta novità del Vangelo: altre volte nell’antico testamento Dio, per intervenire nella storia del suo popolo, si era rivolto a delle donne, come alla madre di Samuele e di Sansone; ma per stipulare la sua alleanza con l’umanità si era rivolto solo a degli uomini: Noè, Abramo, Mosè. All’inizio della nuova alleanza, che deve essere eterna e irrevocabile, c’è la donna: la Vergine di Nazaret. Si tratta di un segno indicativo che "in Gesù Cristo" "non c’è più uomo né donna" (Gal 3,28). In lui la reciproca contrapposizione tra l’uomo e la donna - come retaggio del peccato originale - viene essenzialmente superata. "Tutti voi siete uno in Cristo Gesù", scriverà l’Apostolo (Gal 3,28).

Queste parole trattano di quell’originaria "unità dei due" che è legata alla creazione dell’uomo, come maschio e femmina, ad immagine e somiglianza di Dio, sul modello di quella perfettissima comunione di persone che è Dio stesso. Le parole paoline costatano che il mistero della redenzione dell’uomo in Gesù Cristo, Figlio di Maria, riprende e rinnova ciò che nel mistero della creazione corrispondeva all’eterno disegno di Dio creatore. Proprio per questo, il giorno della creazione dell’uomo come maschio e femmina "Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" (Gen 1,31). La redenzione restituisce, in un certo senso, alla sua stessa radice, il bene che è stato essenzialmente "sminuito" dal peccato e dal suo retaggio nella storia dell’uomo.

La "donna" del Protoevangelo è inserita nella prospettiva della redenzione. Il confronto Eva-Maria si può intendere anche nel senso che Maria assume in se stessa e abbraccia il mistero della "donna", il cui inizio è Eva, "la madre di tutti i viventi" (Gen 3,20): prima di tutto lo assume e lo abbraccia all’interno del mistero di Cristo - "nuovo ed ultimo Adamo" (cf. 1Cor 15,45) -, il quale ha assunto nella propria persona la natura del primo Adamo. L’essenza della nuova alleanza consiste nel fatto che il Figlio di Dio, consostanziale all’eterno Padre, diventa uomo: accoglie l’umanità nell’unità della persona divina del Verbo. Colui che opera la redenzione è al tempo stesso un vero uomo. Il mistero della redenzione del mondo presuppone che Dio-Figlio abbia assunto l’umanità come eredità di Adamo, divenendo simile a lui e ad ogni uomo in tutto, "escluso il peccato" (Eb 4,15). In questo modo egli ha "svelato anche pienamente l’uomo all’uomo e gli ha fatto nota la sua altissima vocazione", come insegna il Concilio Vaticano II ("Gaudium et Spes", 22). In un certo senso, lo ha aiutato a riscoprire "chi è l’uomo" (cf. Sal 8,5).

In tutte le generazioni, nella Tradizione della fede e della riflessione cristiana su di essa, l’accostamento Adamo-Cristo spesso si accompagna con quello Eva-Maria. Se Maria è descritta anche come "nuova Eva", quali possono essere i significati di questa analogia? Sono certamente molteplici. Occorre, in particolare, soffermarsi su quel significato che vede in Maria la rivelazione piena di tutto ciò che è compreso nella parola biblica "donna": una rivelazione commisurata al mistero della redenzione. Maria significa, in un certo senso, oltrepassare quel limite di cui parla il libro della Genesi (Gen 3,16) e riandare verso quel "principio" in cui si ritrova la "donna" così come fu voluta nella creazione, quindi nell’eterno pensiero di Dio, nel seno della Santissima Trinità. Maria è "il nuovo principio" della dignità e vocazione della donna, di tutte le donne e di ciascuna (cf. S. Ambrosii "De instit. virg.", V, 33: PL 16, 313).

Chiave per la comprensione di ciò possono essere, in particolare, le parole poste dall’evangelista sulle labbra di Maria dopo l’Annuciazione, durante la sua visita a Elisabetta: "Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente" (Lc 1,49). Esse riguardano certamente il concepimento del Figlio, che è "Figlio dell’Altissimo" (Lc 1,32), il "santo" di Dio; insieme, però, esse possono significare anche la scoperta dalla propria umanità femminile. Grandi cose ha fatto in me": questa è la scoperta di tutta la ricchezza, di tutta la risorsa personale della femminilità, di tutta l’eterna originalità della "donna", così come Dio la volle, persona per se stessa, e che si ritrova contemporaneamente "mediante un dono sincero di sé".

Questa scoperta si collega con la chiara consapevolezza del dono, dell’elargizione da parte di Dio. Il peccato già al "principio" aveva offuscato questa consapevolezza, in un certo senso l’aveva soffocata, come indicano le parole della prima tentazione ad opera del "padre della menzogna" (cf. Gen 3,1-5). All’avvento della "pienezza del tempo" (cf. Gal 4,4), mentre comincia a compiersi nella storia dell’umanità il mistero della redenzione, questa consapevolezza irrompe in tutta la sua forza nelle parole della biblica "donna" di Nazaret. In Maria, Eva riscopre quale è la vera dignità della donna, dell’umanità femminile. Questa scoperta deve continuamente giungere al cuore di ciascuna donna e dare forma alla sua vocazione e alla sua vita.

V. Gesù Cristo

"Si meravigliavano che stesse a discorrere con una donna"

12. Le parole del Protoevangelo nel libro della Genesi ci permettono di trasferirci nell’ambito del Vangelo. La redenzione dell’uomo, là annunciata, qui diventa realtà nella persona e nella missione di Gesù Cristo, nelle quali riconosciamo anche ciò che la realtà della redenzione significa per la dignità e la vocazione della donna. Questo significato ci viene maggiormente chiarito dalle parole di Cristo e da tutto il suo atteggiamento verso le donne, che è estremamente semplice e, proprio per questo, straordinario, se visto sullo sfondo del suo tempo: è un atteggiamento caratterizzato da una grande trasparenza e profondità. Diverse donne compaiono nel corso della missione di Gesù di Nazaret, e l’incontro con ciascuna di esse è una conferma della "novità di vita" evangelica, di cui già si è parlato.

È universalmente ammesso - persino da parte di chi si pone in atteggiamento critico di fronte al messaggio cristiano - che Cristo si sia fatto davanti ai suoi contemporanei promotore della vera dignità della donna e della vocazione corrispondente a questa dignità. A volte ciò provocava stupore, sorpresa, spesso al limite dello scandalo: "Si meravigliavano che stesse a discorrere con una donna" (Gv 4,27), perché questo comportamento si distingueva da quello dei suoi contemporanei. "Si meravigliavano", anzi, gli stessi discepoli di Cristo. Il fariseo, nella cui casa la donna peccatrice andò per ungere con olio profumato i piedi di Gesù, "pensò tra di sé: "Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice"" (Lc 7,39). Di sgomento ancora più grande, o addirittura di "santo sdegno", dovevano riempire gli ascoltatori soddisfatti di sé le parole di Cristo: "I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio" (Mt 21,31).

Colui che parlava ed agiva così faceva capire che "i misteri del regno" gli erano noti fino in fondo. Egli anche "sapeva quello che c’è in ogni uomo" (Gv 2,25), nel suo intimo, nel suo "cuore". Era testimone dell’eterno disegno di Dio nei riguardi dell’uomo da lui creato a sua immagine e somiglianza, come uomo e donna. Era anche consapevole fino in fondo delle conseguenze del peccato, di quel "mistero d’iniquità" operante nei cuori umani come amaro frutto dell’offuscamento dell’immagine divina. Quanto è significativo il fatto che, nel fondamentale colloquio sul matrimonio e sulla sua indissolubilità, Gesù, davanti ai suoi interlocutori, che erano per ufficio i conoscitori della legge, "gli scribi", faccia riferimento al "principio". La questione posta è quella del diritto "maschile" di "ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo" (Mt 19,3); e, dunque, anche del diritto della donna, della sua giusta posizione nel matrimonio, della sua dignità. Gli interlocutori ritengono di avere a loro favore la legislazione mosaica vigente in Israele: "Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di mandarla via" (Mt 19,7). Gesù risponde: "Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu cosi" (Mt 19,8). Gesù s’appella al "principio", alla creazione dell’uomo come maschio e femmina e a quell’ordinamento di Dio, che si fonda sul fatto che tutt’e due sono stati creati "a sua immagine e somiglianza". Perciò, quando l’uomo "lascia suo padre e sua madre" unendosi a sua moglie, così che i due diventino "una carne sola", rimane in vigore la legge che proviene da Dio stesso: "Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi" (Mt 19,6).

Il principio di questo "ethos", che sin dall’inizio è stato inscritto nella realtà della creazione, viene ora confermato da Cristo contro quella tradizione, che comportava la discriminazione della donna. In questa tradizione il maschio "dominava", non tenendo adeguatamente conto della donna e di quella dignità, che l’"ethos" della creazione ha posto alla base dei reciproci rapporti delle due persone unite in matrimonio. Questo "ethos" viene ricordato e confermato dalle parole di Cristo: è l’"ethos" del Vangelo e della redenzione.

Le donne del Vangelo

13. Scorrendo le pagine del Vangelo, passa davanti ai nostri occhi un gran numero di donne, di diversa età e di diverso stato. Incontriamo donne colpite da malattia o da sofferenze fisiche, come la donna che aveva "uno spirito che la teneva inferma, era cura e non poteva drizzarsi in nessun modo" (cf. Lc 13,11), o come la suocera di Simone che era "a letto con la febbre" (Mc 1,30), o come la donna "affetta da emorragia" (cf. Mc 5,25-34), che non poteva toccare nessuno, perché si riteneva che il suo tocco rendesse l’uomo "impuro". Ciascuna di loro fu guarita, e l’ultima, l’emorroissa, che toccò il mantello di Gesù "tra la folla" (Mc 5,27), fu da lui lodata per la grande fede: "La tua fede ti ha salvata" (Mc 5,34). C’è poi la figlia di Giairo, che Gesù fa tornare in vita, rivolgendosi a lei con tenerezza: "Fanciulla, io ti dico, alzati!" (Mc 5,41). E ancora c’è la vedova di Naim, alla quale Gesù fa tornare in vita l’unico figlio, accompagnando il suo gesto con un’espressione di affettuosa pietà: "Ne ebbe compassione e le disse: "Non piangere"" (Lc 7,13). E infine c’è la Cananea, una donna che merita da parte di Cristo parole di speciale apprezzamento per la sua fede, la sua umiltà e per quella grandezza di spirito, di cui è capace soltanto un cuore di madre: "Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri" (Mt 15,28). La donna cananea chiedeva la guarigione della figlia.

A volte le donne, che Gesù incontrava e che da lui ricevevano tante grazie, lo accompagnavano, mentre con gli apostoli peregrinava attraverso città e paesi, annunciando il Vangelo del regno di Dio; e "li assistevano con i loro beni". Il Vangelo nomina tra loro Giovanna moglie dell’amministratore di Erode, Susanna e "molte altre" (cf. Lc 8,1-3).

A volte figure di donne compaiono nelle parabole, con le quali Gesù di Nazaret illustrava ai suoi ascoltatori la verità sul regno di Dio. Così è nelle parabole della dramma perduta (cf. Lc 15,8-10), del lievito (cf. Mt 13,33), delle vergini sagge e delle vergini stolte (cf. Mt 25,1-3). Particolarmente eloquente è il racconto dell’obolo della vedova. Mentre i "ricchi... gettavano le loro offerte nel tesoro..., una vedova povera vi gettò due spiccioli". Allora Gesù disse: "Questa vedova, povera, ha messo più di tutti..., nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere" (Lc 21,1-4). In questo modo Gesù la presenta come modello per tutti e la difende, poiché, nel sistema socio-giuridico di allora, le vedove erano esseri totalmente indifesi (cf. Lc 1,1-7).

In tutto l’insegnamento di Gesù, come anche nel suo comportamento, nulla si incontra che rifletta la discriminazione, propria del suo tempo, della donna. Al contrario, le sue parole e le sue opere esprimono sempre il rispetto e l’onore dovuto alla donna. La donna ricurva viene chiamata "figlia di Abramo" (Lc 1,1- 16): mentre in tutta la Bibbia il titolo di "figlio di Abramo" è riferito solo agli uomini. Percorrendo la via dolorosa verso il Golgota, Gesù dirà alle donne: "Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me" (Lc 23,28). Questo modo di parlare delle donne e alle donne, nonché il modo di trattarle, costituisce una chiara "novità" rispetto al costume allora dominante.

Ciò diventa ancora più esplicito nei riguardi di quelle donne che l’opinione corrente indicava con disprezzo come peccatrici, pubbliche peccatrici e adultere. Ecco la Samaritana, alla quale lo stesso Gesù dice: "Infatti hai avuto cinque mariti, e quello che hai ora non è tuo marito". Ed essa, sentendo che egli conosceva i segreti della sua vita, riconosce in lui il Messia e corre ad annunciarlo ai suoi compaesani. Il dialogo, che precede questo riconoscimento, è uno dei più belli del Vangelo (cf. Gv 4,4-27).

Ecco poi una pubblica peccatrice, che, nonostante la condanna da parte dell’opinione comune, entra nella casa del fariseo per ungere con olio profumato i piedi di Gesù. All’ospite che si scandalizzava di questo fatto egli dirà di lei: "Le sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato" (cf. Lc 7,37-47).

Ecco, infine, una situazione che è forse la più eloquente: una donna sorpresa in adulterio è condotta da Gesù. Alla domanda provocatoria: "Ora Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa, tu che ne dici?", Gesù risponde: "Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei". La forza di verità, contenuta in questa risposta, è così grande che "se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani". Rimangono solo Gesù e la donna. "Dove sono? Nessuno ti ha condannata?". "Nessuno, Signore". "Neanch’io ti condanno, va’ e d’ora in poi non peccare più (cf. Gv 8,3-11).

Questi episodi costituiscono un quadro d’insieme molto trasparente. Cristo è colui che "sa che cosa c’è nell’uomo" (cf. Gv 2,25), nell’uomo e nella donna. Conosce la dignità dell’uomo, il suo pregio agli occhi di Dio. Egli stesso, il Cristo, è la conferma definitiva di questo pregio. Tutto ciò che dice e che fa ha definitivo compimento nel mistero pasquale della redenzione. L’atteggiamento di Gesù nei riguardi delle donne, che incontra lungo la strada del suo servizio messianico, è il riflesso dell’eterno disegno di Dio, che creando ciascuna di loro, la sceglie e la ama in Cristo (cf. Ef 1,1-5). Ciascuna, perciò, è quella "sola creatura in terra che Dio ha voluto per se stessa". Ciascuna dal "principio" eredita la dignità di persona proprio come donna. Gesù di Nazaret conferma questa dignità, la ricorda, la rinnova, ne fa un contenuto del Vangelo e della redenzione, per la quale è inviato nel mondo. Bisogna, dunque, introdurre nella dimensione del mistero pasquale ogni parola e ogni gesto di Cristo nei confronti della donna. In questo modo tutto si spiega compiutamente.

La donna sorpresa in adulterio

14. Gesù entra nella situazione concreta e storica della donna, situazione che è gravata dall’eredità del peccato. Questa eredità si esprime tra l’altro nel costume che discrimina la donna in favore dell’uomo ed è radicata anche dentro di lei. Da questo punto di vista l’episodio della donna "sorpresa in adulterio" (cf. Gv 8,3-11) sembra essere particolarmente eloquente. Alla fine Gesù le dice: "Non peccare più", ma prima egli provoca la consapevolezza del peccato negli uomini che l’accusano per lapidarla, manifestando così quella sua profonda capacità di vedere secondo verità le coscienze e le opere umane. Gesù sembra dire agli accusatori: questa donna con tutto il suo peccato non è forse anche, e prima di tutto, una conferma delle vostre trasgressioni, della vostra ingiustizia "maschile", dei vostri abusi?

È questa una verità valida per tutto il genere umano. Il fatto riportato nel Vangelo di Giovanni si può ripresentare in innumerevoli situazioni analoghe in ogni epoca della storia. Una donna viene lasciata sola, è esposta all’opinione pubblica con "il suo peccato", mentre dietro questo "suo" peccato si cela un uomo come peccatore, colpevole per il "peccato altrui", anzi corresponsabile di esso. Eppure, il suo peccato sfugge all’attenzione, passa sotto silenzio: appare non responsabile per il "peccato altrui"! A volte si fa addirittura accusatore, come nel caso descritto, dimentico del proprio peccato. Quante volte, in modo simile, la donna paga per il proprio peccato (può darsi che sia lei, in certi casi, colpevole per il peccato dell’uomo, come "peccato altrui"), ma paga essa sola, e paga da sola! Quante volte essa rimane abbandonata con la sua maternità, quando l’uomo, padre del bambino, non vuole accettarne la responsabilità? E accanto alle numerose "madri nubili" delle nostre società, bisogna prendere in considerazione anche tutte quelle che molto spesso, subendo varie pressioni, pure da parte dell’uomo colpevole, "si liberano" del bambino prima della nascita. "Si liberano": ma a quale prezzo? L’odierna opinione pubblica tenta in diversi modi di "annullare" il male di questo peccato; normalmente, però, la coscienza della donna non riesce a dimenticare di aver tolto la vita al proprio figlio, perché essa non riesce a cancellare la disponibilità ad accogliere la vita, inscritta nel suo ethos dal "principio".

È significativo l’atteggiamento di Gesù nel fatto descritto in Giovanni (Gv 8,3-11). Forse in pochi momenti come in questo si manifesta la sua potenza - la potenza della verità - nei riguardi delle coscienze umane. Gesù è tranquillo, raccolto, pensieroso. La sua consapevolezza, qui come nel colloquio con i farisei (cf. Mt 19,3-9), non è forse in contatto col mistero del "principio", quando l’uomo fu creato maschio e femmina, e la donna fu affidata all’uomo con la sua diversità femminile, ed anche con la sua potenziale maternità? Anche l’uomo fu affidato dal Creatore alla donna. Furono reciprocamente affidati l’uno all’altro come persone fatte ad immagine e somiglianza di Dio stesso. In tale affidamento è la misura dell’amore, dell’amore sponsale: per diventare "un dono sincero" l’uno per l’altro, bisogna che ciascuno dei due si senta responsabile del dono. Questa misura è destinata a tutt’e due - uomo e donna - sin dal "principio". Dopo il peccato originale operano nell’uomo e nella donna forze opposte, a causa della triplice concupiscenza, "fomite del peccato". Esse agiscono nell’uomo dal profondo. Per questo Gesù nel discorso della montagna dirà: "Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,28). Queste parole, rivolte direttamente all’uomo, mostrano la verità fondamentale della sua responsabilità nei confronti della donna: per la sua dignità, per la sua maternità, per la sua vocazione. Ma esse riguardano indirettamente anche la donna. Cristo faceva tutto il possibile perché - nell’ambito dei costumi e dei rapporti sociali di quel tempo - le donne ritrovassero nel suo insegnamento e nel suo agire la propria soggettività e dignità. In base all’eterna "unità dei due", questa dignità dipende direttamente dalla stessa donna, quale soggetto per sé responsabile, e viene nello stesso tempo "data come compito" all’uomo. Coerentemente Cristo si appella alla responsabilità dell’uomo. Nella presente meditazione sulla dignità e vocazione della donna, oggi bisogna riferirsi necessariamente all’impostazione che incontriamo nel Vangelo. La dignità della donna e la sua vocazione - come, del resto, quelle dell’uomo - trovano la loro eterna sorgente nel cuore di Dio e, nelle condizioni temporali dell’esistenza umana, sono strettamente connesse con l’"unità dei due". Perciò ciascun uomo deve guardare dentro di sé e vedere se colei che gli è affidata come sorella nella stessa umanità, come sposa, non sia diventata nel suo cuore oggetto di adulterio; se colei che, in vari modi, è il co-soggetto della sua esistenza nel mondo, non sia diventata per lui "oggetto": oggetto di godimento, di sfruttamento.

Custodi del messaggio evangelico

15. Il modo di agire di Cristo, il Vangelo delle sue opere e delle sue parole, è una coerente protesta contro ciò che offende la dignità della donna. Perciò le donne che si trovano vicine a Cristo riscoprono se stesse nella verità che egli "insegna" e che egli "fa", anche quando questa è la verità sulla loro "peccaminosità". Da questa verità esse si sentono "liberate", restituite a se stesse: si sentono amate di "amore eterno", di un amore che trova diretta espressione in Cristo stesso. Nel raggio d’azione di Cristo la loro posizione sociale si trasforma. Sentono che Gesù parla con loro di questioni delle quali, a quei tempi, non si discuteva con una donna. L’esempio, in un certo senso più significativo al riguardo, è quello della Samaritana presso il pozzo di Sichem. Gesù - il quale sa che è peccatrice, e di questo le parla - discorre con lei dei più profondi misteri di Dio. Le parla del dono infinito dell’amore di Dio, che è come "sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna" (Gv 4,14). Le parla di Dio che è Spirito e della vera adorazione, che il Padre ha diritto di ricevere in spirito e verità (cf. Gv 4,24). Le rivela, infine, di essere il Messia promesso ad Israele (cf. Gv 4,26).

È questo un evento senza precedenti: quella donna, e per di più "donna-peccatrice", diventa "discepola" di Cristo; anzi, una volta istruita, annuncia il Cristo agli abitanti di Samaria, così che essi pure lo accolgono con fede (cf. Gv 4,39-42). Un evento senza precedenti, se si tiene presente il modo comune di trattare le donne proprio di quanti insegnavano in Israele, mentre nel modo di agire di Gesù di Nazaret un simile evento si fa normale. A questo proposito, meritano un particolare ricordo anche le sorelle di Lazzaro: "Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella Maria e a Lazzaro" (cf. Gv 11,5). Maria "ascoltava la parola" di Gesù: quando va a trovarli in casa, egli stesso definisce il comportamento di Maria come "la parte migliore" rispetto alla preoccupazione di Marta per le faccende domestiche (cf. Lc 10,38-42). In un’altra occasione anche Marta - dopo la morte di Lazzaro - diventa interlocutrice di Cristo, ed il colloquio riguarda le più profonde verità della rivelazione e della fede. "Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto" - "Tuo fratello risusciterà" - "So che risusciterà nell’ultimo giorno". Le disse Gesù: "Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?" - "Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, Figlio di Dio, che deve venire al mondo" (Gv 11,21-27). Dopo questa professione di fede Gesù risuscita Lazzaro. Anche il colloquio con Marta è uno dei più importanti del Vangelo.

Cristo parla con le donne delle cose di Dio, ed esse le comprendono: un’autentica risonanza della mente e del cuore, una risposta di fede. E Gesù per questa risposta spiccatamente "femminile" esprime apprezzamento e ammirazione, come nel caso della donna cananea (cf. Mt 15,28). A volte egli propone come esempio questa fede viva, permeata dall’amore: insegna, dunque, prendendo spunto da questa risposta femminile della mente e del cuore. Così avviene nel caso di quella donna "peccatrice" il cui modo di agire, in casa del fariseo, è assunto da Gesù come punto di partenza per spiegare la verità sulla remissione dei peccati: "Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco" (Lc 7,47). In occasione di un’altra unzione, Gesù prende la difesa, davanti ai discepoli e in particolare davanti a Giuda, della donna e della sua azione: "Perché infastidite questa donna? Essa ha compiuto una azione buona verso di me... Versando questo olio sul mio corpo lo ha fatto in vista della sepoltura. In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo Vangelo, nel mondo intero, sarà detto ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei" (Mt 26,6-13).

In realtà, i Vangeli non solo descrivono ciò che ha compiuto quella donna a Betania, nella casa di Simone il lebbroso, ma mettono anche in rilievo come, al momento della prova definitiva e determinante per tutta la missione messianica di Gesù di Nazaret, ai piedi della croce, si siano trovate, prime fra tutti, le donne. Degli apostoli solo Giovanni è rimasto fedele. Le donne, invece, sono molte. Non solo c’erano la Madre di Cristo e la "sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala" (Gv 19,25), ma "molte donne che stavano ad osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo" (Mt 27,55). Come si vede, in questa che fu la più dura prova della fede e della fedeltà, le donne si sono dimostrate più forti degli apostoli: in questi momenti di pericolo quelle che "amano molto" riescono a vincere la paura. Prima c’erano state le donne sulla via dolorosa, "che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui" (Lc 23,27). Prima ancora c’era stata la moglie di Pilato, che aveva avvertito il proprio marito: "Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua" (Mt 27,19).

Prime testimoni della risurrezione

16. Sin dall’inizio della missione di Cristo la donna mostra verso di lui e verso il suo mistero una speciale sensibilità che corrisponde a una caratteristica della sua femminilità. Occorre dire, inoltre, che ciò trova particolare conferma in relazione al mistero pasquale, non solo al momento della croce, ma anche all’alba della risurrezione. Le donne sono le prime presso la tomba. Sono le prime a trovarla vuota. Sono le prime ad udire: "Non è qui. È risorto, come aveva detto" (Mt 28,6). Sono le prime a stringergli i piedi (Mt 28,9). Sono anche chiamate per prime ad annunciare questa verità agli apostoli (cf. Mt 28,1-10; Lc 24,8-11). Il Vangelo di Giovanni (cf. anche Mc 16,9) mette in rilievo il ruolo particolare di Maria di Magdala. È la prima ad incontrare il Cristo risorto. All’inizio crede che sia il custode del giardino: lo riconosce soltanto quando egli la chiama per nome. "Gesù le disse: "Marià". Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: "Rabbuni!", che significa: "Maestro". Gesù le disse: "Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre, ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Maria di Magdala andò subito ad annunciare ai discepoli: "Ho visto il Signore" e anche ciò che le aveva detto" (Gv 20,16-18).

Per questo essa venne anche chiamata "l’ apostola degli apostoli" (Rabani Mauri "De vita beatae Mariae Magdalenae", XXVII: "Salvator... ascensionis suae eam ad apostolos istituit apostolam" . "Facta est Apostolorum apostola, per hoc quod ei committitur ut resurrectione dominicam discipulis annuntiet": In Ioannem Evangelistam expositio, C. XX. L. III, 6 , X, 629).

Maria di Magdala fu la testimone oculare del Cristo risorto prima degli apostoli e, per tale ragione, fu anche la prima a rendergli testimonianza davanti agli apostoli. Questo evento, in un certo senso, corona tutto ciò che è stato detto in precedenza sull’affidamento delle verità divine da parte di Cristo alle donne, al pari degli uomini. Si può dire che in questo modo si sono compiute le parole del profeta: "Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo, e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie" (Gl 3,1). Nel cinquantesimo giorno dopo la risurrezione di Cristo, queste parole trovano ancora una volta conferma nel cenacolo di Gerusalemme, durante la discesa dello Spirito Santo, il Paraclito (cf. At 2,17).

Quanto è stato detto finora circa l’atteggiamento di Cristo nei riguardi delle donne conferma e chiarisce nello Spirito Santo la verità sulla eguaglianza dei due, uomo e donna. Si deve parlare di un’essenziale "parità": poiché tutt’e due - la donna come l’uomo - sono creati ad immagine e somiglianza di Dio, tutt’e due sono suscettibili in eguale misura dell’elargizione della verità divina e dell’amore nello Spirito Santo. Ambedue accolgono le sue "visite" salvifiche e santificanti.

Il fatto di essere uomo o donna non comporta qui nessuna limitazione, così come non limita per nulla quella azione salvifica e santificante dello Spirito nell’uomo il fatto di essere giudeo o greco, schiavo o libero, secondo le ben note parole dell’Apostolo: "Poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28). Questa unità non annulla la diversità. Lo Spirito Santo, che opera una tale unità nell’ordine soprannaturale della grazia santificante, contribuisce in egual misura al fatto che "diventano profeti i vostri figli" e che lo diventano anche "le vostre figlie". "Profetizzare" significa esprimere con la parola e con la vita "le grandi opere di Dio" (cf. At 2,11), conservando la verità e l’originalità di ogni persona, sia donna che uomo. L’"eguaglianza" evangelica, la "parità" della donna e dell’uomo nei riguardi delle "grandi opere di Dio", quale si è manifestata in modo così limpido nelle opere e nelle parole di Gesù di Nazaret, costituisce la base più evidente della dignità e della vocazione della donna nella Chiesa e nel mondo. Ogni vocazione ha un senso profondamente personale e profetico. Nella vocazione così intesa ciò che è personalmente femminile raggiunge una nuova misura: è la misura delle "grandi opere di Dio", delle quali la donna diventa soggetto vivente ed insostituibile testimone.

VI. Maternità-Verginità

Due dimensioni della vocazione della donna

17. Dobbiamo ora rivolgere la nostra meditazione alla verginità e alla maternità, come due dimensioni particolari nella realizzazione della personalità femminile. Alla luce del Vangelo, esse acquistano la pienezza del loro senso e valore in Maria, che come vergine divenne Madre del Figlio di Dio. Queste due dimensioni della vocazione femminile si sono in lei incontrate e congiunte in modo eccezionale, così che l’una non ha escluso l’altra, ma l’ha mirabilmente completata. La descrizione dell’annunciazione nel Vangelo di Luca indica chiaramente che ciò sembrava impossibile alla Vergine di Nazaret. Quando si sente dire: "Concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù", ella subito chiede: "Come avverrà questo? Non conosco uomo" (Lc 1,33-34). Nell’ordine comune delle cose la maternità è frutto della reciproca "conoscenza" dell’uomo e della donna nell’unione matrimoniale. Maria, ferma nel proposito della propria verginità, pone la domanda al divino messaggero, e ne ottiene la spiegazione: "Lo Spirito Santo scenderà su di te"; la tua maternità non sarà conseguenza di una "conoscenza" matrimoniale, ma sarà opera dello Spirito Santo, e la "potenza dell’Altissimo" stenderà la sua "ombra" sul mistero del concepimento e della nascita del Figlio. Come Figlio dell’Altissimo egli ti viene dato esclusivamente da Dio, nel modo conosciuto da Dio. Maria, dunque, ha mantenuto il suo verginale "Non conosco uomo" (cf. Lc 1,34) e, al tempo stesso, è diventata Madre. La verginità e la maternità coesistono in lei: non si escludono reciprocamente e non si pongono dei limiti. Anzi, la persona della Madre di Dio aiuta tutti - specialmente tutte le donne - a scorgere in quale modo queste due dimensioni e queste due strade della vocazione della donna, come persona, si spieghino e si completino reciprocamente.

Maternità

18. Per prender parte a questo "scorgere", occorre ancora una volta approfondire la verità sulla persona umana, ricordata dal Concilio Vaticano II. L’uomo - sia il maschio che la femmina - è l’unico essere nel mondo che Dio abbia voluto per se stesso: è una persona, è un soggetto che decide di sé. Al tempo stesso, l’uomo "non può trovarsi pienamente se non mediante un dono sincero di sé" ("Gaudium et Spes", 24). È stato già detto che questa descrizione, anzi, in un certo senso, questa definizione della persona corrisponde alla fondamentale verità biblica circa la creazione dell’uomo - uomo e donna - a immagine e somiglianza di Dio. Questa non è un’interpretazione puramente teorica, o una definizione astratta, poiché essa indica in modo essenziale il senso dell’essere uomo, mettendo in rilievo il valore del dono di sé, della persona. In questa visione della persona è contenuta anche l’essenza di quell’"ethos" che, collegandosi alla verità della creazione, sarà sviluppato pienamente dai libri della rivelazione e, in particolare, dai Vangeli.

Questa verità sulla persona apre, inoltre, la strada ad una piena comprensione della maternità della donna. La maternità è frutto dell’unione matrimoniale di un uomo e di una donna, di quella "conoscenza" biblica che corrisponde all’"unione dei due nella carne" (cf. Gen 2,24), e in questo modo essa realizza - da parte della donna - uno speciale "dono di sé" come espressione di quell’amore sponsale col quale gli sposi si uniscono tra loro così strettamente da costituire "una sola carne". La "conoscenza" biblica si realizza secondo la verità della persona solo quando il reciproco dono di sé non viene deformato né dal desiderio dell’uomo di diventare "padrone" della sua sposa ("Egli ti dominerà"), né dal chiudersi della donna nei propri istinti ("Verso tuo marito sarà il tuo istinto") (cf. Gen 3,16).

Il reciproco dono della persona nel matrimonio si apre verso il dono di una nuova vita, di un nuovo uomo, che è anche persona a somiglianza dei suoi genitori. La maternità implica sin dall’inizio una speciale apertura verso la nuova persona: e proprio questa è la "parte" della donna. In tale apertura, nel concepire e nel dare alla luce il figlio, la donna "si ritrova mediante un dono sincero di sé". Il dono dell’interiore disponibilità nell’accettare e nel mettere al mondo il figlio è collegato all’unione matrimoniale, che - come è stato detto - dovrebbe costituire un momento particolare del reciproco dono di sé da parte e della donna e dell’uomo. Il concepimento e la nascita del nuovo uomo, secondo la Bibbia, sono accompagnati dalle seguenti parole della donna-genitrice: "Ho acquistato un uomo dal Signore" (cf. Gen 4,1). L’esclamazione di Eva, "madre di tutti i viventi", si ripete ogni volta che viene al mondo un nuovo uomo ed esprime la gioia e la consapevolezza della donna di partecipare al grande mistero dell’eterno generare. Gli sposi partecipano della potenza creatrice di Dio!

La maternità della donna, nel periodo tra il concepimento e la nascita del bambino, è un processo bio-fisiologico e psichico che ai nostri giorni è conosciuto meglio che non in passato ed è oggetto di molti studi approfonditi. L’analisi scientifica conferma pienamente come la stessa costituzione fisica della donna e il suo organismo contengano in sé la disposizione naturale alla maternità, al concepimento, alla gravidanza e al parto del bambino, in conseguenza dell’unione matrimoniale con l’uomo. Al tempo stesso, tutto ciò corrisponde anche alla struttura psicofisica della donna. Quanto i diversi rami della scienza dicono su questo argomento è importante ed utile, purché non si limitino ad un’interpretazione esclusivamente bio-fisiologica della donna e della maternità. Una simile immagine "ridotta" andrebbe di pari passo con la concezione materialistica dell’uomo e del mondo. In tal caso, andrebbe purtroppo smarrito ciò che è veramente essenziale: la maternità, come fatto e fenomeno umano, si spiega pienamente in base alla verità sulla persona. La maternità è legata con la struttura personale dell’essere donna e con la dimensione personale del dono: "Ho acquistato un uomo dal Signore" (Gen 4,1). Il Creatore fa ai genitori il dono del figlio. Da parte della donna, questo fatto è collegato in modo speciale ad "un dono sincero di sé". Le parole di Maria all’annunciazione: "Avvenga di me quello che hai detto" significano la disponibilità della donna al dono di sé e all’accoglienza della nuova vita.

Nella maternità della donna, unita alla paternità dell’uomo, si riflette l’eterno mistero del generare che è in Dio stesso, in Dio uno e trino (cf. Ef 3,14-15). L’umano generare è comune all’uomo e alla donna. E, se la donna, guidata dall’amore verso il marito, dirà: "Ti ho dato un figlio", le sue parole nello stesso tempo significano: "Questo è nostro figlio". Eppure, anche se tutti e due insieme sono genitori del loro bambino, la maternità della donna costituisce una "parte" speciale di questo commune essere genitori, nonché la parte più impegnativa. L’essere genitori - anche se appartiene ad ambedue - si realizza molto più nella donna, specialmente nel periodo prenatale. È la donna a "pagare" direttamente per questo comune generare, che letteralmente assorbe le energie del suo corpo e della sua anima. Bisogna, pertanto, che l’uomo sia pienamente consapevole di contrarre, in questo loro comune essere genitori, uno speciale debito verso la donna. Nessun programma di "parità di diritti" delle donne e degli uomini è valido, se non ti tiene presente questo in un modo del tutto essenziale.

La maternità contiene in sé una speciale comunione col mistero della vita, che matura nel seno della donna: la madre ammira questo mistero, con singolare intuizione "comprende" quello che sta avvenendo dentro di lei. Alla luce del "principio" la madre accetta ed ama il figlio che porta in grembo come una persona. Questo modo unico di contatto col nuovo uomo che si sta formando crea, a sua volta, un atteggiamento verso l’uomo - non solo verso il proprio figlio, ma verso l’uomo in genere -, tale da caratterizzare profondamente tutta la personalità della donna. Si ritiene comunemente che la donna più dell’uomo sia capace di attenzione verso la persona concreta e che la maternità sviluppi ancora di più questa disposizione. L’uomo - sia pure con tutta la sua partecipazione all’essere genitore - si trova sempre "all’esterno" del processo della gravidanza e della nascita del bambino, e deve per tanti aspetti imparare dalla madre la sua propria "paternità". Questo - si può dire - fa parte del normale dinamismo umano dell’essere genitori, anche quando si tratta delle tappe successive alla nascita del bambino, specialmente nel primo periodo. L’educazione del figlio, globalmente intesa, dovrebbe contenere in sé il duplice contributo dei genitori: il contributo materno e paterno. Tuttavia, quello materno è decisivo per le basi di una nuova personalità umana.

La maternità in relazione all’alleanza

19. Ritorna nelle nostre riflessioni il paradigma biblico della "donna", assunto dal Protoevangelo. La "donna", come genitrice e come prima educatrice dell’uomo (l’educazione è la dimensione spirituale dell’essere genitori), possiede una specifica precedenza sull’uomo. Se la sua maternità (innanzitutto in senso biofisico) dipende dall’uomo, essa imprime un "segno" essenziale su tutto il processo del far crescere come persona i nuovi figli e figlie della stirpe umana. La maternità della donna in senso biofisico manifesta un’apparente passività: il processo della formazione di una nuova vita "avviene" in lei, nel suo organismo, tuttavia avviene coinvolgendolo in profondità. Nello stesso tempo, la maternità in senso personale-etico esprime una creatività molto importante della donna, dalla quale dipende in misura principale l’umanità stessa del nuovo essere umano. Anche in questo senso la maternità della donna manifesta una speciale chiamata ed una speciale sfida, che si rivolgono all’uomo e alla sua paternità.

Il paradigma biblico della "donna" culmina nella maternità della Madre di Dio. Le parole del Protoevangelo: "Porrò inimicizia tra te e la donna" trovano qui una nuova conferma. Ecco che Dio in lei, nel suo "fiat" materno ("Avvenga di me"), dà inizio ad una nuova alleanza con l’umanità. È questa l’alleanza eterna e definitiva in Cristo, nel suo corpo e sangue, nella sua croce e risurrezione. Proprio perché questa alleanza deve compiersi "nella came e nel sangue" il suo inizio è nella genitrice. Il "Figlio dell’Altissimo" solamente grazie a lei e al suo verginale e materno "fiat" può dire al Padre: "Un corpo mi hai preparato. Ecco io vengo per fare, o Dio la tua volontà" (Eb 10,5.7).

Nell’ordine dell’alleanza, che Dio ha stretto con l’uomo in Gesù Cristo, è stata introdotta la maternità della donna. E ogni volta, tutte le volte che la maternità della donna si ripete nella storia umana sulla terra, rimane ormai sempre in relazione all’alleanza che Dio ha stabilito col genere umano mediante la maternità della Madre di Dio.

Questa realtà non è forse dimostrata dalla risposta che Gesù dà al grido di quella donna in mezzo alla folla, che lo benediceva per la maternità della sua Genitrice: "Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte"? Gesù rispose: "Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano" (Lc 11,27-28). Gesù conferma il senso della maternità in riferimento al corpo; nello stesso tempo, però, ne indica un senso ancor più profondo, che si collega all’ordine dello spirito: essa è segno dell’alleanza con Dio che "è spirito" (Gv 4,24). Tale è soprattutto la maternità della Madre di Dio. Anche la maternità di ogni donna, intesa alla luce del Vangelo, non è solo "della carne e del sangue": in essa si esprime il profondo "ascolto della Parola del Dio vivo" e la disponibilità a "custodire" questa Parola, che è "parola di vita eterna" (cf. Gv 6,68). Sono, infatti, proprio i nati dalle madri terrene, i figli e le figlie del genere umano, a ricevere dal Figlio di Dio il potere di diventare "figli di Dio" (Gv 1,12). La dimensione della nuova alleanza nel sangue di Cristo penetra l’umano generare rendendolo realtà e compito di "creature nuove" (2Cor 5,17). La maternità della donna, dal punto di vista della storia di ogni uomo, è la prima soglia, il cui superamento condiziona anche "la rivelazione dei figli di Dio" (cf. Rm 8,19).

"La donna quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione, per la gioia che è venuto al mondo un uomo" (Gv 16,21). L parole di Cristo si riferiscono, nella loro prima parte, a quei "dolori del parto" che appartengono al retaggio del peccato originale; nello stesso tempo, però, indicano il legame che la maternità della donna ha col mistero pasquale. In questo mistero, infatti, è contenuto anche il dolore della Madre sotto la croce - della Madre che mediante la fede partecipa allo sconvolgente mistero della "spogliazione" del proprio Figlio. "È questa forse la più profonda "kénosi" della fede nella storia dell’umanità" ("Redemptoris Mater", 18).

Contemplando questa Madre, alla quale "una spada ha trafitto il cuore" (Lc 2,35), il pensiero si volge a tutte le donne sofferenti nel mondo, sofferenti in senso sia fisico che morale. In questa sofferenza ha una parte la sensibilità propria della donna; anche se essa spesso sa resistere alla sofferenza più dell’uomo. È difficile enumerare queste sofferenze, è difficile chiamarle tutte per nome: si possono ricordare la premura materna per i figli, specialmente quando sono ammalati o prendono una cattiva strada, la morte delle persone più care, la solitudine delle madri dimenticate dai figli adulti o quella delle vedove, le sofferenze delle donne che da sole lottano per sopravvivere e delle donne che hanno subito un torto o vengono sfruttate. Ci sono, infine, le sofferenze delle coscienze a causa del peccato, che ha colpito la dignità umana o materna della donna, le ferite delle coscienze che non si rimarginano facilmente. Anche con queste sofferenze bisogna porsi sotto la croce di Cristo.

Ma le parole del Vangelo sulla donna che prova afflizione, quando per lei giunge l’ora di dare alla luce il figlio, esprimono subito dopo la gioia: e "la gioia che è venuto al mondo un uomo". Ed anch’essa è riferita al mistero pasquale, ossia a quella gioia che viene comunicata agli apostoli il giorno della risurrezione di Cristo: "Così anche voi, ora, siete nella tristezza" (queste parole furono pronunciate il giorno prima della passione); "ma vi vedrò di nuovo, e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia" (Gv 16,22-23).

 La verginità per il regno

20. Nell’insegnamento di Cristo la maternità è collegata alla verginità, ma è anche distinta da essa. Al riguardo, rimane fondamentale la frase detta da Gesù ed inserita nel colloquio sull’indissolubilità del matrimonio. Sentita la risposta data ai farisei, i discepoli dicono a Cristo: "Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi" (Mt 19,10). Indipendentemente dal senso che quel "non conviene" aveva allora nella mente dei discepoli, Cristo prende lo spunto dalla loro errata opinione per istruirli sul valore del celibato: egli distingue il celibato per effetto di deficienze naturali, anche se causate dall’uomo, dal "celibato per il regno dei cieli". Cristo dice: "E vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli" (Mt 19,12). Si tratta, dunque, di un celibato libero, scelto a motivo del regno dei cieli, in considerazione della vocazione escatologica dell’uomo all’unione con Dio. Egli poi aggiunge: "Chi può capire, capisca", e queste parole sono una ripresa di ciò che aveva detto all’inizio del discorso sul celibato (cf. Mt 19,11). Pertanto il celibato per il regno dei cieli è il frutto non solo di una libera scelta da parte dell’uomo, ma anche di una speciale grazia da parte di Dio, che chiama una determinata persona a vivere il celibato. Se questo è un segno speciale del regno di Dio che deve venire, nello stesso tempo serve a dedicare in modo esclusivo tutte le energie dell’anima e del corpo, durante la vita temporale, per il regno escatologico.

Le parole di Gesù sono la risposta alla domanda dei discepoli. Esse sono rivolte direttamente a coloro che ponevano la domanda: in questo caso erano uomini. Nondimeno, la risposta di Cristo, in se stessa, ha valore sia per gli uomini che per le donne. In questo contesto essa indica l’ideale evangelico della verginità, ideale che costituisce una chiara "novità" in rapporto alla tradizione dell’antico testamento. Questa tradizione certamente si collegava in qualche modo anche con l’attesa di Israele, e specialmente della donna di Israele, per la venuta del Messia, che doveva essere della "stirpe della donna". In effetti l’ideale del celibato e della verginità per una maggiore vicinanza a Dio non era del tutto alieno in certi ambienti giudaici, soprattutto nei tempi immediatamente precedenti alla venuta di Gesù. Tuttavia il celibato per il regno, ossia la verginità, è una novità innegabile connessa con l’incarnazione di Dio.

Dal momento della venuta di Cristo l’attesa del Popolo di Dio deve volgersi verso il regno escatologico che viene e nel quale egli stesso deve introdurre "il nuovo Israele". Per una simile svolta e cambiamento di valori, infatti, è indispensabile una nuova consapevolezza della fede. Ciò Cristo sottolinea due volte: "Chi può capire, capisca". Ciò comprendono solo "coloro ai quali e stato concesso" (cf. Mt 19,11). Maria è la prima persona nella quale si è manifestata questa nuova consapevolezza, poiché chiede all’angelo: "Come avverrà questo? Non conosco uomo" (Lc 1,34). Anche se è "promessa sposa di un uomo, chiamato Giuseppe" (Lc 1,27), ella è ferma nel proposito della verginità, e la maternità che in lei si compie proviene esclusivamente dalla "potenza dell’Altissimo", è frutto della discesa dello Spirito Santo su di lei (cf. Lc 1,35). Questa maternità divina, dunque, è la risposta del tutto imprevedibile all’attesa umana della donna in Israele: essa giunge a Maria come dono di Dio stesso.

Questo dono è divenuto l’inizio e il prototipo di una nuova attesa di tutti gli uomini a misura dell’eterna alleanza, a misura della nuova e definitiva promessa di Dio: segno della speranza escatologica.

Sulla base del Vangelo si è sviluppato e approfondito il senso della verginità come vocazione anche per la donna, in cui trova conferma la sua dignità a somiglianza della Vergine di Nazaret. Il Vangelo propone l’ideale della consacrazione della persona, che significa la sua dedizione esclusiva a Dio in virtù dei consigli evangelici, in particolare quelli della castità, povertà ed obbedienza. La loro perfetta incarnazione è Gesù Cristo stesso. Chi desidera seguirlo in modo radicale sceglie di condurre la vita secondo questi consigli. Essi si distinguono dai comandamenti ed indicano al cristiano la via della radicalità evangelica. Sin dagli inizi del cristianesimo su questa via s’incamminano uomini e donne, dal momento che l’ideale evangelico viene rivolto all’essere umano senza alcuna differenza di sesso.

In questo più ampio contesto occorre considerare la verginità anche come una via per la donna, una via sulla quale, in un modo diverso dal matrimonio, essa realizza la sua personalità di donna. Per comprendere questa via bisogna ancora una volta ricorrere all’idea fondamentale dell’antropologia cristiana. Nella verginità liberamente scelta la donna conferma se stessa come persona, ossia come essere che il Creatore sin dall’inizio ha voluto per se stesso (cf. "Gaudium et Spes", 24), e contemporaneamente realizza il valore personale della propria femminilità, diventando "un dono sincero" per Dio che si è rivelato in Cristo, un dono per Cristo redentore dell’uomo e sposo delle anime: un dono "sponsale". Non si può comprendere rettamente la verginità, la consacrazione della donna nella verginità, senza far ricorso all’amore sponsale: è, infatti, in un simile amore che la persona diventa un dono per l’altro (cf. "Allocutiones diebus Mercurii habitae", 7 et 21 apr. 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V, 1 [1982] 1126-1131 et 1175-1179). Del resto analogamente, è da intendere la consacrazione dell’uomo nel celibato sacerdotale oppure nello stato religioso.

La naturale disposizione sponsale della personalità femminile trova una risposta nella verginità così intesa. La donna, chiamata fin dal "principio" ad essere amata e ad amare, trova nella vocazione alla verginità, anzitutto, il Cristo come il redentore che "amò sino alla fine" per mezzo del dono totale di sé, ed essa risponde a questo dono con un "dono sincero" di tutta la sua vita. Ella si dona, dunque, allo sposo divino, e questa sua donazione personale tende all’unione, che ha un carattere propriamente spirituale: mediante l’azione dello Spirito Santo diventa "un solo spirito" con Cristo-sposo (1Cor 6,17).

È questo l’ideale evangelico della verginità, in cui si realizzano in una forma speciale sia la dignità che la vocazione della donna. Nella verginità così intesa si esprime il cosiddetto radicalismo del Vangelo: lasciare tutto e seguire Cristo (cf. Mt 19,27). Ciò non può esser paragonato al semplice rimanere nubili o celibi, perché la verginità non si restringe al solo "no", ma contiene un profondo "si" nell’ordine sponsale: il donarsi per amore in modo totale ed indiviso.

La maternità secondo lo spirito

21. La verginità nel senso evangelico comporta la rinuncia al matrimonio, e dunque anche alla maternità fisica. Tuttavia, la rinuncia a questo tipo di maternità, che può anche comportare un grande sacrificio per il cuore della donna, apre all’esperienza di una maternità di diverso senso: la maternità "secondo lo spirito" (cf. Rm 8,4). La verginità, infatti, non priva la donna delle sue prerogative. La maternità spirituale riveste molteplici forme. Nella vita delle donne consacrate che vivono, ad esempio, secondo il carisma e le regole dei diversi istituti di carattere apostolico, essa si potrà esprimere come sollecitudine per gli uomini, specialmente per i più bisognosi: gli ammalati, i portatori di handicap, gli abbandonati, gli orfani, gli anziani, i bambini, la gioventù, i carcerati e, in genere, gli emarginati. Una donna consacrata ritrova in tal modo lo sposo, diverso e unico in tutti e in ciascuno, secondo le sue stesse parole: "Ogni volte che avete fatto queste cose a uno solo di questi..., l’avete fatto a me" (Mt 25,40). L’amore sponsale comporta sempre una singolare disponibilità ad essere riversato su quanti si trovano nel raggio della sua azione. Nel matrimonio questa disponibilità, pur essendo aperta a tutti, consiste in particolare nell’amore che i genitori donano ai figli. Nella verginità questa disponibilità è aperta a tutti gli uomini, abbracciati dall’amore di Cristo sposo. In rapporto a Cristo, che è il redentore di tutti e di ciascuno, l’amore sponsale, il cui potenziale materno si nasconde nel cuore della donna-sposa verginale, è anche disposto ad aprirsi a tutti e a ciascuno. Ciò trova una conferma nelle comunità religiose di vita apostolica, ed una diversa conferma in quelle di vita contemplativa o di clausura. Esistono inoltre altre forme di vocazione alla verginità per il regno, come, per esempio, gli istituti secolari oppure le comunità di consacrati che fioriscono all’interno di movimenti, gruppi e associazioni: in tutte queste realtà la stessa verità sulla maternità spirituale delle persone che vivono nella verginità trova una multiforme conferma. Comunque, non si tratta solamente di forme comunitarie, ma anche di forme extra-comunitarie. In definitiva la verginità, come vocazione della donna, è sempre vocazione di una persona, di una concreta ed irripetibile persona. Dunque, profondamente personale è anche la maternità spirituale che si fa sentire in questa vocazione.

Su questa base si verifica anche uno specifico avvicinamento tra la verginità della donna non sposata e la maternità della donna sposata. Un tale avvicinamento muove non solo dalla maternità verso la verginità, come è stato messo in rilievo sopra, essa muove anche dalla verginità verso il matrimonio, inteso come forma di vocazione della donna in cui questa diventa madre dei figli nati dal suo grembo. Il punto di partenza di questa seconda analogia è il significato delle nozze. La donna, infatti, è "sposata" sia mediante il sacramento del Matrimonio, sia spiritualmente mediante le nozze con Cristo. Nell’uno e nell’altro caso le nozze indicano il "dono sincero della persona" della sposa verso lo sposo. In questo modo - si può dire - il profilo del matrimonio si ritrova spiritualmente nella verginità. E se si tratta della maternità fisica, non deve forse anch’essa essere una maternità spirituale, per rispondere alla verità globale sull’uomo che è un’unità di corpo e di spirito? Esistono, quindi, molte ragioni per scorgere in queste due diverse vie - due diverse vocazioni di vita della donna - una profonda complementarietà e, addirittura, una profonda unione all’interno dell’essere della persona.

"Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore"

22. Il Vangelo rivela e permette di capire proprio questo modo di essere della persona umana. Il Vangelo aiuta ciascuna donna e ciascun uomo a viverlo e così a realizzarsi. Esiste, infatti, una totale uguaglianza rispetto ai doni dello Spirito Santo, rispetto alle "grandi opere di Dio" (At 2,11). Non solo questo. Proprio di fronte alle "grandi opere di Dio" l’Apostolo-uomo sente il bisogno di ricorrere a ciò che è per essenza femminile, al fine di esprimere la verità sul proprio servizio apostolico. Proprio così agisce Paolo di Tarso, quando si rivolge ai Galati con le parole: "Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore" (Gal 4,19). Nella prima lettera ai Corinzi (1Cor 7,38) l’Apostolo annuncia la superiorità della verginità sul matrimonio, dottrina costante della Chiesa nello spirito delle parole di Cristo, riportate nel Vangelo di Matteo (Mt 19,10-12), senza affatto offuscare l’importanza della maternità fisica e spirituale. Per illustrare la fondamentale missione della Chiesa, egli non trova di meglio che il riferimento alla maternità.

Troviamo un riflesso della stessa analogia - e della stessa verità - nella costituzione dogmatica sulla Chiesa. Maria è la "figura" della Chiesa (cf. "Lumen Gentium", 63; S. Ambrosii "In Luc.", II, 7: S. Ch. 45, 74; "De instit. virg.", XIV, 87-89: PL 16, 326-327; S. Cyrilli Alexandrini "Hom.", 4: PG 77, 996; S. Isidori Hispalensis "Allegoriae", 139: PL 83, 117). "Infatti, nel mistero della Chiesa, la quale pure è giustamente chiamata madre e vergine..., Maria è andata innanzi, presentandosi in modo eminente e singolare, quale vergine e quale madre... Diede poi alla luce il Figlio, che Dio ha posto quale primogenito tra i molti fratelli (Rm 8,29), cioè tra i fedeli, alla cui rigenerazione e formazione essa coopera con amore di madre" ("Lumen Gentium", 63). "Orbene, la Chiesa, la quale contempla l’arcana santità di lei e ne imita la carità e adempie fedelmente la volontà del Padre, per mezzo della Parola di Dio accolta con fedeltà, diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il Battesimo genera a una vita nuova e immortale i figlioli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio" ("Lumen Gentium", 64). Si tratta qui della maternità "secondo lo spirito" nei riguardi dei figli e delle figlie del genere umano. E una tale maternità - come si è detto - diventa la "parte" della donna anche nella verginità. La Chiesa "pure è vergine, che custodisce integra e pura la fede data allo Sposo" ("Lumen Gentium", 64). Ciò trova in Maria il più perfetto compimento. La Chiesa, dunque, "ad imitazione della Madre del suo Signore, con la virtù dello Spirito Santo, conserva verginalmente integra la fede, solida la speranza, sincera la carità" ("Lumen Gentium", 64. Sul rapporto Maria-Chiesa, che ininterrottamente ricorre nella riflessione dei Padri della Chiesa e di tutta la Tradizione cristiana, cf. "Redemptoris Mater", 42-44 et notae 117-127. Cfr. insuper Clementis Alexandrini "Paed." 1, 6: S. Ch. 70, 186s.; S. Ambrosii "In Luc." II, 7: S. Ch. 45, 74; S. Augustini "Sermo 192", 2: PL 38, 1012; "Sermo 195", 2: PL 38, 1018; "Sermo 25", 5: PL 54, 211; "Sermo 26", 2: PL 54, 213; Bedae Venerabilis "In Luc." I, 2: PL 92, 330. "Ambedue madri- scrive Isacco della Stella, discepolo di S. Bernardo -, ambedue vergini, ambedue concepiscono per opera dello Spirito Santo... Maria... ha generato al corpo il suo capo; la Chiesa... dona a questo capo il suo corpo. L’una e l’altra sono madri del Cristo: ma nessuna delle due lo genera tutto intero senza l’altra. Perciò giustamente... quel che è detto in generale della vergine madre Chiesa s’intende singolarmente della vergine madre Maria; e quel che si dice in modo speciale della vergine madre Maria va riferito in generale alla vergine madre Chiesa; e quanto si dice di una delle due può essere inteso indifferentemente dell’una e dell’altra". ).

Il Concilio ha confermato che, se non si ricorre alla Madre di Dio, non è possibile comprendere il mistero della Chiesa, la sua realtà, la sua essenziale vitalità. Indirettamente troviamo qui il riferimento al paradigma biblico della "donna", quale si delinea chiaramente già nella descrizione del "principio" (cf. Gen 3,15) e lungo il percorso che va dalla creazione, attraverso il peccato, fino alla redenzione. In questo modo si conferma la profonda unione tra ciò che è umano e ciò che costituisce l’economia divina della salvezza nella storia dell’uomo. La Bibbia ci convince del fatto che non si può avere un’adeguata ermeneutica dell’uomo, ossia di ciò che è "umano", senza un adeguato ricorso a ciò che è "femminile". Analogamente avviene nell’economia salvifica di Dio: se vogliamo comprenderla pienamente in rapporto a tutta la storia dell’uomo, non possiamo tralasciare, nell’ottica della nostra fede, il mistero della "donna": vergine-madre-sposa.

VII. La Chiesa-sposa di Cristo

Il "grande mistero"

23. Un’importanza fondamentale hanno al riguardo le parole della lettera agli Efesini: "E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno, infatti, ha preso mai in odio la propria carne; al contrario, la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo, l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna, e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!" (Ef 5,25-32).

In questa lettera l’autore esprime la verità sulla Chiesa come sposa di Cristo, indicando altresì come questa verità si radica nella realtà biblica della creazione dell’uomo maschio e femmina. Creati a immagine e somiglianza di Dio come "unità dei due", entrambi sono stati chiamati ad un amore di carattere sponsale. Si può anche dire che, seguendo la descrizione della creazione nel libro della Genesi (Gen 2,18-24), questa chiamata fondamentale si manifesta insieme con la creazione della donna e viene iscritta dal Creatore nell’istituzione del matrimonio, che, secondo Genesi (Gen 2,24), sin dall’inizio possiede il carattere di unione delle persone ("communio personarum"). Anche se non direttamente la stessa descrizione del "principio" (cf. Gen 1,27 e Gen 2,24) indica che tutto l’"ethos" dei reciproci rapporti tra l’uomo e la donna deve corrispondere alla verità personale del loro essere.

Tutto questo è già stato considerato precedentemente. Il testo della lettera agli Efesini conferma ancora una volta la suddetta verità, e nello stesso tempo paragona il carattere sponsale dell’amore tra l’uomo e la donna al mistero di Cristo e della Chiesa. Cristo è lo sposo della Chiesa, la Chiesa è la sposa di Cristo. Questa analogia non è senza precedenti: essa trasferisce nel nuovo testamento ciò che già era contenuto nell’antico testamento, in particolare, presso i profeti Osea, Geremia, Ezechiele, Isaia (cf. ex.gr, "Os 1,2; 2,16-18; Ger 2,2; Ez 16,8; Is 50,1;54,5-8"). I rispettivi passi meritano una analisi a parte. Riportiamo almeno un testo. Ecco come Dio parla al suo popolo eletto per mezzo del profeta: "Non temere, perché non dovrai più arrossire; non vergognarti, perché non sarai più disonorata; anzi, dimenticherai la vergogna della tua giovinezza e non ricorderai più il disonore della tua vedovanza. Poiché tuo sposo è il tuo Creatore, Signore degli eserciti è il suo nome; tuo redentore è il Santo di Israele, è chiamato Dio di tutta la terra ... Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? Dice il tuo Dio. Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore. In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore... Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace" (Is 54,4-8.10).

Se l’essere umano - uomo o donna - è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, Dio può parlare di sé per bocca del profeta servendosi del linguaggio che è per essenza umano: nel citato testo di Isaia, "umana" è l’espressione dell’amore di Dio, ma l’amore stesso è divino. Essendo amore di Dio, esso ha un carattere sponsale propriamente divino, anche se espresso con l’analogia dell’amore dell’uomo verso la donna. Questa donna-sposa è Israele, in quanto popolo eletto da Dio, e questa elezione ha la sua fonte esclusivamente nell’amore gratuito di Dio. Proprio con questo amore si spiega l’alleanza, presentata spesso come l’alleanza matrimoniale, che Dio sempre nuovamente stringe col suo popolo eletto. Essa è da parte di Dio "un impegno" duraturo: egli rimane fedele al suo amore sponsale, anche se la sposa più volte si è dimostrata infedele.

Questa immagine dell’amore sponsale insieme alla figura dello sposo divino - un’immagine molto chiara nei testi profetici - trova conferma e coronamento nella lettera agli Efesini (Ef 5,23-32). Cristo è salutato come sposo da Giovanni Battista (cf. Gv 3,27-29): anzi, Cristo stesso applica a sé questo paragone attinto dai profeti (cf. Mc 2,19-20). L’apostolo Paolo, che porta in sé tutto il patrimonio dell’antico testamento, scrive ai Corinzi: "Io, provo, infatti, per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo" (2Cor 11,2). L’espressione più piena, però, della verità sull’amore di Cristo redentore, secondo l’analogia dell’amore sponsale del matrimonio, si trova nella lettera agli Efesini: "Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei" (Ef 5,25), ed in ciò riceve piena conferma il fatto che la Chiesa è la sposa di Cristo: "Tuo redentore è il Santo d’Israele" (Is 54,5). Nel testo paolino l’analogia della relazione sponsale va contemporaneamente in due direzioni, che compongono l’insieme del "grande mistero" ("sacramentum magnum"). L’alleanza propria degli sposi "spiega" il carattere sponsale dell’unione di Cristo con la Chiesa; ed a sua volta questa unione, come "grande sacramento", decide della sacramentalità del matrimonio quale alleanza santa dei due sposi, uomo e donna. Leggendo questo passo, ricco e complesso, che è nell’insieme una grande analogia, dobbiamo distinguere ciò che in esso esprime la realtà umana dei rapporti interpersonali da ciò che esprime con linguaggio simbolico il "grande mistero" divino.

La "novità" evangelica

24. Il testo è rivolto agli sposi come a donne e uomini concreti e ricorda loro l’"ethos" dell’amore sponsale che risale all’istituzione divina del matrimonio sin dal "principio". Alla verità di questa istituzione risponde l’esortazione "Voi, mariti, amate le vostre mogli", amatele a motivo di quello speciale e unico legame mediante il quale l’uomo e la donna diventano nel matrimonio "una carne sola" (Gen 2,24; Ef 5,31). Si ha in questo amore una fondamentale affermazione della donna come persona, un’affermazione grazie alla quale la personalità femminile può pienamente svilupparsi ed arricchirsi. Proprio così agisce Cristo come sposo della Chiesa, desiderando che essa sia "gloriosa, senza macchia né ruga" (Ef 5,27). Si può dire che i qui sia pienamente assunto quanto costituisce lo "stile" di Cristo nel trattare la donna. Il marito dovrebbe far propri gli elementi di questo stile nei riguardi della moglie: e, analogamente, dovrebbe fare l’uomo nei riguardi della donna, in ogni situazione. Così tutt’e due, uomo e donna, attuano il "dono sincero di sé"!

L’autore della lettera agli Efesini non vede alcuna contraddizione tra un’esortazione così formulata e la costatazione che "le mogli siano sottomesse ai loro mariti come al Signore; il marito, infatti, è capo della moglie" (Ef 5,22-23). L’autore sa che questa impostazione, tanto profondamente radicata nel costume e nella tradizione religiosa del tempo, deve essere intesa e attuata in un modo nuovo: come una "sottomissione reciproca nel timore di Cristo" (Ef 5,21); tanto più che il marito è detto "capo" della moglie come Cristo è capo della Chiesa, e lo è al fine di dare "se stesso per lei" (Ef 5,25) e dare se stesso per lei è dare perfino la propria vita. Ma, mentre nella relazione Cristo-Chiesa la sottomissione è solo della Chiesa, nella relazione marito-moglie la "sottomissione" non è unilaterale, bensì reciproca!

In rapporto all’"antico" questo è evidentemente "nuovo": è la novità evangelica. Incontriamo diversi passi in cui gli scritti apostolici esprimono questa novità, sebbene in essi si faccia pure sentire ciò che è "antico", ciò che è radicato anche nella tradizione religiosa di Israele, nel suo modo di comprendere e di spiegare i sacri testi, come, ad esempio, quello di Genesi (Gen 2; cf. Col 3,18; 1Ts 3,1-6; Tt 2,4-5; Ef 5,22-24; 1Cor 11,3-16; 14,33-35; 1Tm 2,11-15).

Le lettere apostoliche sono indirizzate a persone che vivono in un ambiente che ha lo stesso modo di pensare e di agire. La "novità" di Cristo è un fatto: essa costituisce l’inequivocabile contenuto del messaggio evangelico ed è frutto della redenzione. Nello stesso tempo, però, la consapevolezza che nel matrimonio c’è la reciproca "sottomissione dei coniugi nel timore di Cristo", e non soltanto quella della moglie al marito, deve farsi strada nei cuori, nelle coscienze, nel comportamento, nei costumi. È questo un appello che non cessa di urgere, da allora, le generazioni che si succedono, un appello che gli uomini devono accogliere sempre di nuovo. L’Apostolo scrisse non solo: "In Gesù Cristo... non c’è più uomo né donna", ma anche: "Non c’è più schiavo né libero". E tuttavia, quante generazioni ci sono volute perché un tale principio si realizzasse nella storia dell’umanità con l’abolizione dell’istituto della schiavitù! E che cosa dire delle tante forme di schiavitù, alle quali sono soggetti uomini e popoli, non ancora scomparse dalla scena della storia?

La sfida, però, dell’"ethos" della redenzione è chiara e definitiva. Tutte le ragioni in favore della "sottomissione" della donna all’uomo nel matrimonio debbono essere interpretate nel senso di una "reciproca sottomissione" di ambedue "nel timore di Cristo". La misura del vero amore sponsale trova la sua sorgente più profonda in Cristo, che è lo sposo della Chiesa, sua sposa.

La dimensione simbolica del "grande mistero"

25. Nel testo della lettera agli Efesini incontriamo una seconda dimensione dell’analogia che, nel suo insieme, deve servire alla rivelazione del "grande mistero". È questa una dimensione simbolica. Se l’amore di Dio verso l’uomo, verso il popolo eletto, Israele, viene presentato dai profeti come l’amore dello sposo per la sposa, una tale analogia esprime la qualità "sponsale" e il carattere divino e non umano dell’amore di Dio: "Tuo sposo è il tuo Creatore..., è chiamato Dio di tutta la terra" (Is 54,5). Lo stesso si dica anche dell’amore sponsale di Cristo redentore: "Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16). Si tratta, dunque, dell’amore di Dio espresso mediante la redenzione, operata da Cristo. Secondo la lettera paolina questo amore è "simile" all’amore sponsale dei coniugi umani, ma naturalmente non è "eguale". L’analogia, infatti, implica insieme una somiglianza, lasciando un margine adeguato di non-somiglianza.

È facile rilevarlo, se consideriamo la figura della "sposa". Secondo la lettera agli Efesini la sposa è la Chiesa, così come per i profeti la sposa era Israele: dunque, è un soggetto collettivo, e non una persona singola. Questo soggetto collettivo è il Popolo di Dio, ossia una comunità composta da molte persone, sia donne che uomini. "Cristo ha amato la Chiesa" proprio come comunità, come Popolo di Dio e, nello stesso tempo, in questa Chiesa, che nel medesimo passo è chiamata anche suo "corpo" (cf. Ef 5,23), egli ha amato ogni singola persona. Infatti, Cristo ha redento tutti senza eccezione, ogni uomo e ogni donna. Nella redenzione si esprime proprio questo amore di Dio e giunge a compimento nella storia dell’uomo e del mondo il carattere sponsale di tale amore.

Cristo è entrato in questa storia e vi rimane come lo sposo che "ha dato se stesso". "Dare" vuol dire "diventare un dono sincero" nel modo più completo e radicale: "Nessuno ha un amore più grande di questo" (Gv 15,13). In tale concezione, per mezzo della Chiesa, tutti gli esseri umani - sia donne che uomini - sono chiamati ad essere la "sposa" di Cristo, redentore del mondo. In questo modo "essere sposa", e dunque il "femminile", diventa simbolo di tutto l’"umano", secondo le parole di Paolo: "Non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28).

Dal punto di vista linguistico si può dire che l’analogia dell’amore sponsale secondo la lettera agli Efesini riporta ciò che è "maschile" a ciò che è "femminile", dato che, come membri della Chiesa, anche gli uomini sono compresi nel concetto di "sposa". E ciò non può meravigliare, poiché l’Apostolo, per esprimere la sua missione in Cristo e nella Chiesa, parla dei "figlioli che partorisce nel dolore" (cf. Gal 4,19). Nell’ambito di ciò che è "umano", di ciò che è umanamente personale, la "mascolinità" e la "femminilità" si distinguono e nello stesso tempo si completano e si spiegano a vicenda. Ciò è presente anche nella grande analogia della "sposa" nella lettera agli Efesini. Nella Chiesa ogni essere umano - maschio e femmina - è la "sposa", in quanto accoglie in dono l’amore di Cristo redentore, come pure in quanto cerca di rispondere col dono della propria persona.

Cristo è lo sposo. Si esprime in questo la verità sull’amore di Dio che "ha amato per primo" (cf. 1Gv 4,19) e che col dono generato da questo amore sponsale per l’uomo ha superato tutte le attese umane: "Amò sino alla fine" (Gv 13,1). Lo sposo - il Figlio consostanziale al Padre in quanto Dio - è divenuto Figlio di Maria, "Figlio dell’uomo", vero uomo, maschio. Il simbolo dello sposo è di genere maschile. In questo simbolo maschile è raffigurato il carattere umano dell’amore in cui Dio ha espresso il suo amore divino per Israele, per la Chiesa, per tutti gli uomini. Meditando quanto i Vangeli dicono circa l’atteggiamento di Cristo verso le donne, possiamo concludere che come uomo, figlio di Israele, rivelò la dignità delle "figlie di Abramo" (cf. Lc 13,16), la dignità posseduta dalla donna sin dal "principio" al pari dell’uomo. E nello stesso tempo Cristo mise in rilievo tutta l’originalità che distingue la donna dall’uomo, tutta la ricchezza ad essa elargita nel mistero della creazione. Nell’atteggiamento di Cristo verso la donna si trova realizzato in modo esemplare ciò che il testo della lettera agli Efesini esprime col concetto di "sposo". Proprio perché l’amore divino di Cristo è amore di sposo, esso è il paradigma e l’esemplare di ogni amore umano, in particolare dell’amore degli uomini-maschi.

L’Eucaristia

26. Sull’ampio sfondo del "grande mistero", che si esprime nel rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa, è possibile anche comprendere in modo adeguato il fatto della chiamata dei "dodici". Chiamando solo uomini come suoi apostoli, Cristo ha agito in un modo del tutto libero e sovrano. Ciò ha fatto con la stessa libertà con cui, in tutto il suo comportamento, ha messo in rilievo la dignità e la vocazione della donna, senza conformarsi al costume prevalente e alla tradizione sancita anche dalla legislazione del tempo. Pertanto, l’ipotesi che egli abbia chiamato come apostoli degli uomini, seguendo la mentalità diffusa ai suoi tempi, non corrisponde affatto al modo di agire di Cristo. "Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità..., perché non guardi in faccia ad alcuno" (Mt 22,16). Queste parole caratterizzano pienamente il comportamento di Gesù di Nazaret. In questo si trova anche una spiegazione per la chiamata dei "dodici". Essi sono con Cristo durante l’ultima cena; essi soli ricevono il mandato sacramentale: "Fate questo in memoria di me" (Lc 22,19; 1Cor 11,24), collegato all’istituzione dell’Eucaristia. Essi, la sera del giorno della risurrezione, ricevono lo Spirito Santo per perdonare i peccati: "A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi" (Gv 20,23).

Ci troviamo al centro stesso del mistero pasquale, che rivela fino in fondo l’amore sponsale di Dio. Cristo è lo sposo perché "ha dato se stesso": il suo corpo è stato "dato", il suo sangue è stato "versato" (cf. Lc 22,19-20). In questo modo "amò sino alla fine" (Gv 13,1). Il "dono sincero", contenuto nel sacrificio della croce, fa risaltare in modo definitivo il senso sponsale dell’amore di Dio. Cristo è lo sposo della Chiesa, come Rl

edentore del mondo. L’Eucaristia è il sacramento della nostra redenzione. È il sacramento dello sposo, della sposa. L’Eucaristia rende presente e in modo sacramentale realizza di nuovo l’atto redentore di Cristo, che "crea" la Chiesa suo corpo. Con questo "corpo" Cristo è unito come lo sposo con la sposa. Tutto questo è contenuto nella lettera agli Efesini. Nel "grande mistero" di Cristo e della Chiesa viene introdotta la perenne "unità dei due", costituita sin dal "principio" tra uomo e donna.

Se Cristo, istituendo l’Eucaristia, l’ha collegata in modo così esplicito al servizio sacerdotale degli apostoli, è lecito pensare che in tal modo egli voleva esprimere la relazione tra uomo e donna, tra ciò che è "femminile" e ciò che è "maschile", voluta da Dio, sia nel mistero della creazione che in quello della redenzione. Prima di tutto nell’Eucaristia si esprime in modo sacramentale l’atto redentore di Cristo sposo nei riguardi della Chiesa sposa. Ciò diventa trasparente ed univoco, quando il servizio sacramentale dell’Eucaristia, in cui il sacerdote agisce "in persona Christi", viene compiuto dall’uomo. È una spiegazione che conferma l’insegnamento della dichiarazione "Inter Insigniores", pubblicata per incarico di Paolo VI per rispondere all’interrogativo circa la questione dell’ammissione delle donne al servizio ministeriale (cf. S. Congr. pro Doctrina Fidei "Declaratio Inter Insigniores" circa quaestionem admissionis mulierum ad sacerdotium ministeriale, die 15 oct. 1976: AAS 69 [1977] 98-116).

Il dono della sposa

27. Il Concilio Vaticano II ha rinnovato nella Chiesa la coscienza dell’universalità del sacerdozio. Nella nuova alleanza c’è un solo sacrificio e un solo sacerdote: Cristo. Di questo unico sacerdozio partecipano tutti i battezzati, sia uomini che donne, in quanto devono "offrire se stessi come vittima viva, santa, a Dio gradita" (cf. Rm 12,1), dare in ogni luogo testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendere ragione della loro speranza della vita eterna (cf. 1Pt 3,15. cf. "Lumen Gentium", 10). La partecipazione universale al sacrificio di Cristo, in cui il Redentore ha offerto al Padre il mondo intero, e, in particolare, l’umanità, fa sì che tutti nella Chiesa siano "un regno di sacerdoti" (Ap 5,10; cf. 1Pt 2,9), partecipino cioè non solo alla missione sacerdotale, ma anche a quella profetica e regale di Cristo Messia. Questa partecipazione determina, inoltre, l’unione organica della Chiesa, come Popolo di Dio, con Cristo. In essa si esprime nel contempo il "grande mistero" della lettera agli Efesini: la sposa unita al suo sposo; unita, perché vive la sua vita; unita, perché partecipa della sua triplice missione ("tria munera Christi"); unita in una maniera tale da rispondere con un "dono sincero" di sé all’ineffabile dono dell’amore dello sposo, redentore del mondo. Ciò riguarda tutti nella Chiesa, le donne come gli uomini, e riguarda ovviamente anche coloro che sono partecipi del "sacerdozio ministeriale" (cf. 1Pt 2,10), che possiede il carattere di servizio. Nell’ambito del "grande mistero" di Cristo e della Chiesa tutti sono chiamati a rispondere - come una sposa - col dono della loro vita all’ineffabile dono dell’amore di Cristo, che solo, come redentore del mondo, è lo sposo della Chiesa. Nel "sacerdozio regale", che è universale, si esprime contemporaneamente il dono della sposa.

Ciò è di fondamentale importanza per comprendere la Chiesa nella sua propria essenza, evitando di trasferire alla Chiesa - anche nel suo essere un’"istituzione" composta di essen umani ed inserita nella storia - criteri di comprensione e di giudizio che non riguardano la sua natura. Anche se la Chiesa possiede una struttura "gerarchica" (cf. 1Pt 2,18-19), tuttavia tale struttura è totalmente ordinata alla santità delle membra di Cristo. La santità poi si misura secondo il "grande mistero", in cui la sposa risponde col dono dell’amore al dono dello sposo, e questo fa "nello Spirito Santo", poiché "l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato" (Rm 5,5). Il Concilio Vaticano II, confermando l’insegnamento di tutta la Tradizione, ha ricordato che nella gerarchia della santità proprio la "donna", Maria di Nazaret, è "figura" della Chiesa. Ella "precede" tutti sulla via verso la santità; nella sua persona "la Chiesa ha già raggiunto la perfezione, con la quale esiste immacolata e senza macchia (cf. Ef 5,27. cf. "Lumen Gentium", 65; cf. quoque "Lumen Gentium", 63; cf. "Redemptoris Mater", 2-6). In questo senso si può dire che la Chiesa è insieme "mariana" ed "apostolico-petrina" ("Questo profilo mariano è altrettanto - se non lo è di più - fondamentale e caratterizzante per la Chiesa quanto il profilo apostolico e petrino, al quale è profondamente unito... La dimensione mariana della Chiesa antecede quella petrina, pur essendole strettamente unita e complementare. Maria, l’Immacolata, precede ogni altro, e, ovviamente, lo stesso Pietro e gli apostoli: non solo perché Pietro e gli apostoli, provenendo dalla massa del genere umano che nasce sotto il peccato, fanno parte della Chiesa "sancta ex peccatoribus", ma anche perché il loro triplice "munus" non mira ad altro che a formare la Chiesa in quell’ideale di santità, che già è preformato e prefigurato in Maria. Come bene ha detto un teologo contemporaneo, "Maria è Regina degli apostoli, senza pretendere per sé i poteri apostolici. Essa ha altro e di più" ". "Allocutio ad Patres Cardinales Romanaeque Curiae Praelatos", 3, die 22 dec. 1987: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X, 3 [1987] 1484).

Nella storia della Chiesa sin dai primi tempi c’erano - accanto agli uomini - numerose donne, per le quali la risposta della sposa all’amore redentore dello sposo assumeva piena forza espressiva. Come prime vediamo quelle donne, che personalmente avevano incontrato Cristo, l’avevano seguito e, dopo la sua dipartita, insieme con gli apostoli "erano assidue nella preghiera" nel cenacolo di Gerusalemme sino al giorno di Pentecoste. In quel giorno lo Spirito Santo parlò per mezzo di "figli e figlie" del Popolo di Dio, compiendo l’annuncio del profeta Gioele (cf. At 2,17). Quelle donne, ed in seguito altre ancora, ebbero parte attiva ed importante nella vita della Chiesa primitiva, nell’edificare sin dalle fondamenta la prima comunità cristiana - e le comunità successive - mediante i propri carismi e il loro multiforme servizio. Gli scritti apostolici annotano i loro nomi, come Febe, "diaconessa di Cencre" (Rm 16,1), Prisca col marito Aquila (cf. 2Tm 4,19), Evodia e Sintiche (cf. Fil 4,2), Maria, Trifena, Perside, Trifosa (cf. Rm 16,6.12). L’Apostolo parla delle loro "fatiche" per Cristo, e queste indicano i vari campi del servizio apostolico della Chiesa, iniziando dalla "Chiesa domestica". In essa, infatti, la "fede schietta" passa dalla madre nei figli e nei nipoti, come appunto si verificò nella casa di Timoteo (cf. 2Tm 1,5).

Lo stesso si ripete nel corso dei secoli, di generazione in generazione, come dimostra la storia della Chiesa. La Chiesa, infatti, difendendo la dignità della donna e la sua vocazione, ha espresso onore e gratitudine per coloro che - fedeli al Vangelo - in ogni tempo hanno partecipato alla missione apostolica di tutto il Popolo di Dio. Si tratta di sante martiri, di vergini, di madri di famiglia, che coraggiosamente hanno testimoniato la loro fede ed educando i propri figli nello spirito del Vangelo hanno trasmesso la fede e la Tradizione della Chiesa.

In ogni epoca e in ogni paese troviamo numerose donne "perfette" (Pr 31,10), che - nonostante persecuzioni, difficoltà e discriminazioni - hanno partecipato alla missione della Chiesa. Basta menzionare qui Monica, la madre di Agostino, Macrina, Olga di Kiev, Matilde di Toscana, Edvige di Slesia ed Edvige di Cracovia, Elisabetta di Turingia, Brigida di Svezia, Giovanna d’Arco, Rosa di Lima, Elisabeth Seton e Mary Ward.

La testimonianza e le opere di donne cristiane hanno avuto significativa incidenza sulla vita della Chiesa, come anche su quella della società. Anche in presenza di gravi discriminazioni sociali le donne sante hanno agito in "modo libero", fortificate dalla loro unione con Cristo. Una simile unione e libertà radicata in Dio spiegano, ad esempio, la grande opera di santa Caterina da Siena nella vita della Chiesa e di santa Teresa di Gesù in quella monastica.

Anche ai nostri giorni la Chiesa non cessa di arricchirsi della testimonianza delle numerose donne che realizzano la loro vocazione alla santità. Le donne sante sono una incarnazione dell’ideale femminile, ma sono anche un modello per tutti i cristiani, un modello di "sequela Christi", un esempio di come la sposa deve rispondere con l’amore all’amore dello sposo.

VIII. Più grande è la carità

Di fronte ai mutamenti

28. "La Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza perché possa rispondere alla suprema sua vocazione" ("Gaudium et Spes", 10). Possiamo riferire queste parole della costituzione "Gaudium et Spes" al tema delle presenti riflessioni. Il particolare richiamo alla dignità della donna ed alla sua vocazione, proprio dei tempi in cui viviamo, può e deve essere accolto nella "luce e forza" che lo Spirito elargisce all’uomo: anche all’uomo della nostra epoca ricca di molteplici trasformazioni. La Chiesa "crede... di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine" dell’uomo, nonché "di tutta la storia umana" e "afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli" ("Gaudium et Spes", 10).

Con queste parole la costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo ci indica la strada da seguire nell’assumere i compiti relativi alla dignità della donna e alla sua vocazione, sullo sfondo dei mutamenti significativi per i nostri tempi. Possiamo affrontare tali mutamenti in modo corretto e adeguato solo se riandiamo ai fondamenti che si trovano in Cristo, a quelle verità e a quei valori "immutabili", di cui egli stesso rimane "testimone fedele" (cf. Ap 1,5) e maestro. Un diverso modo di agire condurrebbe a risultati dubbi, se non addirittura erronei e ingannevoli.

La dignità della donna e l’ordine dell’amore

29. Il passo già riportato dalla lettera agli Efesini (Ef 5,21-33), in cui il rapporto tra Cristo e la Chiesa viene presentato come legame tra lo sposo e la sposa, fa riferimento anche alla istituzione del matrimonio secondo le parole del libro della Genesi (cf. Gen 2,24). Esso unisce la verità sul matrimonio come primordiale sacramento con la creazione dell’uomo e della donna ad immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,27;5,1). Grazie al significativo confronto contenuto nella lettera agli Efesini acquista piena chiarezza ciò che decide della dignità della donna sia agli occhi di Dio, creatore e redentore, sia agli occhi dell’uomo: dell’uomo e della donna. Sul fondamento del disegno eterno di Dio, la donna è colei in cui l’ordine dell’amore nel mondo creato delle persone trova un terreno per la sua prima radice. L’ordine dell’amore appartiene alla vita intima di Dio stesso, alla vita trinitaria. Nella vita intima di Dio, lo Spirito Santo è la personale ipostasi dell’amore. Mediante lo Spirito, dono increato, l’amore diventa un dono per le persone create. L’amore, che è da Dio, si comunica alle creature: "L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci viene dato" (Rm 5,5).

La chiamata all’esistenza della donna accanto all’uomo ("un aiuto che gli sia simile") (Gen 2,18): nell’"unità dei due" offre nel mondo visibile delle creature condizioni particolari affinché "l’amore di Dio venga riversato nei cuori" degli esseri creati a sua immagine. Se l’autore della lettera gli Efesini chiama Cristo sposo e la Chiesa sposa, egli conferma indirettamente, con tale analogia, la verità sulla donna come sposa. Lo sposo è colui che ama. La sposa viene amata: è colei che riceve l’amore, per amare a sua volta.

Il passo della Genesi - riletto alla luce del simbolo sponsale della lettera agli Efesini - ci permette di intuire una verità che sembra decidere in modo essenziale la questione della dignità della donna e, in seguito, anche quella della sua vocazione: la dignità della donna viene misurata dall’ordine dell’amore, che è essenzialmente ordine di giustizia e di carità (cf. S. Augustini "De Trinitate", L. VIII, VII, 10 - X, 14: CCL 50, 284-291).

Solo la persona può amare e solo la persona può essere amata. Questa è un’affermazione, anzitutto, di natura ontologica, dalla quale emerge poi un’affermazione di natura etica. L’amore è un’esigenza ontologica ed etica della persona. La persona deve essere amata, poiché solo l’amore corrisponde a quello che è la persona. Così si spiega il comandamento dell’amore conosciuto già nell’antico testamento (cf. Dt 6,5; Lv 19,18) e posto da Cristo al centro stesso dell’"ethos" evangelico (cf. Mt 22,36-40; Mc 12,28-34). Così si spiega anche quel primato dell’ amore espresso dalle parole di Paolo nella lettera ai Corinzi: "più grande è la carità" (cf. 1Cor 13,13).

Se non si ricorre a quest’ordine e a questo primato, non si può dare una risposta completa e adeguata all’interrogativo sulla dignità della donna e sulla sua vocazione. Quando diciamo che la donna è colei che riceve amore per amare a sua volta, non intendiamo solo o innanzitutto lo specifico rapporto sponsale del matrimonio. Intendiamo qualcosa di più universale, fondato sul fatto stesso di essere donna nell’insieme delle relazioni interpersonali, che nei modi più diversi strutturano la convivenza e la collaborazione tra le persone, uomini e donne. In questo contesto, ampio e diversificato, la donna rappresenta un valore particolare come persona umana e, nello stesso tempo, come quella persona concreta, per il fatto della sua femminilità. Questo riguarda tutte le donne e ciascuna di esse, indipendentemente dal contesto culturale in cui ciascuna si trova e dalle sue caratteristiche spirituali, psichiche e corporali, come, ad esempio, l’età, l’istruzione, la salute, il lavoro, l’essere sposata o nubile.

Il passo della lettera agli Efesini che consideriamo ci permette di pensare ad una specie di "profetismo" particolare della donna nella sua femminilità. L’analogia dello sposo e della sposa parla dell’amore con cui ogni uomo è amato da Dio in Cristo, ogni uomo e ogni donna. Tuttavia, nel contesto dell’analogia biblica e in base alla logica interiore del testo, è proprio la donna colei che manifesta a tutti questa verità: la sposa. Questa caratteristica "profetica" della donna nella sua femminilità trova la più alta espressione nella Vergine Madre di Dio. Nei suoi riguardi viene messo in rilievo, nel modo più pieno e diretto, l’intimo congiungersi dell’ordine dell’amore - che entra nell’ambito del mondo delle persone umane attraverso una donna - con lo Spirito Santo. Maria ode all’annunciazione: "Lo Spirito Santo scenderà su di te" (Lc 1,35).

Consapevolezza di una missione

30. La dignità della donna si collega intimamente con l’amore che ella riceve a motivo stesso della sua femminilità ed altresì con l’amore che a sua volta dona. Viene così confermata la verità sulla persona e sull’amore. Circa la verità della persona, si deve ancora una volta ricorrere al Concilio Vaticano II: "L’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono sincero di sé" ("Gaudium et Spes", 24). Questo riguarda ogni uomo, come persona creata ad immagine di Dio, sia uomo che donna. L’affermazione di natura ontologica qui contenuta indica anche la dimensione etica della vocazione della persona. La donna non può ritrovare se stessa se non donando l’amore agli altri.

Sin dal "principio" la donna - come l’uomo - è stata creata e "posta" da Dio proprio in questo ordine dell’amore. Il peccato delle origini non ha annullato questo ordine, non lo ha cancellato in modo irreversibile. Lo provano le parole bibliche del Protoevangelo (cf. Gen 3,15). Nelle presenti riflessioni abbiamo osservato il posto singolare della "donna" in questo testo chiave della rivelazione. Occorre, inoltre, rilevare come la stessa donna, che giunge ad essere "paradigma" biblico, si trovi anche nella prospettiva escatologica del mondo e dell’uomo espressa dall’Apocalisse (cf. Ad opera Sancti Ambrosii appendix "In Apoc.", IV, 3-4: PL 17, 876; Ps. Augustini "De symb. ad catech.", "sermo IV": PL 40, 661.). È "una donna vestita di sole", con la luna sotto i piedi e una corona di stelle sopra il capo (cf. Ap 12,1). Si può dire: una "donna" a misura del cosmo, a misura di tutta l’opera della creazione. Nello stesso tempo essa soffre "le doglie e il travaglio del parto" (Ap 12,2), come Eva "madre di tutti i viventi" (Gen 3,20). Soffre anche perché "davanti alla donna che sta per partorire" (cf. Ap 12,4), si pone "il grande drago, il serpente antico" (Ap 12,9), conosciuto già dal Protoevangelo: il Maligno, "padre della menzogna" e del peccato (cf. Gv 8,44). Ecco: il "serpente antico" vuole divorare "il bambino". Se vediamo in questo testo il riflesso del Vangelo dell’infanzia (cf. Lc 2,13.16), possiamo pensare che, nel paradigma biblico della "donna", viene inscritta, dall’inizio sino al termine della storia, la lotta contro il male e il Maligno. Questa è anche la lotta per l’uomo, per il suo vero bene, per la sua salvezza. La Bibbia non vuole dirci che proprio nella "donna", Eva-Maria, la storia registra una drammatica lotta per ogni uomo, la lotta per il suo fondamentale "sì_ o "no" a Dio e al suo eterno disegno sull’uomo?

Se la dignità della donna testimonia l’amore, che essa riceve per amare a sua volta, il paradigma biblico della "donna" sembra anche svelare quale sia il vero ordine dell’amore che costituisce la vocazione della donna stessa. Si tratta qui della vocazione nel suo significato fondamentale, si può dire universale, che poi si concretizza e si esprime nelle molteplici "vocazioni" della donna nella Chiesa e nel mondo.

La forza morale della donna, la sua forza spirituale si unisce con la consapevolezza che Dio le affida in un modo speciale l’uomo, l’essere umano. Naturalmente, Dio affida ogni uomo a tutti e a ciascuno. Tuttavia, questo affidamento riguarda in modo speciale la donna - proprio a motivo della sua femminilità - ed esso decide in particolare della sua vocazione.

Attingendo a questa consapevolezza e a questo affidamento, la forza morale della donna si esprime in numerosissime figure femminili dell’antico testamento, dei tempi di Cristo, delle epoche successive fino ai nostri giorni.

La donna è forte per la consapevolezza dell’affidamento, forte per il fatto che Dio "le affida l’uomo", sempre e comunque, persino nelle condizioni di discriminazione sociale in cui essa può trovarsi. Questa consapevolezza e questa fondamentale vocazione parlano alla donna della dignità che riceve da Dio stesso, e ciò la rende "forte" e consolida la sua vocazione. In questo modo, la "donna perfetta" (cf. Pr 31,10) diventa un insostituibile sostegno e una fonte di forza spirituale per gli altri, che percepiscono le grandi energie del suo spirito. A queste "donne perfette" devono molto le loro famiglie e talvolta intere nazioni.

Nella nostra epoca i successi della scienza e della tecnica permettono di raggiungere in grado finora sconosciuto un benessere materiale che, mentre favorisce alcuni, conduce altri all’emarginazione. In tal modo, questo progresso unilaterale può comportare anche una graduale scomparsa della sensibilità per l’uomo, per ciò che è essenzialmente umano. In questo senso, soprattutto i nostri giorni attendono la manifestazione di quel "genio" della donna che assicuri la sensibilità per l’uomo in ogni circostanza: per il fatto che è uomo! E perché "più grande è la carità" (1Cor 13,13).

Pertanto, un’attenta lettura del paradigma biblico della "donna" - dal libro della Genesi sino all’Apocalisse - conferma in che consistono la dignità e la vocazione della donna e ciò che in esse è immutabile e non perde attualità, avendo il suo "ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli" ("Gaudium et Spes", 10). Se l’uomo è affidato in modo speciale da Dio alla donna, questo non significa forse che da lei Cristo si attende il compiersi di quel "sacerdozio regale" (1Pt 2,9), che è la ricchezza da lui data agli uomini? Questa stessa eredità Cristo, sommo ed unico sacerdote della nuova ed eterna alleanza e sposo della Chiesa, non cessa di sottomettere al Padre mediante lo Spirito Santo, affinché Dio sia "tutto in tutti" (1Cor 15,28; cf. "Lumen Gentium", 36).

Allora avrà compimento definitivo la verità che "più grande è la carità" (1Cor 13,13).

IX. Conclusione

"Se tu conoscessi il dono di Dio"

31. "Se tu conoscessi il dono di Dio" (Gv 4,10), dice Gesù alla Samaritana durante uno di quei mirabili colloqui che mostrano quanta stima egli abbia per la dignità di ogni donna e per la vocazione che le consente di partecipare alla sua missione di Messia.

Le presenti riflessioni, ormai concluse, sono orientate a riconoscere all’interno del "dono di Dio" ciò che egli, creatore e redentore, affida alla donna, ad ogni donna. Nello spirito di Cristo, infatti, essa può scoprire l’intero significato della sua femminilità e disporsi in tal modo al "dono sincero di sé" agli altri, e così "ritrovare" se stessa.

Nell’anno mariano la Chiesa desidera ringraziare la Santissima Trinità per il "mistero della donna", e per ogni donna; per ciò che costituisce l’eterna misura della sua dignità femminile, per le "grandi opere di Dio" che nella storia delle generazioni umane si sono compiute in lei e per mezzo di lei. In definitiva, non si è operato in lei e per mezzo di lei ciò che c’è di più grande nella storia dell’uomo sulla terra: l’evento che Dio stesso si è fatto uomo?

La Chiesa, dunque, rende grazie per tutte le donne e per ciascuna: per le madri, le sorelle, le spose; per le donne consacrate a Dio nella verginità; per le donne dedite ai tanti e tanti essere umani, che attendono l’amore gratuito di un’altra persona; per le donne che vegliano sull’essere umano nella famiglia, che è il fondamentale segno della comunità umana; per le donne che lavorano professionalmente, donne a volte gravate da una grande responsabilità sociale; per le donne "perfette" e per le donne "deboli", per tutte: così come sono uscite dal cuore di Dio in tutta la bellezza e ricchezza della loro femminilità; così come sono state abbracciate dal suo eterno amore; così come, insieme con l’uomo, sono pellegrine su questa terra, che è, nel tempo, la "patria" degli uomini e si trasforma talvolta in una "valle di pianto"; così come assumono, insieme con l’uomo, una comune responsabilità per le sorti dell’umanità, secondo le quotidiane necessità e secondo quei destini definitivi che l’umana famiglia ha in Dio stesso, nel seno dell’ineffabile Trinità.

La Chiesa ringrazia per tutte le manifestazioni del "genio" femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del Popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità: ringrazia per tutti i frutti di santità femminile.

La Chiesa chiede, nello stesso tempo, che queste inestimabili "manifestazioni dello Spirito" (cf. 1Cor 12,4s) che con grande generosità sono elargite alle "figlie" della Gerusalemme eterna, siano attentamente riconosciute, valorizzate, perché tornino a comune vantaggio della Chiesa e dell’umanità, specialmente ai nostri tempi. Meditando il mistero biblico della "donna", la Chiesa prega affinché tutte le donne ritrovino in questo mistero se stesse e la loro "suprema vocazione".

Maria, che "precede tutta la Chiesa sulla via della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo" (cf. "Lumen Gentium", 63), ottenga a tutti noi anche questo "frutto", nell’anno che abbiamo dedicato a lei, alle soglie del terzo millennio della venuta di Cristo.

Con questi voti imparto a tutti i fedeli e in special modo alle donne, sorelle in Cristo, la benedizione apostolica. Giovanni Paolo II.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 del mese di agosto - solennità dell’Assunzione di Maria santissima - dell’anno 1988, decimo di Pontificato.

 

 

 


 

 

Evangelium Vitae

Lettera Enciclica sul valore e l'inviolabilità della vita umana

(25 marzo 1995)

Introduzione

1. Il Vangelo della vita sta al cuore del messaggio di Gesù. Accolto dalla Chiesa ogni giorno con amore, esso va annunciato con coraggiosa fedeltà come buona novella agli uomini di ogni epoca e cultura.

All'aurora della salvezza, è la nascita di un bambino che viene proclamata come lieta notizia: «Vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2, 10-11). A sprigionare questa «grande gioia» è certamente la nascita del Salvatore; ma nel Natale è svelato anche il senso pieno di ogni nascita umana, e la gioia messianica appare così fondamento e compimento della gioia per ogni bimbo che nasce (cf. Gv 16, 21).

Presentando il nucleo centrale della sua missione redentrice, Gesù dice: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10). In verità, Egli si riferisce a quella vita «nuova» ed «eterna», che consiste nella comunione con il Padre, a cui ogni uomo è gratuitamente chiamato nel Figlio per opera dello Spirito Santificatore. Ma proprio in tale «vita» acquistano pieno significato tutti gli aspetti e i momenti della vita dell'uomo.

Il valore incomparabile della persona umana

2. L'uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena, poiché consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio.

L'altezza di questa vocazione soprannaturale rivela la grandezza e la preziosità della vita umana anche nella sua fase temporale. La vita nel tempo, infatti, è condizione basilare, momento iniziale e parte integrante dell'intero e unitario processo dell'esistenza umana. Un processo che, inaspettatamente e immeritatamente, viene illuminato dalla promessa e rinnovato dal dono della vita divina, che raggiungerà il suo pieno compimento nell'eternità (cf. 1 Gv 3, 1-2). Nello stesso tempo, proprio questa chiamata soprannaturale sottolinea la relatività della vita terrena dell'uomo e della donna. Essa, in verità, non è realtà «ultima», ma «penultima»; è comunque realtà sacra che ci viene affidata perché la custodiamo con senso di responsabilità e la portiamo a perfezione nell'amore e nel dono di noi stessi a Dio e ai fratelli.

La Chiesa sa che questo Vangelo della vita, consegnatole dal suo Signore,1 ha un'eco profonda e persuasiva nel cuore di ogni persona, credente e anche non credente, perché esso, mentre ne supera infinitamente le attese, vi corrisponde in modo sorprendente. Pur tra difficoltà e incertezze, ogni uomo sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce della ragione e non senza il segreto influsso della grazia, può arrivare a riconoscere nella legge naturale scritta nel cuore (cf. Rm 2, 14-15) il valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine, e ad affermare il diritto di ogni essere umano a vedere sommamente rispettato questo suo bene primario. Sul riconoscimento di tale diritto si fonda l'umana convivenza e la stessa comunità politica.

Questo diritto devono, in modo particolare, difendere e promuovere i credenti in Cristo, consapevoli della meravigliosa verità ricordata dal Concilio Vaticano II: «Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo».2 In questo evento di salvezza, infatti, si rivela all'umanità non solo l'amore sconfinato di Dio che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3, 16), ma anche il valore incomparabile di ogni persona umana.

E la Chiesa, scrutando assiduamente il mistero della Redenzione, coglie questo valore con sempre rinnovato stupore 3 e si sente chiamata ad annunciare agli uomini di tutti i tempi questo «vangelo», fonte di speranza invincibile e di gioia vera per ogni epoca della storia. Il Vangelo dell'amore di Dio per l'uomo, il Vangelo della dignità della persona e il Vangelo della vita sono un unico e indivisibile Vangelo.

È per questo che l'uomo, l'uomo vivente, costituisce la prima e fondamentale via della Chiesa.4

Le nuove minacce alla vita umana

3. Ciascun uomo, proprio a motivo del mistero del Verbo di Dio che si è fatto carne (cf. Gv 1, 14), è affidato alla sollecitudine materna della Chiesa. Perciò ogni minaccia alla dignità e alla vita dell'uomo non può non ripercuotersi nel cuore stesso della Chiesa, non può non toccarla al centro della propria fede nell'incarnazione redentrice del Figlio di Dio, non può non coinvolgerla nella sua missione di annunciare il Vangelo della vita in tutto il mondo e ad ogni creatura (cf. Mc 16, 15).

Oggi questo annuncio si fa particolarmente urgente per l'impressionante moltiplicarsi ed acutizzarsi delle minacce alla vita delle persone e dei popoli, soprattutto quando essa è debole e indifesa. Alle antiche dolorose piaghe della miseria, della fame, delle malattie endemiche, della violenza e delle guerre, se ne aggiungono altre, dalle modalità inedite e dalle dimensioni inquietanti.

Già il Concilio Vaticano II, in una pagina di drammatica attualità, ha deplorato con forza molteplici delitti e attentati contro la vita umana. A trent'anni di distanza, facendo mie le parole dell'assise conciliare, ancora una volta e con identica forza li deploro a nome della Chiesa intera, con la certezza di interpretare il sentimento autentico di ogni coscienza retta: «Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l'intimo dello spirito; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni infraumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili; tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, inquinano coloro che così si comportano ancor più che non quelli che le subiscono; e ledono grandemente l'onore del Creatore».5

4. Purtroppo, questo inquietante panorama, lungi dal restringersi, si va piuttosto dilatando: con le nuove prospettive aperte dal progresso scientifico e tecnologico nascono nuove forme di attentati alla dignità dell'essere umano, mentre si delinea e consolida una nuova situazione culturale, che dà ai delitti contro la vita un aspetto inedito e — se possibile — ancora più iniquo suscitando ulteriori gravi preoccupazioni: larghi strati dell'opinione pubblica giustificano alcuni delitti contro la vita in nome dei diritti della libertà individuale e, su tale presupposto, ne pretendono non solo l'impunità, ma persino l'autorizzazione da parte dello Stato, al fine di praticarli in assoluta libertà ed anzi con l'intervento gratuito delle strutture sanitarie.

Ora, tutto questo provoca un cambiamento profondo nel modo di considerare la vita e le relazioni tra gli uomini. Il fatto che le legislazioni di molti Paesi, magari allontanandosi dagli stessi principi basilari delle loro Costituzioni, abbiano acconsentito a non punire o addirittura a riconoscere la piena legittimità di tali pratiche contro la vita è insieme sintomo preoccupante e causa non marginale di un grave crollo morale: scelte un tempo unanimemente considerate come delittuose e rifiutate dal comune senso morale, diventano a poco a poco socialmente rispettabili. La stessa medicina, che per sua vocazione è ordinata alla difesa e alla cura della vita umana, in alcuni suoi settori si presta sempre più largamente a realizzare questi atti contro la persona e in tal modo deforma il suo volto, contraddice sé stessa e avvilisce la dignità di quanti la esercitano. In un simile contesto culturale e legale, anche i gravi problemi demografici, sociali o familiari, che pesano su numerosi popoli del mondo ed esigono un'attenzione responsabile ed operosa delle comunità nazionali e di quelle internazionali, si trovano esposti a soluzioni false e illusorie, in contrasto con la verità e il bene delle persone e delle Nazioni.

L'esito al quale si perviene è drammatico: se è quanto mai grave e inquietante il fenomeno dell'eliminazione di tante vite umane nascenti o sulla via del tramonto, non meno grave e inquietante è il fatto che la stessa coscienza, quasi ottenebrata da così vasti condizionamenti, fatica sempre più a percepire la distinzione tra il bene e il male in ciò che tocca lo stesso fondamentale valore della vita umana.

In comunione con tutti i Vescovi del mondo

5. Al problema delle minacce alla vita umana nel nostro tempo è stato dedicato il Concistoro straordinario dei Cardinali, svoltosi a Roma dal 4 al 7 aprile 1991. Dopo un'ampia e approfondita discussione del problema e delle sfide poste all'intera famiglia umana e, in particolare, alla comunità cristiana, i Cardinali, con voto unanime, mi hanno chiesto di riaffermare con l'autorità del Successore di Pietro il valore della vita umana e la sua inviolabilità, in riferimento alle attuali circostanze ed agli attentati che oggi la minacciano.

Accogliendo tale richiesta, ho scritto nella Pentecoste del 1991 una lettera personale a ciascun Confratello perché, nello spirito della collegialità episcopale, mi offrisse la sua collaborazione in vista della stesura di uno specifico documento.6 Sono profondamente grato a tutti i Vescovi che hanno risposto, fornendomi preziose informazioni, suggerimenti e proposte. Essi hanno testimoniato anche così la loro unanime e convinta partecipazione alla missione dottrinale e pastorale della Chiesa circa il Vangelo della vita.

Nella medesima lettera, a pochi giorni dalla celebrazione del centenario dell'Enciclica Rerum novarum, attiravo l'attenzione di tutti su questa singolare analogia: «Come un secolo fa ad essere oppressa nei suoi fondamentali diritti era la classe operaia, e la Chiesa con grande coraggio ne prese le difese, proclamando i sacrosanti diritti della persona del lavoratore, così ora, quando un'altra categoria di persone è oppressa nel diritto fondamentale alla vita, la Chiesa sente di dover dare voce con immutato coraggio a chi non ha voce. Il suo è sempre il grido evangelico in difesa dei poveri del mondo, di quanti sono minacciati, disprezzati e oppressi nei loro diritti umani».7

Ad essere calpestata nel diritto fondamentale alla vita è oggi una grande moltitudine di esseri umani deboli e indifesi, come sono, in particolare, i bambini non ancora nati. Se alla Chiesa, sul finire del secolo scorso, non era consentito tacere davanti alle ingiustizie allora operanti, meno ancora essa può tacere oggi, quando alle ingiustizie sociali del passato, purtroppo non ancora superate, in tante parti del mondo si aggiungono ingiustizie ed oppressioni anche più gravi, magari scambiate per elementi di progresso in vista dell'organizzazione di un nuovo ordine mondiale.

La presente Enciclica, frutto della collaborazione dell'Episcopato di ogni Paese del mondo, vuole essere dunque una riaffermazione precisa e ferma del valore della vita umana e della sua inviolabilità, ed insieme un appassionato appello rivolto a tutti e a ciascuno, in nome di Dio: rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana! Solo su questa strada troverai giustizia, sviluppo, libertà vera, pace e felicità!

Giungano queste parole a tutti i figli e le figlie della Chiesa! Giungano a tutte le persone di buona volontà, sollecite del bene di ogni uomo e donna e del destino dell'intera società!

6. In profonda comunione con ogni fratello e sorella nella fede e animato da sincera amicizia per tutti, voglio rimeditare e annunciare il Vangelo della vita, splendore di verità che illumina le coscienze, limpida luce che risana lo sguardo ottenebrato, fonte inesauribile di costanza e coraggio per affrontare le sempre nuove sfide che incontriamo sul nostro cammino.

E mentre ripenso alla ricca esperienza vissuta durante l'Anno della Famiglia, quasi completando idealmente la Lettera da me indirizzata «ad ogni famiglia concreta di qualunque regione della terra»,8 guardo con rinnovata fiducia a tutte le comunità domestiche ed auspico che rinasca o si rafforzi ad ogni livello l'impegno di tutti a sostenere la famiglia, perché anche oggi — pur in mezzo a numerose difficoltà e a pesanti minacce — essa si conservi sempre, secondo il disegno di Dio, come «santuario della vita».9

A tutti i membri della Chiesa, popolo della vita e per la vita, rivolgo il più pressante invito perché, insieme, possiamo dare a questo nostro mondo nuovi segni di speranza, operando affinché crescano giustizia e solidarietà e si affermi una nuova cultura della vita umana, per l'edificazione di un'autentica civiltà della verità e dell'amore.

CAPITOLO I - La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo

Le attuali minacce alla vita umana

«Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (Gn 4, 8): alla radice della violenza contro la vita.

7. «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza... Sì, Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono» (Sap 1, 13-14; 2, 23-24).

Il Vangelo della vita, risuonato al principio con la creazione dell'uomo a immagine di Dio per un destino di vita piena e perfetta (cf. Gn 2, 7; Sap 9, 2-3), viene contraddetto dall'esperienza lacerante della morte che entra nel mondo e getta l'ombra del non senso sull'intera esistenza dell'uomo.

La morte vi entra a causa dell'invidia del diavolo (cf. Gn 3, 1.4-5) e del peccato dei progenitori (cf. Gn 2, 17; 3, 17-19). E vi entra in modo violento, attraverso l'uccisione di Abele da parte del fratello Caino: «Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (Gn 4, 8).

Questa prima uccisione è presentata con una singolare eloquenza in una pagina paradigmatica del libro della Genesi: una pagina ritrascritta ogni giorno, senza sosta e con avvilente ripetizione, nel libro della storia dei popoli.

Vogliamo rileggere insieme questa pagina biblica, che, pur nella sua arcaicità ed estrema semplicità, si presenta quanto mai ricca di insegnamenti.

«Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo. Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta.

Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: "Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua bramosia, ma tu dominala".

Caino disse al fratello Abele: "Andiamo in campagna!". Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise.

Allora il Signore disse a Caino: "Dov'è Abele, tuo fratello?". Egli rispose: "Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?". Riprese: "Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra".

Disse Caino al Signore: "Troppo grande è la mia colpa per sopportarla! Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere".

Ma il Signore gli disse: "Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!". Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato. Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nod, ad oriente di Eden» (Gn 4, 2-16).

 

8. Caino è «molto irritato» e ha il volto «abbattuto» perché «il Signore gradì Abele e la sua offerta» (Gn 4, 4). Il testo biblico non rivela il motivo per cui Dio preferisce il sacrificio di Abele a quello di Caino; indica però con chiarezza che, pur preferendo il dono di Abele, non interrompe il suo dialogo con Caino. Lo ammonisce ricordandogli la sua libertà di fronte al male: l'uomo non è per nulla un predestinato al male. Certo, come già Adamo, egli è tentato dalla potenza malefica del peccato che, come bestia feroce, è appostata alla porta del suo cuore, in attesa di avventarsi sulla preda. Ma Caino rimane libero di fronte al peccato. Lo può e lo deve dominare: «Verso di te è la sua bramosia, ma tu dominala!» (Gn 4, 7).

Sull'ammonimento del Signore hanno il sopravvento la gelosia e l'ira, e così Caino s'avventa sul proprio fratello e lo uccide. Come leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica, «la Scrittura, nel racconto dell'uccisione di Abele da parte del fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza nell'uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale. L'uomo è diventato il nemico del suo simile».10

Il fratello uccide il fratello. Come nel primo fratricidio, in ogni omicidio viene violata la parentela «spirituale», che accomuna gli uomini in un'unica grande famiglia,11 essendo tutti partecipi dello stesso bene fondamentale: l'uguale dignità personale. Non poche volte viene violata anche la parentela «della carne e del sangue», ad esempio quando le minacce alla vita si sviluppano nel rapporto tra genitori e figli, come avviene con l'aborto o quando, nel più vasto contesto familiare o parentale, viene favorita o procurata l'eutanasia.

Alla radice di ogni violenza contro il prossimo c'è un cedimento alla «logica» del maligno, cioè di colui che «è stato omicida fin da principio» (Gv 8, 44), come ci ricorda l'apostolo Giovanni: «Poiché questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino, che era dal maligno e uccise il suo fratello» (1 Gv 3, 11-12). Così l'uccisione del fratello, fin dagli albori della storia, è la triste testimonianza di come il male progredisca con rapidità impressionante: alla rivolta dell'uomo contro Dio nel paradiso terrestre si accompagna la lotta mortale dell'uomo contro l'uomo.

Dopo il delitto, Dio interviene a vendicare l'ucciso. Di fronte a Dio, che lo interroga sulla sorte di Abele, Caino, anziché mostrarsi impacciato e scusarsi, elude la domanda con arroganza: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gn 4, 9). «Non lo so»: con la menzogna Caino cerca di coprire il delitto. Così è spesso avvenuto e avviene quando le più diverse ideologie servono a giustificare e a mascherare i più atroci delitti verso la persona. «Sono forse io il guardiano di mio fratello?»: Caino non vuole pensare al fratello e rifiuta di vivere quella responsabilità che ogni uomo ha verso l'altro. Viene spontaneo pensare alle odierne tendenze di deresponsabilizzazione dell'uomo verso il suo simile, di cui sono sintomi, tra l'altro, il venir meno della solidarietà verso i membri più deboli della società — quali gli anziani, gli ammalati, gli immigrati, i bambini — e l'indifferenza che spesso si registra nei rapporti tra i popoli anche quando sono in gioco valori fondamentali come la sussistenza, la libertà e la pace.

9. Ma Dio non può lasciare impunito il delitto: dal suolo su cui è stato versato, il sangue dell'ucciso esige che Egli faccia giustizia (cf. Gn 37, 26; Is 26, 21; Ez 24, 7-8). Da questo testo la Chiesa ha ricavato la denominazione di «peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio» e vi ha incluso, anzitutto, l'omicidio volontario.12 Per gli ebrei, come per molti popoli dell'antichità, il sangue è la sede della vita, anzi «il sangue è la vita» (Dt 12, 23) e la vita, specie quella umana, appartiene solo a Dio: per questo chi attenta alla vita dell'uomo, in qualche modo attenta a Dio stesso.

Caino è maledetto da Dio e anche dalla terra, che gli rifiuterà i suoi frutti (cf. Gn 4, 11-12). Ed èpunito: abiterà nella steppa e nel deserto. La violenza omicida cambia profondamente l'ambiente di vita dell'uomo. La terra da «giardino di Eden» (Gn 2, 15), luogo di abbondanza, di serene relazioni interpersonali e di amicizia con Dio, diventa «paese di Nod» (Gn 4, 16), luogo della «miseria», della solitudine e della lontananza da Dio. Caino sarà «ramingo e fuggiasco sulla terra» (Gn 4, 14): incertezza e instabilità lo accompagneranno sempre.

Dio, tuttavia, sempre misericordioso anche quando punisce, «impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato» (Gn 4, 15): gli dà, dunque, un contrassegno, che ha lo scopo non di condannarlo all'esecrazione degli altri uomini, ma di proteggerlo e difenderlo da quanti vorranno ucciderlo fosse anche per vendicare la morte di Abele. Neppure l'omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante. Ed è proprio qui che si manifesta il paradossale mistero della misericordiosa giustizia di Dio, come scrive sant'Ambrogio: «Poiché era stato commesso un fratricidio, cioè il più grande dei crimini, nel momento in cui si introdusse il peccato, subito dovette essere estesa la legge della misericordia divina; perché, se il castigo avesse colpito immediatamente il colpevole, non accadesse che gli uomini, nel punire, non usassero alcuna tolleranza né mitezza, ma consegnassero immediatamente al castigo i colpevoli. (...) Dio respinse Caino dal suo cospetto e, rinnegato dai suoi genitori, lo relegò come nell'esilio di una abitazione separata, per il fatto che era passato dall'umana mitezza alla ferocia belluina. Tuttavia Dio non volle punire l'omicida con un omicidio, poiché vuole il pentimento del peccatore più che la sua morte».13

«Che hai fatto?» (Gn 4, 10): l'eclissi del valore della vita

10. Il Signore disse a Caino: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Gn 4, 10). La voce del sangue versato dagli uomini non cessa di gridare, di generazione in generazione, assumendo toni e accenti diversi e sempre nuovi.

La domanda del Signore «Che hai fatto?», alla quale Caino non può sfuggire, è rivolta anche all'uomo contemporaneo perché prenda coscienza dell'ampiezza e della gravità degli attentati alla vita da cui continua ad essere segnata la storia dell'umanità; vada alla ricerca delle molteplici cause che li generano e li alimentano; rifletta con estrema serietà sulle conseguenze che derivano da questi stessi attentati per l'esistenza delle persone e dei popoli.

Alcune minacce provengono dalla natura stessa, ma sono aggravate dall'incuria colpevole e dalla negligenza degli uomini che non raramente potrebbero porvi rimedio; altre invece sono il frutto di situazioni di violenza, di odi, di contrapposti interessi, che inducono gli uomini ad aggredire altri uomini con omicidi, guerre, stragi, genocidi.

E come non pensare alla violenza che si fa alla vita di milioni di esseri umani, specialmente bambini, costretti alla miseria, alla sottonutrizione e alla fame, a causa di una iniqua distribuzione delle ricchezze tra i popoli e le classi sociali? o alla violenza insita, prima ancora che nelle guerre, in uno scandaloso commercio delle armi, che favorisce la spirale dei tanti conflitti armati che insanguinano il mondo? o alla seminagione di morte che si opera con l'inconsulto dissesto degli equilibri ecologici, con la criminale diffusione della droga o col favorire modelli di esercizio della sessualità che, oltre ad essere moralmente inaccettabili, sono anche forieri di gravi rischi per la vita? È impossibile registrare in modo completo la vasta gamma delle minacce alla vita umana, tante sono le forme, aperte o subdole, che esse rivestono nel nostro tempo!

11. Ma la nostra attenzione intende concentrarsi, in particolare, su un altro genere di attentati, concernenti la vita nascente e terminale, che presentano caratteri nuovi rispetto al passato e sollevano problemi di singolare gravità per il fatto che tendono a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di «delitto» e ad assumere paradossalmente quello del «diritto», al punto che se ne pretende un vero e proprio riconoscimento legale da parte dello Stato e la successiva esecuzione mediante l'intervento gratuito degli stessi operatori sanitari. Tali attentati colpiscono la vita umana in situazioni di massima precarietà, quando è priva di ogni capacità di difesa. Ancora più grave è il fatto che essi, in larga parte, sono consumati proprio all'interno e ad opera di quella famiglia che costitutivamente è invece chiamata ad essere «santuario della vita».

Come s'è potuta determinare una simile situazione? Occorre prendere in considerazione molteplici fattori. Sullo sfondo c'è una profonda crisi della cultura, che ingenera scetticismo sui fondamenti stessi del sapere e dell'etica e rende sempre più difficile cogliere con chiarezza il senso dell'uomo, dei suoi diritti e dei suoi doveri. A ciò si aggiungono le più diverse difficoltà esistenziali e relazionali, aggravate dalla realtà di una società complessa, in cui le persone, le coppie, le famiglie rimangono spesso sole con i loro problemi. Non mancano situazioni di particolare povertà, angustia o esasperazione, in cui la fatica della sopravvivenza, il dolore ai limiti della sopportabilità, le violenze subite, specialmente quelle che investono le donne, rendono le scelte di difesa e di promozione della vita esigenti a volte fino all'eroismo.

Tutto ciò spiega, almeno in parte, come il valore della vita possa oggi subire una specie di «eclissi», per quanto la coscienza non cessi di additarlo quale valore sacro e intangibile, come dimostra il fatto stesso che si tende a coprire alcuni delitti contro la vita nascente o terminale con locuzioni di tipo sanitario, che distolgono lo sguardo dal fatto che è in gioco il diritto all'esistenza di una concreta persona umana.

12. In realtà, se molti e gravi aspetti dell'odierna problematica sociale possono in qualche modo spiegare il clima di diffusa incertezza morale e talvolta attenuare nei singoli la responsabilità soggettiva, non è meno vero che siamo di fronte a una realtà più vasta, che si può considerare come una vera e propria struttura di peccato, caratterizzata dall'imporsi di una cultura anti-solidaristica, che si configura in molti casi come vera «cultura di morte». Essa è attivamente promossa da forti correnti culturali, economiche e politiche, portatrici di una concezione efficientistica della società.

Guardando le cose da tale punto di vista, si può, in certo senso, parlare di una guerra dei potenti contro i deboli: la vita che richiederebbe più accoglienza, amore e cura è ritenuta inutile, o è considerata come un peso insopportabile e, quindi, è rifiutata in molte maniere. Chi, con la sua malattia, con il suo handicap o, molto più semplicemente, con la stessa sua presenza mette in discussione il benessere o le abitudini di vita di quanti sono più avvantaggiati, tende ad essere visto come un nemico da cui difendersi o da eliminare. Si scatena così una specie di «congiura contro la vita». Essa non coinvolge solo le singole persone nei loro rapporti individuali, familiari o di gruppo, ma va ben oltre, sino ad intaccare e stravolgere, a livello mondiale, i rapporti tra i popoli e gli Stati.

13. Per facilitare la diffusione dell'aborto, si sono investite e si continuano ad investire somme ingenti destinate alla messa a punto di preparati farmaceutici, che rendono possibile l'uccisione del feto nel grembo materno, senza la necessità di ricorrere all'aiuto del medico. La stessa ricerca scientifica, su questo punto, sembra quasi esclusivamente preoccupata di ottenere prodotti sempre più semplici ed efficaci contro la vita e, nello stesso tempo, tali da sottrarre l'aborto ad ogni forma di controllo e responsabilità sociale.

Si afferma frequentemente che la contraccezione, resa sicura e accessibile a tutti, è il rimedio più efficace contro l'aborto. Si accusa poi la Chiesa cattolica di favorire di fatto l'aborto perché continua ostinatamente a insegnare l'illiceità morale della contraccezione.

L'obiezione, a ben guardare, si rivela speciosa. Può essere, infatti, che molti ricorrano ai contraccettivi anche nell'intento di evitare successivamente la tentazione dell'aborto. Ma i disvalori insiti nella «mentalità contraccettiva» — ben diversa dall'esercizio responsabile della paternità e maternità, attuato nel rispetto della piena verità dell'atto coniugale — sono tali da rendere più forte proprio questa tentazione, di fronte all'eventuale concepimento di una vita non desiderata. Di fatto la cultura abortista è particolarmente sviluppata proprio in ambienti che rifiutano l'insegnamento della Chiesa sulla contraccezione. Certo, contraccezione ed aborto, dal punto di vista morale, sono mali specificamente diversi: l'una contraddice all'integra verità dell'atto sessuale come espressione propria dell'amore coniugale, l'altro distrugge la vita di un essere umano; la prima si oppone alla virtù della castità matrimoniale, il secondo si oppone alla virtù della giustizia e viola direttamente il precetto divino «non uccidere».

Ma pur con questa diversa natura e peso morale, essi sono molto spesso in intima relazione, come frutti di una medesima pianta. È vero che non mancano casi in cui alla contraccezione e allo stesso aborto si giunge sotto la spinta di molteplici difficoltà esistenziali, che tuttavia non possono mai esonerare dallo sforzo di osservare pienamente la Legge di Dio. Ma in moltissimi altri casi tali pratiche affondano le radici in una mentalità edonistica e deresponsabilizzante nei confronti della sessualità e suppongono un concetto egoistico di libertà che vede nella procreazione un ostacolo al dispiegarsi della propria personalità. La vita che potrebbe scaturire dall'incontro sessuale diventa così il nemico da evitare assolutamente e l'aborto l'unica possibile risposta risolutiva di fronte ad una contraccezione fallita.

Purtroppo la stretta connessione che, a livello di mentalità, intercorre tra la pratica della contraccezione e quella dell'aborto emerge sempre di più e lo dimostra in modo allarmante anche la messa a punto di preparati chimici, di dispositivi intrauterini e di vaccini che, distribuiti con la stessa facilità dei contraccettivi, agiscono in realtà come abortivi nei primissimi stadi di sviluppo della vita del nuovo essere umano.

14. Anche le varie tecniche di riproduzione artificiale, che sembrerebbero porsi a servizio della vita e che sono praticate non poche volte con questa intenzione, in realtà aprono la porta a nuovi attentati contro la vita. Al di là del fatto che esse sono moralmente inaccettabili, dal momento che dissociano la procreazione dal contesto integralmente umano dell'atto coniugale,14 queste tecniche registrano alte percentuali di insuccesso: esso riguarda non tanto la fecondazione, quanto il successivo sviluppo dell'embrione, esposto al rischio di morte entro tempi in genere brevissimi. Inoltre, vengono prodotti talvolta embrioni in numero superiore a quello necessario per l'impianto nel grembo della donna e questi cosiddetti «embrioni soprannumerari» vengono poi soppressi o utilizzati per ricerche che, con il pretesto del progresso scientifico o medico, in realtà riducono la vita umana a semplice «materiale biologico» di cui poter liberamente disporre.

Le diagnosi pre-natali, che non presentano difficoltà morali se fatte per individuare eventuali cure necessarie al bambino non ancora nato, diventano troppo spesso occasione per proporre e procurare l'aborto. È l'aborto eugenetico, la cui legittimazione nell'opinione pubblica nasce da una mentalità — a torto ritenuta coerente con le esigenze della «terapeuticità» — che accoglie la vita solo a certe condizioni e che rifiuta il limite, l'handicap, l'infermità.

Seguendo questa stessa logica, si è giunti a negare le cure ordinarie più elementari, e perfino l'alimentazione, a bambini nati con gravi handicap o malattie. Lo scenario contemporaneo, inoltre, si fa ancora più sconcertante a motivo delle proposte, avanzate qua e là, di legittimare, nella stessa linea del diritto all'aborto, persino l'infanticidio, ritornando così ad uno stadio di barbarie che si sperava di aver superato per sempre.

15. Minacce non meno gravi incombono pure sui malati inguaribili e sui morenti, in un contesto sociale e culturale che, rendendo più difficile affrontare e sopportare la sofferenza, acuisce la tentazione di risolvere il problema del soffrire eliminandolo alla radice con l'anticipare la morte al momento ritenuto più opportuno.

In tale scelta confluiscono spesso elementi di diverso segno, purtroppo convergenti a questo terribile esito. Può essere decisivo, nel soggetto malato, il senso di angoscia, di esasperazione, persino di disperazione, provocato da un'esperienza di dolore intenso e prolungato. Ciò mette a dura prova gli equilibri a volte già instabili della vita personale e familiare, sicché, da una parte, il malato, nonostante gli aiuti sempre più efficaci dell'assistenza medica e sociale, rischia di sentirsi schiacciato dalla propria fragilità; dall'altra, in coloro che gli sono effettivamente legati, può operare un senso di comprensibile anche se malintesa pietà. Tutto ciò è aggravato da un'atmosfera culturale che non coglie nella sofferenza alcun significato o valore, anzi la considera il male per eccellenza, da eliminare ad ogni costo; il che avviene specialmente quando non si ha una visione religiosa che aiuti a decifrare positivamente il mistero del dolore.

Ma nell'orizzonte culturale complessivo non manca di incidere anche una sorta di atteggiamento prometeico dell'uomo che, in tal modo, si illude di potersi impadronire della vita e della morte perché decide di esse, mentre in realtà viene sconfitto e schiacciato da una morte irrimediabilmente chiusa ad ogni prospettiva di senso e ad ogni speranza. Riscontriamo una tragica espressione di tutto ciò nella diffusione dell'eutanasia, mascherata e strisciante o attuata apertamente e persino legalizzata. Essa, oltre che per una presunta pietà di fronte al dolore del paziente, viene talora giustificata con una ragione utilitaristica, volta ad evitare spese improduttive troppo gravose per la società. Si propone così la soppressione dei neonati malformati, degli handicappati gravi, degli inabili, degli anziani, soprattutto se non autosufficienti, e dei malati terminali. Né ci è lecito tacere di fronte ad altre forme più subdole, ma non meno gravi e reali, di eutanasia. Esse, ad esempio, potrebbero verificarsi quando, per aumentare la disponibilità di organi da trapiantare, si procedesse all'espianto degli stessi organi senza rispettare i criteri oggettivi ed adeguati di accertamento della morte del donatore.

16. Un altro fenomeno attuale, al quale si accompagnano frequentemente minacce e attentati alla vita, è quello demografico. Esso si presenta in modo differente nelle diverse parti del mondo: nei Paesi ricchi e sviluppati si registra un preoccupante calo o crollo delle nascite; i Paesi poveri, invece, presentano in genere un tasso elevato di aumento della popolazione, difficilmente sopportabile in un contesto di minore sviluppo economico e sociale, o addirittura di grave sottosviluppo. Di fronte alla sovrapopolazione dei Paesi poveri mancano, a livello internazionale, interventi globali — serie politiche familiari e sociali, programmi di crescita culturale e di giusta produzione e distribuzione delle risorse — mentre si continua a mettere in atto politiche antinataliste.

Contraccezione, sterilizzazione e aborto vanno certamente annoverati tra le cause che contribuiscono a determinare le situazioni di forte denatalità. Può essere facile la tentazione di ricorrere agli stessi metodi e attentati contro la vita anche nelle situazioni di «esplosione demografica».

L'antico faraone, sentendo come un incubo la presenza e il moltiplicarsi dei figli di Israele, li sottopose ad ogni forma di oppressione e ordinò che venisse fatto morire ogni neonato maschio delle donne ebree (cf. Es 1, 7-22). Allo stesso modo si comportano oggi non pochi potenti della terra.

Essi pure avvertono come un incubo lo sviluppo demografico in atto e temono che i popoli più prolifici e più poveri rappresentino una minaccia per il benessere e la tranquillità dei loro Paesi. Di conseguenza, piuttosto che voler affrontare e risolvere questi gravi problemi nel rispetto della dignità delle persone e delle famiglie e dell'inviolabile diritto alla vita di ogni uomo, preferiscono promuovere e imporre con qualsiasi mezzo una massiccia pianificazione delle nascite. Gli stessi aiuti economici, che sarebbero disposti a dare, vengono ingiustamente condizionati all'accettazione di una politica antinatalista.

17. L'umanità di oggi ci offre uno spettacolo davvero allarmante, se pensiamo non solo ai diversi ambiti nei quali si sviluppano gli attentati alla vita, ma anche alla loro singolare proporzione numerica, nonché al molteplice e potente sostegno che viene loro dato dall'ampio consenso sociale, dal frequente riconoscimento legale, dal coinvolgimento di parte del personale sanitario.

Come ebbi a dire con forza a Denver, in occasione dell'VIII Giornata Mondiale della Gioventù, «con il tempo, le minacce contro la vita non vengono meno. Esse, al contrario, assumono dimensioni enormi. Non si tratta soltanto di minacce provenienti dall'esterno, di forze della natura o dei "Caino" che assassinano gli "Abele"; no, si tratta di minacce programmate in maniera scientifica e sistematica. Il ventesimo secolo verrà considerato un'epoca di attacchi massicci contro la vita, un'interminabile serie di guerre e un massacro permanente di vite umane innocenti. I falsi profeti e i falsi maestri hanno conosciuto il maggior successo possibile».15 Al di là delle intenzioni, che possono essere varie e magari assumere forme suadenti persino in nome della solidarietà, siamo in realtà di fronte a una oggettiva «congiura contro la vita» che vede implicate anche Istituzioni internazionali, impegnate a incoraggiare e programmare vere e proprie campagne per diffondere la contraccezione, la sterilizzazione e l'aborto. Non si può, infine, negare che i mass media sono spesso complici di questa congiura, accreditando nell'opinione pubblica quella cultura che presenta il ricorso alla contraccezione, alla sterilizzazione, all'aborto e alla stessa eutanasia come segno di progresso e conquista di libertà, mentre dipinge come nemiche della libertà e del progresso le posizioni incondizionatamente a favore della vita.

«Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gn 4, 9): un'idea perversa di libertà

18. Il panorama descritto chiede di essere conosciuto non soltanto nei fenomeni di morte che lo caratterizzano, ma anche nelle molteplici cause che lo determinano. La domanda del Signore «Che hai fatto?» (Gn 4, 10) sembra essere quasi un invito rivolto a Caino ad andare oltre la materialità del suo gesto omicida, per coglierne tutta la gravità nelle motivazioni che ne sono all'origine e nelle conseguenze che ne derivano.

Le scelte contro la vita nascono, talvolta, da situazioni difficili o addirittura drammatiche di profonda sofferenza, di solitudine, di totale mancanza di prospettive economiche, di depressione e di angoscia per il futuro. Tali circostanze possono attenuare anche notevolmente la responsabilità soggettiva e la conseguente colpevolezza di quanti compiono queste scelte in sé criminose. Tuttavia oggi il problema va ben al di là del pur doveroso riconoscimento di queste situazioni personali. Esso si pone anche sul piano culturale, sociale e politico, dove presenta il suo aspetto più sovversivo e conturbante nella tendenza, sempre più largamente condivisa, a interpretare i menzionati delitti contro la vita come legittime espressioni della libertà individuale, da riconoscere e proteggere come veri e propri diritti.

In questo modo giunge ad una svolta dalle tragiche conseguenze un lungo processo storico, che dopo aver scoperto l'idea dei «diritti umani» — come diritti inerenti a ogni persona e precedenti ogni Costituzione e legislazione degli Stati — incorre oggi in una sorprendente contraddizione: proprio in un'epoca in cui si proclamano solennemente i diritti inviolabili della persona e si afferma pubblicamente il valore della vita, lo stesso diritto alla vita viene praticamente negato e conculcato, in particolare nei momenti più emblematici dell'esistenza, quali sono il nascere e il morire.

Da un lato, le varie dichiarazioni dei diritti dell'uomo e le molteplici iniziative che ad esse si ispirano dicono l'affermarsi a livello mondiale di una sensibilità morale più attenta a riconoscere il valore e la dignità di ogni essere umano in quanto tale, senza alcuna distinzione di razza, nazionalità, religione, opinione politica, ceto sociale.

Dall'altro lato, a queste nobili proclamazioni si contrappone purtroppo, nei fatti, una loro tragica negazione. Questa è ancora più sconcertante, anzi più scandalosa, proprio perché si realizza in una società che fa dell'affermazione e della tutela dei diritti umani il suo obiettivo principale e insieme il suo vanto. Come mettere d'accordo queste ripetute affermazioni di principio con il continuo moltiplicarsi e la diffusa legittimazione degli attentati alla vita umana? Come conciliare queste dichiarazioni col rifiuto del più debole, del più bisognoso, dell'anziano, dell'appena concepito? Questi attentati vanno in direzione esattamente contraria al rispetto della vita e rappresentano una minaccia frontale a tutta la cultura dei diritti dell'uomo. È una minaccia capace, al limite, di mettere a repentaglio lo stesso significato della convivenza democratica: da società di «con- viventi», le nostre città rischiano di diventare società di esclusi, di emarginati, di rimossi e soppressi. Se poi lo sguardo si allarga ad un orizzonte planetario, come non pensare che la stessa affermazione dei diritti delle persone e dei popoli, quale avviene in alti consessi internazionali, si riduce a sterile esercizio retorico, se non si smaschera l'egoismo dei Paesi ricchi che chiudono l'accesso allo sviluppo dei Paesi poveri o lo condizionano ad assurdi divieti di procreazione, contrapponendo lo sviluppo all'uomo? Non occorre forse mettere in discussione gli stessi modelli economici, adottati sovente dagli Stati anche per spinte e condizionamenti di carattere internazionale, che generano ed alimentano situazioni di ingiustizia e violenza nelle quali la vita umana di intere popolazioni viene avvilita e conculcata?

19. Dove stanno le radici di una contraddizione tanto paradossale?

Le possiamo riscontrare in complessive valutazioni di ordine culturale e morale, a iniziare da quella mentalità che, esasperando e persino deformando il concetto di soggettività, riconosce come titolare di diritti solo chi si presenta con piena o almeno incipiente autonomia ed esce da condizioni di totale dipendenza dagli altri. Ma come conciliare tale impostazione con l'esaltazione dell'uomo quale essere «indisponibile»? La teoria dei diritti umani si fonda proprio sulla considerazione del fatto che l'uomo, diversamente dagli animali e dalle cose, non può essere sottomesso al dominio di nessuno. Si deve pure accennare a quella logica che tende a identificare la dignità personale con la capacità di comunicazione verbale ed esplicita e, in ogni caso, sperimentabile. È chiaro che, con tali presupposti, non c'è spazio nel mondo per chi, come il nascituro o il morente, è un soggetto strutturalmente debole, sembra totalmente assoggettato alla mercé di altre persone e da loro radicalmente dipendente e sa comunicare solo mediante il muto linguaggio di una profonda simbiosi di affetti. È, quindi, la forza a farsi criterio di scelta e di azione nei rapporti interpersonali e nella convivenza sociale. Ma questo è l'esatto contrario di quanto ha voluto storicamente affermare lo Stato di diritto, come comunità nella quale alle «ragioni della forza» si sostituisce la «forza della ragione».

Ad un altro livello, le radici della contraddizione che intercorre tra la solenne affermazione dei diritti dell'uomo e la loro tragica negazione nella pratica risiedono in una concezione della libertà che esalta in modo assoluto il singolo individuo, e non lo dispone alla solidarietà, alla piena accoglienza e al servizio dell'altro. Se è vero che talvolta la soppressione della vita nascente o terminale si colora anche di un malinteso senso di altruismo e di umana pietà, non si può negare che una tale cultura di morte, nel suo insieme, tradisce una concezione della libertà del tutto individualistica che finisce per essere la libertà dei «più forti» contro i deboli destinati a soccombere.

Proprio in questo senso si può interpretare la risposta di Caino alla domanda del Signore «Dov'è Abele, tuo fratello?»: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gn 4, 9). Sì, ogni uomo è «guardiano di suo fratello», perché Dio affida l'uomo all'uomo. Ed è anche in vista di tale affidamento che Dio dona a ogni uomo la libertà, che possiede un'essenziale dimensione relazionale. Essa è grande dono del Creatore, posta com'è al servizio della persona e della sua realizzazione mediante il dono di sé e l'accoglienza dell'altro; quando invece viene assolutizzata in chiave individualistica, la libertà è svuotata del suo contenuto originario ed è contraddetta nella sua stessa vocazione e dignità.

C'è un aspetto ancora più profondo da sottolineare: la libertà rinnega sé stessa, si autodistrugge e si dispone all'eliminazione dell'altro quando non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità. Ogni volta che la libertà, volendo emanciparsi da qualsiasi tradizione e autorità, si chiude persino alle evidenze primarie di una verità oggettiva e comune, fondamento della vita personale e sociale, la persona finisce con l'assumere come unico e indiscutibile riferimento per le proprie scelte non più la verità sul bene e sul male, ma solo la sua soggettiva e mutevole opinione o, addirittura, il suo egoistico interesse e il suo capriccio.

20. In questa concezione della libertà, la convivenza sociale viene profondamente deformata. Se la promozione del proprio io è intesa in termini di autonomia assoluta, inevitabilmente si giunge alla negazione dell'altro, sentito come un nemico da cui difendersi. In questo modo la società diventa un insieme di individui posti l'uno accanto all'altro, ma senza legami reciproci: ciascuno vuole affermarsi indipendentemente dall'altro, anzi vuol far prevalere i suoi interessi. Tuttavia, di fronte ad analoghi interessi dell'altro, ci si deve arrendere a cercare qualche forma di compromesso, se si vuole che nella società sia garantito a ciascuno il massimo di libertà possibile. Viene meno così ogni riferimento a valori comuni e a una verità assoluta per tutti: la vita sociale si avventura nelle sabbie mobili di un relativismo totale. Allora tutto è convenzionabile, tutto è negoziabile: anche il primo dei diritti fondamentali, quello alla vita.

È quanto di fatto accade anche in ambito più propriamente politico e statale: l'originario e inalienabile diritto alla vita è messo in discussione o negato sulla base di un voto parlamentare o della volontà di una parte — sia pure maggioritaria — della popolazione. È l'esito nefasto di un relativismo che regna incontrastato: il «diritto» cessa di essere tale, perché non è più solidamente fondato sull'inviolabile dignità della persona, ma viene assoggettato alla volontà del più forte. In questo modo la democrazia, ad onta delle sue regole, cammina sulla strada di un sostanziale totalitarismo. Lo Stato non è più la «casa comune» dove tutti possono vivere secondo principi di uguaglianza sostanziale, ma si trasforma in Stato tiranno, che presume di poter disporre della vita dei più deboli e indifesi, dal bambino non ancora nato al vecchio, in nome di una utilità pubblica che non è altro, in realtà, che l'interesse di alcuni.

Tutto sembra avvenire nel più saldo rispetto della legalità, almeno quando le leggi che permettono l'aborto o l'eutanasia vengono votate secondo le cosiddette regole democratiche. In verità, siamo di fronte solo a una tragica parvenza di legalità e l'ideale democratico, che è davvero tale quando riconosce e tutela la dignità di ogni persona umana, è tradito nelle sue stesse basi: «Come è possibile parlare ancora di dignità di ogni persona umana, quando si permette che si uccida la più debole e la più innocente? In nome di quale giustizia si opera fra le persone la più ingiusta delle discriminazioni, dichiarandone alcune degne di essere difese, mentre ad altre questa dignità è negata?».16 Quando si verificano queste condizioni si sono già innescati quei dinamismi che portano alla dissoluzione di un'autentica convivenza umana e alla disgregazione della stessa realtà statuale.

Rivendicare il diritto all'aborto, all'infanticidio, all'eutanasia e riconoscerlo legalmente, equivale ad attribuire alla libertà umana un significato perverso e iniquo: quello di un potere assoluto sugli altri e contro gli altri. Ma questa è la morte della vera libertà: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8, 34).

«Mi dovrò nascondere lontano da t» (Gn 4, 14): l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo

21. Nel ricercare le radici più profonde della lotta tra la «cultura della vita» e la «cultura della morte», non ci si può fermare all'idea perversa di libertà sopra ricordata. Occorre giungere al cuore del dramma vissuto dall'uomo contemporaneo:l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo, tipica del contesto sociale e culturale dominato dal secolarismo, che coi suoi tentacoli pervasivi non manca talvolta di mettere alla prova le stesse comunità cristiane. Chi si lascia contagiare da questa atmosfera, entra facilmente nel vortice di un terribile circolo vizioso: smarrendo il senso di Dio, si tende a smarrire anche il senso dell'uomo, della sua dignità e della sua vita; a sua volta, la sistematica violazione della legge morale, specie nella grave materia del rispetto della vita umana e della sua dignità, produce una sorta di progressivo oscuramento della capacità di percepire la presenza vivificante e salvante di Dio.

Ancora una volta possiamo ispirarci al racconto dell'uccisione di Abele da parte del fratello. Dopo la maledizione inflittagli da Dio, Caino così si rivolge al Signore: «Troppo grande è la mia colpa per sopportarla! Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere» (Gn 4, 13-14).

Caino ritiene che il suo peccato non potrà ottenere perdono dal Signore e che il suo destino inevitabile sarà di doversi «nascondere lontano» da lui. Se Caino riesce a confessare che la sua colpa è «troppo grande», è perché egli sa di trovarsi di fronte a Dio e al suo giusto giudizio. In realtà, solo davanti al Signore l'uomo può riconoscere il suo peccato e percepirne tutta la gravità. È questa l'esperienza di Davide, che dopo «aver fatto male agli occhi del Signore», rimproverato dal profeta Natan (cf. 2 Sam 11-12), esclama: «Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto» (Sal 511, 5-6).

22. Per questo, quando viene meno il senso di Dio, anche il senso dell'uomo viene minacciato e inquinato, come lapidariamente afferma il Concilio Vaticano II: «La creatura senza il Creatore svanisce... Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa».17 L'uomo non riesce più a percepirsi come «misteriosamente altro» rispetto alle diverse creature terrene; egli si considera come uno dei tanti esseri viventi, come un organismo che, tutt'al più, ha raggiunto uno stadio molto elevato di perfezione. Chiuso nel ristretto orizzonte della sua fisicità, si riduce in qualche modo a «una cosa» e non coglie più il carattere «trascendente» del suo «esistere come uomo». Non considera più la vita come uno splendido dono di Dio, una realtà «sacra» affidata alla sua responsabilità e quindi alla sua amorevole custodia, alla sua «venerazione». Essa diventa semplicemente «una cosa», che egli rivendica come sua esclusiva proprietà, totalmente dominabile e manipolabile.

Così, di fronte alla vita che nasce e alla vita che muore, non è più capace di lasciarsi interrogare sul senso più autentico della sua esistenza, assumendo con vera libertà questi momenti cruciali del proprio «essere». Egli si preoccupa solo del «fare» e, ricorrendo ad ogni forma di tecnologia, si affanna a programmare, controllare e dominare la nascita e la morte. Queste, da esperienze originarie che chiedono di essere «vissute», diventano cose che si pretende semplicemente di «possedere» o di «rifiutare».

Del resto, una volta escluso il riferimento a Dio, non sorprende che il senso di tutte le cose ne esca profondamente deformato, e la stessa natura, non più «mater», sia ridotta a «materiale» aperto a tutte le manipolazioni. A ciò sembra condurre una certa razionalità tecnico-scientifica, dominante nella cultura contemporanea, che nega l'idea stessa di una verità del creato da riconoscere o di un disegno di Dio sulla vita da rispettare. E ciò non è meno vero, quando l'angoscia per gli esiti di tale «libertà senza legge» induce alcuni all'opposta istanza di una «legge senza libertà», come avviene, ad esempio, in ideologie che contestano la legittimità di qualunque intervento sulla natura, quasi in nome di una sua «divinizzazione», che ancora una volta ne misconosce la dipendenza dal disegno del Creatore. In realtà, vivendo «come se Dio non esistesse», l'uomo smarrisce non solo il mistero di Dio, ma anche quello del mondo e il mistero del suo stesso essere.

23. L'eclissi del senso di Dio e dell'uomo conduce inevitabilmente al materialismo pratico, nel quale proliferano l'individualismo, l'utilitarismo e l'edonismo. Si manifesta anche qui la perenne validità di quanto scrive l'Apostolo: «Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d'una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno» (Rm 1, 28). Così i valori dell'essere sono sostituiti da quelli dell'avere.

L'unico fine che conta è il perseguimento del proprio benessere materiale. La cosiddetta «qualità della vita» è interpretata in modo prevalente o esclusivo come efficienza economica, consumismo disordinato, bellezza e godibilità della vita fisica, dimenticando le dimensioni più profonde — relazionali, spirituali e religiose — dell'esistenza.

In un simile contesto la sofferenza, inevitabile peso dell'esistenza umana ma anche fattore di possibile crescita personale, viene «censurata», respinta come inutile, anzi combattuta come male da evitare sempre e comunque. Quando non la si può superare e la prospettiva di un benessere almeno futuro svanisce, allora pare che la vita abbia perso ogni significato e cresce nell'uomo la tentazione di rivendicare il diritto alla sua soppressione.

Sempre nel medesimo orizzonte culturale, il corpo non viene più percepito come realtà tipicamente personale, segno e luogo della relazione con gli altri, con Dio e con il mondo. Esso è ridotto a pura materialità: è semplice complesso di organi, funzioni ed energie da usare secondo criteri di mera godibilità ed efficienza. Conseguentemente, anche la sessualità è depersonalizzata e strumentalizzata: da segno, luogo e linguaggio dell'amore, ossia del dono di sé e dell'accoglienza dell'altro secondo l'intera ricchezza della persona, diventa sempre più occasione e strumento di affermazione del proprio io e di soddisfazione egoistica dei propri desideri e istinti. Così si deforma e falsifica il contenuto originario della sessualità umana e i due significati, unitivo e procreativo, insiti nella natura stessa dell'atto coniugale, vengono artificialmente separati: in questo modo l'unione è tradita e la fecondità è sottomessa all'arbitrio dell'uomo e della donna. La procreazione allora diventa il «nemico» da evitare nell'esercizio della sessualità: se viene accettata, è solo perché esprime il proprio desiderio, o addirittura la propria volontà, di avere il figlio «ad ogni costo» e non, invece, perché dice totale accoglienza dell'altro e, quindi, apertura alla ricchezza di vita di cui il figlio è portatore.

Nella prospettiva materialistica fin qui descritta, le relazioni interpersonali conoscono un grave impoverimento. I primi a subirne i danni sono la donna, il bambino, il malato o sofferente, l'anziano. Il criterio proprio della dignità personale — quello cioè del rispetto, della gratuità e del servizio — viene sostituito dal criterio dell'efficienza, della funzionalità e dell'utilità: l'altro è apprezzato non per quello che «è», ma per quello che «ha, fa e rende». È la supremazia del più forte sul più debole.

24. È nell'intimo della coscienza morale che l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo, con tutte le sue molteplici e funeste conseguenze sulla vita, si consuma. È in questione, anzitutto, la coscienza di ciascuna persona, che nella sua unicità e irripetibilità si trova sola di fronte a Dio.18 Ma è pure in questione, in un certo senso, la «coscienza morale» della società: essa è in qualche modo responsabile non solo perché tollera o favorisce comportamenti contrari alla vita, ma anche perché alimenta la «cultura della morte», giungendo a creare e a consolidare vere e proprie «strutture di peccato» contro la vita. La coscienza morale, sia individuale che sociale, è oggi sottoposta, anche per l'influsso invadente di molti strumenti della comunicazione sociale, a un pericolo gravissimo e mortale: quello della confusione tra il bene e il male in riferimento allo stesso fondamentale diritto alla vita. Tanta parte dell'attuale società si rivela tristemente simile a quell'umanità che Paolo descrive nella Lettera ai Romani. È fatta «di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia» (1, 18): avendo rinnegato Dio e credendo di poter costruire la città terrena senza di lui, «hanno vaneggiato nei loro ragionamenti» sicché «si è ottenebrata la loro mente ottusa» (1, 21); «mentre si dichiaravano sapienti sono diventati stolti» (1, 22), sono diventati autori di opere degne di morte e «non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa» (1, 32). Quando la coscienza, questo luminoso occhio dell'anima (cf. Mt 6, 22-23), chiama «bene il male e male il bene» (Is 5, 20), è ormai sulla strada della sua degenerazione più inquietante e della più tenebrosa cecità morale.

Eppure tutti i condizionamenti e gli sforzi per imporre il silenzio non riescono a soffocare la voce del Signore che risuona nella coscienza di ogni uomo: è sempre da questo intimo sacrario della coscienza che può ripartire un nuovo cammino di amore, di accoglienza e di servizio alla vita umana.

«Vi siete accostati al sangue dell'aspersione» (cf. Eb 12, 22.24): segni di speranza e invito all'impegno

25. «La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Gn 4, 10). Non è solo la voce del sangue di Abele, il primo innocente ucciso, a gridare verso Dio, sorgente e difensore della vita. Anche il sangue di ogni altro uomo ucciso dopo Abele è voce che si leva al Signore. In una forma assolutamente unica, grida a Dio la voce del sangue di Cristo, di cui Abele nella sua innocenza è figura profetica, come ci ricorda l'autore della Lettera agli Ebrei: «Voi vi siete invece accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente... al Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue dell'aspersione dalla voce più eloquente di quello di Abele» (12, 22.24).

È il sangue dell'aspersione. Ne era stato simbolo e segno anticipatore il sangue dei sacrifici dell'Antica Alleanza, con i quali Dio esprimeva la volontà di comunicare la sua vita agli uomini, purificandoli e consacrandoli (cf. Es 24, 8; Lv 17, 11). Ora, tutto questo in Cristo si compie e si avvera: il suo è il sangue dell'aspersione che redime, purifica e salva; è il sangue del Mediatore della Nuova Alleanza «versato per molti, in remissione dei peccati» (Mt 26, 28). Questo sangue, che fluisce dal fianco trafitto di Cristo sulla croce (cf. Gv 19, 34), ha la «voce più eloquente» del sangue di Abele; esso infatti esprime ed esige una più profonda «giustizia», ma soprattutto implora misericordia,19 si fa presso il Padre intercessione per i fratelli (cf. Eb 7, 25), è fonte di redenzione perfetta e dono di vita nuova.

Il sangue di Cristo, mentre rivela la grandezza dell'amore del Padre, manifesta come l'uomo sia prezioso agli occhi di Dio e come sia inestimabile il valore della sua vita. Ce lo ricorda l'apostolo Pietro: «Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia» (1 Pt 1, 18-19). Proprio contemplando il sangue prezioso di Cristo, segno della sua donazione d'amore (cf. Gv 13, 1), il credente impara a riconoscere e ad apprezzare la dignità quasi divina di ogni uomo e può esclamare con sempre rinnovato e grato stupore: «Quale valore deve avere l'uomo davanti agli occhi del Creatore se "ha meritato di avere un tanto nobile e grande Redentore" (Exultet della Veglia pasquale), se "Dio ha dato il suo Figlio", affinché egli, l'uomo, "non muoia, ma abbia la vita eterna" (cf. Gv 3, 16)!».20

Il sangue di Cristo, inoltre, rivela all'uomo che la sua grandezza, e quindi la sua vocazione, consiste nel dono sincero di sé. Proprio perché viene versato come dono di vita, il sangue di Gesù non è più segno di morte, di separazione definitiva dai fratelli, ma strumento di una comunione che è ricchezza di vita per tutti. Chi nel sacramento dell'Eucaristia beve questo sangue e dimora in Gesù (cf. Gv 6, 56) è coinvolto nel suo stesso dinamismo di amore e di donazione di vita, per portare a pienezza l'originaria vocazione all'amore che è propria di ogni uomo (cf. Gn 1, 27; 2, 18-24).

È ancora nel sangue di Cristo che tutti gli uomini attingono la forza per impegnarsi a favore della vita. Proprio questo sangue è il motivo più forte di speranza, anzi è il fondamento dell'assoluta certezza che secondo il disegno di Dio la vittoria sarà della vita. «Non ci sarà più la morte», esclama la voce potente che esce dal trono di Dio nella Gerusalemme celeste (Ap 21, 4). E san Paolo ci assicura che la vittoria attuale sul peccato è segno e anticipazione della vittoria definitiva sulla morte, quando «si compirà la parola della Scrittura: "La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?"» (1 Cor 15, 54-55).

26. In realtà, segni anticipatori di questa vittoria non mancano nelle nostre società e culture, pur così fortemente segnate dalla «cultura della morte». Si darebbe dunque un'immagine unilaterale, che potrebbe indurre a uno sterile scoraggiamento, se alla denuncia delle minacce alla vita non si accompagnasse la presentazione dei segni positivi operanti nell'attuale situazione dell'umanità.

Purtroppo tali segni positivi faticano spesso a manifestarsi e ad essere riconosciuti, forse anche perché non trovano adeguata attenzione nei mezzi della comunicazione sociale. Ma quante iniziative di aiuto e di sostegno alle persone più deboli e indifese sono sorte e continuano a sorgere, nella comunità cristiana e nella società civile, a livello locale, nazionale e internazionale, ad opera di singoli, gruppi, movimenti ed organizzazioni di vario genere!

Sono ancora molti gli sposi che, con generosa responsabilità, sanno accogliere i figli come «il preziosissimo dono del matrimonio».21 Né mancano famiglie che, al di là del loro quotidiano servizio alla vita, sanno aprirsi all'accoglienza di bambini abbandonati, di ragazzi e giovani in difficoltà, di persone portatrici di handicap, di anziani rimasti soli. Non pochi centri di aiuto alla vita, o istituzioni analoghe, sono promossi da persone e gruppi che, con ammirevole dedizione e sacrificio, offrono un sostegno morale e materiale a mamme in difficoltà, tentate di ricorrere all'aborto. Sorgono pure e si diffondono gruppi di volontari impegnati a dare ospitalità a chi è senza famiglia, si trova in condizioni di particolare disagio o ha bisogno di ritrovare un ambiente educativo che lo aiuti a superare abitudini distruttive e a ricuperare il senso della vita.

La medicina, promossa con grande impegno da ricercatori e professionisti, prosegue nel suo sforzo per trovare rimedi sempre più efficaci: risultati un tempo del tutto impensabili e tali da aprire promettenti prospettive sono oggi ottenuti a favore della vita nascente, delle persone sofferenti e dei malati in fase acuta o terminale. Enti e organizzazioni varie si mobilitano per portare, anche nei Paesi più colpiti dalla miseria e da malattie endemiche, i benefici della medicina più avanzata. Così pure associazioni nazionali e internazionali di medici si attivano tempestivamente per recare soccorso alle popolazioni provate da calamità naturali, da epidemie o da guerre. Anche se una vera giustizia internazionale nella ripartizione delle risorse mediche è ancora lontana dalla sua piena realizzazione, come non riconoscere nei passi sinora compiuti il segno di una crescente solidarietà tra i popoli, di un'apprezzabile sensibilità umana e morale e di un maggiore rispetto per la vita?

27. Di fronte a legislazioni che hanno permesso l'aborto e a tentativi, qua e là riusciti, di legalizzare l'eutanasia, sono sorti in tutto il mondo movimenti e iniziative di sensibilizzazione sociale in favore della vita. Quando, in conformità alla loro ispirazione autentica, agiscono con determinata fermezza ma senza ricorrere alla violenza, tali movimenti favoriscono una più diffusa presa di coscienza del valore della vita e sollecitano e realizzano un più deciso impegno per la sua difesa.

Come non ricordare, inoltre, tutti quei gesti quotidiani di accoglienza, di sacrificio, di cura disinteressata che un numero incalcolabile di persone compie con amore nelle famiglie, negli ospedali, negli orfanotrofi, nelle case di riposo per anziani e in altri centri o comunità a difesa della vita? Lasciandosi guidare dall'esempio di Gesù «buon samaritano» (cf. Lc 10, 29-37) e sostenuta dalla sua forza, la Chiesa è sempre stata in prima linea su queste frontiere della carità: tanti suoi figli e figlie, specialmente religiose e religiosi, in forme antiche e sempre nuove, hanno consacrato e continuano a consacrare la loro vita a Dio donandola per amore del prossimo più debole e bisognoso.

Questi gesti costruiscono nel profondo quella «civiltà dell'amore e della vita», senza la quale l'esistenza delle persone e della società smarrisce il suo significato più autenticamente umano. Anche se nessuno li notasse e rimanessero nascosti ai più, la fede assicura che il Padre, «che vede nel segreto» (Mt 6, 4), non solo saprà ricompensarli, ma già fin d'ora li rende fecondi di frutti duraturi per tutti.

Tra i segni di speranza va pure annoverata la crescita, in molti strati dell'opinione pubblica, di una nuova sensibilità sempre più contraria alla guerra come strumento di soluzione dei conflitti tra i popoli e sempre più orientata alla ricerca di strumenti efficaci ma «non violenti» per bloccare l'aggressore armato. Nel medesimo orizzonte si pone altresì la sempre più diffusa avversione dell'opinione pubblica alla pena di morte anche solo come strumento di «legittima difesa» sociale, in considerazione delle possibilità di cui dispone una moderna società di reprimere efficacemente il crimine in modi che, mentre rendono inoffensivo colui che l'ha commesso, non gli tolgono definitivamente la possibilità di redimersi.

È da salutare con favore anche l'accresciuta attenzione allaqualità della vita e all'ecologia, che si registra soprattutto nelle società a sviluppo avanzato, nelle quali le attese delle persone non sono più concentrate tanto sui problemi della sopravvivenza quanto piuttosto sulla ricerca di un miglioramento globale delle condizioni di vita. Particolarmente significativo è il risveglio di una riflessione etica attorno alla vita: con la nascita e lo sviluppo sempre più diffuso della bioetica vengono favoriti la riflessione e il dialogo — tra credenti e non credenti, come pure tra credenti di diverse religioni — su problemi etici, anche fondamentali, che interessano la vita dell'uomo.

28. Questo orizzonte di luci ed ombre deve renderci tutti pienamente consapevoli che ci troviamo di fronte ad uno scontro immane e drammatico tra il male e il bene, la morte e la vita, la «cultura della morte» e la «cultura della vita». Ci troviamo non solo «di fronte», ma necessariamente «in mezzo» a tale conflitto: tutti siamo coinvolti e partecipi, con l'ineludibile responsabilità di scegliere incondizionatamente a favore della vita.

Anche per noi risuona chiaro e forte l'invito di Mosè: «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male...; io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza» (Dt 30, 15.19). È un invito che ben si addice anche a noi, chiamati ogni giorno a dover decidere tra la «cultura della vita» e la «cultura della morte». Ma l'appello del Deuteronomio è ancora più profondo, perché ci sollecita ad una scelta propriamente religiosa e morale. Si tratta di dare alla propria esistenza un orientamento fondamentale e di vivere in fedeltà e coerenza con la legge del Signore: «Io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme...; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità» (30, 16.19-20).

La scelta incondizionata a favore della vita raggiunge in pienezza il suo significato religioso e morale quando scaturisce, viene plasmata ed è alimentata dalla fede in Cristo. Nulla aiuta ad affrontare positivamente il conflitto tra la morte e la vita, nel quale siamo immersi, come la fede nel Figlio di Dio che si è fatto uomo ed è venuto tra gli uomini «perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10): è la fede nel Risorto, che ha vinto la morte; è la fede nel sangue di Cristo «dalla voce più eloquente di quello di Abele» (Eb 12, 24).

Con la luce e la forza di tale fede, quindi, di fronte alle sfide dell'attuale situazione, la Chiesa prende più viva coscienza della grazia e della responsabilità che le vengono dal suo Signore per annunciare, celebrare e servire il Vangelo della vita.

CAPITOLO II - Sono venuto perché abbiano la vita. Il messaggio cristiano sulla vita

«La vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta» (1 Gv 1, 2): lo sguardo rivolto a Cristo, «il Verbo della vita»

29. Di fronte alle innumerevoli e gravi minacce alla vita presenti nel mondo contemporaneo, si potrebbe rimanere come sopraffatti dal senso di un'impotenza insuperabile: il bene non potrà mai avere la forza di vincere il male!

È questo il momento nel quale il Popolo di Dio, e in esso ciascun credente, è chiamato a professare, con umiltà e coraggio, la propria fede in Gesù Cristo «il Verbo della vita» (1 Gv 1, 1). Il Vangelo della vita non è una semplice riflessione, anche se originale e profonda, sulla vita umana; neppure è soltanto un comandamento destinato a sensibilizzare la coscienza e a provocare significativi cambiamenti nella società; tanto meno è un'illusoria promessa di un futuro migliore. Il Vangelo della vita è una realtà concreta e personale, perché consiste nell'annuncio della persona stessa di Gesù. All'apostolo Tommaso, e in lui a ogni uomo, Gesù si presenta con queste parole: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6). È la stessa identità indicata a Marta, la sorella di Lazzaro: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv 11, 25-26). Gesù è il Figlio che dall'eternità riceve la vita dal Padre (cf. Gv 5, 26) ed è venuto tra gli uomini per farli partecipi di questo dono: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10).

È allora dalla parola, dall'azione, dalla persona stessa di Gesù che all'uomo è data la possibilità di «conoscere» la verità intera circa il valore della vita umana; è da quella «fonte» che gli viene, in particolare, la capacità di «fare» perfettamente tale verità (cf. Gv 3, 21), ossia di assumere e realizzare in pienezza la responsabilità di amare e servire, di difendere e promuovere la vita umana.

In Cristo, infatti, è annunciato definitivamente ed è pienamente donato quel Vangelo della vita che, offerto già nella Rivelazione dell'Antico Testamento, ed anzi scritto in qualche modo nel cuore stesso di ogni uomo e donna, risuona in ogni coscienza «dal principio», ossia dalla creazione stessa, così che, nonostante i condizionamenti negativi del peccato, può essere conosciuto nei suoi tratti essenziali anche dalla ragione umana. Come scrive il Concilio Vaticano II, Cristo «con tutta la sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la gloriosa risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna».22

30. È dunque con lo sguardo fisso al Signore Gesù che intendiamo riascoltare da lui «le parole di Dio» (Gv 3, 34) e rimeditare il Vangelo della vita. Il senso più profondo e originale di questa meditazione sul messaggio rivelato circa la vita umana è stato colto dall'apostolo Giovanni, quando scrive, all'inizio della sua Prima Lettera: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1, 1-3).

In Gesù, «Verbo della vita», viene quindi annunciata e comunicata la vita divina ed eterna. Grazie a tale annuncio e a tale dono, la vita fisica e spirituale dell'uomo, anche nella sua fase terrena, acquista pienezza di valore e di significato: la vita divina ed eterna, infatti, è il fine a cui l'uomo che vive in questo mondo è orientato e chiamato. Il Vangelo della vita racchiude così quanto la stessa esperienza e ragione umana dicono circa il valore della vita, lo accoglie, lo eleva e lo porta a compimento.

«Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi ha salvato» (Es 15, 2): la vita è sempre un bene

31. In verità, la pienezza evangelica dell'annuncio sulla vita è preparata già nell'Antico Testamento. È soprattutto nella vicenda dell'Esodo, fulcro dell'esperienza di fede dell'Antico Testamento, che Israele scopre quanto la sua vita sia preziosa agli occhi di Dio. Quando sembra ormai votato allo sterminio, perché su tutti i suoi neonati maschi incombe la minaccia di morte (cf. Es 1, 15-22), il Signore gli si rivela come salvatore, capace di assicurare un futuro a chi è senza speranza. Nasce così in Israele una precisa consapevolezza: la sua vita non si trova alla mercé di un faraone che può usarne con dispotico arbitrio; al contrario, essa è l'oggetto di un tenero e forte amore da parte di Dio.

La liberazione dalla schiavitù è il dono di una identità, il riconoscimento di una dignità indelebile e l'inizio di una storia nuova, in cui la scoperta di Dio e la scoperta di sé vanno di pari passo. È una esperienza, quella dell'Esodo, fondante ed esemplare. Israele vi apprende che, ogni volta in cui è minacciato nella sua esistenza, non ha che da ricorrere a Dio con rinnovata fiducia per trovare in lui efficace assistenza: «Io ti ho formato, mio servo sei tu; Israele, non sarai dimenticato da me» (Is 44, 21).

Così, mentre riconosce il valore della propria esistenza come popolo, Israele progredisce anche nella percezione del senso e del valore della vita in quanto tale. È una riflessione che si sviluppa in modo particolare nei libri sapienziali, muovendo dalla quotidiana esperienza della precarietà della vita e dalla consapevolezza delle minacce che la insidiano. Di fronte alle contraddizioni dell'esistenza, la fede è provocata ad offrire una risposta.

È soprattutto il problema del dolore ad incalzare la fede e a metterla alla prova. Come non cogliere il gemito universale dell'uomo nella meditazione del libro di Giobbe? L'innocente schiacciato dalla sofferenza è, comprensibilmente, portato a chiedersi: «Perché dare la luce ad un infelice e la vita a chi ha l'amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro?» (3, 20-21). Ma anche nella più fitta oscurità la fede orienta al riconoscimento fiducioso e adorante del «mistero»: «Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te» (Gb 42, 2).

Progressivamente la Rivelazione fa cogliere con sempre maggiore chiarezza il germe di vita immortale posto dal Creatore nel cuore degli uomini: «Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell'eternità nel loro cuore» (Qo 3, 11). Questo germe di totalità e di pienezza attende di manifestarsi nell'amore e di compiersi, per dono gratuito di Dio, nella partecipazione alla sua vita eterna.

«Il nome di Gesù ha dato vigore a questo uomo» (At 3, 16): nella precarietà dell'esistenza umana Gesù porta a compimento il senso della vita

32. L'esperienza del popolo dell'Alleanza si rinnova in quella di tutti i «poveri» che incontrano Gesù di Nazaret. Come già il Dio «amante della vita» (Sap 11, 26) aveva rassicurato Israele in mezzo ai pericoli, così ora il Figlio di Dio, a quanti si sentono minacciati e impediti nella loro esistenza, annuncia che anche la loro vita è un bene, al quale l'amore del Padre dà senso e valore.

«I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella» (Lc 7, 22). Con queste parole del profeta Isaia (35, 5-6; 61, 1), Gesù presenta il significato della propria missione: così quanti soffrono per un'esistenza in qualche modo «diminuita», ascoltano da lui la buona novella dell'interesse di Dio nei loro confronti ed hanno la conferma che anche la loro vita è un dono gelosamente custodito nelle mani del Padre (cf. Mt 6, 25-34).

Sono i «poveri» ad essere interpellati particolarmente dalla predicazione e dall'azione di Gesù. Le folle di malati e di emarginati, che lo seguono e lo cercano (cf. Mt 4, 23-25), trovano nella sua parola e nei suoi gesti la rivelazione di quale grande valore abbia la loro vita e di come siano fondate le loro attese di salvezza.

Non diversamente accade nella missione della Chiesa, fin dalle sue origini. Essa, che annuncia Gesù come colui che «passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10, 38), sa di essere portatrice di un messaggio di salvezza che risuona in tutta la sua novità proprio nelle situazioni di miseria e di povertà della vita dell'uomo. Così fa Pietro con la guarigione dello storpio, posto ogni giorno presso la porta «Bella» del tempio di Gerusalemme a chiedere l'elemosina: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» (At 3, 6). Nella fede in Gesù, «autore della vita» (At 3, 15), la vita che giace abbandonata e implorante ritrova consapevolezza di sé e dignità piena.

La parola e i gesti di Gesù e della sua Chiesa non riguardano solo chi è nella malattia, nella sofferenza o nelle varie forme di emarginazione sociale. Più profondamente toccano il senso stesso della vita di ogni uomo nelle sue dimensioni morali e spirituali. Solo chi riconosce che la propria vita è segnata dalla malattia del peccato, nell'incontro con Gesù Salvatore può ritrovare la verità e l'autenticità della propria esistenza, secondo le sue stesse parole: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi» (Lc 5, 31-32).

Chi, invece, come il ricco agricoltore della parabola evangelica, pensa di poter assicurare la propria vita mediante il possesso dei soli beni materiali, in realtà si illude: essa gli sta sfuggendo, ed egli ne resterà ben presto privo, senza essere arrivato a percepirne il vero significato: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?» (Lc 12, 20).

33. È nella vita stessa di Gesù, dall'inizio alla fine, che si ritrova questa singolare «dialettica» tra l'esperienza della precarietà della vita umana e l'affermazione del suo valore. Infatti, la precarietà segna la vita di Gesù fin dalla sua nascita. Egli trova certamente l'accoglienza dei giusti, che si uniscono al «sì» pronto e gioioso di Maria (cf. Lc 1, 38). Ma c'è anche, da subito, il rifiuto di un mondo che si fa ostile e cerca il bambino «per ucciderlo» (Mt 2, 13), oppure resta indifferente e disattento al compiersi del mistero di questa vita che entra nel mondo: «non c'era posto per loro nell'albergo» (Lc 2, 7). Proprio dal contrasto tra le minacce e le insicurezze da una parte e la potenza del dono di Dio dall'altra, risplende con maggior forza la gloria che si sprigiona dalla casa di Nazaret e dalla mangiatoia di Betlemme: questa vita che nasce è salvezza per l'intera umanità (cf. Lc 2, 11).

Contraddizioni e rischi della vita vengono assunti pienamente da Gesù: «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8, 9). La povertà, di cui parla Paolo, non è solo spogliamento dei privilegi divini, ma anche condivisione delle condizioni più umili e precarie della vita umana (cf. Fil 2, 6-7). Gesù vive questa povertà lungo tutto il corso della sua vita, fino al momento culminante della Croce: «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2, 8-9). È proprio nella sua morte che Gesù rivela tutta la grandezza e il valore della vita, in quanto il suo donarsi in croce diventa fonte di vita nuova per tutti gli uomini (cf. Gv 12, 32). In questo peregrinare nelle contraddizioni e nella stessa perdita della vita, Gesù è guidato dalla certezza che essa è nelle mani del Padre. Per questo sulla Croce può dirgli: «Padre nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23, 46), cioè la mia vita. Davvero grande è il valore della vita umana se il Figlio di Dio l'ha assunta e l'ha resa luogo nel quale la salvezza si attua per l'intera umanità!

«Chiamati... ad essere conformi all'immagine del Figlio suo» (Rm 8, 28-29): la gloria di Dio risplende sul volto dell'uomo

34. La vita è sempre un bene. È, questa, una intuizione o addirittura un dato di esperienza, di cui l'uomo è chiamato a cogliere la ragione profonda.

Perché la vita è un bene? L'interrogativo attraversa tutta la Bibbia e fin dalle sue prime pagine trova una risposta efficace e mirabile. La vita che Dio dona all'uomo è diversa e originale di fronte a quella di ogni altra creatura vivente, in quanto egli, pur imparentato con la polvere della terra (cf. Gn 2, 7; 3, 19; Gb 34, 15; Sal 103/102, 14; 104/103, 29), è nel mondo manifestazione di Dio, segno della sua presenza, orma della sua gloria (cf. Gn 1, 26-27; Sal 8, 6). È quanto ha voluto sottolineare anche sant'Ireneo di Lione con la sua celebre definizione: «l'uomo che vive è la gloria di Dio».23 All'uomo è donata un'altissima dignità, che ha le sue radici nell'intimo legame che lo unisce al suo Creatore: nell'uomo risplende un riflesso della stessa realtà di Dio.

Lo afferma il libro della Genesi nel primo racconto delle origini, ponendo l'uomo al vertice dell'attività creatrice di Dio, come suo coronamento, al termine di un processo che dall'indistinto caos porta alla creatura più perfetta. Tutto nel creato è ordinato all'uomo e tutto è a lui sottomesso: «Riempite la terra; soggiogatela e dominate... su ogni essere vivente» (1, 28), comanda Dio all'uomo e alla donna. Un messaggio simile viene anche dall'altro racconto delle origini: «Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2, 15). Si riafferma così il primato dell'uomo sulle cose: esse sono finalizzate a lui e affidate alla sua responsabilità, mentre per nessuna ragione egli può essere asservito ai suoi simili e quasi ridotto al rango di cosa.

Nella narrazione biblica la distinzione dell'uomo dalle altre creature è evidenziata soprattutto dal fatto che solo la sua creazione è presentata come frutto di una speciale decisione da parte di Dio, di una deliberazione che consiste nello stabilire un legame particolare e specifico con il Creatore: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» (Gn 1, 26). La vita che Dio offre all'uomo è un dono con cui Dio partecipa qualcosa di sé alla sua creatura.

Israele si interrogherà a lungo sul senso di questo legame particolare e specifico dell'uomo con Dio. Anche il libro del Siracide riconosce che Dio nel creare gli uomini «secondo la sua natura li rivestì di forza, e a sua immagine li formò» (17, 3). A ciò l'autore sacro riconduce non solo il loro dominio sul mondo, ma anche le facoltà spirituali più proprie dell'uomo, come la ragione, il discernimento del bene e del male, la volontà libera: «Li riempì di dottrina e d'intelligenza, e indicò loro anche il bene e il male» (Sir 17, 6). La capacità di attingere la verità e la libertà sono prerogative dell'uomo in quanto creato ad immagine del suo Creatore, il Dio vero e giusto (cf. Dt 32, 4). Soltanto l'uomo, fra tutte le creature visibili, è «capa- ce di conoscere e di amare il proprio Creatore».24 La vita che Dio dona all'uomo è ben più di un esistere nel tempo. È tensione verso una pienezza di vita; è germe di una esistenza che va oltre i limiti stessi del tempo: «Sì, Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità; lo fece a immagine della propria natura» (Sap 2, 23).

35. Anche il racconto jahvista delle origini esprime la stessa convinzione. L'antica narrazione, infatti, parla di un soffio divino che viene inalato nell'uomo perché questi entri nella vita: «Il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente» (Gn 2, 7).

L'origine divina di questo spirito di vita spiega la perenne insoddisfazione che accompagna l'uomo nei suoi giorni. Fatto da Dio, portando in sé una traccia indelebile di Dio, l'uomo tende naturalmente a lui. Quando ascolta l'aspirazione profonda del suo cuore, ogni uomo non può non fare propria la parola di verità espressa da sant'Agostino: «Tu ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto sino a quando non riposa in Te».25

Quanto mai eloquente è l'insoddisfazione di cui è preda la vita dell'uomo nell'Eden fin quando il suo unico riferimento rimane il mondo vegetale e animale (cf. Gn 2, 20). Solo l'apparizione della donna, di un essere cioè che è carne dalla sua carne e osso dalle sue ossa (cf. Gn 2, 23), e in cui ugualmente vive lo spirito di Dio Creatore, può soddisfare l'esigenza di dialogo inter-personale che è così vitale per l'esistenza umana. Nell'altro, uomo o donna, si riflette Dio stesso, approdo definitivo e appagante di ogni persona.

«Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi, il figlio dell'uomo perché te ne curi?», si chiede il Salmista (Sal 8, 5). Di fronte all'immensità dell'universo, egli è ben piccola cosa; ma proprio questo contrasto fa emergere la sua grandezza: «Lo hai fatto poco meno degli angeli (ma si potrebbe tradurre anche: «poco meno di Dio»), di gloria e di onore lo hai coronato» (Sal 8, 6). La gloria di Dio risplende sul volto dell'uomo. In lui il Creatore trova il suo riposo, come commenta stupito e commosso sant'Ambrogio: «È finito il sesto giorno e si è conclusa la creazione del mondo con la formazione di quel capolavoro che è l'uomo, il quale esercita il dominio su tutti gli esseri viventi ed è come il culmine dell'universo e la suprema bellezza di ogni essere creato. Veramente dovremmo mantenere un reverente silenzio, poiché il Signore si riposò da ogni opera del mondo. Si riposò poi nell'intimo dell'uomo, si riposò nella sua mente e nel suo pensiero; infatti aveva creato l'uomo dotato di ragione, capace d'imitarlo, emulo delle sue virtù, bramoso delle grazie celesti. In queste sue doti riposa Iddio che ha detto: "O su chi riposerò, se non su chi è umile, tranquillo e teme le mie parole?" (Is 66, 1-2). Ringrazio il Signore Dio nostro che ha creato un'opera così meravigliosa nella quale trovare il suo riposo».26

36. Purtroppo lo stupendo progetto di Dio viene offuscato dalla irruzione del peccato nella storia. Con il peccato l'uomo si ribella al Creatore, finendo con l'idolatrare le creature: «Hanno venerato e adorato la creatura al posto del Creatore» (Rm 1, 25). In questo modo l'essere umano non solo deturpa in se stesso l'immagine di Dio, ma è tentato di offenderla anche negli altri, sostituendo ai rapporti di comunione atteggiamenti di diffidenza, di indifferenza, di inimicizia, fino all'odio omicida. Quando non si riconosce Dio come Dio, si tradisce il senso profondo dell'uomo e si pregiudica la comunione tra gli uomini.

Nella vita dell'uomo, l'immagine di Dio torna a risplendere e si manifesta in tutta la sua pienezza con la venuta nella carne umana del Figlio di Dio: «Egli è immagine del Dio invisibile» (Col 1, 15), «irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» (Eb 1, 3). Egli è l'immagine perfetta del Padre.

Il progetto di vita consegnato al primo Adamo trova finalmente in Cristo il suo compimento. Mentre la disobbedienza di Adamo rovina e deturpa il disegno di Dio sulla vita dell'uomo e introduce la morte nel mondo, l'obbedienza redentrice di Cristo è fonte di grazia che si riversa sugli uomini spalancando a tutti le porte del regno della vita (cf. Rm 5, 12-21). Afferma l'apostolo Paolo: «Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita» (1 Cor 15, 45).

A quanti accettano di porsi alla sequela di Cristo viene donata la pienezza della vita: in loro l'immagine divina viene restaurata, rinnovata e condotta alla perfezione. Questo è il disegno di Dio sugli esseri umani: che divengano «conformi all'immagine del Figlio suo» (Rm 8, 29). Solo così, nello splendore di questa immagine, l'uomo può essere liberato dalla schiavitù dell'idolatria, può ricostruire la fraternità dispersa e ritrovare la sua identità.

«Chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv 11, 26): il dono della vita eterna

37. La vita che il Figlio di Dio è venuto a donare agli uomini non si riduce alla sola esistenza nel tempo. La vita, che da sempre è «in lui» e costituisce «la luce degli uomini» (Gv 1, 4), consiste nell'essere generati da Dio e nel partecipare alla pienezza del suo amore: «A quanti l'hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1, 12-13).

A volte Gesù chiama questa vita, che egli è venuto a donare, semplicemente così: «la vita»; e presenta la generazione da Dio come una condizione necessaria per poter raggiungere il fine per cui Dio ha creato l'uomo: «Se uno non rinasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio» (Gv 3, 3). Il dono di questa vita costituisce l'oggetto proprio della missione di Gesù: egli «è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (Gv 6, 33), così che può affermare con piena verità: «Chi segue me... avrà la luce della vita» (Gv 8, 12).

Altre volte Gesù parla di «vita eterna», dove l'aggettivo non richiama soltanto una prospettiva sovratemporale. «Eterna» è la vita che Gesù promette e dona, perché è pienezza di partecipazione alla vita dell' «Eterno». Chiunque crede in Gesù ed entra in comunione con lui ha la vita eterna (cf. Gv 3, 15; 6, 40), perché da lui ascolta le uniche parole che rivelano e infondono pienezza di vita alla sua esistenza; sono le «parole di vita eterna» che Pietro riconosce nella sua confessione di fede: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6, 68-69). In che cosa consista poi la vita eterna, lo dichiara Gesù stesso rivolgendosi al Padre nella grande preghiera sacerdotale: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17, 3). Conoscere Dio e il suo Figlio è accogliere il mistero della comunione d'amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nella propria vita, che si apre già fin d'ora alla vita eterna nella partecipazione alla vita divina.

38. La vita eterna è, dunque, la vita stessa di Dio ed insieme la vita dei figli di Dio. Stupore sempre nuovo e gratitudine senza limiti non possono non prendere il credente di fronte a questa inattesa e ineffabile verità che ci viene da Dio in Cristo. Il credente fa sue le parole dell'apostolo Giovanni: «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!... Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3, 1-2).

Così giunge al suo culmine la verità cristiana sulla vita. La dignità di questa non è legata solo alle sue origini, al suo venire da Dio, ma anche al suo fine, al suo destino di comunione con Dio nella conoscenza e nell'amore di Lui. È alla luce di questa verità che sant'Ireneo precisa e completa la sua esaltazione dell'uomo: «gloria di Dio» è, sì, «l'uomo che vive», ma «la vita dell'uomo consiste nella visione di Dio».27

Nascono da qui immediate conseguenze per la vita umana nella sua stessa condizione terrena, nella quale è già germogliata ed è in crescita la vita eterna. Se l'uomo ama istintivamente la vita perché è un bene, tale amore trova ulteriore motivazione e forza, nuova ampiezza e profondità nelle dimensioni divine di questo bene. In simile prospettiva, l'amore che ogni essere umano ha per la vita non si riduce alla semplice ricerca di uno spazio in cui esprimere se stesso ed entrare in relazione con gli altri, ma si sviluppa nella gioiosa consapevolezza di poter fare della propria esistenza il «luogo» della manifestazione di Dio, dell'incontro e della comunione con Lui. La vita che Gesù ci dona non svaluta la nostra esistenza nel tempo, ma la assume e la conduce al suo ultimo destino: «Io sono la risurrezione e la vita...; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv 11, 25.26).

«Domanderò conto ... a ognuno di suo fratello» (Gn 9, 5): venerazione e amore per la vita di tutti

39. La vita dell'uomo proviene da Dio, è suo dono, sua immagine e impronta, partecipazione del suo soffio vitale. Di questa vita, pertanto, Dio è l'unico signore: l'uomo non può disporne. Dio stesso lo ribadisce a Noè dopo il diluvio: «Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo, a ognuno di suo fratello» (Gn 9, 5). E il testo biblico si preoccupa di sottolineare come la sacralità della vita abbia il suo fondamento in Dio e nella sua azione creatrice: «Perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l'uomo» (Gn 9, 6).

La vita e la morte dell'uomo sono, dunque, nelle mani di Dio, in suo potere: «Egli ha in mano l'anima di ogni vivente e il soffio d'ogni carne umana», esclama Giobbe (12, 10). «Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire» (1 Sam 2, 6). Egli solo può dire: «Sono io che do la morte e faccio vivere» (Dt 32, 39).

Ma questo potere Dio non lo esercita come arbitrio minaccioso, bensì come cura e sollecitudine amorosa nei riguardi delle sue creature. Se è vero che la vita dell'uomo è nelle mani di Dio, non è men vero che queste sono mani amorevoli come quelle di una madre che accoglie, nutre e si prende cura del suo bambino: «Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia» (Sal 131/130, 2; cf. Is 49, 15; 66, 12-13; Os 11, 4). Così nelle vicende dei popoli e nella sorte degli individui Israele non vede il frutto di una pura casualità o di un destino cieco, ma l'esito di un disegno d'amore con il quale Dio raccoglie tutte le potenzialità di vita e contrasta le forze di morte, che nascono dal peccato: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza» (Sap 1, 13-14).

40. Dalla sacralità della vita scaturisce la sua inviolabilità, inscritta fin dalle origini nel cuore dell'uomo, nella sua coscienza. La domanda «Che hai fatto?» (Gn 4, 10), con cui Dio si rivolge a Caino dopo che questi ha ucciso il fratello Abele, traduce l'esperienza di ogni uomo: nel profondo della sua coscienza, egli viene sempre richiamato alla inviolabilità della vita — della sua vita e di quella degli altri —, come realtà che non gli appartiene, perché proprietà e dono di Dio Creatore e Padre.

Il comandamento relativo all'inviolabilità della vita umana risuona al centro delle «dieci parole» nell'Alleanza del Sinai (cf. Es 34, 28). Esso proibisce, anzitutto, l'omicidio: «Non uccidere» (Es 20, 13); «Non far morire l'innocente e il giusto» (Es 23, 7); ma proibisce anche — come viene esplicitato nell'ulteriore legislazione di Israele — ogni lesione inflitta all'altro (cf. Es 21, 12-27). Certo, bisogna riconoscere che nell'Antico Testamento questa sensibilità per il valore della vita, pur già così marcata, non raggiunge ancora la finezza del Discorso della Montagna, come emerge da alcuni aspetti della legislazione allora vigente, che prevedeva pene corporali non lievi e persino la pena di morte. Ma il messaggio complessivo, che spetterà al Nuovo Testamento di portare alla perfezione, è un forte appello al rispetto dell'inviolabilità della vita fisica e dell'integrità personale, ed ha il suo vertice nel comandamento positivo che obbliga a farsi carico del prossimo come di se stessi: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19, 18).

41. Il comandamento del «non uccidere», incluso e approfondito in quello positivo dell'amore del prossimo, viene ribadito in tutta la sua validità dal Signore Gesù. Al giovane ricco che gli chiede: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?», risponde: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19, 16.17). E cita, come primo, il «non uccidere» (v. 18). Nel Discorso della Montagna, Gesù esige dai discepoli una giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei anche nel campo del rispetto della vita: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio» (Mt 5, 21-22).

Con la sua parola e i suoi gesti Gesù esplicita ulteriormente le esigenze positive del comandamento circa l'inviolabilità della vita. Esse erano già presenti nell'Antico Testamento, dove la legislazione si preoccupava di garantire e salvaguardare le situazioni di vita debole e minacciata: il forestiero, la vedova, l'orfano, il malato, il povero in genere, la stessa vita prima della nascita (cf. Es 21, 22; 22, 20-26). Con Gesù queste esigenze positive acquistano vigore e slancio nuovi e si manifestano in tutta la loro ampiezza e profondità: vanno dal prendersi cura della vita del fratello (familiare, appartenente allo stesso popolo, straniero che abita nella terra di Israele), al farsi carico dell'estraneo, fino all'amare il nemico.

L'estraneo non è più tale per chi deve farsi prossimo di chiunque è nel bisogno fino ad assumersi la responsabilità della sua vita, come insegna in modo eloquente e incisivo la parabola del buon samaritano (cf. Lc 10, 25-37). Anche il nemico cessa di essere tale per chi è tenuto ad amarlo (cf. Mt 5, 38-48; Lc 6, 27-35) e a «fargli del bene» (cf. Lc 6, 27.33.35), venendo incontro alle necessità della sua vita con prontezza e senso di gratuità (cf. Lc 6, 34-35). Vertice di questo amore è la preghiera per il nemico, mediante la quale ci si pone in sintonia con l'amore provvidente di Dio: «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5, 44-45; cf. Lc 6, 28.35).

Così il comandamento di Dio a salvaguardia della vita dell'uomo ha il suo aspetto più profondo nell'esigenza di venerazione e di amore nei confronti di ogni persona e della sua vita. È questo l'insegnamento che l'apostolo Paolo, facendo eco alla parola di Gesù (cf. Mt 19, 17-18), rivolge ai cristiani di Roma: «Il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L'amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore» (Rm 13, 9-10).

«Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela» (Gn 1, 28): le responsabilità dell'uomo verso la vita

42. Difendere e promuovere, venerare e amare la vita è un compito che Dio affida a ogni uomo, chiamandolo, come sua palpitante immagine, a partecipare alla signoria che Egli ha sul mondo: «Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra"» (Gn 1, 28).

Il testo biblico mette in luce l'ampiezza e la profondità della signoria che Dio dona all'uomo. Si tratta, anzitutto, del dominio sulla terra e su ogni essere vivente, come ricorda il libro della Sapienza: «Dio dei padri e Signore di misericordia... con la tua sapienza hai formato l'uomo, perché domini sulle creature che tu hai fatto, e governi il mondo con santità e giustizia» (9, 1.2-3). Anche il Salmista esalta il dominio dell'uomo come segno della gloria e dell'onore ricevuti dal Creatore: «Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi; tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna; gli uccelli del cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie del mare» (Sal 8, 7-9).

Chiamato a coltivare e custodire il giardino del mondo (cf. Gn 2, 15), l'uomo ha una specifica responsabilità sull'ambiente di vita, ossia sul creato che Dio ha posto al servizio della sua dignità personale, della sua vita: in rapporto non solo al presente, ma anche alle generazioni future. È la questione ecologica — dalla preservazione degli «habitat» naturali delle diverse specie animali e delle varie forme di vita, alla «ecologia umana» propriamente detta 28 — che trova nella pagina biblica una luminosa e forte indicazione etica per una soluzione rispettosa del grande bene della vita, di ogni vita. In realtà, «il dominio accordato dal Creatore all'uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di "usare e abusare", o di disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione di "mangiare il frutto dell'albero" (cf. Gn 2, 16-17), mostra con sufficiente chiarezza che, nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire».29

43. Una certa partecipazione dell'uomo alla signoria di Dio si manifesta anche nella specifica responsabilità che gli viene affidata nei confronti della vita propriamente umana. È responsabilità che tocca il suo vertice nella donazione della vita mediante la generazione da parte dell'uomo e della donna nel matrimonio, come ci ricorda il Concilio Vaticano II: «Lo stesso Dio che disse: "non è bene che l'uomo sia solo" (Gn 2, 18) e che "creò all'inizio l'uomo maschio e femmina" (Mt 19, 4), volendo comunicare all'uomo una certa speciale partecipazione nella sua opera creatrice, benedisse l'uomo e la donna, dicendo loro: "crescete e moltiplicatevi" (Gn 1, 28)».30

Parlando di «una certa speciale partecipazione» dell'uomo e della donna all'«opera creatrice» di Dio, il Concilio intende rilevare come la generazione del figlio sia un evento profondamente umano e altamente religioso, in quanto coinvolge i coniugi che formano «una sola carne» (Gn 2, 24) ed insieme Dio stesso che si fa presente. Come ho scritto nella Lettera alle Famiglie, «quando dall'unione coniugale dei due nasce un nuovo uomo, questi porta con sé al mondo una particolare immagine e somiglianza di Dio stesso: nella biologia della generazione è inscritta la genealogia della persona. Affermando che i coniugi, come genitori, sono collaboratori di Dio Creatore nel concepimento e nella generazione di un nuovo essere umano non ci riferiamo solo alle leggi della biologia; intendiamo sottolineare piuttosto che nella paternità e maternità umane Dio stesso è presente in modo diverso da come avviene in ogni altra generazione "sulla terra". Infatti soltanto da Dio può provenire quella "immagine e somiglianza" che è propria dell'essere umano, così come è avvenuto nella creazione. La generazione è la continuazione della creazione».31

È quanto insegna, con linguaggio immediato ed eloquente, il testo sacro riportando il grido gioioso della prima donna, «la madre di tutti i viventi» (Gn 3, 20). Consapevole dell'intervento di Dio, Eva esclama: «Ho acquistato un uomo dal Signore» (Gn 4, 1). Nella generazione dunque, mediante la comunicazione della vita dai genitori al figlio, si trasmette, grazie alla creazione dell'anima immortale,32 l'immagine e la somiglianza di Dio stesso. In questo senso si esprime l'inizio del «libro della genealogia di Adamo»: «Quando Dio creò l'uomo, lo fece a somiglianza di Dio; maschio e femmina li creò, li benedisse e li chiamò uomini quando furono creati. Adamo aveva centotrenta anni quando generò a sua immagine, a sua somiglianza, un figlio e lo chiamò Set» (Gn 5, 1-3). Proprio in questo loro ruolo di collaboratori di Dio, che trasmette la sua immagine alla nuova creatura, sta la grandezza dei coniugi disposti «a cooperare con l'amore del Creatore e del Salvatore, che attraverso di loro continuamente dilata e arricchisce la Sua famiglia».33 In questa luce il Vescovo Anfilochio esaltava il «matrimonio santo, eletto ed elevato al di sopra di tutti i doni terreni» come «generatore dell'umanità, artefice di immagini di Dio».34

Così l'uomo e la donna uniti in matrimonio sono associati ad un'opera divina: mediante l'atto della generazione, il dono di Dio viene accolto e una nuova vita si apre al futuro.

Ma, al di là della missione specifica dei genitori, il compito di accogliere e servire la vita riguarda tutti e deve manifestarsi soprattutto verso la vita nelle condizioni di maggior debolezza. È Cristo stesso che ce lo ricorda, chiedendo di essere amato e servito nei fratelli provati da qualsiasi tipo di sofferenza: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati... Quanto è fatto a ciascuno di loro è fatto a Cristo stesso (cf. Mt 25, 31-46).

«Sei tu che hai creato le mie viscere» (Sal 139/138, 13): la dignità del bambino non ancora nato

44. La vita umana viene a trovarsi in situazione di grande precarietà quando entra nel mondo e quando esce dal tempo per approdare all'eternità. Sono ben presenti nella Parola di Dio — soprattutto nei riguardi dell'esistenza insidiata dalla malattia e dalla vecchiaia — gli inviti alla cura e al rispetto. Se mancano inviti diretti ed espliciti a salvaguardare la vita umana alle sue origini, in specie la vita non ancora nata, come anche quella vicina alla sua fine, ciò si spiega facilmente per il fatto che anche la sola possibilità di offendere, aggredire o addirittura negare la vita in queste condizioni esula dall'orizzonte religioso e culturale del popolo di Dio.

Nell'Antico Testamento la sterilità è temuta come una maledizione, mentre la prole numerosa è sentita come una benedizione: «Dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo» (Sal 127/126, 3; cf. Sal 128/127, 3-4). Gioca in questa convinzione anche la consapevolezza di Israele di essere il popolo dell'Alleanza, chiamato a moltiplicarsi secondo la promessa fatta ad Abramo: «Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle... tale sarà la tua discendenza» (Gn 15, 5). Ma è soprattutto operante la certezza che la vita trasmessa dai genitori ha la sua origine in Dio, come attestano le tante pagine bibliche che con rispetto e amore parlano del concepimento, del plasmarsi della vita nel grembo materno, della nascita e dello stretto legame che v'è tra il momento iniziale dell'esistenza e l'agire di Dio Creatore.

«Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato» (Ger 1, 5):l'esistenza di ogni individuo, fin dalle sue origini, è nel disegno di Dio. Giobbe, dal fondo del suo dolore, si ferma a contemplare l'opera di Dio nel miracoloso formarsi del suo corpo nel grembo della madre, traendone motivo di fiducia ed esprimendo la certezza dell'esistenza di un progetto divino sulla sua vita: «Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte; vorresti ora distruggermi? Ricordati che come argilla mi hai plasmato e in polvere mi farai tornare. Non m'hai colato forse come latte e fatto accagliare come cacio? Di pelle e di carne mi hai rivestito, d'ossa e di nervi mi hai intessuto. Vita e benevolenza tu mi hai concesso e la tua premura ha custodito il mio spirito» (10, 8-12). Accenti di adorante stupore per l'intervento di Dio sulla vita in formazione nel grembo materno risuonano anche nei Salmi.35

Come pensare che anche un solo momento di questo meraviglioso processo dello sgorgare della vita possa essere sottratto all'opera sapiente e amorosa del Creatore e lasciato in balìa dell'arbitrio dell'uomo? Non lo pensa certo la madre dei sette fratelli, che professa la sua fede in Dio, principio e garanzia della vita fin dal suo concepimento, e al tempo stesso fondamento della speranza della nuova vita oltre la morte: «Non so come siate apparsi nel mio seno; non io vi ho dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore del mondo, che ha plasmato all'origine l'uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo lo spirito e la vita, come voi ora per le sue leggi non vi curate di voi stessi» (2 Mac 7, 22-23).

45. La rivelazione del Nuovo Testamento conferma l'indiscusso riconoscimento del valore della vita fin dai suoi inizi. L'esaltazione della fecondità e l'attesa premurosa della vita risuonano nelle parole con cui Elisabetta gioisce per la sua gravidanza: «Il Signore... si è degnato di togliere la mia vergogna» (Lc 1, 25). Ma ancor più il valore della persona fin dal suo concepimento è celebrato nell'incontro tra la Vergine Maria ed Elisabetta, e tra i due fanciulli che esse portano in grembo. Sono proprio loro, i bambini, a rivelare l'avvento dell'era messianica: nel loro incontro inizia ad operare la forza redentrice della presenza del Figlio di Dio tra gli uomini. «Subito — scrive sant'Ambrogio — si fanno sentire i benefici della venuta di Maria e della presenza del Signore... Elisabetta udì per prima la voce, ma Giovanni percepì per primo la grazia; essa udì secondo l'ordine della natura, egli esultò in virtù del mistero; essa sentì l'arrivo di Maria, egli del Signore; la donna l'arrivo della donna, il bambino l'arrivo del Bambino. Esse parlano delle grazie ricevute, essi nel seno delle loro madri realizzano la grazia e il mistero della misericordia a profitto delle madri stesse: e queste per un duplice miracolo profetizzano sotto l'ispirazione dei figli che portano. Del figlio si dice che esultò, della madre che fu ricolma di Spirito Santo. Non fu prima la madre a essere ricolma dello Spirito, ma fu il figlio, ripieno di Spirito Santo, a ricolmare anche la madre».36

«Ho creduto anche quando dicevo: "Sono troppo infelice"» (Sal 116/115, 10): la vita nella vecchiaia e nella sofferenza

46. Anche per quanto riguarda gli ultimi istanti dell'esistenza, sarebbe anacronistico attendersi dalla rivelazione biblica un espresso riferimento all'attuale problematica del rispetto delle persone anziane e malate e un'esplicita condanna dei tentativi di anticiparne violentemente la fine: siamo infatti in un contesto culturale e religioso che non è intaccato da simile tentazione, e che anzi, per quanto riguarda l'anziano, riconosce nella sua saggezza ed esperienza una insostituibile ricchezza per la famiglia e la società.

La vecchiaia è segnata da prestigio e circondata da venerazione (cf. 2 Mac 6, 23). E il giusto non chiede di essere privato della vecchiaia e del suo peso; al contrario così egli prega: «Sei tu, Signore, la mia speranza, la mia fiducia fin dalla mia giovinezza... E ora, nella vecchiaia e nella canizie, Dio, non abbandonarmi, finché io annunzi la tua potenza, a tutte le generazioni le tue meraviglie» (Sal 71/70, 5.18). L'ideale del tempo messianico è proposto come quello in cui «non ci sarà più... un vecchio che non giunga alla pienezza dei suoi giorni» (Is 65, 20).

Ma, nella vecchiaia, come affrontare il declino inevitabile della vita? Come atteggiarsi di fronte alla morte? Il credente sa che la sua vita sta nelle mani di Dio: «Signore, nelle tue mani è la mia vita» (cf. Sal 16/15, 5), e da lui accetta anche il morire: «Questo è il decreto del Signore per ogni uomo; perché ribellarsi al volere dell'Altissimo?» (Sir 41, 4). Come della vita, così della morte l'uomo non è padrone; nella sua vita come nella sua morte, egli deve affidarsi totalmente al «volere dell'Altissimo», al suo disegno di amore.

Anche nel momento della malattia, l'uomo è chiamato a vivere lo stesso affidamento al Signore e a rinnovare la sua fondamentale fiducia in lui che «guarisce tutte le malattie» (cf. Sal 103/102, 3). Quando ogni orizzonte di salute sembra chiudersi di fronte all'uomo — tanto da indurlo a gridare: «I miei giorni sono come ombra che declina, e io come erba inaridisco» (Sal 102/101, 12) —, anche allora il credente è animato dalla fede incrollabile nella potenza vivificante di Dio. La malattia non lo spinge alla disperazione e alla ricerca della morte, ma all'invocazione piena di speranza: «Ho creduto anche quando dicevo: "Sono troppo infelice" (Sal 116/115, 10); «Signore Dio mio, a te ho gridato e mi hai guarito. Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi, mi hai dato vita perché non scendessi nella tomba» (Sal 30/29, 3-4).

47. La missione di Gesù, con le numerose guarigioni operate, indica quanto Dio abbia a cuore anche la vita corporale dell'uomo. «Medico della carne e dello spirito»,37 Gesù è mandato dal Padre ad annunciare la buona novella ai poveri e a sanare i cuori affranti (cf. Lc 4, 18; Is 61, 1). Inviando poi i suoi discepoli nel mondo, egli affida loro una missione, nella quale la guarigione dei malati si accompagna all'annuncio del Vangelo: «E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni» (Mt 10, 7-8; cf. Mc 6, 13; 16, 18).

Certo, la vita del corpo nella sua condizione terrena non è un assoluto per il credente, tanto che gli può essere richiesto di abbandonarla per un bene superiore; come dice Gesù, «chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8, 35). Diverse sono, a questo proposito, le testimonianze del Nuovo Testamento. Gesù non esita a sacrificare sé stesso e, liberamente, fa della sua vita una offerta al Padre (cf. Gv 10, 17) e ai suoi (cf. Gv 10, 15). Anche la morte di Giovanni il Battista, precursore del Salvatore, attesta che l'esistenza terrena non è il bene assoluto: è più importante la fedeltà alla parola del Signore anche se essa può mettere in gioco la vita (cf. Mc 6, 17-29). E Stefano, mentre viene privato della vita nel tempo, perché testimone fedele della risurrezione del Signore, segue le orme del Maestro e va incontro ai suoi lapidatori con le parole del perdono (cf. At 7, 59-60), aprendo la strada all'innumerevole schiera di martiri, venerati dalla Chiesa fin dall'inizio.

Nessun uomo, tuttavia, può scegliere arbitrariamente di vivere o di morire; di tale scelta, infatti, è padrone assoluto soltanto il Creatore, colui nel quale «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17, 28).

«Quanti si attengono ad essa avranno la vita» (Bar 4, 1): dalla Legge del Sinai al dono dello Spirito

48. La vita porta indelebilmente inscritta in sé una sua verità. L'uomo, accogliendo il dono di Dio, deve impegnarsi amantenere la vita in questa verità, che le è essenziale. Distaccarsene equivale a condannare se stessi all'insignificanza e all'infelicità, con la conseguenza di poter diventare anche una minaccia per l'esistenza altrui, essendo stati rotti gli argini che garantiscono il rispetto e la difesa della vita, in ogni situazione.

La verità della vita è rivelata dal comandamento di Dio. La parola del Signore indica concretamente quale indirizzo la vita debba seguire per poter rispettare la propria verità e salvaguardare la propria dignità. Non è soltanto lo specifico comandamento «non uccidere» (Es 20, 13; Dt 5, 17) ad assicurare la protezione della vita: tutta intera la Legge del Signore è a servizio di tale protezione, perché rivela quella verità nella quale la vita trova il suo pieno significato.

Non meraviglia, dunque, che l'Alleanza di Dio con il suo popolo sia così fortemente legata alla prospettiva della vita, anche nella sua dimensione corporea. Il comandamento è in essa offerto come via della vita: «Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore tuo Dio ti benedica nel paese che tu stai per entrare a prendere in possesso» (Dt 30, 15-16). È in questione non soltanto la terra di Canaan e l'esistenza del popolo di Israele, ma il mondo di oggi e del futuro e l'esistenza di tutta l'umanità. Infatti, non è assolutamente possibile che la vita resti autentica e piena distaccandosi dal bene; e il bene, a sua volta, è essenzialmente legato ai comandamenti del Signore, cioè alla «legge della vita» (Sir 17, 9). Il bene da compiere non si sovrappone alla vita come un peso che grava su di essa, perché la ragione stessa della vita è precisamente il bene e la vita è costruita solo mediante il compimento del bene.

È dunque il complesso della Legge a salvaguardare pienamente la vita dell'uomo. Ciò spiega come sia difficile mantenersi fedeli al «non uccidere» quando non vengono osservate le altre «parole di vita» (At 7, 38), alle quali questo comandamento è connesso. Al di fuori di questo orizzonte, il comandamento finisce per diventare un semplice obbligo estrinseco, di cui ben presto si vorranno vedere i limiti e si cercheranno le attenuazioni o le eccezioni. Solo se ci si apre alla pienezza della verità su Dio, sull'uomo e sulla storia, la parola «non uccidere» torna a risplendere come bene per l'uomo in tutte le sue dimensioni e relazioni. In questa prospettiva possiamo cogliere la pienezza di verità contenuta nel passo del libro del Deuteronomio, ripreso da Gesù nella risposta alla prima tentazione: «L'uomo non vive soltanto di pane, ma... di quanto esce dalla bocca del Signore» (8, 3; cf. Mt 4, 4). È ascoltando la parola del Signore che l'uomo può vivere secondo dignità e giustizia; è osservando la Legge di Dio che l'uomo può portare frutti di vita e di felicità: «quanti si attengono ad essa avranno la vita, quanti l'abbandonano moriranno» (Bar 4, 1).

49. La storia di Israele mostra quanto sia difficile mantenere la fedeltà alla legge della vita, che Dio ha inscritto nel cuore degli uomini e ha consegnato sul Sinai al popolo dell'Alleanza. Di fronte alla ricerca di progetti di vita alternativi al piano di Dio, sono in particolare i Profeti a richiamare con forza che solo il Signore è l'autentica fonte della vita. Così Geremia scrive: «Il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l'acqua» (2, 13). I Profeti puntano il dito accusatore su quanti disprezzano la vita e violano i diritti delle persone: «Calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri» (Am 2, 7); «Essi hanno riempito questo luogo di sangue innocente» (Ger 19, 4). E tra essi il profeta Ezechiele più volte stigmatizza la città di Gerusalemme, chiamandola «la città sanguinaria» (22, 2; 24, 6.9), la «città che sparge il sangue in mezzo a se stessa» (22, 3).

Ma mentre denunciano le offese alla vita, i Profeti si preoccupano soprattutto di suscitare l'attesa di un nuovo principio di vita, capace di fondare un rinnovato rapporto con Dio e con i fratelli, dischiudendo possibilità inedite e straordinarie per comprendere e attuare tutte le esigenze insite nel Vangelo della vita . Ciò sarà possibile unicamente grazie al dono di Dio, che purifica e rinnova: «Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo» (Ez 36, 25-26; cf. Ger 31, 31-34). Grazie a questo «cuore nuovo» si può comprendere e realizzare il senso più vero e profondo della vita: quello di essere un dono che si compie nel donarsi. È il messaggio luminoso che sul valore della vita ci viene dalla figura del Servo del Signore: «Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo... Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce» (Is 53, 10.11).

È nella vicenda di Gesù di Nazaret che la Legge si compie e il cuore nuovo viene donato mediante il suo Spirito. Gesù, infatti, non rinnega la Legge, ma la porta a compimento (cf. Mt 5, 17): Legge e Profeti si riassumono nella regola d'oro dell'amore reciproco (cf. Mt 7, 12). In Lui la Legge diventa definitivamente «vangelo», buona notizia della signoria di Dio sul mondo, che riporta tutta l'esistenza alle sue radici e alle sue prospettive originarie. È la Legge Nuova, «la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù» (Rm 8, 2), la cui espressione fondamentale, a imitazione del Signore che dà la vita per i propri amici (cf. Gv 15, 13), è il dono di sé nell'amore ai fratelli: «Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli» (1 Gv 3, 14). È legge di libertà, di gioia e di beatitudine.

«Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19, 37): sull'albero della Croce si compie il Vangelo della vita

50. Al termine di questo capitolo, nel quale abbiamo meditato il messaggio cristiano sulla vita, vorrei fermarmi con ciascuno di voi a contemplare Colui che hanno trafitto e che attira tutti a sé (cf. Gv 19, 37; 12, 32). Guardando «lo spettacolo» della Croce (cf. Lc 23, 48), potremo scoprire in questo albero glorioso il compimento e la rivelazione piena di tutto il Vangelo della vita.

Nelle prime ore del pomeriggio del venerdì santo, «il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra... Il velo del tempio si squarciò nel mezzo» (Lc 23, 44.45). È il simbolo di un grande sconvolgimento cosmico e di una immane lotta tra le forze del bene e le forze del male, tra la vita e la morte. Noi pure, oggi, ci troviamo nel mezzo di una lotta drammatica tra la «cultura della morte» e la «cultura della vita». Ma da questa oscurità lo splendore della Croce non viene sommerso; essa, anzi, si staglia ancora più nitida e luminosa e si rivela come il centro, il senso e il fine di tutta la storia e di ogni vita umana.

Gesù è inchiodato sulla Croce e viene innalzato da terra. Vive il momento della sua massima «impotenza» e la sua vita sembra totalmente consegnata agli scherni dei suoi avversari e alle mani dei suoi uccisori: viene beffeggiato, deriso, oltraggiato (cf. Mc 15, 24-36). Eppure, proprio di fronte a tutto ciò e «vistolo spirare in quel modo», il centurione romano esclama: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15, 39). Si rivela così, nel momento della sua estrema debolezza, l'identità del Figlio di Dio: sulla Croce si manifesta la sua gloria!

Con la sua morte, Gesù illumina il senso della vita e della morte di ogni essere umano. Prima di morire, Gesù prega il Padre invocando il perdono per i suoi persecutori (cf. Lc 23, 34) e al malfattore, che gli chiede di ricordarsi di lui nel suo regno, risponde: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23, 43). Dopo la sua morte «i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono» (Mt 27, 52). La salvezza operata da Gesù è donazione di vita e di risurrezione. Lungo la sua esistenza, Gesù aveva donato salvezza anche sanando e beneficando tutti (cf. At 10, 38). Ma i miracoli, le guarigioni e le stesse risuscitazioni erano segno di un'altra salvezza, consistente nel perdono dei peccati, ossia nella liberazione dell'uomo dalla malattia più profonda, e nella sua elevazione alla vita stessa di Dio.

Sulla Croce si rinnova e si realizza nella sua piena e definitiva perfezione il prodigio del serpente innalzato da Mosè nel deserto (cf. Gv 3, 14-15; Nm 21, 8-9). Anche oggi, volgendo lo sguardo a Colui che è stato trafitto, ogni uomo minacciato nella sua esistenza incontra la sicura speranza di trovare liberazione e redenzione.

51. Ma c'è ancora un altro avvenimento preciso che attira il mio sguardo e suscita la mia commossa meditazione: «Dopo aver ricevuto l'aceto, Gesù disse: 'Tutto è compiuto!'. E, chinato il capo, rese lo spirito» (Gv 19, 30). E il soldato romano «gli colpì il costato con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19, 34).

Tutto ormai è giunto al suo pieno compimento. Il «rendere lo spirito» descrive la morte di Gesù, simile a quella di ogni altro essere umano, ma sembra alludere anche al «dono dello Spirito», col quale Egli ci riscatta dalla morte e ci apre a una vita nuova.

È la vita stessa di Dio che viene partecipata all'uomo. È la vita che, mediante i sacramenti della Chiesa — di cui il sangue e l'acqua sgorgati dal fianco di Cristo sono simbolo — viene continuamente comunicata ai figli di Dio, costituiti così come popolo della Nuova Alleanza. Dalla Croce, fonte di vita, nasce e si diffonde il «popolo della vita».

La contemplazione della Croce ci porta così alle radici più profonde di quanto è accaduto. Gesù, che entrando nel mondo aveva detto: «Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà» (cf.Eb 10, 9), si rese in tutto obbediente al Padre e, avendo «amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13, 1), donando tutto se stesso per loro.

Lui, che non era «venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10, 45), raggiunge sulla Croce il vertice dell'amore. «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13). Ed egli è morto per noi mentre eravamo ancora peccatori (cf. Rm 5, 8).

In tal modo egli proclama che la vita raggiunge il suo centro, il suo senso e la sua pienezza quando viene donata.

La meditazione a questo punto si fa lode e ringraziamento e, nello stesso tempo, ci sollecita a imitare Gesù e a seguirne le orme (cf. 1 Pt 2, 21).

Anche noi siamo chiamati a dare la nostra vita per i fratelli realizzando così in pienezza di verità il senso e il destino della nostra esistenza.

Lo potremo fare perché Tu, o Signore, ci hai donato l'esempio e ci hai comunicato la forza del tuo Spirito. Lo potremo fare se ogni giorno, con Te e come Te, saremo obbedienti al Padre e faremo la sua volontà.

Concedici, perciò, di ascoltare con cuore docile e generoso ogni parola che esce dalla bocca di Dio: impareremo così non solo a «non uccidere» la vita dell'uomo, ma a venerarla, amarla e promuoverla.

CAPITOLO III - Non uccidere la Legge santa di Dio

«Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19, 17): Vangelo e comandamento

52. «Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: "Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?"» (Mt 19, 16). Gesù rispose: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19, 17). Il Maestro parla della vita eterna, ossia della partecipazione alla vita stessa di Dio. A questa vita si giunge attraverso l'osservanza dei comandamenti del Signore, compreso dunque il comandamento «non uccidere». Proprio questo è il primo precetto del Decalogo che Gesù ricorda al giovane che gli chiede quali comandamenti debba osservare: «Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare..."» (Mt 19, 18).

Il comandamento di Dio non è mai separato dal suo amore: è sempre un dono per la crescita e la gioia dell'uomo. Come tale, costituisce un aspetto essenziale e un elemento irrinunciabile del Vangelo, anzi esso stesso si configura come «vangelo», ossia buona e lieta notizia. Anche il Vangelo della vita è un grande dono di Dio e insieme un compito impegnativo per l'uomo. Esso suscita stupore e gratitudine nella persona libera e chiede di essere accolto, custodito e valorizzato con vivo senso di responsabilità: donandogli la vita, Dio esige dall'uomo che la ami, la rispetti e la promuova. In tal modo il dono si fa comandamento, e il comandamento è esso stesso un dono.

L'uomo, immagine vivente di Dio, è voluto dal suo Creatore come re e signore. «Dio ha fatto l'uomo — scrive san Gregorio di Nissa — in modo tale che potesse svolgere la sua funzione di re della terra... L'uomo è stato creato a immagine di Colui che governa l'universo. Tutto dimostra che fin dal principio la sua natura è contrassegnata dalla regalità... Anche l'uomo è re. Creato per dominare il mondo, ha ricevuto la somiglianza col re universale, è l'immagine viva che partecipa con la sua dignità alla perfezione del divino modello».38 Chiamato ad essere fecondo e a moltiplicarsi, a soggiogare la terra e a dominare sugli esseri infraumani (cf. Gn 1, 28), l'uomo è re e signore non solo delle cose, ma anche ed anzitutto di se stesso 39 e, in un certo senso, della vita che gli è donata e che egli puó trasmettere mediante l'opera generatrice compiuta nell'amore e nel rispetto del disegno di Dio. La sua, tuttavia, non è una signoria assoluta, ma ministeriale; è riflesso reale della signoria unica e infinita di Dio. Per questo l'uomo deve viverla con sapienza e amore, partecipando alla sapienza e all'amore incommensurabili di Dio. E ciò avviene con l'obbedienza alla sua Legge santa: un'obbedienza libera e gioiosa (cf. Sal 119/118), che nasce ed è nutrita dalla consapevolezza che i precetti del Signore sono dono di grazia affidati all'uomo sempre e solo per il suo bene, per la custodia della sua dignità personale e per il perseguimento della sua felicità.

Come già di fronte alle cose, ancor più di fronte alla vita, l'uomo non è padrone assoluto e arbitro insindacabile, ma — e in questo sta la sua impareggiabile grandezza — è «ministro del disegno di Dio».40

La vita viene affidata all'uomo come un tesoro da non disperdere, come un talento da trafficare. Di essa l'uomo deve rendere conto al suo Signore (cf. Mt 25, 14-30; Lc 19, 12-27).

 «Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo» (Gn 9, 5): la vita umana è sacra e inviolabile

53. «La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta "l'azione creatrice di Dio" e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente».41 Con queste parole l'Istruzione Donum vitae espone il contenuto centrale della rivelazione di Dio sulla sacralità e inviolabilità della vita umana.

La Sacra Scrittura, infatti, presenta all'uomo il precetto «non uccidere» come comandamento divino (Es 20, 13; Dt 5, 17). Esso — come ho già sottolineato — si trova nel Decalogo, al cuore dell'Alleanza che il Signore conclude con il popolo eletto; ma era già contenuto nell'originaria alleanza di Dio con l'umanità dopo il castigo purificatore del diluvio, provocato dal dilagare del peccato e della violenza (cf. Gn 9, 5-6).

Dio si proclama Signore assoluto della vita dell'uomo, plasmato a sua immagine e somiglianza (cf. Gn 1, 26-28). La vita umana presenta, pertanto, un carattere sacro ed inviolabile, in cui si rispecchia l'inviolabilità stessa del Creatore. Proprio per questo sarà Dio a farsi giudice severo di ogni violazione del comandamento «non uccidere», posto alle basi dell'intera convivenza sociale. Egli è il «goel», ossia il difensore dell'innocente (cf. Gn 4, 9-15; Is 41, 14; Ger 50, 34; Sal 19/18, 15). Anche in questo modo Dio dimostra di non godere della rovina dei viventi (cf. Sap 1, 13). Solo Satana ne può godere: per la sua invidia la morte è entrata nel mondo (cf. Sap 2, 24). Egli, che è «omicida fin da principio», è anche «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8, 44): ingannando l'uomo, lo conduce a traguardi di peccato e di morte, presentati come mete e frutti di vita.

54. Esplicitamente, il precetto «non uccidere» ha un forte contenuto negativo: indica il confine estremo che non può mai essere valicato. Implicitamente, però, esso spinge ad un atteggiamento positivo di rispetto assoluto per la vita portando a promuoverla e a progredire sulla via dell'amore che si dona, accoglie e serve. Anche il popolo dell'Alleanza, pur con lentezze e contraddizioni, ha conosciuto una maturazione progressiva secondo questo orientamento, preparandosi così al grande annuncio di Gesù: l'amore del prossimo è comandamento simile a quello dell'amore di Dio; «da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti» (cf. Mt 22, 36-40). «Il precetto... non uccidere... e qualsiasi altro comandamento — sottolinea san Paolo — si riassume in queste parole: "Amerai il prossimo tuo come te stesso"» (Rm 13, 9; cf. Gal 5, 14). Assunto e portato a compimento nella Legge Nuova, il precetto «non uccidere» rimane come condizione irrinunciabile per poter «entrare nella vita» (cf. Mt 19, 16-19). In questa stessa prospettiva, risuona perentoria anche la parola dell'apostolo Giovanni: «Chiun- que odia il proprio fratello è omicida e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna» (1 Gv 3, 15).

Sin dai suoi inizi, la Tradizione viva della Chiesa — come testimonia la Didachè, il più antico scritto cristiano non biblico — ha riproposto in modo categorico il comandamento «non uccidere»: «Vi sono due vie, una della vita, e l'altra della morte; vi è una grande differenza fra di esse... Secondo precetto della dottrina: Non ucciderai... non farai perire il bambino con l'aborto né l'ucciderai dopo che è nato... La via della morte è questa: ... non hanno compassione per il povero, non soffrono con il sofferente, non riconoscono il loro Creatore, uccidono i loro figli e con l'aborto fanno perire creature di Dio; allontanano il bisognoso, opprimono il tribolato, sono avvocati dei ricchi e giudici ingiusti dei poveri; sono pieni di ogni peccato. Possiate star sempre lontani, o figli, da tutte queste colpe!».42

Procedendo nel tempo, la stessa Tradizione della Chiesa ha sempre unanimemente insegnato il valore assoluto e permanente del comandamento «non uccidere». È noto che, nei primi secoli, l'omicidio veniva posto fra i tre peccati più gravi — insieme all'apostasia e all'adulterio — e si esigeva una penitenza pubblica particolarmente onerosa e lunga prima che all'omicida pentito venissero concessi il perdono e la riammissione nella comunione ecclesiale.

55. La cosa non deve stupire: uccidere l'essere umano, nel quale è presente l'immagine di Dio, è peccato di particolare gravità. Solo Dio è padrone della vita! Da sempre, tuttavia, di fronte ai molteplici e spesso drammatici casi che la vita individuale e sociale presenta, la riflessione dei credenti ha cercato di raggiungere un'intelligenza più completa e profonda di quanto il comandamento di Dio proibisca e prescriva.43 Vi sono, infatti, situazioni in cui i valori proposti dalla Legge di Dio appaiono sotto forma di un vero paradosso. È il caso, ad esempio, della legittima difesa, in cui il diritto a proteggere la propria vita e il dovere di non ledere quella dell'altro risultano in concreto difficilmente componibili. Indubbiamente, il valore intrinseco della vita e il dovere di portare amore a se stessi non meno che agli altri fondano un vero diritto alla propria difesa. Lo stesso esigente precetto dell'amore per gli altri, enunciato nell'Antico Testamento e confermato da Gesù, suppone l'amore per se stessi quale termine di confronto: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mc 12, 31). Al diritto di difendersi, dunque, nessuno potrebbe rinunciare per scarso amore alla vita o a se stesso, ma solo in forza di un amore eroico, che approfondisce e trasfigura lo stesso amore di sé, secondo lo spirito delle beatitudini evangeliche (cf. Mt 5, 38-48) nella radicalità oblativa di cui è esempio sublime lo stesso Signore Gesù.

D'altra parte, «la legittima difesa può essere non soltanto un diritto, ma un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della famiglia o della comunità civile».44 Accade purtroppo che la necessità di porre l'aggressore in condizione di non nuocere comporti talvolta la sua soppressione. In tale ipotesi, l'esito mortale va attribuito allo stesso aggressore che vi si è esposto con la sua azione, anche nel caso in cui egli non fosse moralmente responsabile per mancanza dell'uso della ragione.45

56. In questo orizzonte si colloca anche il problema della pena di morte, su cui si registra, nella Chiesa come nella società civile, una crescente tendenza che ne chiede un'applicazione assai limitata ed anzi una totale abolizione. Il problema va inquadrato nell'ottica di una giustizia penale che sia sempre più conforme alla dignità dell'uomo e pertanto, in ultima analisi, al disegno di Dio sull'uomo e sulla società. In effetti, la pena che la società infligge «ha come primo scopo di riparare al disordine introdotto dalla colpa».46 La pubblica autorità deve farsi vindice della violazione dei diritti personali e sociali mediante l'imposizione al reo di una adeguata espiazione del crimine, quale condizione per essere riammesso all'esercizio della propria libertà. In tal modo l'autorità ottiene anche lo scopo di difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone, non senza offrire allo stesso reo uno stimolo e un aiuto a correggersi e redimersi.47

È chiaro che, proprio per conseguire tutte queste finalità, la misura e la qualità della pena devono essere attentamente valutate e decise, e non devono giungere alla misura estrema della soppressione del reo se non in casi di assoluta necessità, quando cioè la difesa della società non fosse possibile altrimenti. Oggi, però, a seguito dell'organizzazione sempre più adeguata dell'istituzione penale, questi casi sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti.

In ogni caso resta valido il principio indicato dal nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, secondo cui «se i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere le vite umane dall'aggressore e per proteggere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana».48

57. Se così grande attenzione va posta al rispetto di ogni vita, persino di quella del reo e dell'ingiusto aggressore, il comandamento «non uccidere» ha valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente. E ciò tanto più se si tratta di un essere umano debole e indifeso, che solo nella forza assoluta del comandamento di Dio trova la sua radicale difesa rispetto all'arbitrio e alla prepotenza altrui.

In effetti, l'inviolabilità assoluta della vita umana innocente è una verità morale esplicitamente insegnata nella Sacra Scrittura, costantemente ritenuta nella Tradizione della Chiesa e unanimemente proposta dal suo Magistero. Tale unanimità è frutto evidente di quel «senso soprannaturale della fede» che, suscitato e sorretto dallo Spirito Santo, garantisce dall'errore il popolo di Dio, quando «esprime l'universale suo consenso in materia di fede e di costumi».49

Dinanzi al progressivo attenuarsi nelle coscienze e nella società della percezione dell'assoluta e grave illiceità morale della diretta soppressione di ogni vita umana innocente, specialmente al suo inizio e al suo termine, il Magistero della Chiesa ha intensificato i suoi interventi a difesa della sacralità e dell'inviolabilità della vita umana. Al Magistero pontificio, particolarmente insistente, s'è sempre unito quello episcopale, con numerosi e ampi documenti dottrinali e pastorali, sia di Conferenze Episcopali, sia di singoli Vescovi. Né è mancato, forte e incisivo nella sua brevità, l'intervento del Concilio Vaticano II.50

Pertanto, con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale. Tale dottrina, fondata in quella legge non scritta che ogni uomo, alla luce della ragione, trova nel proprio cuore (cf. Rm 2, 14-15), è riaffermata dalla Sacra Scrittura, trasmessa dalla Tradizione della Chiesa e insegnata dal Magistero ordinario e universale.51

La scelta deliberata di privare un essere umano innocente della sua vita è sempre cattiva dal punto di vista morale e non può mai essere lecita né come fine, né come mezzo per un fine buono. È, infatti, grave disobbedienza alla legge morale, anzi a Dio stesso, autore e garante di essa; contraddice le fondamentali virtù della giustizia e della carità. «Niente e nessuno può autorizzare l'uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo».52

Nel diritto alla vita, ogni essere umano innocente è assolutamente uguale a tutti gli altri. Tale uguaglianza è la base di ogni autentico rapporto sociale che, per essere veramente tale, non può non fondarsi sulla verità e sulla giustizia, riconoscendo e tutelando ogni uomo e ogni donna come persona e non come una cosa di cui si possa disporre. Di fronte alla norma morale che proibisce la soppressione diretta di un essere umano innocente «non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno. Essere il padrone del mondo o l'ultimo miserabile sulla faccia della terra non fa alcuna differenza: davanti alle esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali».53

«Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi» (Sal 139/138, 16): il delitto abominevole dell'aborto

58. Fra tutti i delitti che l'uomo può compiere contro la vita, l'aborto procurato presenta caratteristiche che lo rendono particolarmente grave e deprecabile. Il Concilio Vaticano II lo definisce, insieme all'infanticidio, «delitto abominevole».54

Ma oggi, nella coscienza di molti, la percezione della sua gravità è andata progressivamente oscurandosi. L'accettazione dell'aborto nella mentalità, nel costume e nella stessa legge è segno eloquente di una pericolosissima crisi del senso morale, che diventa sempre più incapace di distinguere tra il bene e il male, persino quando è in gioco il diritto fondamentale alla vita. Di fronte a una così grave situazione, occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno. A tale proposito risuona categorico il rimprovero del Profeta: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre» (Is 5, 20). Proprio nel caso dell'aborto si registra la diffusione di una terminologia ambigua, come quella di «interruzione della gravidanza», che tende a nasconderne la vera natura e ad attenuarne la gravità nell'opinione pubblica. Forse questo fenomeno linguistico è esso stesso sintomo di un disagio delle coscienze. Ma nessuna parola vale a cambiare la realtà delle cose: l'aborto procurato è l'uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita.

La gravità morale dell'aborto procurato appare in tutta la sua verità se si riconosce che si tratta di un omicidio e, in particolare, se si considerano le circostanze specifiche che lo qualificano. Chi viene soppresso è un essere umano che si affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente in assoluto si possa immaginare: mai potrebbe essere considerato un aggressore, meno che mai un ingiusto aggressore! È debole, inerme, al punto di essere privo anche di quella minima forma di difesa che è costituita dalla forza implorante dei gemiti e del pianto del neonato. È totalmente affidato alla protezione e alle cure di colei che lo porta in grembo. Eppure, talvolta, è proprio lei, la mamma, a deciderne e a chiederne la soppressione e persino a procurarla.

È vero che molte volte la scelta abortiva riveste per la madre carattere drammatico e doloroso, in quanto la decisione di disfarsi del frutto del concepimento non viene presa per ragioni puramente egoistiche e di comodo, ma perché si vorrebbero salvaguardare alcuni importanti beni, quali la propria salute o un livello dignitoso di vita per gli altri membri della famiglia. Talvolta si temono per il nascituro condizioni di esistenza tali da far pensare che per lui sarebbe meglio non nascere. Tuttavia, queste e altre simili ragioni, per quanto gravi e drammatiche, non possono mai giustificare la soppressione deliberata di un essere umano innocente.

59. A decidere della morte del bambino non ancora nato, accanto alla madre, ci sono spesso altre persone. Anzitutto, può essere colpevole il padre del bambino, non solo quando espressamente spinge la donna all'aborto, ma anche quando indirettamente favorisce tale sua decisione perché la lascia sola di fronte ai problemi della gravidanza: 55 in tal modo la famiglia viene mortalmente ferita e profanata nella sua natura di comunità di amore e nella sua vocazione ad essere «santuario della vita». Né vanno taciute le sollecitazioni che a volte provengono dal più ampio contesto familiare e dagli amici. Non di rado la donna è sottoposta a pressioni talmente forti da sentirsi psicologicamente costretta a cedere all'aborto: non v'è dubbio che in questo caso la responsabilità morale grava particolarmente su quelli che direttamente o indirettamente l'hanno forzata ad abortire. Responsabili sono pure i medici e il personale sanitario, quando mettono a servizio della morte la competenza acquisita per promuovere la vita.

Ma la responsabilità coinvolge anche i legislatori, che hanno promosso e approvato leggi abortive e, nella misura in cui la cosa dipende da loro, gli amministratori delle strutture sanitarie utilizzate per praticare gli aborti. Una responsabilità generale non meno grave riguarda sia quanti hanno favorito il diffondersi di una mentalità di permissivismo sessuale e disistima della maternità, sia coloro che avrebbero dovuto assicurare — e non l'hanno fatto — valide politiche familiari e sociali a sostegno delle famiglie, specialmente di quelle numerose o con particolari difficoltà economiche ed educative. Non si può infine sottovalutare la rete di complicità che si allarga fino a comprendere istituzioni internazionali, fondazioni e associazioni che si battono sistematicamente per la legalizzazione e la diffusione dell'aborto nel mondo. In tal senso l'aborto va oltre la responsabilità delle singole persone e il danno loro arrecato, assumendo una dimensione fortemente sociale: è una ferita gravissima inferta alla società e alla sua cultura da quanti dovrebbero esserne i costruttori e i difensori. Come ho scritto nella mia Lettera alle Famiglie, «ci troviamo di fronte ad un'enorme minaccia contro la vita, non solo di singoli individui, ma anche dell'intera civiltà».56 Ci troviamo di fronte a quella che può definirsi una «struttura di peccato» contro la vita umana non ancora nata.

60. Alcuni tentano di giustificare l'aborto sostenendo che il frutto del concepimento, almeno fin a un certo numero di giorni, non può essere ancora considerato una vita umana personale. In realtà, «dal momento in cui l'ovulo è fecondato, si inaugura una vita che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto. Non sarà mai reso umano se non lo è stato fin da allora. A questa evidenza di sempre... la scienza genetica moderna fornisce preziose conferme. Essa ha mostrato come dal primo istante si trovi fissato il programma di ciò che sarà questo vivente: una persona, questa persona individua con le sue note caratteristiche già ben determinate. Fin dalla fecondazione è iniziata l'avventura di una vita umana, di cui ciascuna delle grandi capacità richiede tempo, per impostarsi e per trovarsi pronta ad agire».57 Anche se la presenza di un'anima spirituale non può essere rilevata dall'osservazione di nessun dato sperimentale, sono le stesse conclusioni della scienza sull'embrione umano a fornire «un'indicazione preziosa per discernere razionalmente una presenza personale fin da questo primo comparire di una vita umana: come un individuo umano non sarebbe una persona umana?».58

Del resto, tale è la posta in gioco che, sotto il profilo dell'obbligo morale, basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte a una persona per giustificare la più netta proibizione di ogni intervento volto a sopprimere l'embrione umano. Proprio per questo, al di là dei dibattiti scientifici e delle stesse affermazioni filosofiche nelle quali il Magistero non si è espressamente impegnato, la Chiesa ha sempre insegnato, e tuttora insegna, che al frutto della generazione umana, dal primo momento della sua esistenza, va garantito il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere umano nella sua totalità e unità corporale e spirituale: «L'essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita».59

61. I testi della Sacra Scrittura, che non parlano mai di aborto volontario e quindi non presentano condanne dirette e specifiche in proposito, mostrano una tale considerazione dell'essere umano nel grembo materno, da esigere come logica conseguenza che anche ad esso si estenda il comandamento di Dio: «non uccidere».

La vita umana è sacra e inviolabile in ogni momento della sua esistenza, anche in quello iniziale che precede la nascita. L'uomo, fin dal grembo materno, appartiene a Dio che tutto scruta e conosce, che lo forma e lo plasma con le sue mani, che lo vede mentre è ancora un piccolo embrione informe e che in lui intravede l'adulto di domani i cui giorni sono contati e la cui vocazione è già scritta nel «libro della vita» (cf. Sal 139/138, 1.13-16). Anche lì, quando è ancora nel grembo materno, — come testimoniano numerosi testi biblici 60 — l'uomo è il termine personalissimo dell'amorosa e paterna provvidenza di Dio.

La Tradizione cristiana — come ben rileva la Dichiarazione emanata al riguardo dalla Congregazione per la Dottrina della Fede 61 — è chiara e unanime, dalle origini fino ai nostri giorni, nel qualificare l'aborto come disordine morale particolarmente grave. Fin dal suo primo confronto con il mondo greco-romano, nel quale erano ampiamente praticati l'aborto e l'infanticidio, la comunità cristiana si è radicalmente opposta, con la sua dottrina e con la sua prassi, ai costumi diffusi in quella società, come dimostra la già citata Didachè.62 Tra gli scrittori ecclesiastici di area greca, Atenagora ricorda che i cristiani considerano come omicide le donne che fanno ricorso a medicine abortive, perché i bambini, anche se ancora nel seno della madre, «sono già l'oggetto delle cure della Provvidenza divina».63 Tra i latini, Tertulliano afferma: «È un omicidio anticipato impedire di nascere; poco importa che si sopprima l'anima già nata o che la si faccia scomparire nel nascere. È già un uomo colui che lo sarà».64

Lungo la sua storia ormai bimillenaria, questa medesima dottrina è stata costantemente insegnata dai Padri della Chiesa, dai suoi Pastori e Dottori. Anche le discussioni di carattere scientifico e filosofico circa il momento preciso dell'infusione dell'anima spirituale non hanno mai comportato alcuna esitazione circa la condanna morale dell'aborto.

62. Il più recente Magistero pontificio ha ribadito con grande vigore questa dottrina comune. In particolare Pio XI nell'Enciclica Casti connubii ha respinto le pretestuose giustificazioni dell'aborto; 65 Pio XII ha escluso ogni aborto diretto, cioè ogni atto che tende direttamente a distruggere la vita umana non ancora nata, «sia che tale distruzione venga intesa come fine o soltanto come mezzo al fine»; 66 Giovanni XXIII ha riaffermato che la vita umana è sacra, perché «fin dal suo affiorare impegna direttamente l'azione creatrice di Dio».67 Il Concilio Vaticano II, come già ricordato, ha condannato con grande severità l'aborto: «La vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura; e l'aborto come l'infanticidio sono abominevoli delitti».68

La disciplina canonica della Chiesa, fin dai primi secoli, ha colpito con sanzioni penali coloro che si macchiavano della colpa dell'aborto e tale prassi, con pene più o meno gravi, è stata confermata nei vari periodi storici. Il Codice di Diritto Canonico del 1917 comminava per l'aborto la pena della scomunica.69 Anche la rinnovata legislazione canonica si pone in questa linea quando sancisce che «chi procura l'aborto ottenendo l'effetto incorre nella scomunica latae sententiae»,70 cioè automatica. La scomunica colpisce tutti coloro che commettono questo delitto conoscendo la pena, inclusi anche quei complici senza la cui opera esso non sarebbe stato realizzato: 71 con tale reiterata sanzione, la Chiesa addita questo delitto come uno dei più gravi e pericolosi, spingendo così chi lo commette a ritrovare sollecitamente la strada della conversione. Nella Chiesa, infatti, la pena della scomunica è finalizzata a rendere pienamente consapevoli della gravità di un certo peccato e a favorire quindi un'adeguata conversione e penitenza.

Di fronte a una simile unanimità nella tradizione dottrinale e disciplinare della Chiesa, Paolo VI ha potuto dichiarare che tale insegnamento non è mutato ed è immutabile.72 Pertanto, con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi — che a varie riprese hanno condannato l'aborto e che nella consultazione precedentemente citata, pur dispersi per il mondo, hanno unanimemente consentito circa questa dottrina — dichiaro che l'aborto diretto, cioè voluto come fine o come mezzo, costituisce sempre un disordine morale grave, in quanto uccisione deliberata di un essere umano innocente. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale.73

Nessuna circostanza, nessuna finalità, nessuna legge al mondo potrà mai rendere lecito un atto che è intrinsecamente illecito, perché contrario alla Legge di Dio, scritta nel cuore di ogni uomo, riconoscibile dalla ragione stessa, e proclamata dalla Chiesa.

63. La valutazione morale dell'aborto è da applicare anche alle recenti forme di intervento sugli embrioni umani che, pur mirando a scopi in sé legittimi, ne comportano inevitabilmente l'uccisione. È il caso della sperimentazione sugli embrioni, in crescente espansione nel campo della ricerca biomedica e legalmente ammessa in alcuni Stati. Se «si devono ritenere leciti gli interventi sull'embrione umano a patto che rispettino la vita e l'integrità dell'embrione, non comportino per lui rischi sproporzionati, ma siano finalizzati alla sua guarigione, al miglioramento delle sue condizioni di salute o alla sua sopravvivenza individuale»,74 si deve invece affermare che l'uso degli embrioni o dei feti umani come oggetto di sperimentazione costituisce un delitto nei riguardi della loro dignità di esseri umani, che hanno diritto al medesimo rispetto dovuto al bambino già nato e ad ogni persona.75

La stessa condanna morale riguarda anche il procedimento che sfrutta gli embrioni e i feti umani ancora vivi — talvolta «prodotti» appositamente per questo scopo mediante la fecondazione in vitro — sia come «materiale biologico» da utilizzare sia come fornitori di organi o di tessuti da trapiantare per la cura di alcune malattie. In realtà, l'uccisione di creature umane innocenti, seppure a vantaggio di altre, costituisce un atto assolutamente inaccettabile.

Una speciale attenzione deve essere riservata alla valutazione morale delle tecniche diagnostiche prenatali, che permettono di individuare precocemente eventuali anomalie del nascituro. Infatti, per la complessità di queste tecniche, tale valutazione deve farsi più accurata e articolata. Quando sono esenti da rischi sproporzionati per il bambino e per la madre e sono ordinate a rendere possibile una terapia precoce o anche a favorire una serena e consapevole accettazione del nascituro, queste tecniche sono moralmente lecite. Dal momento però che le possibilità di cura prima della nascita sono oggi ancora ridotte, accade non poche volte che queste tecniche siano messe al servizio di una mentalità eugenetica, che accetta l'aborto selettivo, per impedire la nascita di bambini affetti da vari tipi di anomalie. Una simile mentalità è ignominiosa e quanto mai riprovevole, perché pretende di misurare il valore di una vita umana soltanto secondo parametri di «normalità» e di benessere fisico, aprendo così la strada alla legittimazione anche dell'infanticidio e dell'eutanasia.

In realtà, però, proprio il coraggio e la serenità con cui tanti nostri fratelli, affetti da gravi menomazioni, conducono la loro esistenza quando sono da noi accettati ed amati, costituiscono una testimonianza particolarmente efficace dei valori autentici che qualificano la vita e che la rendono, anche in condizioni di difficoltà, preziosa per sé e per gli altri. La Chiesa è vicina a quei coniugi che, con grande ansia e sofferenza, accettano di accogliere i loro bambini gravemente colpiti da handicap, così come è grata a tutte quelle famiglie che, con l'adozione, accolgono quanti sono stati abbandonati dai loro genitori a motivo di menomazioni o malattie.

«Sono io che do la morte e faccio vivere» (Dt 32, 39): il dramma dell'eutanasia

64. All'altro capo dell'esistenza, l'uomo si trova posto di fronte al mistero della morte. Oggi, in seguito ai progressi della medicina e in un contesto culturale spesso chiuso alla trascendenza, l'esperienza del morire si presenta con alcune caratteristiche nuove. Infatti, quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo. La morte, considerata «assurda» se interrompe improvvisamente una vita ancora aperta a un futuro ricco di possibili esperienze interessanti, diventa invece una «liberazione rivendicata» quando l'esistenza è ritenuta ormai priva di senso perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un'ulteriore più acuta sofferenza.

Inoltre, rifiutando o dimenticando il suo fondamentale rapporto con Dio, l'uomo pensa di essere criterio e norma a se stesso e ritiene di avere il diritto di chiedere anche alla società di garantirgli possibilità e modi di decidere della propria vita in piena e totale autonomia. È, in particolare, l'uomo che vive nei Paesi sviluppati a comportarsi così: egli si sente spinto a ciò anche dai continui progressi della medicina e dalle sue tecniche sempre più avanzate. Mediante sistemi e apparecchiature estremamente sofisticati, la scienza e la pratica medica sono oggi in grado non solo di risolvere casi precedentemente insolubili e di lenire o eliminare il dolore, ma anche di sostenere e protrarre la vita perfino in situazioni di debolezza estrema, di rianimare artificialmente persone le cui funzioni biologiche elementari hanno subito tracolli improvvisi, di intervenire per rendere disponibili organi da trapiantare.

In un tale contesto si fa sempre più forte la tentazione dell'eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine «dolcemente» alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano. Siamo qui di fronte a uno dei sintomi più allarmanti della «cultura di morte», che avanza soprattutto nelle società del benessere, caratterizzate da una mentalità efficientistica che fa apparire troppo oneroso e insopportabile il numero crescente delle persone anziane e debilitate. Esse vengono molto spesso isolate dalla famiglia e dalla società, organizzate quasi esclusivamente sulla base di criteri di efficienza produttiva, secondo i quali una vita irrimediabilmente inabile non ha più alcun valore.

65. Per un corretto giudizio morale sull'eutanasia, occorre innanzitutto chiaramente definirla. Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un'azione o un'omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. «L'eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati».76

Da essa va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto «accanimento terapeutico», ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza «rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi».77 Si dà certamente l'obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte.78

Nella medicina moderna vanno acquistando rilievo particolare le cosiddette «cure palliative», destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano. In questo contesto sorge, tra gli altri, il problema della liceità del ricorso ai diversi tipi di analgesici e sedativi per sollevare il malato dal dolore, quando ciò comporta il rischio di abbreviargli la vita. Se, infatti, può essere considerato degno di lode chi accetta volontariamente di soffrire rinunciando a interventi antidolorifici per conservare la piena lucidità e partecipare, se credente, in maniera consapevole alla passione del Signore, tale comportamento «eroico» non può essere ritenuto doveroso per tutti. Già Pio XII aveva affermato che è lecito sopprimere il dolore per mezzo di narcotici, pur con la conseguenza di limitare la coscienza e di abbreviare la vita, «se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l'adempimento di altri doveri religiosi e morali».79 In questo caso, infatti, la morte non è voluta o ricercata, nonostante che per motivi ragionevoli se ne corra il rischio: semplicemente si vuole lenire il dolore in maniera efficace, ricorrendo agli analgesici messi a disposizione dalla medicina. Tuttavia, «non si deve privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo»: 80 avvicinandosi alla morte, gli uomini devono essere in grado di poter soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e soprattutto devono potersi preparare con piena coscienza all'incontro definitivo con Dio.

Fatte queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei Predecessori 81 e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale.82

Una tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del suicidio o dell'omicidio.

66. Ora, il suicidio è sempre moralmente inaccettabile quanto l'omicidio. La tradizione della Chiesa l'ha sempre respinto come scelta gravemente cattiva.83 Benché determinati condizionamenti psicologici, culturali e sociali possano portare a compiere un gesto che contraddice così radicalmente l'innata inclinazione di ognuno alla vita, attenuando o annullando la responsabilità soggettiva, il suicidio, sotto il profilo oggettivo, è un atto gravemente immorale, perché comporta il rifiuto dell'amore verso se stessi e la rinuncia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità di cui si fa parte e verso la società nel suo insieme.84 Nel suo nucleo più profondo, esso costituisce un rifiuto della sovranità assoluta di Dio sulla vita e sulla morte, così proclamata nella preghiera dell'antico saggio di Israele: «Tu hai potere sulla vita e sulla morte; conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire» (Sap 16, 13; cf. Tb 13, 2).

Condividere l'intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarla mediante il cosiddetto «suicidio assistito» significa farsi collaboratori, e qualche volta attori in prima persona, di un'ingiustizia, che non può mai essere giustificata, neppure quando fosse richiesta. «Non è mai lecito — scrive con sorprendente attualità sant'Agostino — uccidere un altro: anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l'anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere».85 Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell'esistenza di chi soffre, l'eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante «perversione» di essa: la vera «compassione», infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza. E tanto più perverso appare il gesto dell'eutanasia se viene compiuto da coloro che — come i parenti — dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro congiunto o da quanti — come i medici —, per la loro specifica professione, dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni terminali più penose.

La scelta dell'eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l'ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso. Si raggiunge poi il colmo dell'arbitrio e dell'ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire. Si ripropone così la tentazione dell'Eden: diventare come Dio «conoscendo il bene e il male» (cf. Gn 3, 5). Ma Dio solo ha il potere di far morire e di far vivere: «Sono io che do la morte e faccio vivere» (Dt 32, 39; cf. 2 Re 5, 7; 1 Sam 2, 6). Egli attua il suo potere sempre e solo secondo un disegno di sapienza e di amore. Quando l'uomo usurpa tale potere, soggiogato da una logica di stoltezza e di egoismo, inevitabilmente lo usa per l'ingiustizia e per la morte.

Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone.

67. Ben diversa, invece, è la via dell'amore e della vera pietà, che la nostra comune umanità impone e che la fede in Cristo Redentore, morto e risorto, illumina con nuove ragioni. La domanda che sgorga dal cuore dell'uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova. È richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze umane vengono meno. Come ci ha ricordato il Concilio Vaticano II, «in faccia alla morte l'enigma della condizione umana diventa sommo» per l'uomo; e tuttavia «l'istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l'idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell'eternità che porta in sé, irriducibile com'è alla sola materia, insorge contro la morte».86

Questa naturale ripugnanza per la morte e questa germinale speranza di immortalità sono illuminate e portate a compimento dalla fede cristiana, che promette e offre la partecipazione alla vittoria del Cristo Risorto: è la vittoria di Colui che, mediante la sua morte redentrice, ha liberato l'uomo dalla morte, «salario del peccato» (Rm 6, 23), e gli ha donato lo Spirito, pegno di risurrezione e di vita (cf. Rm 8, 11). La certezza dell'immortalità futura e la speranza nella risurrezione promessa proiettano una luce nuova sul mistero del soffrire e del morire e infondono nel credente una forza straordinaria per affidarsi al disegno di Dio.

L'apostolo Paolo ha espresso questa novità nei termini di un'appartenenza totale al Signore che abbraccia qualsiasi condizione umana: «Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rm 14, 7-8). Morire per il Signore significa vivere la propria morte come atto supremo di obbedienza al Padre (cf. Fil 2, 8), accettando di incontrarla nell'«ora» voluta e scelta da lui (cf. Gv 13, 1), che solo può dire quando il cammino terreno è compiuto. Vivere per il Signore significa anche riconoscere che la sofferenza, pur restando in se stessa un male e una prova, può sempre diventare sorgente di bene. Lo diventa se viene vissuta per amore e con amore, nella partecipazione, per dono gratuito di Dio e per libera scelta personale, alla sofferenza stessa di Cristo crocifisso. In tal modo, chi vive la sua sofferenza nel Signore viene più pienamente conformato a lui (cf. Fil 3, 10; 1 Pt 2, 21) e intimamente associato alla sua opera redentrice a favore della Chiesa e dell'umanità.87 È questa l'esperienza dell'Apostolo, che anche ogni persona che soffre è chiamata a rivivere: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24).

 «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29): la legge civile e la legge morale

68. Una delle caratteristiche proprie degli attuali attentati alla vita umana — come si è già detto più volte — consiste nella tendenza ad esigere una loro legittimazione giuridica, quasi fossero diritti che lo Stato, almeno a certe condizioni, deve riconoscere ai cittadini e, conseguentemente, nella tendenza a pretendere la loro attuazione con l'assistenza sicura e gratuita dei medici e degli operatori sanitari.

Si pensa non poche volte che la vita di chi non è ancora nato o è gravemente debilitato sia un bene solo relativo: secondo una logica proporzionalista o di puro calcolo, dovrebbe essere confrontata e soppesata con altri beni. E si ritiene pure che solo chi si trova nella situazione concreta e vi è personalmente coinvolto possa compiere una giusta ponderazione dei beni in gioco: di conseguenza, solo lui potrebbe decidere della moralità della sua scelta. Lo Stato, perciò, nell'interesse della convivenza civile e dell'armonia sociale, dovrebbe rispettare questa scelta, giungendo anche ad ammettere l'aborto e l'eutanasia.

Si pensa, altre volte, che la legge civile non possa esigere che tutti i cittadini vivano secondo un grado di moralità più elevato di quello che essi stessi riconoscono e condividono. Per questo la legge dovrebbe sempre esprimere l'opinione e la volontà della maggioranza dei cittadini e riconoscere loro, almeno in certi casi estremi, anche il diritto all'aborto e all'eutanasia. Del resto, la proibizione e la punizione dell'aborto e dell'eutanasia in questi casi condurrebbero inevitabilmente — così si dice — ad un aumento di pratiche illegali: esse, peraltro, non sarebbero soggette al necessario controllo sociale e verrebbero attuate senza la dovuta sicurezza medica. Ci si chiede, inoltre, se sostenere una legge concretamente non applicabile non significhi, alla fine, minare anche l'autorità di ogni altra legge.

Nelle opinioni più radicali, infine, si giunge a sostenere che, in una società moderna e pluralistica, dovrebbe essere riconosciuta a ogni persona piena autonomia di disporre della propria vita e della vita di chi non è ancora nato: non spetterebbe, infatti, alla legge la scelta tra le diverse opinioni morali e, tanto meno, essa potrebbe pretendere di imporne una particolare a svantaggio delle altre.

69. In ogni caso, nella cultura democratica del nostro tempo si è largamente diffusa l'opinione secondo la quale l'ordinamento giuridico di una società dovrebbe limitarsi a registrare e recepire le convinzioni della maggioranza e, pertanto, dovrebbe costruirsi solo su quanto la maggioranza stessa riconosce e vive come morale. Se poi si ritiene addirittura che una verità comune e oggettiva sia di fatto inaccessibile, il rispetto della libertà dei cittadini — che in un regime democratico sono ritenuti i veri sovrani — esigerebbe che, a livello legislativo, si riconosca l'autonomia delle singole coscienze e quindi, nello stabilire quelle norme che in ogni caso sono necessarie alla convivenza sociale, ci si adegui esclusivamente alla volontà della maggioranza, qualunque essa sia. In tal modo, ogni politico, nella sua azione, dovrebbe separare nettamente l'ambito della coscienza privata da quello del comportamento pubblico.

Si registrano, di conseguenza, due tendenze, in apparenza diametralmente opposte. Da un lato, i singoli individui rivendicano per sé la più completa autonomia morale di scelta e chiedono che lo Stato non faccia propria e non imponga nessuna concezione etica, ma si limiti a garantire lo spazio più ampio possibile alla libertà di ciascuno, con l'unico limite esterno di non ledere lo spazio di autonomia al quale anche ogni altro cittadino ha diritto. Dall'altro lato, si pensa che, nell'esercizio delle funzioni pubbliche e professionali, il rispetto dell'altrui libertà di scelta imponga a ciascuno di prescindere dalle proprie convinzioni per mettersi a servizio di ogni richiesta dei cittadini, che le leggi riconoscono e tutelano, accettando come unico criterio morale per l'esercizio delle proprie funzioni quanto è stabilito da quelle medesime leggi. In questo modo la responsabilità della persona viene delegata alla legge civile, con un'abdicazione alla propria coscienza morale almeno nell'ambito dell'azione pubblica.

70. Comune radice di tutte queste tendenze è il relativismo etico che contraddistingue tanta parte della cultura contemporanea. Non manca chi ritiene che tale relativismo sia una condizione della democrazia, in quanto solo esso garantirebbe tolleranza, rispetto reciproco tra le persone, e adesione alle decisioni della maggioranza, mentre le norme morali, considerate oggettive e vincolanti, porterebbero all'autoritarismo e all'intolleranza.

Ma è proprio la problematica del rispetto della vita a mostrare quali equivoci e contraddizioni, accompagnati da terribili esiti pratici, si celino in questa posizione.

È vero che la storia registra casi in cui si sono commessi dei crimini in nome della «verità». Ma crimini non meno gravi e radicali negazioni della libertà si sono commessi e si commettono anche in nome del «relativismo etico». Quando una maggioranza parlamentare o sociale decreta la legittimità della soppressione, pur a certe condizioni, della vita umana non ancora nata, non assume forse una decisione «tirannica» nei confronti dell'essere umano più debole e indifeso? La coscienza universale giustamente reagisce nei confronti dei crimini contro l'umanità di cui il nostro secolo ha fatto così tristi esperienze. Forse che questi crimini cesserebbero di essere tali se, invece di essere commessi da tiranni senza scrupoli, fossero legittimati dal consenso popolare?

In realtà, la democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell'immoralità. Fondamentalmente, essa è un «ordinamento» e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere «morale» non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale a cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè dalla moralità dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve. Se oggi si registra un consenso pressoché universale sul valore della democrazia, ciò va considerato un positivo «segno dei tempi», come anche il Magistero della Chiesa ha più volte rilevato.88 Ma il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l'assunzione del «bene comune» come fine e criterio regolativo della vita politica.

Alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli «maggioranze» di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto «legge naturale» iscritta nel cuore dell'uomo, è punto di riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per un tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti interessi.89

Qualcuno potrebbe pensare che anche una tale funzione, in mancanza di meglio, sia da apprezzare ai fini della pace sociale. Pur riconoscendo un qualche aspetto di verità in una tale valutazione, è difficile non vedere che, senza un ancoraggio morale obiettivo, neppure la democrazia può assicurare una pace stabile, tanto più che la pace non misurata sui valori della dignità di ogni uomo e della solidarietà tra tutti gli uomini è non di rado illusoria. Negli stessi regimi partecipativi, infatti, la regolazione degli interessi avviene spesso a vantaggio dei più forti, essendo essi i più capaci di manovrare non soltanto le leve del potere, ma anche la formazione del consenso. In una tale situazione, la democrazia diventa facilmente una parola vuota.

71. Urge dunque, per l'avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l'esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell'essere umano ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere.

Occorre riprendere, in tal senso, gli elementi fondamentali della visione dei rapporti tra legge civile e legge morale, quali sono proposti dalla Chiesa, ma che pure fanno parte del patrimonio delle grandi tradizioni giuridiche dell'umanità.

Certamente, il compito della legge civile è diverso e di ambito più limitato rispetto a quello della legge morale. Però «in nessun ambito di vita la legge civile può sostituirsi alla coscienza né può dettare norme su ciò che esula dalla sua competenza»,90 che è quella di assicurare il bene comune delle persone, attraverso il riconoscimento e la difesa dei loro fondamentali diritti, la promozione della pace e della pubblica moralità.91 Il compito della legge civile consiste, infatti, nel garantire un'ordinata convivenza sociale nella vera giustizia, perché tutti «possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità» (1 Tm 2, 2). Proprio per questo, la legge civile deve assicurare per tutti i membri della società il rispetto di alcuni diritti fondamentali, che appartengono nativamente alla persona e che qualsiasi legge positiva deve riconoscere e garantire. Primo e fondamentale tra tutti è l'inviolabile diritto alla vita di ogni essere umano innocente. Se la pubblica autorità può talvolta rinunciare a reprimere quanto provocherebbe, se proibito, un danno più grave,92 essa non può mai accettare però di legittimare, come diritto dei singoli — anche se questi fossero la maggioranza dei componenti la società —, l'offesa inferta ad altre persone attraverso il misconoscimento di un loro diritto così fondamentale come quello alla vita. La tolleranza legale dell'aborto o dell'eutanasia non può in alcun modo richiamarsi al rispetto della coscienza degli altri, proprio perché la società ha il diritto e il dovere di tutelarsi contro gli abusi che si possono verificare in nome della coscienza e sotto il pretesto della libertà.93

Nell'Enciclica Pacem in terris, Giovanni XXIII aveva ricordato in proposito: «Nell'epoca moderna l'attuazione del bene comune trova la sua indicazione di fondo nei diritti e nei doveri della persona. Per cui i compiti precipui dei poteri pubblici consistono, soprattutto, nel riconoscere, rispettare, comporre, tutelare e promuovere quei diritti; e nel contribuire, di conseguenza, a rendere più facile l'adempimento dei rispettivi doveri. "Tutelare l'intangibile campo dei diritti della persona umana e renderle agevole il compimento dei suoi doveri vuol essere ufficio essenziale di ogni pubblico potere". Per cui ogni atto dei poteri pubblici, che sia o implichi un misconoscimento o una violazione di quei diritti, è un atto contrastante con la loro stessa ragion d'essere e rimane per ciò stesso destituito d'ogni valore giuridico».94

72. In continuità con tutta la tradizione della Chiesa è anche la dottrina sulla necessaria conformità della legge civile con la legge morale, come appare, ancora una volta, dall'enciclica citata di Giovanni XXIII: «L'autorità è postulata dall'ordine morale e deriva da Dio. Qualora pertanto le sue leggi o autorizzazioni siano in contrasto con quell'ordine, e quindi in contrasto con la volontà di Dio, esse non hanno forza di obbligare la coscienza...; in tal caso, anzi, chiaramente l'autorità cessa di essere tale e degenera in sopruso».95 È questo il limpido insegnamento di san Tommaso d'Aquino, che tra l'altro scrive: «La legge umana in tanto è tale in quanto è conforme alla retta ragione e quindi deriva dalla legge eterna. Quando invece una legge è in contrasto con la ragione, la si denomina legge iniqua; in tal caso però cessa di essere legge e diviene piuttosto un atto di violenza».96 E ancora: «Ogni legge posta dagli uomini in tanto ha ragione di legge in quanto deriva dalla legge naturale. Se invece in qualche cosa è in contrasto con la legge naturale, allora non sarà legge bensì corruzione della legge».97

Ora la prima e più immediata applicazione di questa dottrina riguarda la legge umana che misconosce il diritto fondamentale e fontale alla vita, diritto proprio di ogni uomo. Così le leggi che, con l'aborto e l'eutanasia, legittimano la soppressione diretta di esseri umani innocenti sono in totale e insanabile contraddizione con il diritto inviolabile alla vita proprio di tutti gli uomini e negano, pertanto, l'uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Si potrebbe obiettare che tale non è il caso dell'eutanasia, quando essa è richiesta in piena coscienza dal soggetto interessato. Ma uno Stato che legittimasse tale richiesta e ne autorizzasse la realizzazione, si troverebbe a legalizzare un caso di suicidio-omicidio, contro i principi fondamentali dell'indisponibilità della vita e della tutela di ogni vita innocente. In questo modo si favorisce una diminuzione del rispetto della vita e si apre la strada a comportamenti distruttivi della fiducia nei rapporti sociali.

Le leggi che autorizzano e favoriscono l'aborto e l'eutanasia si pongono dunque radicalmente non solo contro il bene del singolo, ma anche contro il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica. Il misconoscimento del diritto alla vita, infatti, proprio perché porta a sopprimere la persona per il cui servizio la società ha motivo di esistere, è ciò che si contrappone più frontalmente e irreparabilmente alla possibilità di realizzare il bene comune. Ne segue che, quando una legge civile legittima l'aborto o l'eutanasia cessa, per ciò stesso, di essere una vera legge civile, moralmente obbligante.

73. L'aborto e l'eutanasia sono dunque crimini che nessuna legge umana può pretendere di legittimare. Leggi di questo tipo non solo non creano nessun obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza. Fin dalle origini della Chiesa, la predicazione apostolica ha inculcato ai cristiani il dovere di obbedire alle autorità pubbliche legittimamente costituite (cf. Rm 13, 1-7; 1 Pt 2, 13-14), ma nello stesso tempo ha ammonito fermamente che «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29). Già nell'Antico Testamento, proprio in riferimento alle minacce contro la vita, troviamo un esempio significativo di resistenza al comando ingiusto dell'autorità. Al faraone, che aveva ordinato di far morire ogni neonato maschio, le levatrici degli Ebrei si opposero. Esse «non fecero come aveva loro ordinato il re di Egitto e lasciarono vivere i bambini» (Es 1, 17). Ma occorre notare il motivo profondo di questo loro comportamento: «Le levatrici temettero Dio» (ivi). È proprio dall'obbedienza a Dio — al quale solo si deve quel timore che è riconoscimento della sua assoluta sovranità — che nascono la forza e il coraggio di resistere alle leggi ingiuste degli uomini. È la forza e il coraggio di chi è disposto anche ad andare in prigione o ad essere ucciso di spada, nella certezza che «in questo sta la costanza e la fede dei santi» (Ap 13, 10).

Nel caso quindi di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette l'aborto o l'eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, «né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio voto».98

Un particolare problema di coscienza potrebbe porsi in quei casi in cui un voto parlamentare risultasse determinante per favorire una legge più restrittiva, volta cioè a restringere il numero degli aborti autorizzati, in alternativa ad una legge più permissiva già in vigore o messa al voto. Simili casi non sono rari. Si registra infatti il dato che mentre in alcune parti del mondo continuano le campagne per l'introduzione di leggi a favore dell'aborto, sostenute non poche volte da potenti organismi internazionali, in altre Nazioni invece — in particolare in quelle che hanno già fatto l'amara esperienza di simili legislazioni permissive — si vanno manifestando segni di ripensamento. Nel caso ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all'aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui.

74. L'introduzione di legislazioni ingiuste pone spesso gli uomini moralmente retti di fronte a difficili problemi di coscienza in materia di collaborazione in ragione della doverosa affermazione del proprio diritto a non essere costretti a partecipare ad azioni moralmente cattive. Talvolta le scelte che si impongono sono dolorose e possono richiedere il sacrificio di affermate posizioni professionali o la rinuncia a legittime prospettive di avanzamento nella carriera. In altri casi, può risultare che il compiere alcune azioni in se stesse indifferenti, o addirittura positive, previste nell'articolato di legislazioni globalmente ingiuste, consenta la salvaguardia di vite umane minacciate. D'altro canto, però, si può giustamente temere che la disponibilità a compiere tali azioni non solo comporti uno scandalo e favorisca l'indebolirsi della necessaria opposizione agli attentati contro la vita, ma induca insensibilmente ad arrendersi sempre più ad una logica permissiva.

Per illuminare questa difficile questione morale occorre richiamare i principi generali sulla cooperazione ad azioni cattive. I cristiani, come tutti gli uomini di buona volontà, sono chiamati, per un grave dovere di coscienza, a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto con la Legge di Dio. Infatti, dal punto di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al male. Tale cooperazione si verifica quando l'azione compiuta, o per la sua stessa natura o per la configurazione che essa viene assumendo in un concreto contesto, si qualifica come partecipazione diretta ad un atto contro la vita umana innocente o come condivisione dell'intenzione immorale dell'agente principale. Questa cooperazione non può mai essere giustificata né invocando il rispetto della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile la prevede e la richiede: per gli atti che ciascuno personalmente compie esiste, infatti, una responsabilità morale a cui nessuno può mai sottrarsi e sulla quale ciascuno sarà giudicato da Dio stesso (cf. Rm 2, 6; 14, 12).

Rifiutarsi di partecipare a commettere un'ingiustizia è non solo un dovere morale, ma è anche un diritto umano basilare. Se così non fosse, la persona umana sarebbe costretta a compiere un'azione intrinsecamente incompatibile con la sua dignità e in tal modo la sua stessa libertà, il cui senso e fine autentici risiedono nell'orientamento al vero e al bene, ne sarebbe radicalmente compromessa. Si tratta, dunque, di un diritto essenziale che, proprio perché tale, dovrebbe essere previsto e protetto dalla stessa legge civile. In tal senso, la possibilità di rifiutarsi di partecipare alla fase consultiva, preparatoria ed esecutiva di simili atti contro la vita dovrebbe essere assicurata ai medici, agli operatori sanitari e ai responsabili delle istituzioni ospedaliere, delle cliniche e delle case di cura. Chi ricorre all'obiezione di coscienza deve essere salvaguardato non solo da sanzioni penali, ma anche da qualsiasi danno sul piano legale, disciplinare, economico e professionale.

«Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10, 27): «promuovi» la vita.

75. I comandamenti di Dio ci insegnano la via della vita. Iprecetti morali negativi, cioè quelli che dichiarano moralmente inaccettabile la scelta di una determinata azione, hanno un valore assoluto per la libertà umana: essi valgono sempre e comunque, senza eccezioni. Indicano che la scelta di determinati comportamenti è radicalmente incompatibile con l'amore verso Dio e con la dignità della persona, creata a sua immagine: tale scelta, perciò, non può essere riscattata dalla bontà di nessuna intenzione e di nessuna conseguenza, è in contrasto insanabile con la comunione tra le persone, contraddice la decisione fondamentale di orientare la propria vita a Dio.99

Già in questo senso i precetti morali negativi hanno un'importantissima funzione positiva: il «no» che esigono incondizionatamente dice il limite invalicabile al di sotto del quale l'uomo libero non può scendere e, insieme, indica il minimo che egli deve rispettare e dal quale deve partire per pronunciare innumerevoli «sì», capaci di occupare progressivamente l'intero orizzonte del bene (cf. Mt 5, 48). I comandamenti, in particolare i precetti morali negativi, sono l'inizio e la prima tappa necessaria del cammino verso la libertà: «La prima libertà — scrive sant'Agostino — consiste nell'essere esenti da crimini... come sarebbero l'omicidio, l'adulterio, la fornicazione, il furto, la frode, il sacrilegio e così via. Quando uno comincia a non avere questi crimini (e nessun cristiano deve averli), comincia a levare il capo verso la libertà, ma questo non è che l'inizio della libertà, non la libertà perfetta».100

76. Il comandamento «non uccidere» stabilisce quindi il punto di partenza di un cammino di vera libertà, che ci porta a promuovere attivamente la vita e sviluppare determinati atteggiamenti e comportamenti al suo servizio: così facendo esercitiamo la nostra responsabilità verso le persone che ci sono affidate e manifestiamo, nei fatti e nella verità, la nostra riconoscenza a Dio per il grande dono della vita (cf. Sal 139/138, 13-14).

Il Creatore ha affidato la vita dell'uomo alla sua responsabile sollecitudine, non perché ne disponga in modo arbitrario, ma perché la custodisca con saggezza e la amministri con amorevole fedeltà. Il Dio dell'Alleanza ha affidato la vita di ciascun uomo all'altro uomo suo fratello, secondo la legge della reciprocità del dare e del ricevere, del dono di sé e dell'accoglienza dell'altro. Nella pienezza dei tempi, incarnandosi e donando la sua vita per l'uomo, il Figlio di Dio ha mostrato a quale altezza e profondità possa giungere questa legge della reciprocità. Con il dono del suo Spirito, Cristo dà contenuti e significati nuovi alla legge della reciprocità, all'affidamento dell'uomo all'uomo. Lo Spirito, che è artefice di comunione nell'amore, crea tra gli uomini una nuova fraternità e solidarietà, vero riflesso del mistero di reciproca donazione e accoglienza proprio della Trinità santissima. Lo stesso Spirito diventa la legge nuova, che dona ai credenti la forza e sollecita la loro responsabilità per vivere reciprocamente il dono di sé e l'accoglienza dell'altro, partecipando all'amore stesso di Gesù Cristo e secondo la sua misura.

77. Da questa legge nuova viene animato e plasmato anche il comandamento del «non uccidere». Per il cristiano, quindi, esso implica in definitiva l'imperativo di rispettare, amare e promuovere la vita di ogni fratello, secondo le esigenze e le dimensioni dell'amore di Dio in Gesù Cristo. «Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3, 16).

Il comandamento del «non uccidere», anche nei suoi contenuti più positivi di rispetto, amore e promozione della vita umana, vincola ogni uomo. Esso, infatti, risuona nella coscienza morale di ciascuno come un'eco insopprimibile dell'alleanza originaria di Dio creatore con l'uomo; da tutti può essere conosciuto alla luce della ragione e può essere osservato grazie all'opera misteriosa dello Spirito che, soffiando dove vuole (cf. Gv 3, 8), raggiunge e coinvolge ogni uomo che vive in questo mondo.

È dunque un servizio d'amore quello che tutti siamo impegnati ad assicurare al nostro prossimo, perché la sua vita sia difesa e promossa sempre, ma soprattutto quando è più debole o minacciata. È una sollecitudine non solo personale ma sociale, che tutti dobbiamo coltivare, ponendo l'incondizionato rispetto della vita umana a fondamento di una rinnovata società.

Ci è chiesto di amare e onorare la vita di ogni uomo e di ogni donna e di lavorare con costanza e con coraggio, perché nel nostro tempo, attraversato da troppi segni di morte, si instauri finalmente una nuova cultura della vita, frutto della cultura della verità e dell'amore.

CAPITOLO IV - L'avete fatto a me. Per una nuova cultura della vita umana

«Voi siete il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le sue opere meravigliose» (1 Pt 2, 9): il popolo della vita e per la vita

78. La Chiesa ha ricevuto il Vangelo come annuncio e fonte di gioia e di salvezza. L'ha ricevuto in dono da Gesù, inviato dal Padre «per annunziare ai poveri un lieto messaggio» (Lc 4, 18). L'ha ricevuto mediante gli Apostoli, da Lui mandati in tutto il mondo (cf. Mc 16, 15; Mt 28, 19-20). Nata da questa azione evangelizzatrice, la Chiesa sente risuonare in se stessa ogni giorno la parola ammonitrice dell'Apostolo: «Guai a me se non predicassi il Vangelo» (1 Cor 9, 16). «Evan- gelizzare, infatti, — come scriveva Paolo VI — è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangeliz- zare».101

L'evangelizzazione è un'azione globale e dinamica, che coinvolge la Chiesa nella sua partecipazione alla missione profetica, sacerdotale e regale del Signore Gesù. Essa, pertanto, comporta inscindibilmente le dimensioni dell'annuncio, della celebrazione e del servizio della carità. È un atto profondamente ecclesiale, che chiama in causa tutti i diversi operai del Vangelo, ciascuno secondo i propri carismi e il proprio ministero.

Così è anche quando si tratta di annunciare il Vangelo della vita, parte integrante del Vangelo che è Gesù Cristo. Di questo Vangelo noi siamo al servizio, sostenuti dalla consapevolezza di averlo ricevuto in dono e di essere inviati a proclamarlo a tutta l'umanità «fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8). Nutriamo perciò umile e grata coscienza di essere il popolo della vita e per la vita e in tal modo ci presentiamo davanti a tutti.

79. Siamo il popolo della vita perché Dio, nel suo amore gratuito, ci ha donato il Vangelo della vita e da questo stesso Vangelo noi siamo stati trasformati e salvati. Siamo stati riconquistati dall' «autore della vita» (At 3, 15) a prezzo del suo sangue prezioso (cf. 1 Cor 6, 20; 7, 23; 1 Pt 1, 19) e mediante il lavacro battesimale siamo stati inseriti in lui (cf. Rm 6, 4-5; Col 2, 12), come rami che dall'unico albero traggono linfa e fecondità (cf. Gv 15, 5). Rinnovati interiormente dalla grazia dello Spirito, «che è Signore e dà la vita», siamo diventati un popolo per la vita e come tali siamo chiamati a comportarci.

Siamo mandati: essere al servizio della vita non è per noi un vanto, ma un dovere, che nasce dalla coscienza di essere «il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le sue opere meravigliose» (1 Pt 2, 9). Nel nostro cammino ci guida e ci sostiene la legge dell'amore: è l'amore di cui è sorgente e modello il Figlio di Dio fatto uomo, che «morendo ha dato la vita al mondo».102

Siamo mandati come popolo. L'impegno a servizio della vita grava su tutti e su ciascuno. È una responsabilità propriamente «ecclesiale», che esige l'azione concertata e generosa di tutti i membri e di tutte le articolazioni della comunità cristiana. Il compito comunitario però non elimina né diminuisce la responsabilità della singola persona, alla quale è rivolto il comando del Signore a «farsi prossimo» di ogni uomo: «Và e anche tu fà lo stesso» (Lc 10, 37).

Tutti insieme sentiamo il dovere di annunciare il Vangelo della vita, di celebrarlo nella liturgia e nell'intera esistenza, diservirlo con le diverse iniziative e strutture di sostegno e di promozione.

«Quello che abbiamo veduto e udito noi lo annunziamo anche a voi» (1 Gv 1, 3): annunciare il Vangelo della vita

80. «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita... noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1 Gv 1, 1.3). Gesù è l'unico Vangelo: noi non abbiamo altro da dire e da testimoniare.

È proprio l'annuncio di Gesù ad essere annuncio della vita. Egli, infatti, è «il Verbo della vita» (1 Gv 1, 1). In lui «la vita si è fatta visibile» (1 Gv 1, 2); anzi lui stesso è «la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi» (ivi). Questa stessa vita, grazie al dono dello Spirito, è stata comunicata all'uomo. Ordinata alla vita in pienezza, la «vita eterna», anche la vita terrena di ciascuno acquista il suo senso pieno.

Illuminati da questo Vangelo della vita, sentiamo il bisogno di proclamarlo e di testimoniarlo nella novità sorprendente che lo contraddistingue: poiché si identifica con Gesù stesso, apportatore di ogni novità 103 e vincitore della «vecchiezza» che deriva dal peccato e porta alla morte,104 tale Vangelo supera ogni aspettativa dell'uomo e svela a quali sublimi altezze viene elevata, per grazia, la dignità della persona. Così la contempla san Gregorio di Nissa: «L'uomo che, tra gli esseri, non conta nulla, che è polvere, erba, vanità, una volta che è adottato dal Dio dell'universo come figlio, diventa familiare di questo Essere, la cui eccellenza e grandezza nessuno può vedere, ascoltare e comprendere. Con quale parola, pensiero o slancio dello spirito si potrà esaltare la sovrabbondanza di questa grazia? L'uomo sorpassa la sua natura: da mortale diventa immortale, da perituro imperituro, da effimero eterno, da uomo diventa dio».105

La gratitudine e la gioia per l'incommensurabile dignità dell'uomo ci spinge a rendere tutti partecipi di questo messaggio: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1 Gv 1, 3). È necessario far giungere il Vangelo della vita al cuore di ogni uomo e donna e immetterlo nelle pieghe più recondite dell'intera società.

81. Si tratta di annunciare anzitutto il centro di questo Vangelo. Esso è annuncio di un Dio vivo e vicino, che ci chiama a una profonda comunione con sé e ci apre alla speranza certa della vita eterna; è affermazione dell'inscindibile legame che intercorre tra la persona, la sua vita e la sua corporeità; è presentazione della vita umana come vita di relazione, dono di Dio, frutto e segno del suo amore; è proclamazione dello straordinario rapporto di Gesù con ciascun uomo, che consente di riconoscere in ogni volto umano il volto di Cristo; è indicazione del «dono sincero di sé» quale compito e luogo di realizzazione piena della propria libertà.

Nello stesso tempo, si tratta di additare tutte le conseguenze di questo stesso Vangelo, che così si possono riassumere: la vita umana, dono prezioso di Dio, è sacra e inviolabile e per questo, in particolare, sono assolutamente inaccettabili l'aborto procurato e l'eutanasia; la vita dell'uomo non solo non deve essere soppressa, ma va protetta con ogni amorosa attenzione; la vita trova il suo senso nell'amore ricevuto e donato, nel cui orizzonte attingono piena verità la sessualità e la procreazione umana; in questo amore anche la sofferenza e la morte hanno un senso e, pur permanendo il mistero che le avvolge, possono diventare eventi di salvezza; il rispetto per la vita esige che la scienza e la tecnica siano sempre ordinate all'uomo e al suo sviluppo integrale; l'intera società deve rispettare, difendere e promuovere la dignità di ogni persona umana, in ogni momento e condizione della sua vita.

82. Per essere veramente un popolo al servizio della vita dobbiamo, con costanza e coraggio, proporre questi contenuti fin dal primo annuncio del Vangelo e, in seguito, nella catechesi e nelle diverse forme di predicazione, nel dialogo personale e in ogni azione educativa. Agli educatori, insegnanti, catechisti e teologi, spetta il compito di mettere in risalto le ragioni antropologiche che fondano e sostengono il rispetto di ogni vita umana. In tal modo, mentre faremo risplendere l'originale novità del Vangelo della vita, potremo aiutare tutti a scoprire anche alla luce della ragione e dell'esperienza, come il messaggio cristiano illumini pienamente l'uomo e il significato del suo essere ed esistere; troveremo preziosi punti di incontro e di dialogo anche con i non credenti, tutti insieme impegnati a far sorgere una nuova cultura della vita.

Circondati dalle voci più contrastanti, mentre molti rigettano la sana dottrina intorno alla vita dell'uomo, sentiamo rivolta anche a noi la supplica indirizzata da Paolo a Timoteo: «Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina» (2 Tm 4, 2). Questa esortazione deve risuonare con particolare vigore nel cuore di quanti, nella Chiesa, partecipano più direttamente, a diverso titolo, alla sua missione di «maestra» della verità. Risuoni innanzitutto per noi Vescovi: a noi per primi è chiesto di farci annunciatori instancabili delVangelo della vita; a noi è pure affidato il compito di vigilare sulla trasmissione integra e fedele dell'insegnamento riproposto in questa Enciclica e di ricorrere alle misure più opportune perché i fedeli siano preservati da ogni dottrina ad esso contraria. Una speciale attenzione dobbiamo porre perché nelle facoltà teologiche, nei seminari e nelle diverse istituzioni cattoliche venga diffusa, illustrata e approfondita la conoscenza della sana dottrina.106 L'esortazione di Paolo risuoni per tutti i teologi, per i pastori e per quanti altri svolgono compiti diinsegnamento, catechesi e formazione delle coscienze: consapevoli del ruolo ad essi spettante, non si assumano mai la grave responsabilità di tradire la verità e la loro stessa missione esponendo idee personali contrarie al Vangelo della vita quale il Magistero fedelmente ripropone e interpreta.

Nell'annunciare questo Vangelo, non dobbiamo temere l'ostilità e l'impopolarità, rifiutando ogni compromesso ed ambiguità, che ci conformerebbero alla mentalità di questo mondo (cf. Rm 12, 2). Dobbiamo essere nel mondo ma non del mondo (cf. Gv 15, 19; 17, 16), con la forza che ci viene da Cristo, che con la sua morte e risurrezione ha vinto il mondo (cf. Gv 16, 33).

«Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio» (Sal 139/138, 14): celebrare il Vangelo della vita

83. Mandati nel mondo come «popolo per la vita», il nostro annuncio deve diventare anche una vera e propria celebrazione del Vangelo della vita. È anzi questa stessa celebrazione, con la forza evocativa dei suoi gesti, simboli e riti, a diventare luogo prezioso e significativo per trasmettere la bellezza e la grandezza di questo Vangelo.

A tal fine, urge anzitutto coltivare, in noi e negli altri, uno sguardo contemplativo.107 Questo nasce dalla fede nel Dio della vita, che ha creato ogni uomo facendolo come un prodigio (cf. Sal 139/138, 14). È lo sguardo di chi vede la vita nella sua profondità, cogliendone le dimensioni di gratuità, di bellezza, di provocazione alla libertà e alla responsabilità. È lo sguardo di chi non pretende d'impossessarsi della realtà, ma la accoglie come un dono, scoprendo in ogni cosa il riflesso del Creatore e in ogni persona la sua immagine vivente (cf. Gn 1, 27; Sal 8, 6). Questo sguardo non si arrende sfiduciato di fronte a chi è nella malattia, nella sofferenza, nella marginalità e alle soglie della morte; ma da tutte queste situazioni si lascia interpellare per andare alla ricerca di un senso e, proprio in queste circostanze, si apre a ritrovare nel volto di ogni persona un appello al confronto, al dialogo, alla solidarietà.

È tempo di assumere tutti questo sguardo, ridiventando capaci, con l'animo colmo di religioso stupore, di venerare e onorare ogni uomo, come ci invitava a fare Paolo VI in uno dei suoi messaggi natalizi.108 Animato da questo sguardo contemplativo, il popolo nuovo dei redenti non può non prorompere in inni di gioia, di lode e di ringraziamento per il dono inestimabile della vita, per il mistero della chiamata di ogni uomo a partecipare in Cristo alla vita di grazia e a un'esistenza di comunione senza fine con Dio Creatore e Padre.

84. Celebrare il Vangelo della vita significa celebrare il Dio della vita, il Dio che dona la vita: «Noi dobbiamo celebrare la Vita eterna, dalla quale procede qualsiasi altra vita. Da essa riceve la vita, proporzionalmente alle sue capacità, ogni essere che partecipa in qualche modo alla vita. Questa Vita divina, che è al di sopra di qualsiasi vita, vivifica e conserva la vita. Qualsiasi vita e qualsiasi movimento vitale procedono da questa Vita che trascende ogni vita ed ogni principio di vita. Ad essa le anime debbono la loro incorruttibilità, come pure grazie ad essa vivono tutti gli animali e tutte le piante, che ricevono della vita l'eco più debole. Agli uomini, esseri composti di spirito e di materia, la Vita dona la vita. Se poi ci accade di abbandonarla, allora la Vita, per il traboccare del suo amore verso l'uomo, ci converte e ci richiama a sé. Non solo: ci promette di condurci, anime e corpi, alla vita perfetta, all'immortalità. È troppo poco dire che questa Vita è viva: essa è Principio di vita, Causa e Sorgente unica di vita. Ogni vivente deve contemplarla e lodarla: è Vita che trabocca vita».109

Anche noi, come il Salmista, nella preghiera quotidiana, individuale e comunitaria, lodiamo e benediciamo Dio nostro Padre, che ci ha tessuti nel seno materno e ci ha visti e amati quando ancora eravamo informi (cf. Sal 139/138, 13. 15-16), ed esclamiamo con gioia incontenibile: «Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue opere, tu mi conosci fino in fondo» (Sal 139/138, 14). Sì, «questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente, un avvenimento degno d'essere cantato in gaudio e in gloria».110 Di più, l'uomo e la sua vita non ci appaiono solo come uno dei prodigi più alti della creazione: all'uomo Dio ha conferito una dignità quasi divina (cf. Sal 8, 6-7). In ogni bimbo che nasce e in ogni uomo che vive o che muore noi riconosciamo l'immagine della gloria di Dio: questa gloria noi celebriamo in ogni uomo, segno del Dio vivente, icona di Gesù Cristo.

Siamo chiamati ad esprimere stupore e gratitudine per la vita ricevuta in dono e ad accogliere, gustare e comunicare il Vangelo della vita non solo con la preghiera personale e comunitaria, ma soprattutto con le celebrazioni dell'anno liturgico. Sono qui da ricordare in particolare i Sacramenti, segni efficaci della presenza e dell'azione salvifica del Signore Gesù nell'esistenza cristiana: essi rendono gli uomini partecipi della vita divina, assicurando loro l'energia spirituale necessaria per realizzare nella sua piena verità il significato del vivere, del soffrire e del morire. Grazie ad una genuina riscoperta del senso dei riti e ad una loro adeguata valorizzazione, le celebrazioni liturgiche, soprattutto quelle sacramentali, saranno sempre più in grado di esprimere la verità piena sulla nascita, la vita, la sofferenza e la morte, aiutando a vivere queste realtà come partecipazione al mistero pasquale di Cristo morto e risorto.

85. Nella celebrazione del Vangelo della vita occorre saperapprezzare e valorizzare anche i gesti e i simboli, di cui sono ricche le diverse tradizioni e consuetudini culturali e popolari. Sono momenti e forme di incontro con cui, nei diversi Paesi e culture, si manifestano la gioia per una vita che nasce, il rispetto e la difesa di ogni esistenza umana, la cura per chi soffre o è nel bisogno, la vicinanza all'anziano o al morente, la condivisione del dolore di chi è nel lutto, la speranza e il desiderio dell'immortalità.

In questa prospettiva, accogliendo anche il suggerimento offerto dai Cardinali nel Concistoro del 1991, propongo che si celebri ogni anno nelle varie Nazioni una Giornata per la Vita, quale già si attua ad iniziativa di alcune Conferenze Episcopali. È necessario che tale Giornata venga preparata e celebrata con l'attiva partecipazione di tutte le componenti della Chiesa locale. Suo scopo fondamentale è quello di suscitare, nelle coscienze, nelle famiglie, nella Chiesa e nella società civile, il riconoscimento del senso e del valore della vita umana in ogni suo momento e condizione, ponendo particolarmente al centro dell'attenzione la gravità dell'aborto e dell'eutanasia, senza tuttavia trascurare gli altri momenti e aspetti della vita, che meritano di essere presi di volta in volta in attenta considerazione, secondo quanto suggerito dall'evolversi della situazione storica.

86. Nella logica del culto spirituale gradito a Dio (cf. Rm 12, 1), la celebrazione del Vangelo della vita chiede di realizzarsi soprattutto nell'esistenza quotidiana, vissuta nell'amore per gli altri e nella donazione di se stessi. Sarà così tutta la nostra esistenza a farsi accoglienza autentica e responsabile del dono della vita e lode sincera e riconoscente a Dio che ci ha fatto tale dono. È quanto già avviene in tantissimi gesti di donazione, spesso umile e nascosta, compiuti da uomini e donne, bambini e adulti, giovani e anziani, sani e ammalati.

È in questo contesto, ricco di umanità e di amore, che nascono anche i gesti eroici. Essi sono la celebrazione più solenne del Vangelo della vita, perché lo proclamano con il dono totale di sé; sono la manifestazione luminosa del grado più elevato di amore, che è dare la vita per la persona amata (cf. Gv 15, 13); sono la partecipazione al mistero della Croce, nella quale Gesù svela quanto valore abbia per lui la vita di ogni uomo e come questa si realizzi in pienezza nel dono sincero di sé. Al di là dei fatti clamorosi, c'è l'eroismo del quotidiano, fatto di piccoli o grandi gesti di condivisione che alimentano un'autentica cultura della vita. Tra questi gesti merita particolare apprezzamento la donazione di organi compiuta in forme eticamente accettabili, per offrire una possibilità di salute e perfino di vita a malati talvolta privi di speranza.

A tale eroismo del quotidiano appartiene la testimonianza silenziosa, ma quanto mai feconda ed eloquente, di «tutte le madri coraggiose, che si dedicano senza riserve alla propria famiglia, che soffrono nel dare alla luce i propri figli, e poi sono pronte ad intraprendere ogni fatica, ad affrontare ogni sacrificio, per trasmettere loro quanto di meglio esse custodiscono in sé».111 Nel vivere la loro missione «non sempre queste madri eroiche trovano sostegno nel loro ambiente. Anzi, i modelli di civiltà, spesso promossi e propagati dai mezzi di comunicazione, non favoriscono la maternità. Nel nome del progresso e della modernità vengono presentati come ormai superati i valori della fedeltà, della castità, del sacrificio, nei quali si sono distinte e continuano a distinguersi schiere di spose e di madri cristiane... Vi ringraziamo, madri eroiche, per il vostro amore invincibile! Vi ringraziamo per l'intrepida fiducia in Dio e nel suo amore. Vi ringraziamo per il sacrificio della vostra vita... Cristo nel Mistero pasquale vi restituisce il dono che gli avete fatto. Egli infatti ha il potere di restituirvi la vita che gli avete portato in offerta».112

«Che giova, fratelli miei se uno dice di avere la fede ma non ha le opere?» (Gc 2, 14): servire il Vangelo della vita

87. In forza della partecipazione alla missione regale di Cristo, il sostegno e la promozione della vita umana devono attuarsi mediante il servizio della carità, che si esprime nella testimonianza personale, nelle diverse forme di volontariato, nell'animazione sociale e nell'impegno politico. È, questa, un'esigenza particolarmente pressante nell'ora presente, nella quale la «cultura della morte» così fortemente si contrappone alla «cultura della vita» e spesso sembra avere il sopravvento. Ancor prima, però, è un'esigenza che nasce dalla «fede che opera per mezzo della carità» (Gal 5, 6), come ci ammonisce la Lettera di Giacomo: «Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: "Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi", ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa» (2, 14-17).

Nel servizio della carità c'è un atteggiamento che ci deve animare e contraddistinguere: dobbiamo prenderci cura dell'altro in quanto persona affidata da Dio alla nostra responsabilità. Come discepoli di Gesù, siamo chiamati a farci prossimi di ogni uomo (cf. Lc 10, 29-37), riservando una speciale preferenza a chi è più povero, solo e bisognoso. Proprio attraverso l'aiuto all'affamato, all'assetato, al forestiero, all'ignudo, al malato, al carcerato — come pure al bambino non ancora nato, all'anziano sofferente o vicino alla morte — ci è dato di servire Gesù, come Egli stesso ha dichiarato: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25, 40). Per questo, non possiamo non sentirci interpellati e giudicati dalla pagina sempre attuale di san Giovanni Crisostomo: «Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo. Non rendergli onore qui nel tempio con stoffe di seta, per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità».113

Il servizio della carità nei riguardi della vita deve essere profondamente unitario: non può tollerare unilateralismi e discriminazioni, perché la vita umana è sacra e inviolabile in ogni sua fase e situazione; essa è un bene indivisibile. Si tratta dunque di «prendersi cura» di tutta la vita e della vita di tutti. Anzi, ancora più profondamente, si tratta di andare fino alle radici stesse della vita e dell'amore.

Proprio partendo da un amore profondo per ogni uomo e donna, si è sviluppata lungo i secoli una straordinaria storia di carità, che ha introdotto nella vita ecclesiale e civile numerose strutture di servizio alla vita, che suscitano l'ammirazione di ogni osservatore non prevenuto. È una storia che, con rinnovato senso di responsabilità, ogni comunità cristiana deve continuare a scrivere con una molteplice azione pastorale e sociale. In tal senso si devono mettere in atto forme discrete ed efficaci diaccompagnamento della vita nascente, con una speciale vicinanza a quelle mamme che, anche senza il sostegno del padre, non temono di mettere al mondo il loro bambino e di educarlo. Analoga cura deve essere riservata alla vita nella marginalità o nella sofferenza, specie nelle sue fasi finali.

88. Tutto questo comporta una paziente e coraggiosa opera educativa che solleciti tutti e ciascuno a farsi carico dei pesi degli altri (cf. Gal 6, 2); richiede una continua promozione di vocazioni al servizio, in particolare tra i giovani; implica la realizzazione di progetti e iniziative concrete, stabili ed evangelicamente ispirate.

Molteplici sono gli strumenti da valorizzare con competenza e serietà di impegno. Alle sorgenti della vita, i centri per i metodi naturali di regolazione della fertilità vanno promossi come un valido aiuto per la paternità e maternità responsabili, nella quale ogni persona, a cominciare dal figlio, è riconosciuta e rispettata per se stessa e ogni scelta è animata e guidata dal criterio del dono sincero di sé. Anche i consultori matrimoniali e familiari, mediante la loro specifica azione di consulenza e di prevenzione, svolta alla luce di un'antropologia coerente con la visione cristiana della persona, della coppia e della sessualità, costituiscono un prezioso servizio per riscoprire il senso dell'amore e della vita e per sostenere e accompagnare ogni famiglia nella sua missione di «santuario della vita». A servizio della vita nascente si pongono pure i centri di aiuto alla vita e le case o i centri di accoglienza della vita. Grazie alla loro opera, non poche madri nubili e coppie in difficoltà ritrovano ragioni e convinzioni e incontrano assistenza e sostegno per superare disagi e paure nell'accogliere una vita nascente o appena venuta alla luce.

Di fronte alla vita in condizioni di disagio, di devianza, di malattia e di marginalità, altri strumenti — come le comunità di recupero per tossicodipendenti, le comunità alloggio per i minori o per i malati mentali, i centri di cura e accoglienza per malati di AIDS, le cooperative di solidarietà soprattutto per i disabili — sono espressione eloquente di ciò che la carità sa inventare per dare a ciascuno ragioni nuove di speranza e possibilità concrete di vita.

Quando poi l'esistenza terrena volge al termine, è ancora la carità a trovare le modalità più opportune perché gli anziani, specialmente se non autosufficienti, e i cosiddetti malati terminali possano godere di un'assistenza veramente umana e ricevere risposte adeguate alle loro esigenze, in particolare alla loro angoscia e solitudine. Insostituibile è in questi casi il ruolo delle famiglie; ma esse possono trovare grande aiuto nelle strutture sociali di assistenza e, quando necessario, nel ricorso alle cure palliative, avvalendosi degli idonei servizi sanitari e sociali, operanti sia nei luoghi di ricovero e cura pubblici che a domicilio.

In particolare, deve essere riconsiderato il ruolo degli ospedali, delle cliniche e delle case di cura: la loro vera identità non è solo quella di strutture nelle quali ci si prende cura dei malati e dei morenti, ma anzitutto quella di ambienti nei quali la sofferenza, il dolore e la morte vengono riconosciuti ed interpretati nel loro significato umano e specificamente cristiano. In modo speciale tale identità deve mostrarsi chiara ed efficace negli istituti dipendenti da religiosi o, comunque, legati alla Chiesa.

89. Queste strutture e luoghi di servizio alla vita, e tutte le altre iniziative di sostegno e solidarietà che le situazioni potranno di volta in volta suggerire, hanno bisogno di essere animate da persone generosamente disponibili e profondamente consapevoli di quanto decisivo sia il Vangelo della vita per il bene dell'individuo e della società.

Peculiare è la responsabilità affidata agli operatori sanitari: medici, farmacisti, infermieri, cappellani, religiosi e religiose, amministratori e volontari. La loro professione li vuole custodi e servitori della vita umana. Nel contesto culturale e sociale odierno, nel quale la scienza e l'arte medica rischiano di smarrire la loro nativa dimensione etica, essi possono essere talvolta fortemente tentati di trasformarsi in artefici di manipolazione della vita o addirittura in operatori di morte. Di fronte a tale tentazione la loro responsabilità è oggi enormemente accresciuta e trova la sua ispirazione più profonda e il suo sostegno più forte proprio nell'intrinseca e imprescindibile dimensione etica della professione sanitaria, come già riconosceva l'antico e sempre attuale giuramento di Ippocrate, secondo il quale ad ogni medico è chiesto di impegnarsi per il rispetto assoluto della vita umana e della sua sacralità.

Il rispetto assoluto di ogni vita umana innocente esige anchel'esercizio dell'obiezione di coscienza di fronte all'aborto procurato e all'eutanasia. Il «far morire» non può mai essere considerato come una cura medica, neppure quando l'intenzione fosse solo quella di assecondare una richiesta del paziente: è, piuttosto, la negazione della professione sanitaria che si qualifica come un appassionato e tenace «sì» alla vita. Anche la ricerca biomedica, campo affascinante e promettente di nuovi grandi benefici per l'umanità, deve sempre rifiutare sperimentazioni, ricerche o applicazioni che, misconoscendo l'inviolabile dignità dell'essere umano, cessano di essere a servizio degli uomini e si trasformano in realtà che, mentre sembrano soccorrerli, li opprimono.

90. Uno specifico ruolo sono chiamate a svolgere le persone impegnate nel volontariato: esse offrono un apporto prezioso nel servizio alla vita, quando sanno coniugare capacità professionale e amore generoso e gratuito. Il Vangelo della vita le spinge ad elevare i sentimenti di semplice filantropia all'altezza della carità di Cristo; a riconquistare ogni giorno, tra fatiche e stanchezze, la coscienza della dignità di ogni uomo; ad andare alla scoperta dei bisogni delle persone iniziando — se necessario — nuovi cammini là dove più urgente è il bisogno e più deboli sono l'attenzione e il sostegno.

Il realismo tenace della carità esige che il Vangelo della vita sia servito anche mediante forme di animazione sociale e di impegno politico, difendendo e proponendo il valore della vita nelle nostre società sempre più complesse e pluraliste. Singoli, famiglie, gruppi, realtà associative hanno, sia pure a titolo e in modi diversi, una responsabilità nell'animazione sociale e nell'elaborazione di progetti culturali, economici, politici e legislativi che, nel rispetto di tutti e secondo la logica della convivenza democratica, contribuiscano a edificare una società nella quale la dignità di ogni persona sia riconosciuta e tutelata, e la vita di tutti sia difesa e promossa.

Tale compito grava in particolare sui responsabili della cosa pubblica. Chiamati a servire l'uomo e il bene comune, hanno il dovere di compiere scelte coraggiose a favore della vita, innanzitutto nell'ambito delle disposizioni legislative. In un regime democratico, ove le leggi e le decisioni si formano sulla base del consenso di molti, può attenuarsi nella coscienza dei singoli che sono investiti di autorità il senso della responsabilità personale. Ma a questa nessuno può mai abdicare, soprattutto quando ha un mandato legislativo o decisionale, che lo chiama a rispondere a Dio, alla propria coscienza e all'intera società di scelte eventualmente contrarie al vero bene comune. Se le leggi non sono l'unico strumento per difendere la vita umana, esse però svolgono un ruolo molto importante e talvolta determinante nel promuovere una mentalità e un costume. Ripeto ancora una volta che una norma che viola il diritto naturale alla vita di un innocente è ingiusta e, come tale, non può avere valore di legge. Per questo rinnovo con forza il mio appello a tutti i politici perché non promulghino leggi che, misconoscendo la dignità della persona, minano alla radice la stessa convivenza civile.

La Chiesa sa che, nel contesto di democrazie pluraliste, per la presenza di forti correnti culturali di diversa impostazione, è difficile attuare un'efficace difesa legale della vita. Mossa tuttavia dalla certezza che la verità morale non può non avere un'eco nell'intimo di ogni coscienza, essa incoraggia i politici, cominciando da quelli cristiani, a non rassegnarsi e a compiere quelle scelte che, tenendo conto delle possibilità concrete, portino a ristabilire un ordine giusto nell'affermazione e promozione del valore della vita. In questa prospettiva, occorre rilevare che non basta eliminare le leggi inique. Si dovranno rimuovere le cause che favoriscono gli attentati alla vita, soprattutto assicurando il dovuto sostegno alla famiglia e alla maternità: la politica familiare deve essere perno e motore di tutte le politiche sociali. Pertanto, occorre avviare iniziative sociali e legislative capaci di garantire condizioni di autentica libertà nella scelta in ordine alla paternità e alla maternità; inoltre è necessario reimpostare le politiche lavorative, urbanistiche, abitative e dei servizi, perché si possano conciliare tra loro i tempi del lavoro e quelli della famiglia e diventi effettivamente possibile la cura dei bambini e degli anziani.

91. Un capitolo importante della politica per la vita è costituito oggi dalla problematica demografica. Le pubbliche autorità hanno certo la responsabilità di prendere «iniziative al fine di orientare la demografia della popolazione»; 114 ma tali iniziative devono sempre presupporre e rispettare la responsabilità primaria ed inalienabile dei coniugi e delle famiglie e non possono ricorrere a metodi non rispettosi della persona e dei suoi diritti fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita di ogni essere umano innocente. È, quindi, moralmente inaccettabile che, per regolare le nascite, si incoraggi o addirittura si imponga l'uso di mezzi come la contraccezione, la sterilizzazione e l'aborto.

Ben altre sono le vie per risolvere il problema demografico: i Governi e le varie istituzioni internazionali devono innanzitutto mirare alla creazione di condizioni economiche, sociali, medico-sanitarie e culturali che consentano agli sposi di fare le loro scelte procreative in piena libertà e con vera responsabilità; devono poi sforzarsi di «potenzia re le possibilità e distribuire con maggiore giustizia le ricchezze, affinché tutti possano partecipare equamente ai beni del creato. Occorre creare soluzioni a livello mondiale, instaurando un'autentica economia di comunione e condivisione dei beni, sia sul piano internazionale che su quello nazionale».115 Questa sola è la strada che rispetta la dignità delle persone e delle famiglie, oltre che l'autentico patrimonio culturale dei popoli.

Vasto e complesso è dunque il servizio al Vangelo della vita. Esso ci appare sempre più come ambito prezioso e favorevole per una fattiva collaborazione con i fratelli delle altre Chiese e Comunità ecclesiali nella linea di quell'ecumenismo delle opere che il Concilio Vaticano II ha autorevolmente incoraggiato.116 Esso, inoltre, si presenta come spazio provvidenziale per il dialogo e la collaborazione con i seguaci di altre religioni e con tutti gli uomini di buona volontà: la difesa e la promozione della vita non sono monopolio di nessuno, ma compito e responsabilità di tutti. La sfida che ci sta di fronte, alla vigilia del terzo millennio, è ardua: solo la concorde cooperazione di quanti credono nel valore della vita potrà evitare una sconfitta della civiltà dalle conseguenze imprevedibili.

«Dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo» (Sal 126/125, 3): la famiglia «santuario della vita»

92. All'interno del «popolo della vita e per la vita»,decisiva è la responsabilità della famiglia: è una responsabilità che scaturisce dalla sua stessa natura — quella di essere comunità di vita e di amore, fondata sul matrimonio — e dalla sua missione di «custodire, rivelare e comunicare l'amore».117 È in questione l'amore stesso di Dio, del quale i genitori sono costituiti collaboratori e quasi interpreti nel trasmettere la vita e nell'educarla secondo il suo progetto di Padre.118 È quindi l'amore che si fa gratuità, accoglienza, donazione: nella famiglia ciascuno è riconosciuto, rispettato e onorato perché è persona e, se qualcuno ha più bisogno, più intensa e più vigile è la cura nei suoi confronti.

La famiglia è chiamata in causa nell'intero arco di esistenza dei suoi membri, dalla nascita alla morte. Essa è veramente «ilsantuario della vita..., il luogo in cui la vita, dono di Dio, può essere adeguatamente accolta e protetta contro i molteplici attacchi a cui è esposta, e può svilupparsi secondo le esigenze di un'autentica crescita umana».119 Per questo, determinante e insostituibile è il ruolo della famiglia nel costruire la cultura della vita.

Come chiesa domestica, la famiglia è chiamata ad annunciare, celebrare e servire il Vangelo della vita. È un compito che riguarda innanzitutto i coniugi, chiamati ad essere trasmettitori della vita, sulla base di una sempre rinnovata consapevolezza del senso della generazione, come evento privilegiato nel quale si manifesta che la vita umana è un dono ricevuto per essere a sua volta donato. Nella procreazione di una nuova vita i genitori avvertono che il figlio «se è frutto della loro reciproca donazione d'amore, è, a sua volta, un dono per ambedue, un dono che scaturisce dal dono».120

È soprattutto attraverso l'educazione dei figli che la famiglia assolve la sua missione di annunciare il Vangelo della vita. Con la parola e con l'esempio, nella quotidianità dei rapporti e delle scelte e mediante gesti e segni concreti, i genitori iniziano i loro figli alla libertà autentica, che si realizza nel dono sincero di sé, e coltivano in loro il rispetto dell'altro, il senso della giustizia, l'accoglienza cordiale, il dialogo, il servizio generoso, la solidarietà e ogni altro valore che aiuti a vivere la vita come un dono. L'opera educativa dei genitori cristiani deve farsi servizio alla fede dei figli e aiuto loro offerto perché adempiano la vocazione ricevuta da Dio. Rientra nella missione educativa dei genitori insegnare e testimoniare ai figli il vero senso del soffrire e del morire: lo potranno fare se sapranno essere attenti ad ogni sofferenza che trovano intorno a sé e, prima ancora, se sapranno sviluppare atteggiamenti di vicinanza, assistenza e condivisione verso malati e anziani nell'ambito familiare.

93. La famiglia, inoltre, celebra il Vangelo della vita con la preghiera quotidiana, individuale e familiare: con essa loda e ringrazia il Signore per il dono della vita ed invoca luce e forza per affrontare i momenti di difficoltà e di sofferenza, senza mai smarrire la speranza. Ma la celebrazione che dà significato ad ogni altra forma di preghiera e di culto è quella che s'esprime nell'esistenza quotidiana della famiglia, se è un'esistenza fatta di amore e donazione.

La celebrazione si trasforma così in un servizio al Vangelo della vita, che si esprime attraverso la solidarietà, sperimentata dentro e intorno alla famiglia come attenzione premurosa, vigile e cordiale nelle azioni piccole e umili di ogni giorno. Un'espressione particolarmente significativa di solidarietà tra le famiglie è la disponibilità all'adozione o all'affidamento dei bambini abbandonati dai loro genitori o comunque in situazioni di grave disagio. Il vero amore paterno e materno sa andare al di là dei legami della carne e del sangue ed accogliere anche bambini di altre famiglie, offrendo ad essi quanto è necessario per la loro vita ed il loro pieno sviluppo. Tra le forme di adozione, merita di essere proposta anche l'adozione a distanza, da preferire nei casi in cui l'abbandono ha come unico motivo le condizioni di grave povertà della famiglia. Con tale tipo di adozione, infatti, si offrono ai genitori gli aiuti necessari per mantenere ed educare i propri figli, senza doverli sradicare dal loro ambiente naturale.

Intesa come «determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune»,121 la solidarietà chiede di attuarsi anche attraverso forme di partecipazione sociale e politica. Di conseguenza, servire il Vangelo della vita comporta che le famiglie, specie partecipando ad apposite associazioni, si adoperino affinché le leggi e le istituzioni dello Stato non ledano in nessun modo il diritto alla vita, dal concepimento alla morte naturale, ma lo difendano e lo promuovano.

94. Un posto particolare va riconosciuto agli anziani. Mentre in alcune culture la persona più avanzata in età rimane inserita nella famiglia con un ruolo attivo importante, in altre culture invece chi è vecchio è sentito come un peso inutile e viene abbandonato a se stesso: in simile contesto può sorgere più facilmente la tentazione di ricorrere all'eutanasia.

L'emarginazione o addirittura il rifiuto degli anziani sono intollerabili. La loro presenza in famiglia, o almeno la vicinanza ad essi della famiglia quando per la ristrettezza degli spazi abitativi o per altri motivi tale presenza non fosse possibile, sono di fondamentale importanza nel creare un clima di reciproco scambio e di arricchente comunicazione fra le varie età della vita. È importante, perciò, che si conservi, o si ristabilisca dove è andato smarrito, una sorta di «patto» tra le generazioni, così che i genitori anziani, giunti al termine del loro cammino, possano trovare nei figli l'accoglienza e la solidarietà che essi hanno avuto nei loro confronti quando s'affacciavano alla vita: lo esige l'obbedienza al comando divino di onorare il padre e la madre (cf. Es 20, 12; Lv 19, 3). Ma c'è di più. L'anziano non è da considerare solo oggetto di attenzione, vicinanza e servizio. Anch'egli ha un prezioso contributo da portare al Vangelo della vita. Grazie al ricco patrimonio di esperienza acquisito lungo gli anni, può e deve essere dispensatore di sapienza, testimone di speranza e di carità.

Se è vero che «l'avvenire dell'umanità passa attraverso la famiglia»,122 si deve riconoscere che le odierne condizioni sociali, economiche e culturali rendono spesso più arduo e faticoso il compito della famiglia nel servire la vita. Perché possa realizzare la sua vocazione di «santuario della vita», quale cellula di una società che ama e accoglie la vita, è necessario e urgente che la famiglia stessa sia aiutata e sostenuta. Le società e gli Stati le devono assicurare tutto quel sostegno, anche economico che è necessario perché le famiglie possano rispondere in modo più umano ai propri problemi. Da parte sua la Chiesa deve promuovere instancabilmente una pastorale familiare capace di stimolare ogni famiglia a riscoprire e vivere con gioia e con coraggio la sua missione nei confronti del Vangelo della vita.

«Comportatevi come i figli della luce» (Ef 5, 8): per realizzare una svolta culturale

95. «Comportatevi come i figli della luce... Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre» (Ef 5, 8.10-11). Nell'odierno contesto sociale, segnato da una drammatica lotta tra la «cultura della vita» e la «cultura della morte», occorre far maturare un forte senso critico, capace di discernere i veri valori e le autentiche esigenze.

Urgono una generale mobilitazione delle coscienze e un comune sforzo etico, per mettere in atto una grande strategia a favore della vita. Tutti insieme dobbiamo costruire una nuova cultura della vita: nuova, perché in grado di affrontare e risolvere gli inediti problemi di oggi circa la vita dell'uomo; nuova, perché fatta propria con più salda e operosa convinzione da parte di tutti i cristiani; nuova, perché capace di suscitare un serio e coraggioso confronto culturale con tutti. L'urgenza di questa svolta culturale è legata alla situazione storica che stiamo attraversando, ma si radica nella stessa missione evangelizzatrice, propria della Chiesa. Il Vangelo, infatti, mira a «trasformare dal di dentro, rendere nuova l'umanità»; 123 è come il lievito che fermenta tutta la pasta (cf. Mt 13, 33) e, come tale, è destinato a permeare tutte le culture e ad animarle dall'interno,124 perché esprimano l'intera verità sull'uomo e sulla sua vita.

Si deve cominciare dal rinnovare la cultura della vita all'interno delle stesse comunità cristiane. Troppo spesso i credenti, perfino quanti partecipano attivamente alla vita ecclesiale, cadono in una sorta di dissociazione tra la fede cristiana e le sue esigenze etiche a riguardo della vita, giungendo così al soggettivismo morale e a taluni comportamenti inaccettabili. Dobbiamo allora interrogarci, con grande lucidità e coraggio, su quale cultura della vita sia oggi diffusa tra i singoli cristiani, le famiglie, i gruppi e le comunità delle nostre Diocesi. Con altrettanta chiarezza e decisione, dobbiamo individuare quali passi siamo chiamati a compiere per servire la vita secondo la pienezza della sua verità. Nello stesso tempo, dobbiamo promuovere un confronto serio e approfondito con tutti, anche con i non credenti, sui problemi fondamentali della vita umana, nei luoghi dell'elaborazione del pensiero, come nei diversi ambiti professionali e là dove si snoda quotidianamente l'esistenza di ciascuno.

96. Il primo e fondamentale passo per realizzare questa svolta culturale consiste nella formazione della coscienza morale circa il valore incommensurabile e inviolabile di ogni vita umana. È di somma importanza riscoprire il nesso inscindibile tra vita e libertà. Sono beni indivisibili: dove è violato l'uno, anche l'altro finisce per essere violato. Non c'è libertà vera dove la vita non è accolta e amata; e non c'è vita piena se non nella libertà. Ambedue queste realtà hanno poi un riferimento nativo e peculiare, che le lega indissolubilmente: la vocazione all'amore. Questo amore, come dono sincero di sé,125 è il senso più vero della vita e della libertà della persona.

Non meno decisiva nella formazione della coscienza è la riscoperta del legame costitutivo che unisce la libertà alla verità. Come ho ribadito più volte, sradicare la libertà dalla verità oggettiva rende impossibile fondare i diritti della persona su una solida base razionale e pone le premesse perché nella società si affermino l'arbitrio ingovernabile dei singoli o il totalitarismo mortificante del pubblico potere.126

È essenziale allora che l'uomo riconosca l'originaria evidenza della sua condizione di creatura, che riceve da Dio l'essere e la vita come un dono e un compito: solo ammettendo questa sua nativa dipendenza nell'essere, l'uomo può realizzare in pienezza la sua vita e la sua libertà e insieme rispettare fino in fondo la vita e la libertà di ogni altra persona. Qui soprattutto si svela che «al centro di ogni cultura sta l'atteggiamento che l'uomo assume davanti al mistero più grande: il mistero di Dio».127 Quando si nega Dio e si vive come se Egli non esistesse, o comunque non si tiene conto dei suoi comandamenti, si finisce facilmente per negare o compromettere anche la dignità della persona umana e l'inviolabilità della sua vita.

97. Alla formazione della coscienza è strettamente connessa l'opera educativa, che aiuta l'uomo ad essere sempre più uomo, lo introduce sempre più profondamente nella verità, lo indirizza verso un crescente rispetto della vita, lo forma alle giuste relazioni tra le persone.

In particolare, è necessario educare al valore della vita cominciando dalle sue stesse radici. È un'illusione pensare di poter costruire una vera cultura della vita umana, se non si aiutano i giovani a cogliere e a vivere la sessualità, l'amore e l'intera esistenza secondo il loro vero significato e nella loro intima correlazione. La sessualità, ricchezza di tutta la persona, «manifesta il suo intimo significato nel portare la persona al dono di sé nell'amore».128 La banalizzazione della sessualità è tra i principali fattori che stanno all'origine del disprezzo della vita nascente: solo un amore vero sa custodire la vita. Non ci si può, quindi, esimere dall'offrire soprattutto agli adolescenti e ai giovani l'autentica educazione alla sessualità e all'amore, un'educazione implicante la formazione alla castità, quale virtù che favorisce la maturità della persona e la rende capace di rispettare il significato «sponsale» del corpo.

L'opera di educazione alla vita comporta la formazione dei coniugi alla procreazione responsabile. Questa, nel suo vero significato, esige che gli sposi siano docili alla chiamata del Signore e agiscano come fedeli interpreti del suo disegno: ciò avviene con l'aprire generosamente la famiglia a nuove vite, e comunque rimanendo in atteggiamento di apertura e di servizio alla vita anche quando, per seri motivi e nel rispetto della legge morale, i coniugi scelgono di evitare temporaneamente o a tempo indeterminato una nuova nascita. La legge morale li obbliga in ogni caso a governare le tendenze dell'istinto e delle passioni e a rispettare le leggi biologiche iscritte nella loro persona. Proprio tale rispetto rende legittimo, a servizio della responsabilità nel procreare, il ricorso ai metodi naturali di regolazione della fertilità: essi vengono sempre meglio precisati dal punto di vista scientifico e offrono possibilità concrete per scelte in armonia con i valori morali. Una onesta considerazione dei risultati raggiunti dovrebbe far cadere pregiudizi ancora troppo diffusi e convincere i coniugi nonché gli operatori sanitari e sociali circa l'importanza di un'adeguata formazione al riguardo. La Chiesa è riconoscente verso coloro che con sacrificio personale e dedizione spesso misconosciuta si impegnano nella ricerca e nella diffusione di tali metodi, promovendo al tempo stesso un'educazione ai valori morali che il loro uso suppone.

L'opera educativa non può non prendere in considerazione anche la sofferenza e la morte. In realtà, esse fanno parte dell'esperienza umana, ed è vano, oltre che fuorviante, cercare di censurarle e rimuoverle. Ciascuno invece deve essere aiutato a coglierne, nella concreta e dura realtà, il mistero profondo. Anche il dolore e la sofferenza hanno un senso e un valore, quando sono vissuti in stretta connessione con l'amore ricevuto e donato. In questa prospettiva ho voluto che si celebrasse ogni anno la Giornata Mondiale del Malato, sottolineando «l'indole salvifica dell'offerta della sofferenza, che vissuta in comunione con Cristo appartiene all'essenza stessa della redenzione».129 Del resto perfino la morte è tutt'altro che un'avventura senza speranza: è la porta dell'esistenza che si spalanca sull'eternità e, per quanti la vivono in Cristo, è esperienza di partecipazione al suo mistero di morte e risurrezione.

98. In sintesi, possiamo dire che la svolta culturale qui auspicata esige da tutti il coraggio di assumere un nuovo stile di vita che s'esprime nel porre a fondamento delle scelte concrete — a livello personale, familiare, sociale e internazionale — la giusta scala dei valori: il primato dell'essere sull'avere,130 della persona sulle cose.131 Questo rinnovato stile di vita implica anche il passaggio dall'indifferenza all'interessamento per l'altro e dal rifiuto alla sua accoglienza: gli altri non sono concorrenti da cui difenderci, ma fratelli e sorelle con cui essere solidali; sono da amare per se stessi; ci arricchiscono con la loro stessa presenza.

Nella mobilitazione per una nuova cultura della vita nessuno si deve sentire escluso: tutti hanno un ruolo importante da svolgere. Insieme con quello delle famiglie, particolarmente prezioso è il compito degli insegnanti e degli educatori. Molto dipenderà da loro se i giovani, formati ad una vera libertà, sapranno custodire dentro di sé e diffondere intorno a sé ideali autentici di vita e sapranno crescere nel rispetto e nel servizio di ogni persona, in famiglia e nella società.

Anche gli intellettuali possono fare molto per costruire una nuova cultura della vita umana. Un compito particolare spetta agli intellettuali cattolici, chiamati a rendersi attivamente presenti nelle sedi privilegiate dell'elaborazione culturale, nel mondo della scuola e delle università, negli ambienti della ricerca scientifica e tecnica, nei luoghi della creazione artistica e della riflessione umanistica. Alimentando il loro genio e la loro azione alle chiare linfe del Vangelo, si devono impegnare a servizio di una nuova cultura della vita con la produzione di contributi seri, documentati e capaci di imporsi per i loro pregi al rispetto e all'interesse di tutti. Proprio in questa prospettiva ho istituito la Pontificia Accademia per la Vita con il compito di «studiare, informare e formare circa i principali problemi di biomedicina e di diritto, relativi alla promozione e alla difesa della vita, soprattutto nel diretto rapporto che essi hanno con la morale cristiana e le direttive del magistero della Chiesa».132 Uno specifico apporto dovrà venire anche dalle Università, in particolare da quellecattoliche, e dai Centri, Istituti e Comitati di bioetica.

Grande e grave è la responsabilità degli operatori dei mass media, chiamati ad adoperarsi perché i messaggi trasmessi con tanta efficacia contribuiscano alla cultura della vita. Devono allora presentare esempi alti e nobili di vita e dare spazio alle testimonianze positive e talvolta eroiche di amore all'uomo; proporre con grande rispetto i valori della sessualità e dell'amore, senza indugiare su ciò che deturpa e svilisce la dignità dell'uomo. Nella lettura della realtà, devono rifiutare di mettere in risalto quanto può insinuare o far crescere sentimenti o atteggiamenti di indifferenza, di disprezzo o di rifiuto nei confronti della vita. Nella scrupolosa fedeltà alla verità dei fatti, sono chiamati a coniugare insieme la libertà di informazione, il rispetto di ogni persona e un profondo senso di umanità.

99. Nella svolta culturale a favore della vita le donne hanno uno spazio di pensiero e di azione singolare e forse determinante: tocca a loro di farsi promotrici di un «nuovo femminismo» che, senza cadere nella tentazione di rincorrere modelli «maschilisti», sappia riconoscere ed esprimere il vero genio femminile in tutte le manifestazioni della convivenza civile, operando per il superamento di ogni forma di discriminazione, di violenza e di sfruttamento.

Riprendendo le parole del messaggio conclusivo del Concilio Vaticano II, rivolgo anch'io alle donne il pressante invito: «Riconciliate gli uomini con la vita».133 Voi siete chiamate a testimoniare il senso dell'amore autentico, di quel dono di sé e di quella accoglienza dell'altro che si realizzano in modo specifico nella relazione coniugale, ma che devono essere l'anima di ogni altra relazione interpersonale. L'esperienza della maternità favorisce in voi una sensibilità acuta per l'altra persona e, nel contempo, vi conferisce un compito particolare: «La maternità contiene in sé una speciale comunione col mistero della vita, che matura nel seno della donna... Questo modo unico di contatto col nuovo uomo che si sta formando crea a sua volta un atteggiamento verso l'uomo — non solo verso il proprio figlio, ma verso l'uomo in genere — tale da caratterizzare profondamente tutta la personalità della donna».134 La madre, infatti, accoglie e porta in sé un altro, gli dà modo di crescere dentro di sé, gli fa spazio, rispettandolo nella sua alterità. Così, la donna percepisce e insegna che le relazioni umane sono autentiche se si aprono all'accoglienza dell'altra persona, riconosciuta e amata per la dignità che le deriva dal fatto di essere persona e non da altri fattori, quali l'utilità, la forza, l'intelligenza, la bellezza, la salute. Questo è il contributo fondamentale che la Chiesa e l'umanità si attendono dalle donne. Ed è la premessa insostituibile per un'autentica svolta culturale.

Un pensiero speciale vorrei riservare a voi, donne che avete fatto ricorso all'aborto. La Chiesa sa quanti condizionamenti possono aver influito sulla vostra decisione, e non dubita che in molti casi s'è trattato d'una decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro animo non s'è ancor rimarginata. In realtà, quanto è avvenuto è stato e rimane profondamente ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piuttosto, ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se ancora non l'avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: il Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione. Vi accorgerete che nulla è perduto e potrete chiedere perdono anche al vostro bambino, che ora vive nel Signore. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita. Attraverso il vostro impegno per la vita, coronato eventualmente dalla nascita di nuove creature ed esercitato con l'accoglienza e l'attenzione verso chi è più bisognoso di vicinanza, sarete artefici di un nuovo modo di guardare alla vita dell'uomo.

100. In questo grande sforzo per una nuova cultura della vita siamo sostenuti e animati dalla fiducia di chi sa che il Vangelo della vita, come il Regno di Dio, cresce e dà i suoi frutti abbondanti (cf. Mc 4, 26-29). È certamente enorme la sproporzione che esiste tra i mezzi, numerosi e potenti, di cui sono dotate le forze operanti a sostegno della «cultura della morte» e quelli di cui dispongono i promotori di una «cultura della vita e dell'amore». Ma noi sappiamo di poter confidare sull'aiuto di Dio, al quale nulla è impossibile (cf. Mt 19, 26).

Con questa certezza nel cuore, e mosso da accorata sollecitudine per le sorti di ogni uomo e donna, ripeto oggi a tutti quanto ho detto alle famiglie impegnate nei loro difficili compiti fra le insidie che le minacciano: 135 èurgente una grande preghiera per la vita, che attraversi il mondo intero. Con iniziative straordinarie e nella preghiera abituale, da ogni comunità cristiana, da ogni gruppo o associazione, da ogni famiglia e dal cuore di ogni credente, si elevi una supplica appassionata a Dio, Creatore e amante della vita. Gesù stesso ci ha mostrato col suo esempio che preghiera e digiuno sono le armi principali e più efficaci contro le forze del male (cf. Mt 4, 1-11) e ha insegnato ai suoi discepoli che alcuni demoni non si scacciano se non in questo modo (cf. Mc 9, 29). Ritroviamo, dunque, l'umiltà e il coraggio di pregare e digiunare, per ottenere che la forza che viene dall'Alto faccia crollare i muri di inganni e di menzogne, che nascondono agli occhi di tanti nostri fratelli e sorelle la natura perversa di comportamenti e di leggi ostili alla vita, e apra i loro cuori a propositi e intenti ispirati alla civiltà della vita e dell'amore.

«Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1, 4): il Vangelo della vita è per la città degli uomini

101. «Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1, 4). La rivelazione del Vangelo della vita ci è data come bene da comunicare a tutti: perché tutti gli uomini siano in comunione con noi e con la Trinità (cf. 1 Gv 1, 3). Neppure noi potremmo essere nella gioia piena se non comunicassimo questo Vangelo agli altri, ma lo tenessimo solo per noi stessi.

Il Vangelo della vita non è esclusivamente per i credenti: è per tutti. La questione della vita e della sua difesa e promozione non è prerogativa dei soli cristiani. Anche se dalla fede riceve luce e forza straordinarie, essa appartiene ad ogni coscienza umana che aspira alla verità ed è attenta e pensosa per le sorti dell'umanità. Nella vita c'è sicuramente un valore sacro e religioso, ma in nessun modo esso interpella solo i credenti: si tratta, infatti, di un valore che ogni essere umano può cogliere anche alla luce della ragione e che perciò riguarda necessariamente tutti.

Per questo, la nostra azione di «popolo della vita e per la vita» domanda di essere interpretata in modo giusto e accolta con simpatia. Quando la Chiesa dichiara che il rispetto incondizionato del diritto alla vita di ogni persona innocente — dal concepimento alla sua morte naturale — è uno dei pilastri su cui si regge ogni società civile, essa «vuole semplicemente promuovere uno Stato umano. Uno Stato che riconosca come suo primario dovere la difesa dei diritti fondamentali della persona umana, specialmente di quella più debole».136

Il Vangelo della vita è per la città degli uomini. Agire a favore della vita è contribuire al rinnovamento della società mediante l'edificazione del bene comune. Non è possibile, infatti, costruire il bene comune senza riconoscere e tutelare il diritto alla vita, su cui si fondano e si sviluppano tutti gli altri diritti inalienabili dell'essere umano. Né può avere solide basi una società che — mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace — si contraddice radicalmente accettando o tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata. Solo il rispetto della vita può fondare e garantire i beni più preziosi e necessari della società, come la democrazia e la pace.

Infatti, non ci può essere vera democrazia, se non si riconosce la dignità di ogni persona e non se ne rispettano i diritti.

Non ci può essere neppure vera pace, se non si difende e promuove la vita, come ricordava Paolo VI: «Ogni delitto contro la vita è un attentato contro la pace, specialmente se esso intacca il costume del popolo..., mentre dove i diritti dell'uomo sono realmente professati e pubblicamente riconosciuti e difesi, la pace diventa l'atmosfera lieta e operosa della convivenza sociale».137

Il «popolo della vita» gioisce di poter condividere con tanti altri il suo impegno, così che sempre più numeroso sia il «popolo per la vita» e la nuova cultura dell'amore e della solidarietà possa crescere per il vero bene della città degli uomini.

Conclusione

102. Al termine di questa Enciclica, lo sguardo ritorna spontaneamente al Signore Gesù, il «Bambino nato per noi» (cf. Is 9, 5) per contemplare in lui «la Vita» che «si è manifestata» (1 Gv 1, 2). Nel mistero di questa nascita si compie l'incontro di Dio con l'uomo e ha inizio il cammino del Figlio di Dio sulla terra, un cammino che culminerà nel dono della vita sulla Croce: con la sua morte Egli vincerà la morte e diventerà per l'umanità intera principio di vita nuova.

Ad accogliere «la Vita» a nome di tutti e a vantaggio di tutti è stata Maria, la Vergine Madre, la quale ha quindi legami personali strettissimi con il Vangelo della vita. Il consenso di Maria all'Annunciazione e la sua maternità si trovano alla sorgente stessa del mistero della vita che Cristo è venuto a donare agli uomini (cf. Gv 10, 10). Attraverso la sua accoglienza e la sua cura premurosa per la vita del Verbo fatto carne, la vita dell'uomo è stata sottratta alla condanna della morte definitiva ed eterna.

Per questo Maria «è madre di tutti coloro che rinascono alla vita, proprio come la Chiesa di cui è modello. È madre di quella vita di cui tutti vivono. Generando la vita, ha come rigenerato coloro che di questa vita dovevano vivere».138

Contemplando la maternità di Maria, la Chiesa scopre il senso della propria maternità e il modo con cui è chiamata ad esprimerla. Nello stesso tempo l'esperienza materna della Chiesa dischiude la prospettiva più profonda per comprendere l'esperienza di Maria quale incomparabile modello di accoglienza e di cura della vita.

 «Nel cielo apparve un segno grandioso: una donna vestita di sole» (Ap 12, 1): la maternità di Maria e della Chiesa

103. Il rapporto reciproco tra il mistero della Chiesa e Maria si manifesta con chiarezza nel «segno grandioso» descritto nell'Apocalisse: «Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle» (12,1). In questo segno la Chiesa riconosce una immagine del proprio mistero: immersa nella storia, essa è consapevole di trascenderla, in quanto costituisce sulla terra il «germe e l'inizio» del Regno di Dio.139 Questo mistero la Chiesa lo vede realizzato in modo pieno ed esemplare in Maria. È Lei la donna gloriosa, nella quale il disegno di Dio si è potuto attuare con somma perfezione.

La «donna vestita di sole» — rileva il Libro dell'Apocalisse — «era incinta» (12, 2). La Chiesa è pienamente consapevole di portare in sé il Salvatore del mondo, Cristo Signore, e di essere chiamata a donarlo al mondo, rigenerando gli uomini alla vita stessa di Dio. Non può però dimenticare che questa sua missione è stata resa possibile dalla maternità di Maria, che ha concepito e dato alla luce colui che è «Dio da Dio», «Dio vero da Dio vero». Maria è veramente Madre di Dio, la Theotokos nella cui maternità è esaltata al sommo grado la vocazione alla maternità inscritta da Dio in ogni donna. Così Maria si pone come modello per la Chiesa, chiamata ad essere la «nuova Eva», madre dei credenti, madre dei «viventi» (cf. Gn 3, 20).

La maternità spirituale della Chiesa non si realizza — anche di questo la Chiesa è consapevole — se non in mezzo alle doglie e al «travaglio del parto» (Ap 12, 2), cioè nella perenne tensione con le forze del male, che continuano ad attraversare il mondo ed a segnare il cuore degli uomini, facendo resistenza a Cristo: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta» (Gv 1, 4-5).

Come la Chiesa, anche Maria ha dovuto vivere la sua maternità nel segno della sofferenza: «Egli è qui... segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima» (Lc 2, 34-35). Nelle parole che, agli albori stessi dell'esistenza del Salvatore, Simeone rivolge a Maria è sinteticamente raffigurato quel rifiuto nei confronti di Gesù, e con Lui di Maria, che giungerà al suo vertice sul Calvario. «Presso la croce di Gesù» (Gv 19, 25), Maria partecipa al dono che il Figlio fa di sé: offre Gesù, lo dona, lo genera definitivamente per noi. Il «sì» del giorno dell'Annunciazione matura in pienezza nel giorno della Croce, quando per Maria giunge il tempo di accogliere e di generare come figlio ogni uomo divenuto discepolo, riversando su di lui l'amore redentore del Figlio: «Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco il tuo figlio"» (Gv 19, 26).

«Il drago si pose davanti alla donna... per divorare il bambino appena nato» (Ap 12, 4): la vita insidiata dalle forze del male

104. Nel Libro dell'Apocalisse il «segno grandioso» della «donna» (12, 1) è accompagnato da «un altro segno nel cielo»: «un enorme drago rosso» (12, 3), che raffigura Satana, potenza personale malefica, e insieme tutte le forze del male che operano nella storia e contrastano la missione della Chiesa.

Anche in questo Maria illumina la Comunità dei Credenti: l'ostilità delle forze del male è, infatti, una sorda opposizione che, prima di toccare i discepoli di Gesù, si rivolge contro sua Madre. Per salvare la vita del Figlio da quanti lo temono come una pericolosa minaccia, Maria deve fuggire con Giuseppe e il Bambino in Egitto (cf. Mt 2, 13-15).

Maria aiuta così la Chiesa a prendere coscienza che la vita è sempre al centro di una grande lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. Il drago vuole divorare «il bambino appena nato» (Ap 12, 4), figura di Cristo, che Maria genera nella «pienezza del tempo» (Gal 4, 4) e che la Chiesa deve continuamente offrire agli uomini nelle diverse epoche della storia. Ma in qualche modo è anche figura di ogni uomo, di ogni bambino, specie di ogni creatura debole e minacciata, perché — come ricorda il Concilio — «con la sua incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo».140 Proprio nella «carne» di ogni uomo, Cristo continua a rivelarsi e ad entrare in comunione con noi, così che il rifiuto della vita dell'uomo, nelle sue diverse forme, è realmente rifiuto di Cristo. È questa la verità affascinante ed insieme esigente che Cristo ci svela e che la sua Chiesa ripropone instancabilmente: «Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me» (Mt 18, 5); «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25, 40).

«Non ci sarà più la morte» (Ap 21, 4): lo splendore della risurrezione

105. L'annunciazione dell'angelo a Maria è racchiusa tra queste parole rassicuranti: «Non temere, Maria» e «Nulla è impossibile a Dio» (Lc 1, 30.37). In verità, tutta l'esistenza della Vergine Madre è avvolta dalla certezza che Dio le è vicino e l'accompagna con la sua provvidente benevolenza. Così è anche della Chiesa, che trova «un rifugio» (Ap 12, 6) nel deserto, luogo della prova ma anche della manifestazione dell'amore di Dio verso il suo popolo (cf. Os 2, 16). Maria è vivente parola di consolazione per la Chiesa nella sua lotta contro la morte. Mostrandoci il Figlio, ella ci assicura che in lui le forze della morte sono già state sconfitte: «Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa».141

L'Agnello immolato vive con i segni della passione nello splendore della risurrezione. Solo lui domina tutti gli eventi della storia: ne scioglie i «sigilli» (cf. Ap 5, 1-10) e afferma, nel tempo e oltre il tempo, il potere della vita sulla morte. Nella «nuova Gerusalemme», ossia nel mondo nuovo, verso cui tende la storia degli uomini, «non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21, 4).

E mentre, come popolo pellegrinante, popolo della vita e per la vita, camminiamo fiduciosi verso «un nuovo cielo e una nuova terra» (Ap 21, 1), volgiamo lo sguardo a Colei che è per noi «segno di sicura speranza e di consolazione».142

O Maria,

aurora del mondo nuovo,

Madre dei viventi,

affidiamo a Te la causa della vita:

guarda, o Madre, al numero sconfinato

di bimbi cui viene impedito di nascere,

di poveri cui è reso difficile vivere,

di uomini e donne vittime di disumana violenza,

di anziani e malati uccisi dall'indifferenza

o da una presunta pietà.

Fà che quanti credono nel tuo Figlio

sappiano annunciare con franchezza e amore

agli uomini del nostro tempo

il Vangelo della vita.

Ottieni loro la grazia di accoglierlo

come dono sempre nuovo,

la gioia di celebrarlo con gratitudine

in tutta la loro esistenza

e il coraggio di testimoniarlo

con tenacia operosa, per costruire,

insieme con tutti gli uomini di buona volontà,

la civiltà della verità e dell'amore

a lode e gloria di Dio creatore e amante della vita.

Giovanni Paolo II

Dato a Roma, presso San Pietro il 25 marzo, solennità dell'Annunciazione del Signore, dell'anno 1995,

decimosettimo di Pontificato.

 

 


 

 

Ordinatio Sacerdotalis

Lettera Apostolica ai Vescovi della Chiesa Cattolica, sull'Ordinazione Sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini

(22 maggio 1994).

 

Venerabili Fratelli nell'Episcopato!

1. L'ordinazione sacerdotale, mediante la quale si trasmette l'ufficio che Cristo ha affidato ai suoi Apostoli di insegnare, santificare e governare i fedeli, è stata nella Chiesa cattolica sin dall'inizio sempre esclusivamente riservata agli uomini. Tale tradizione è stata fedelmente mantenuta anche dalle Chiese Orientali.

Quando sorse la questione dell'ordinazione delle donne presso la Comunione Anglicana, il Sommo Pontefice Paolo VI, in nome della sua fedeltà all'ufficio di custodire la Tradizione apostolica, ed anche allo scopo di rimuovere un nuovo ostacolo posto sul cammino verso l'unità dei cristiani, ebbe cura di ricordare ai fratelli anglicani quale fosse la posizione della Chiesa cattolica: "Essa sostiene che non è ammissibile ordinare donne al sacerdozio, per ragioni veramente fondamentali. Queste ragioni comprendono: l'esempio, registrato nelle Sacre Scritture, di Cristo che scelse i suoi Apostoli soltanto tra gli uomini; la pratica costante della Chiesa, che ha imitato Cristo nello scegliere soltanto degli uomini; e il suo vivente magistero, che ha coerentemente stabilito che l'esclusione delle donne dal sacerdozio è in armonia con il piano di Dio per la sua Chiesa" (cfr. Paolo VI, Rescritto alla lettera di Sua Grazia il Rev.mo Dott. F. D. Coggan, Arcivescovo di Canterbury, sul ministero sacerdotale delle donne, 30 novembre 1975: AAS 68 (1976), 599-600). Ma poiché anche tra teologi ed in taluni ambienti cattolici la questione era stata posta in discussione, Paolo VI diede mandato alla Congregazione per la Dottrina della Fede di esporre ed illustrare in proposito la dottrina della Chiesa. Ciò fu eseguito con la Dichiarazione Inter Insigniores, che il Sommo Pontefice approvò e ordinò di pubblicare (cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Inter Insignores circa la questione dell'ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale, 15 ottobre 1976: AAS 69 (1977), 98-116).

2. La Dichiarazione riprende e spiega le ragioni fondamentali di tale dottrina, esposte da Paolo VI, concludendo che la Chiesa "non si riconosce l'autorità di ammettere le donne all'ordinazione sacerdotale" (Ibidem 100). A queste ragioni fondamentali il medesimo documento aggiunge altre ragioni teologiche che illustrano la convenienza di tale disposizione divina, e mostra chiaramente come il modo di agire di Cristo non fosse guidato da motivi sociologici o culturali propri del suo tempo. Come successivamente precisò il Papa Paolo VI, "la ragione vera è che Cristo, dando alla Chiesa la sua fondamentale costituzione, la sua antropologia teologica, seguita poi sempre dalla Tradizione della Chiesa stessa, ha stabilito così" (Paolo VI, Discorso su Il ruolo della donna del disegno della salvezza, 30 gennaio 1977: Insegnamenti, vol. XV, 1977, 111; cfr. anche Giovanni Paolo II Esortazione Apostolica Christifideles Laici, 30 dicembre 1988, n. 51: AAS 81 (1989), 393-521; Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1577). Nella Lettera Apostolica Mulieris dignitatem, io stesso ho scritto a questo proposito: "Chiamando solo uomini come suoi apostoli, Cristo ha agito in un modo del tutto libero e sovrano. Ciò ha fatto con la stessa libertà con cui, in tutto il suo comportamento, ha messo in rilievo la dignità e la vocazione della donna, senza conformarsi al costume prevalente e alla tradizione sancita anche dalla legislazione del tempo" (Lettera Apostolica Mulieris Dignitatem, 15 agosto 1988, n. 26: AAS 80 (1988), 1715).

Infatti i Vangeli e gli Atti degli Apostoli attestano che questa chiamata è stata fatta secondo l'eterno disegno di Dio: Cristo ha scelto quelli che egli ha voluto (cfr. Mc 3,13-14; Gv 6,70), e lo ha fatto in unione col Padre, "nello Spirito Santo" (At 1,2), dopo aver passato la notte in preghiera (cfr. Lc 6,12). Pertanto, nell'ammissione al sacerdozio ministeriale (cfr. Costituzione dogmatica Lumen Gentium, n. 28; Decreto Presbyterorum Ordinis, n. 2b), la Chiesa ha sempre riconosciuto come norma perenne il modo di agire del suo Signore nella scelta dei dodici uomini che Egli ha posto a fondamento della sua Chiesa (cfr. Ap 21,14). Essi, in realtà, non hanno ricevuto solamente una funzione, che in seguito avrebbe potuto essere esercitata da qualunque membro della Chiesa, ma sono stati specialmente ed intimamente associati alla missione dello stesso Verbo incarnato (cfr. Mt 10,1.7-8; 28,16-20; Mc 3,13-16; 16,14-15). Gli Apostoli hanno fatto lo stesso quando hanno scelto i collaboratori (cfr. 1Tm 3,1-13; 2Tm 1,6; Tt 1,5-9) che sarebbero ad essi succeduti nel ministero (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1577). In tale scelta erano inclusi anche coloro che, attraverso i tempi della Chiesa, avrebbero proseguito la missione degli Apostoli di rappresentare Cristo Signore e Redentore (cfr. Costituzione dogmatica Lumen Gentium, n. 20 e n. 21).

3. D'altronde, il fatto che Maria Santissima, Madre di Dio e della Chiesa, non abbia ricevuto la missione propria degli Apostoli né il sacerdozio ministeriale mostra chiaramente che la non ammissione delle donne all'ordinazione sacerdotale non può significare una loro minore dignità né una discriminazione nei loro confronti, ma l'osservanza fedele di un disegno da attribuire alla sapienza del Signore dell'universo.

La presenza e il ruolo della donna nella vita e nella missione della Chiesa, pur non essendo legati al sacerdozio ministeriale, restano comunque assolutamente necessari e insostituibili. Come è stato rilevato dalla stessa Dichiarazione Inter Insigniores, "la Santa Madre Chiesa auspica che le donne cristiane prendano pienamente coscienza della grandezza della loro missione: il loro ruolo sarà oggigiorno determinante sia per il rinnovamento e l'umanizzazione della società, sia per la riscoperta, tra i credenti, del vero volto della Chiesa" (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Inter Insigniores, VI: AAS 69 (1977), 115-116). Il Nuovo Testamento e tutta la storia della Chiesa mostrano ampiamente la presenza nella Chiesa di donne, vere discepole e testimoni di Cristo nella famiglia e nella professione civile, oltre che nella consacrazione totale al servizio di Dio e del Vangelo. "La Chiesa, infatti, difendendo la dignità della donna e la sua vocazione, ha espresso onore e gratitudine per quelle che, fedeli al Vangelo, in ogni tempo hanno partecipato alla missione apostolica di tutto il popolo di Dio. Si tratta di sante martiri, di vergini, di madri di famiglia, che coraggiosamente hanno testimoniato la loro fede ed educando i propri figli nello spirito del Vangelo hanno trasmesso la fede e la tradizione della Chiesa" (Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Mulieris Dignitatem, n. 27: AAS 80 (1988), 1719).

D'altra Parte è alla santità dei fedeli che è totalmente ordinata la struttura gerarchica della Chiesa. Perciò, ricorda la Dichiarazione Inter Insigniores, "il solo carisma superiore, che si può e si deve desiderare, è la carità (cfr. 1Cor 12-13). I più grandi nel Regno dei cieli non sono i ministri, ma i santi" (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Inter Insigniores, VI: AAS 69 (1977), 115).

4. Benché la dottrina circa l'ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini sia conservata dalla costante e universale Tradizione della Chiesa e sia insegnata con fermezza dal Magistero nei documenti più recenti, tuttavia nel nostro tempo in diversi luoghi la si ritiene discutibile, o anche si attribuisce alla decisione della Chiesa di non ammettere le donne a tale ordinazione un valore meramente disciplinare.

Pertanto, al fine di togliere ogni dubbio su di una questione di grande importanza, che attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa, in virtù del mio ministero di confermare i fratelli (cfr. Lc 22,32), dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l'ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa.

Invocando su di voi, venerabili Fratelli, e sull'intero popolo cristiano il costante aiuto divino, a tutti imparto l'Apostolica Benedizione.

Dal Vaticano, il 22 maggio, Solennità di Pentecoste, dell'anno 1994, sedicesimo di Pontificato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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