TESTI MAGISTERO EPISCOPALE

Mons. RINO FISICHELLA

 

 

 

 

ANNO 2006

 

Perdono e comunione in Giovanni Paolo II

Relazione tenuta dal rettore della Pontificia Università Lateranense Mons. Rino Fisichella alla decima edizione del Congresso internazionale sul Volto di Cristo, tenutosi il 14 e 15 ottobre 2006 presso l’Università Urbaniana a Roma.

Una testimonianza coerente

La persona di Giovanni Paolo II rimarrà per molto tempo come l’espressione più significativa della vita della Chiesa all’inizio del terzo millennio della sua storia. Solo guardando le statistiche, che di volta in volta cadono sotto i nostri occhi, si prova una meraviglia enorme nel pensare che quest’uomo come nessun altro ha viaggiato per il mondo intero, non ha tralasciato nessuna zona della terra che gli fosse consentito visitare per portare a tutti l’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo. Milioni e milioni di credenti e non credenti sono accorsi per ascoltare la sua parola e per vedere il suo volto, interpretare un suo gesto e, per i più fortunati, scambiare con lui una parola e ricevere la sua benedizione. Per circa ventisette anni egli ha mostrato il volto di una Chiesa giovane, capace di parlare un linguaggio comprensibile al nostro contemporaneo, ma soprattutto ha dato testimonianza di come si possa vivere con dignità ogni stadio della vita, nonostante la malattia e la sofferenza per dare significato al dolore e alla morte. Le immagini di inizio pontificato nell’ottobre del 1978 che mostravano un Papa di soli 58 anni, sportivo, affascinante, forte e severo nello stesso tempo, non stonano con quelle che lo vedono quasi immobile su una sedia – nuova sede gestatoria che non aveva mai voluto avere – , impossibilitato a esprimersi con la parola, ma carico del suo sguardo sempre vigile e attento. La Chiesa ha avuto con Giovanni Paolo II un testimone della fede audace, entusiasta e coerente; dall’inizio alla fine, egli ha reso manifesta la parola del Signore: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni... insegnando loro a osservare ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20).

Per comprendere in profondità l’insegnamento di Giovanni Paolo II, comunque, è necessario ritornare alla sua prima enciclica, Redemptor hominis. È qui, infatti, che si ritrovano i punti essenziali a cui si è costantemente ispirato nella sua azione pastorale per imprimere al suo pontificato la forza e l’entusiasmo che lo hanno contraddistinto. Idea centrale che muoveva il pensiero di Giovanni Paolo II era la profonda fede che Cristo è il redentore dell’uomo. La sua opera di salvezza si estende dal Golgota per raggiungere ogni uomo in ogni tempo, senza distinzione alcuna. Come il suo sacrifìcio sulla croce ha raggiunto tutti, così nessuno può essere escluso dal suo amore. «L’uomo» scriveva il Papa «non può vivere senza amore. Egli rimane per sé stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta, se non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente» (Rh, n. 10). Se si vuole, è proprio questo amore che rivela la dimensione della salvezza e la redenzione dell’uomo dalla sua colpa. Se ci si apre all’amore di Cristo, allora si ritrova e recupera la grandezza che era stata perduta, la dignità dell’esistenza personale e il valore della propria partecipazione alla storia. La missione della Chiesa, quindi, è stata interpretata da Giovanni Paolo II in modo tale che ogni persona potesse indirizzare il proprio sguardo al volto di Cristo che rivela ed esprime l’amore trinitario di Dio.

L’amore al centro

Amore è la parola che mantiene viva la Chiesa e che rende il suo messaggio e la sua missione permanentemente provocatori nel corso dei secoli. Non un amore desunto dall’esperienza umana né che si dileggia come espressione intellettuale, ma un amore vero, concreto, tangibile che ognuno può verifìcare se si pone dinanzi al volto di Gesù di Nazareth. D’altronde proprio sul tema del volto di Cristo Giovanni Paolo II ha voluto scrivere uno dei suoi documenti più conosciuti, Novo millennio ineunte, per corroborare la Chiesa nel suo cammino verso il terzo millennio: «La nostra testimonianza sarebbe insopportabilmente povera, se noi per primi non fossimo contemplatori del suo volto [...] mentre riprendiamo il cammino ordinario, portando nell’animo la ricchezza delle esperienze vissute in questo periodo specialissimo, lo sguardo resta più che mai fisso sul volto del Signore» (Nmi, n. 16). È questo il mistero che fino a oggi rende ogni credente responsabile del proprio battesimo e della condivisione con la missione della Chiesa. L’amore non può essere solamente annunciato, deve essere reso visibile e tangibile nella concretezza della sua natura. È per questo motivo che bisogna recuperare l’orizzonte della rivelazione; contrariamente, l’amore sarebbe sottoposto all’ambiguità del concetto e delle interpretazioni proprie del relativismo di oggi, come ha insegnato magistralmente Benedetto XVI nella sua enciclica Deus caritas est.

Non si sbaglia ritenendo che davanti alla domanda: «Cos’è l’amore?», la risposta più diretta e universale che si riceve dica: «Dare la vita per la persona amata». Risposta coerente che mentre evidenzia il dramma della sua verità, mostra il lungo cammino che si è chiamati a percorrere per verificare la propria coerenza. Quando, infatti, si pronuncia un’espressione simile, si è di fronte a un linguaggio del tutto peculiare, quello performativo, che impegna chiunque a vivere di ciò che dice, pena il toccare con mano la propria contraddizione, l’incoerenza e il non senso del proprio esprimersi. Si è, comunque, talmente abituati a comprendere l’amore in quella accezione che si dimentica la sua origine e il significato profondo che è stato immesso in quel termine. Amare come equivalente del «dare la vita» proviene dalla rivelazione di Gesù Cristo che ha offerto la sua vita per tutti gli uomini, morendo in croce. Quanto questa concezione sia unica e originale lo mostra il confronto con la letteratura e la cultura antiche. L’apporto peculiare che su questo tema il cristianesimo ha immesso in tutte le culture, differenziandosi anche dalle altre religioni, ha impresso uno sviluppo notevole nel progresso della civiltà universale. La rivelazione cristiana trova il suo punto culminante nell’espressione: «Dio è amore» (1Gv 4, 8.10). Per la prima e unica volta in tutta la Bibbia, l’autore sacro sembra voler dare una definizione di Dio che non lasci spazio ad altre ulteriori formule. Diverse di queste sono facilmente riscontrabili nei vari testi del Nuovo Testamento; espressioni quali: «Io sono la luce» (Gv 9, 5), «Io sono la verità» (Gv 14, 6), «Io sono la vita» (Gv 11, 25), portano con sé delle caratteristiche proprie di Dio. In questo caso, tuttavia, l’autore sacro intende fissare lo sguardo direttamente sulla natura stessa di Dio, sulla sua essenza, su ciò che lo qualifica come Dio. Un’analisi dettagliata della prima Lettera di san Giovanni mostrerebbe il profondo intento rivelativo che l’espressione possiede e la grande valenza significativa che vi è sottesa. Tutta la prima parte della Lettera sembra tendere a questo versetto e, per paradossale che possa sembrare, l’intero Nuovo Testamento assume una luce nuova a partire da questa espressione: «Dio è amore... e in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi». Per due volte in brevissimo spazio (vv. 8.10), l’evangelista ripete: «Dio è amore» e pone questo come fondamento dell’esistenza personale di ognuno; aggiunge infatti: «Chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio» (v. 7). L’essenza del Dio di Gesù Cristo, quindi, consiste nell’essere amore. Chi si apre a esso e si lascia plasmare, riceve una vita nuova, quella che permette di essere generati da Dio, di entrare in relazione con lui e di vivere della sua stessa vita. Questa vita di comunione, comunque, non è unidirezionale da Dio verso l’uomo; l’evangelista attesta che l’amore si sviluppa in una reale forma di reciprocità: «Dio è amore e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (v. 16). Come dire: chi è amato da Dio diventa capace, a sua volta, di amarlo e di corrispondere al suo amore con quel germe di vita nuovo deposto in lui a motivo della fede.

L’evangelista, comunque, non si ferma a definire l’essenza di Dio; egli permette di compiere un passo ulteriore identificando anche la maniera con cui Dio ama. Se Dio è amore, infatti, ciò significa che ama; come ama Dio, tuttavia, lo può rendere manifesto solo lui. Ne deriva che il suo modo di amare diventa non solo il vero archetipo di ogni amore, ma anche il paradigma su cui coniugare ogni amore che voglia essere degno di questo nome. Viene ancora una volta in aiuto l’evangelista Giovanni quando nel suo Vangelo indica esplicitamente questo modo di amare: «Dio infatti ha così amato il mondo da dare il suo figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). Questo versetto rappresenta un testo chiave di tutto il Nuovo Testamento. Se si considera il suo contesto immediato, si nota che Gesù, rispondendo all’obiezione di Nicodemo sulla possibilità di rinascere di nuovo, dice: «Nessuno è salito al cielo se non il figlio dell’uomo che è disceso dal cielo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto così è necessario che il figlio dell’uomo sia innalzato da terra perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3, 13-15). L’immagine del serpente innalzato da Mosè nel deserto dopo il tradimento del popolo, è assunto da Gesù per spiegare il senso della sua morte. Egli dovrà essere “innalzato” sulla croce perché, attraverso la sua morte, la salvezza promessa potrà essere finalmente realizzata. In questo contesto, il senso del nostro versetto acquista il valore di spiegazione (è introdotto da un «infatti») e, soprattutto, diventa più chiaro il significato del verbo «dare» il Figlio da parte del Padre. Una particolarità sintattica permette di interpretare l’uso del verbo “dare” in modo assoluto; vale a dire: dare tutto in maniera piena e totale. Potremmo tradurre letteralmente il testo facendone emergere il senso sottostante: Dio ama in questo modo: mandando a morte il suo unico figlio.

Come si nota, il senso del verbo “dare” possiede una totalità di donazione che non conosce confronto; l’incarnazione del Figlio, la sua attività terrena, la passione e la morte, tutto è un dono con il quale il Padre rivela il suo modo di amare. Insomma, Dio sa amare solo così: dando tutto sé stesso, senza nulla chiedere in contraccambio. Una modalità di amore unica che solo Dio poteva porre nel mondo, dando così inizio a una nuova espressività dell’amore tra gli uomini.

«Dio è amore», comunque, permette di accedere a un’ulteriore novità che costituisce il paradosso della fede cristiana. L’amore di Dio, infatti, non è un’idea astratta né un sentimento più o meno generico; esso si incarna in una persona che lo rende evidente nella sua vita e nella sua morte. L’amore ha un volto: Gesù di Nazareth. È in forza di questa identificazione che si possono comprendere alcune espressioni di Gesù che, altrimenti, risuonerebbero come offensive nei confronti degli uomini per la loro tracotanza e la superbia che rivestono: «Il Padre vi ama, perché voi mi amate» (Gv 16, 27), «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13, 34). Amatevi come io vi ho amato... Se queste parole sono state conservate nel corso dei secoli e sono state accolte come cariche di senso è perché ognuno vede in quell’uomo Dio stesso; non potrebbe essere altrimenti.

La morte di Gesù, comunque, acquista il suo significato pieno solamente se inserita all’interno della tematica che affronta il modo con cui Dio rivela il suo amore. Fuori da questo orizzonte, infatti, risulterebbe un atto di violenza contro un innocente; potrebbe al massimo suscitare compassione, ma non verrebbe mai assunta come normativa per gli uomini che chiedono di dare senso alla contraddizione della morte. È la rivelazione che presenta la passione e la morte di Gesù come la forma ultima dell’amore di Dio nella sua volontà di salvare l’umanità. Questa permane come il paradosso insostituibile della rivelazione cristiana contro cui ogni pensiero va a scontrarsi se non accoglie in sé la logica dell’amore. Con ragione, Giovanni Paolo II scriveva: «II Figlio di Dio crocifisso è l’evento storico contro cui s’infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell’esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento. “Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?” (1Cor 1, 20), si domanda con enfasi l’Apostolo. Per ciò che Dio vuole realizzare non è più possibile la sola sapienza dell’uomo saggio, ma è richiesto un passaggio decisivo verso l’accoglienza di una novità radicale: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti...; Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1, 27-28). La sapienza dell’uomo rifiuta di vedere nella propria debolezza il presupposto della sua forza; ma san Paolo non esita ad affermare: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12, 10). L’uomo non riesce a comprendere come la morte possa essere fonte di vita e di amore, ma Dio ha scelto per rivelare il mistero del suo disegno di salvezza proprio ciò che la ragione considera “follia” e “scandalo”. Parlando il linguaggio dei filosofi suoi contemporanei, Paolo raggiunge il culmine del suo insegnamento e del paradosso che vuole esprimere: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1, 28). Per esprimere la natura della gratuità dell’amore rivelato nella croce di Cristo, l’Apostolo non ha timore di usare il linguaggio più radicale che i filosofi impiegavano nelle loro riflessioni su Dio. La ragione non può svuotare il mistero di amore che la Croce rappresenta, mentre la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca. Non la sapienza delle parole, ma la Parola della Sapienza è ciò che san Paolo pone come criterio di verità e, insieme, di salvezza» (Fides et ratio, n.  23).

La Kenosi, come si nota, permane come il vero mistero di Dio nell’atto in cui entra nella storia e la redime. La croce, infatti, come evento ultimo della vita di Cristo non fa che rendere evidente le conseguenze dell’incarnazione con la quale il Figlio di Dio si fa uomo nel grembo della Vergine. Con ragione von Balthasar scriveva che: «L’evento della croce può essere considerato solo sullo sfondo trinitario e solo nella fede può essere interpretato». Nell’innocente inchiodato sulla croce, che grida a Dio perché lo abbia abbandonato, viene rivelata agli uomini tutta la distanza che intercorre tra il Figlio e il Padre che lo ha inviato. In quel momento, infatti, Gesù il Figlio di Dio porta su di sé il peccato del mondo e sembra agli occhi degli uomini aver perduto il Padre che lo abbandona nelle mani dei suoi nemici e nell’oscurità della morte. Eppure, proprio dinanzi a questo abbandono nell’ora della morte è possibile intravedere fin dove giunge l’amore di Dio. Nell’evento della morte di Gesù e nel significato che egli vi ha impresso, viene rivelata la stessa vita trinitaria; essa è vissuta come un eterno e totale autodonarsi, dove l’abbandono di sé è solo in vista della generazione.

Amore come perdono e comunione

Queste considerazioni permettono di ritornare con maggior cognizione di causa all’insegnamento di Giovanni Paolo II quando scrive: «La Chiesa, custodendo il sacramento della Penitenza, afferma espressamente la sua fede nel mistero della redenzione come realtà viva e vivificante, che corrisponde alla verità interiore dell’uomo, corrisponde all’umana colpevolezza e anche ai desideri della coscienza umana» (Rh, n. 20). In altre parole, il Papa afferma che il mistero della redenzione dell’uomo realizzata dall’amore del Figlio di Dio si rende manifesto fino ai nostri giorni nell’unità del mistero eucaristico, vero fondamento della vita della Chiesa e segno efficace della sua permanente presenza nella storia dell’umanità. Il mistero dell’eucaristia esprime l’amore di Dio e dice, nello stesso tempo, perdono e comunione. È interessante, da questa prospettiva, verificare l’unità inscindibile che tiene insieme l’atto del perdono e la chiamata a una rinnovata vita di comunione nel pensiero di Karol Wojtyla: «L’eucaristia è il sacramento in cui si esprime più compiutamente il nostro nuovo essere, in cui Cristo stesso, incessantemente e sempre in modo nuovo, “rende testimonianza” nello Spirito Santo al nostro spirito che ognuno di noi, come partecipe del mistero della redenzione, ha accesso ai frutti della filiale riconciliazione con Dio, quale egli stesso aveva attuato e sempre attua fra noi mediante il ministero della Chiesa» (Rh, n.  20). In modo ancora più esplicito, il Papa esprime lo stesso contenuto quando nella sua ultima enciclica Ecclesia de Eucaristhia, scriveva: «Ai germi di disgregazione tra gli uomini, che l’esperienza quotidiana mostra tanto radicati nell’umanità a causa del peccato, si contrappone la forza generatrice di unità del corpo di Cristo. L’Eucaristia, costruendo la Chiesa, proprio per questo crea comunità tra gli uomini» (EdE, n.  24).

La vita eucaristica del credente, pertanto, rende manifesta non solo la chiamata alla partecipazione del mistero dell’amore Dio, ma evidenzia il modo con cui Dio ama: accoglie il peccatore pentito e lo immette con nuova energia nella vita di comunità dell’amore trinitario. Perdono e comunione non sono altro che le due facce della stessa medaglia con la quale viene rivelata la misericordia del Padre. Come si nota, alla fine, si giunge a pronunciare il termine che diventa sintesi dell’amore cristiano. Misericordia, infatti, attesta nello stesso tempo capacità di perdonare, immettendo in una nuova intensità di relazione con Dio e il prossimo. Se non ci fosse il perdono non avremmo mai una forte garanzia di sapere amare e di essere amati. Solo chi ama, infatti, sa giungere fino al perdono e solo chi perdona attesta la sua capacità di saper amare. Eppure, anche questo non basta. Il perdono cristiano è un’attiva ripresa di relazioni interrotte per ricostruire una vita d’amore. Il peccato, come sappiamo, è rottura della vita di comunione con Dio e, quindi, fuoriuscita dalla comunità cristiana. Esso si esprime come la scelta errata di condurre la propria esistenza prescindendo da Dio e dalla comunità a cui si appartiene. Non è un caso che l’idea plastica per indicare il peccatore sia quella di mostrare che volta le spalle al Padre e, con lui, ai suoi fratelli. Non potendo più fissare il volto di Cristo, il peccatore riflette solo sé stesso, la propria vita e la contraddittorietà che la contraddistingue.

È necessario un supplemento di amore per comprendere la nostalgia del ritorno alla casa del Padre e sapere che lontano da lui si può vivere solo di sotterfugi nella povertà estrema. Essere toccati dalla misericordia, invece, implica prendere coscienza del proprio peccato, della necessità del perdono e di una nuova vita di relazioni che reimmette nella comunità dei credenti. La parabola del figliol prodigo è un’icona importante che viene posta dinanzi ai nostri occhi per comprendere il valore del perdono e la nuova vita di comunione che esso comporta. Il padre che va incontro al figlio, che aveva dilapidato il patrimonio di famiglia, non si limita ad abbracciarlo, facendogli sentire in questo modo di essere amato; egli fa molto di più. Lo bacia, gli mette l’anello al dito e lo riveste della tunica reintroducendolo a pieno titolo nella sua casa. I gesti potrebbero sembrare secondari nell’economia della parabola, ma non lo sono affatto. Indicano il reinserimento nella vita della famiglia come vero figlio. Il bacio del padre attesta che il suo amore verso il figlio è rimasto, nonostante tutto, intatto e, probabilmente, proprio perché sopraffatto dal calore del padre, quel figlio non riesce neppure a terminare la frase che si era preparato. La tunica, anzi, «la veste più bella», è il segno di essere l’ospite d’onore e, quindi, trattato con tutto il rispetto dovuto; mentre l’anello è espressione del pieno potere che ha nella sua casa, perché con l’anello si imprime il sigillo.

Nell’enciclica Dives in misericordia, Giovanni Paolo II ha ripreso con forza questa icona per indicare il percorso che Dio segue nel venire incontro a ognuno di noi, senza mai stancarsi. Quel documento è un ulteriore frammento per entrare nell’insieme del suo insegnamento e percepire una tessera importante del mosaico che esprime l’amore di Dio. Essa è provocazione che spinge l’uomo a ritrovare sé stesso dopo che si è perduto per ricostruire legami e relazioni che mentre portano a compimento la giustizia, la superano per accedere al culmine dell’amore con il perdono. La misericordia, infatti, rivela il vero volto di Dio, ma impegna l’uomo a vivere altrettanto, sapendo che proprio su questo sarà giudicato.

In un periodo come il nostro che sembra contrassegnato spesso da gesti di odio e di mancanza di perdono, non può passare sotto silenzio, a conclusione, la testimonianza personale di Giovanni Paolo II. Nessuno di noi dimentica le immagini drammatiche di quel 13 maggio 1980: la pistola puntata di un giovane turco mentre il Papa passa sorridente nel salutare la folla che in piazza San Pietro voleva ascoltare la sua catechesi del mercoledì. Lo sparo fu forte, assordante e con la volontà di uccidere, ma non impedì di udire la parola di perdono che riportava in vita Giovanni Paolo II. Nella lotta tra l’odio della morte e l’amore della vita, questa ebbe la meglio e fu il trionfo della fede cristiana che sa perdonare. Le prime parole che il Papa pronunciò appena in grado di parlare furono: «Perdono di vero cuore». Parole che furono seguite dai fatti: la visita al carcere di Regina Coeli con Giovanni Paolo II che abbraccia Alì Agca sono il segno eloquente di quanto la misericordia fosse vera e concreta. Non è un caso che l’enciclica venisse scritta proprio a seguito di questi fatti; essa rimane la testimonianza più coerente di come Giovanni Paolo II abbia vissuto questi momenti.

È paradossale che in Redemptor hominis il Papa abbia voluto parlare di un “diritto” che il credente possiede davanti a Dio di essere perdonato: «È il diritto a un più personale incontro dell’uomo con Cristo crocifisso che perdona, con Cristo che dice, per mezzo del ministro del sacramento della Riconciliazione: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”; “Va’ e d’ora in poi non peccare più”. Come è evidente, questo è nello stesso tempo il diritto di Cristo stesso verso ogni uomo da lui redento. È il diritto di incontrarsi con ciascuno di noi in quel momento-chiave della vita dell’anima, che è quello della conversione e del perdono» (Rh, n. 20). Eppure, il “diritto” da parte del credente non contraddice la gratuità dell’offerta né il diritto di Cristo limita la libertà personale; al contrario. Proprio perché realizzato alla luce dell’amore, il perdono diventa vero segno della vita nuova che viene offerta e di cui si diventa responsabili. Proprio perché ha offerto sé stesso per amore, Cristo ha il “diritto” di non essere escluso dalla nostra vita. Crescere nell’amore, dunque, per comprendere a pieno cosa possa significare il senso del perdono e la vita della comunità che è fatta di comunione.

 

 


 

Comunicare Cristo ai giovani

Testo integrale dell'intervento di Mons. Rino Fisichella all'Incontro del Clero (Arcibasilica Lateranense, 2 ottobre 2006)

Il senso di una domanda

"Cosa dobbiamo fare?" La domanda è presente almeno due volte nel Nuovo Testamento. La prima, nel discorso eucaristico, là dove Gesù dopo aver compiuto la moltiplicazione dei pani rimprovera la folla che era andata a cercarlo non perché avevano colto il segno compiuto, ma perché si erano fermati al pane che avevano mangiato (cfr Gv 6,26). Di fronte alle parole di Gesù: "Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna e che il Figlio dell'uomo vi darà" (Gv 6,27), la folla chiede, appunto, "cosa dobbiamo fare?". La risposta appare tanto semplice quanto radicale e impegnativa: "Credere in colui che il Padre ha mandato" (Gv 6,29). La seconda volta, la stessa domanda la si ritrova negli Atti degli Apostoli; dopo il discorso di Pietro all'indomani di Pentecoste, molti si "sentirono trafiggere il cuore" e chiesero ai Dodici: "Cosa dobbiamo fare?". La risposta di Pietro era diversa da quella del Maestro solamente nei termini non nel contenuto: "Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per la remissione dei peccati" (At 2,38). Nell'uno come nell'altro caso, alla domanda sul "fare" viene risposto con un richiamo all' "essere"; al primato dell'agire dell'uomo, viene anticipato il primato della grazia che permette di compiere atti altrimenti impossibili.

La stessa domanda, paradossalmente, la rivolgiamo anche noi oggi. Dopo tanti discorsi sull'importanza dell'evangelizzazione nel mondo contemporaneo, dopo ripetute iniziative che hanno visto impegnate le nostre comunità, sembra che molto di debba ancora fare; anzi, si accresce il lavoro avanzando nuove pretese. Vale, dunque, anche per noi la domanda: "Cosa dobbiamo fare?". Essa diventa ancora più impellente nel momento in cui oggetto del nostro discorso sono i giovani che sembrano vivere, particolarmente in questi anni, con una svogliatezza e indifferenza non solo nei confronti della fede, ma soprattutto nei confronti dell'amore di cui si ricerca il senso profondo o la nostalgia per averlo perso, mentre in maniera contraddittoria lo si riduce a frammento del sentimento e dell'emotività. Cosa dobbiamo fare, dunque?

Se la risposta fosse quella di trovare immediatamente delle tecniche o delle iniziative concrete andremmo incontro al fallimento. Non perché non siano importanti, ma perché non sono il primo punto della questione sul tappeto. Se desideriamo "fare" qualcosa di efficace è necessario, in primo luogo, avere un'intelligenza del fenomeno. Non è qui il caso di riproporre analisi sociologiche o statistiche che tutti bene o male conosciamo. Il Santo Padre, nel suo discorso ci ha chiesto ben altro: di saper rispondere a chi vorrebbe ridurre l'intelligenza a "semplice ragione calcolatrice e funzionale che tende a soffocare il senso religioso", con un progetto che sia carico di senso e prodromo per la realizzazione della propria vita. Un progetto, quindi, che possa essere a fondamento di alcune certezze e non sottoposto al dubbio dello scetticismo. I nostri giovani, dobbiamo confessarlo, sono sottoposti loro malgrado a una serie di proposte effimere, senza radice, costruite solo su ipotesi che spesso si risolvono in delusioni profonde, dopo un brevissimo istante di fascino passeggero.

Dinanzi a questa permanente domanda, pertanto, la prima reazione che mi viene spontanea è quella di dire: puntiamo gli occhi sull'essere e non sul fare. Il concilio lo ricordava con una buona dose di provocazione quando, riprendendo alla lettera le parole di Paolo VI, scriveva in Gaudium et spes: "L'uomo vale più per quello che «è» che per quello che «ha»" (GS 35). In un contesto culturale come il nostro, che vede indubbiamente un equivoco primato del "fare" e dell' "avere", sarebbe pericoloso per noi pastori cadere in una trappola simile. Se dedicassimo le nostre forze alla moltiplicazione delle attività e delle iniziative, dimenticando cosa le deve sostenere e lo scopo per cui le poniamo in essere, arriveremmo alla fine della nostra lunga giornata lavorativa con la profonda illusione di non avere prodotto molto. Facciamo ore di catechesi, i locali delle nostre parrocchie sembrano sempre troppo pochi per la molteplicità delle attività… eppure, cosa rimane di tutto questo se poi, alla fine, verifichiamo che tra la prima comunione e la cresima il numero dei ragazzi si dimezza; se dopo la cresima riusciamo ad avere un piccolo resto con cui rallegrarci per dire di avere il "gruppo giovani" e se anche questi, figli del loro tempo, vivono poi le contraddizioni tipiche di questo momento subendo quasi una schizofrenia che rattrista loro e noi?

 Alla base del cambiamento

 Non è ovvio ritornare su queste questioni di sempre, soprattutto alla luce del discorso del Santo Padre e della riflessione del Cardinale Vicario nel Convegno Diocesano di giugno. Ciò che appare come prioritario, in questo contesto, sembra essere anzitutto il recupero della coscienza su ciò che determina i comportamenti delle persone e, di conseguenza, quali strumenti apportare nella nostra pastorale perché l'opera formativa che ci compete possa essere efficace e coerente. E' necessario e urgente per noi comprendere, in primo luogo, che siamo dinanzi a un cambiamento reale di paradigmi di pensiero e di linguaggio che non permettono più di affrontare la vita, il mondo, il rapporto con gli altri, la fede e i grandi valori come avveniva nel passato. Questo cambiamento, che ha tutti i tratti per essere considerato epocale, passa inevitabilmente attraverso il linguaggio a cui tutti siamo sottoposti. Anche i concetti più semplici e abituali e i termini a noi più familiari non sono più percepiti né compresi alla stessa stregua del nostro pensarli. Rallegrarci perchè alcuni giovani –nella percentuale di un prefisso telefonico internazionale- capiscono il nostro linguaggio ci potrà illudere per qualche giorno, ma comprometterebbe la lettura più approfondita del momento.

Se fosse possibile, nella schematizzazione che sono obbligato a mantenere, direi che il nostro primo obiettivo dovrebbe essere quello di considerare l'importanza del linguaggio. Uso il termine in maniera onnicomprensiva per indicare non solo le nostre parole, ma anche i nostri gesti, le nostre espressioni e, soprattutto, gli stili di vita… insomma, tutto ciò che è posto in essere dal nostro modo di pensare. Evitare questo passaggio non serve e non rende più appetibile la nostra proposta pastorale, come se questo discorso fosse un perditempo a cui devono dedicarsi i teologi. E' necessario entrare nel sistema di pensiero che oggi appare come dominante e verificare non solo da dove proviene, ma soprattutto a cosa tende. Siamo tutti inseriti all'interno di un movimento culturale che trova nel nichilismo di Nietzsche il suo punto di forza. Ciò comporta la perdita di ogni fondamento unitario per l'estremo scetticismo secondo cui non solo non è possibile avere una sola verità, ma neppure raggiungerla. Di fatto, tutto ruota intorno al tema dell'impossibilità per l'uomo di avere una verità; anzi, per quanto riguarda quella che gli viene proposta dalla fede, egli deve fare di tutto per liberarsene pena la sua mancanza di libertà e autonomia.

Agnosticismo e relativismo sono diventati termini comuni nella nostra predicazione e nelle riflessioni che compiamo, eppure non riusciamo a comprendere fino in fondo che i nostri giovani vivono di queste realtà in maniera ormai inconscia, come se fossero naturali per loro a tal punto da non comprendere affatto le obiezioni che muoviamo a questo loro modo di pensare e di essere. L'obiezione che ci viene mossa si traduce nell'ovvietà della domanda: "…Ma tanto, cosa c'è di male?". Ci si viene a scontrare con un fatto rilevante per cui, da una parte, noi conduciamo una discussione teorica sul tema della vita, della verità e della fede; mentre, dall'altra, i comportamenti che vengono assunti dipendono inconsciamente da premesse che ne negano ogni valore fondante comune per ridurlo al solo sentimento e giudizio individuale, dove tutto è permesso purché l'altro agisca come vuole senza intaccare la mia libertà personale. E' necessario per questo, che impegniamo le nostre forze perché l'opera formativa che ci compete abbia a mirare su temi essenziali e per questo presentati con argomentazioni il più solidamente fondate. Entrano in gioco, a questo punto, due elementi importanti: contenuti brevi con un linguaggio incisivo e comprensibile che non ha timore di ricorrere anche a nuove espressioni semantiche o nuove parabole colte dal vivere quotidiano del mondo contemporaneo purché coerenti con la verità di sempre. Questi elementi, comunque, devono trovarci con una duplice convinzione: la ripetitività dei contenuti nelle diverse sedi del nostro ministero; non è sufficiente fare una bella catechesi e poi non ritornare più sull'argomento. La ripetitività è un punto basilare per incidere sulla memoria, di cui oggi si soffre particolarmente la mancanza. Inoltre, la pazienza che sa attendere il momento più opportuno per verificare la comunicazione dei contenuti e la loro efficacia. Questa, comunque, richiede da parte nostra l'impegno a saper recuperare con forza l'incontro interpersonale e la guida dei nostri giovani, vero strumento per la trasmissione viva della fede.

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 1. In questo contesto, credo sia utile esemplificare alcune tematiche che dovrebbero rientrare in ogni nostro discorso formativo per l'importanza che possiedono. Penso, in primo luogo, al tema del senso della vita. Non è possibile che per giovani tra i 15 e 20 anni il primo motivo di decesso sia il suicidio. Il fatto evidenzia una mancanza di senso della vita che deve preoccuparci in maniera diretta. Il tema del senso della vita non è una questione teorica, ma rientra pienamente in quella capacità di incidere sulle scelte e sugli orientamenti che pongono, in primo piano, la capacità personale di amare e essere amato. Senso della vita e amore non sono che due facce della stessa medaglia. E' importante che partiamo da un presupposto positivo per provocare a questo tema senza restare passivi dinanzi alle contraddizioni che la vita pone ogni giorno. E' evidente che in una prospettiva simile emergono le principiali questioni che toccano l'antropologia cristiana e che meritano da parte nostra una peculiare considerazione, soprattutto dinanzi alle sfide della cultura tecnologica con la quale particolarmente i giovani si confrontano. Provocare sul senso della vita come recupero dell'amore, apre inevitabilmente la strada a fissare lo sguardo sul volto di Cristo. In lui si risolve l'enigma dell'esistenza umana con la sua contraddittorietà, e trova piena luce il mistero dell'uomo (cfr GS 22). Intorno a questo tema, vengono a trovare sintesi i contenuti fondamentali della nostra fede ed evidenziano la loro peculiarità, soprattutto nel possibile confronto con altre religioni. Far riflettere sul mistero della propria esistenza e sulla chiamata che ognuno di noi possiede, permetterebbe di comprendere l'urgenza per compiere il passaggio dal "ruolo" che si riveste nella società alla "missione" che si è chiamati a svolgere. Se fossimo capaci di presentare Gesù di Nazareth come colui nella più piena libertà ha indirizzato la sua vita in una consegna di amore per tutti, senza escludere nessuno, in maniera del tutto gratuita e in questo ha realizzato il senso profondo della sua esistenza, avremmo collegato cristologia e antropologia su un tema comune e percepito come esistenziale per ognuno. Come si nota, siamo posti dinanzi solo apparentemente a un solo tema; il senso della vita, infatti, se da una parte provoca a riflettere, dall'altra, offre una pluralità di tematiche dalla verità alla libertà, che sono cogenti in un momento di crescita e sui quali la sensibilità giovanile è particolarmente attenta.

2. A me sembra, inoltre, che un'attenzione del tutto particolare la dovremmo porre sul tema della verità. Siamo inseriti all'interno di un contesto sociale e culturale che sembra dimenticare spesso il tema della verità; anzi, per alcuni versi sembra averne perfino paura. Non è un caso che, come conseguenza, sia cresciuto fortemente il senso di narcisismo che ha portato qualcuno a definire, senza allontanarsi troppo dalla realtà, che siamo dinanzi a una "era del vuoto" (G. Lipovetsky) a causa dell'individualismo contemporaneo. Permane, comunque, una prima questione da risolvere: è proprio necessario, di questi tempi, parlare di verità? Sperimentiamo un tempo di povertà e di estremo disagio, di mancanza cioè di fiducia circa la possibilità stessa per l'uomo di accedere alla verità. A farne le spese, in questo contesto, è per prima la religione. Siamo provocati a difendere la non assurdità della fede, a mostrare che è perfezione e compimento del desiderio umano; e lo dobbiamo fare in un contesto sociale e culturale che sembra trovare grande sollievo nell'attaccare i nostri contenuti e a sbeffeggiare le nostre istituzioni, mentre vige il più ferreo rispetto per altre forme religiose. Da parte di molti, la reazione sembra essere spesso quella di sottacere le differenze e smussare gli spigoli per un generico e frainteso senso di tolleranza. In breve, si ha paura di misurarsi fino in fondo con il problema della verità. La paura per la verità pervade spesso i nostri ragionamenti, obbligandoci a una sorta di strabismo: nella sfera privata conveniamo sulla crisi del tempo presente, mentre in pubblico si preferisce vestire gli abiti più opportuni della tolleranza e del politically correct. Se anche noi pastori, malauguratamente, perdessimo la passione per la verità, allora la nostra pastorale sarebbe condannata all'insignificanza su almeno due fronti: innanzitutto, in quello personale perché perderemmo il rapporto con la nostra identità sacerdotale; inoltre, nei confronti del nostro interlocutore, in quanto non troverebbe mai certezza nei nostri contenuti. In forza di questo, è necessario riproporre con parresia il valore della veracità, cioè dell'amore per la verità. Su questo tema scriveva righe di profonda attualità R. Guardini: "Chi parla dica ciò che è, e come lo vede e lo intende. Dunque, che esprima anche con la parola quanto egli reca nel suo intimo. Può essere difficile in alcune circostanze, può provocare fastidi, danni e pericoli; ma la coscienza ci ricorda che la verità obbliga; che essa ha qualcosa di incondizionato, che possiede altezza. Di essi non si dice: Tu la puoi dire quando ti piace, o quando devi raggiungere uno scopo; ma: Tu devi dire, quando parli, la verità; non la devi né ridurre né alterare. Tu la devi dire sempre, semplicemente; anche quando le situazione ti indurrebbe a tacere, o quando puoi sottrarti con disinvoltura a una domanda" (Le virtù, Brescia, 1972, 21). C'è un imperativo, dunque, a cui non si può né si deve sfuggire: attestare che la verità deve riprendere il suo posto e la sua coerente collocazione non solo nella nostra predicazione e catechesi, ma soprattutto nella vita delle persone perché possano approdare a un'esistenza carica di senso. Con ragione Giovanni Paolo II poteva scrivere: "Bisogna non perdere la passione per la verità ultima e l'ansia per la ricerca, unite all'audacia di scoprire nuovi percorsi. E' la fede che provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero" (FR 56).

3. In questo contesto, si fa più forte il tema della religione. Dovremmo sviluppare la tematica di quale religione è in grado di prospettare coerentemente la dimensione della vita che permette all'uomo di essere pienamente libero e di scegliere l'amore come espressione culminante a cui indirizzare se stesso. Siamo nell'analisi del fenomeno religioso. Uso volutamente questa espressione, perché vorrei inserire non solo il fatto della religione in sé, ma anche come essa storicamente si esprime nella storia e nelle culture. Cos’è la religione e perché l’uomo ne ha bisogno? Ciò che verifichiamo è, anzitutto, la pluralità delle religioni. Il pluralismo religioso permette di verificare dati comuni e differenze proprie alle religioni. L’inserimento nella storia e nella cultura, pertanto, è un dato essenziale per la loro valutazione. Una religione, per esempio, che rimanesse ferma al suo passato senza accettare lo sviluppo che, creando tradizione permette anche il suo progresso, sarebbe facilmente destinata a scomparire presto o tardi dalla faccia della terra. Dall’altra parte, il declino sarebbe inarrestabile se una religione si trasformasse a tal punto da perdere il riferimento alla dimensione spirituale ed etica propria dell’uomo, o creando una forma di schizofrenia tra il contenuto religioso e la norma etica. Pur tra gli aspetti comuni e le differenze particolari, ogni religione presenta una duplice qualificazione: far prendere coscienza all’uomo della sua finitezza, con le contraddizioni che la contraddistinguono, ma accrescendo in lui il senso di infinito. Si tratta, quindi, di motivare l’accettazione di sé e dei propri limiti, di creare lo spazio per incidere sul mondo senza cadere nella pretesa di possederlo, di vivere relazioni interpersonali alla luce del non fare agli altri ciò che non si vorrebbe che questi facciano a noi, di abbandonarsi al mistero nella fiducia di avere una risposta di senso che possa appagare. In una parola, questi elementi permettono di “definire” la religione come la relazione che orienta l’uomo a Dio. Ciò implica un duplice aspetto: che l’uomo è veramente se stesso quando si relaziona con Dio; che il dio con cui entra in relazione sia veramente Dio. Il primo aspetto, infatti, coglie l’uomo come spiritualmente capace del trascendente; anzi, come pienamente uomo in quanto si apre a questa relazione che lo configura nello spazio dell’infinito. Il secondo aspetto, però, deve assicurare che l’assoluto a cui egli si rivolge sia veramente Dio e non una proiezione di sé o fantasia del mondo. La religione, insomma, è veramente tale, quando garantisce all’uomo che la risposta definitiva alla domanda di senso che egli pone lo conduce alla verità su se stesso perché lo relaziona con il Dio vero. Giunti a questo punto, comunque, dovremo considerare la pretesa di verità che possediamo, coniugata con la pretesa di essere la vera religione. Certo, rimane una pretesa che è sostenuta anche da altre religioni, ma nessuno può toglierci questa dimensione che è peculiare della nostra identità. Il problema che si pone non è quello di abolire la pretesa, perché si distruggerebbe la realtà, ma di saperne dare ragione presentando gli elementi oggettivi che fanno del cristianesimo l’espressione culminate del fenomeno religioso. Il tema della verità per ogni religione è essenziale. Senza di essa si arriverebbe a un equivoco rapporto con la divinità, senza avere mai la certezza della sua esistenza e dell’efficacia della preghiera. La relazione tra religione e verità, insomma, è una questione vitale sia per la religione sia per l’uomo che ad essa si affida. E' necessario domandarsi, quindi, in che misura le diverse religioni corrispondono a questa esigenza di senso e in che modo danno la risposta che risulta più coerente non tanto sulle aspettative personali di ognuno, ma sull’oggettiva risposta definitiva di senso che l’uomo in quanto tale, da sempre e in qualsiasi parte della terra attende di ricevere. Una religione vera, pertanto, pur entrando e parlando del mistero, dovrà poter rispondere alla richiesta di sicurezza che l’uomo si attende circa l’orientamento della sua vita. E’ qui che la religione deve saper illuminare sulla questione del “da dove vengo?” e deve indicare la via e gli strumenti per rispondere al “dove vado?”. Questa religione dovrà essere capace di far rientrare il credente in se stesso per accettare il proprio limite e le proprie contraddizioni, perché il Dio a cui si affida lo apre alla speranza del perdono e non gli consente di rimanere sotto il ricatto della colpa. Questa religione dovrà aiutare a trovare i motivi per cui merita impegnarsi nel mondo, assumendo in sé la responsabilità di cambiarlo e trasformarlo secondo un disegno che ha Dio per autore senza, però, rimanere legato nell’immanenza del mondo. Una religione che porta all’uomo la salvezza come offerta definitiva di vita che va oltre la morte, senza annientarlo nel nulla o nella disintegrazione di sé, ma anzi permettendogli di essere pienamente se stesso nella sua libertà. Una religione, insomma, che sa dare risposta globalmente al senso della vita, senza fermarsi ai singoli frammenti che producono verità individuali e per questo incapaci di tenere insieme la globalità dell’esistenza personale, degli uomini e del mondo. Una religione che permette di vivere il mistero del rivolgersi a Dio con una preghiera che dia certezza di non vivere si segni vuoti o riti astratti, ma pienamente inseriti nel tessuto quotidiano della propria esistenza. Si pensi, ad esempio, al valore che l'eucaristia possiede nel sostenere e promuovere una cultura fatta di valori portanti del vivere personale e sociale.

4. Un'attenzione particolare, di conseguenza, spetta al tema della natura, che per molti giovani è ancora uno spazio importante che alimenta la loro sensibilità. Se la tecnica entra direttamente nella natura, tanto da determinare la vita e la riproduzione personale, quale visione dell'uomo e della natura ne conseguiranno? Nel contesto contemporaneo siamo posti dinanzi a una duplice tendenza in proposito: da una parte, si pensa che l'uomo non abbia alcuna essenza naturale; esiste evidentemente una dimensione naturale dell'uomo motivo per cui il biologo studia alcuni dati della natura, ma questo non costituisce la sua identità, ciò che interessa è solo l'intenzionalità e la libertà personale che costituiscono la sua natura e la sua persona. Dall'altra parte, si sostiene che l'uomo deve essere inserito sempre di più all'interno della stessa natura e quindi egli risulta il prodotto di un processo biologico evoluzionista in grado di dare spiegazione a ogni possibile modifica inserita nella natura. Queste due prospettive sono rinvenibili facilmente nel dibattito odierno e in tutte le scienze che se ne occupano; è sufficiente uno sguardo a quanto avviene in tante classi delle scuole medie e superiori per verificare la cultura che si inserisce progressivamente in molti. E' chiaro che una simile divisione di comprensione porta anche a una concezione antropologica differente con le inevitabili conseguenze nel vivere sociale e culturale. Si deve ritornare, a nostro avviso, alla tanto vituperata legge impressa nella natura che permane come regola suprema di vita e principio etico, nonostante lo slittamento che si è creato con i "diritti fondamentali dell'uomo". Questa legge non è una coercizione perché andrebbe contro la stessa natura dell'uomo; essa, al contrario, è una perenne sfida che si pone all'uomo perché in essa possa scoprire come esercitare la sua libertà e la sua progettualità. L'uomo non potrebbe mai porsi dinanzi alla natura in maniera passiva, quasi da essere asservito dalla natura. Conforme alla sua stessa natura, invece, è chiamato a far emergere dalla natura tutte le potenzialità che la spingono ad essere ciò per cui è. Solo in questa reciproca relazionalità, si può pensare di creare progresso coerente tra lo sviluppo della natura mediante l'intelligenza dell'uomo e la realizzazione dell'uomo stesso. La natura, pertanto, ha bisogno dell'uomo per manifestare ciò che è; la cosa straordinaria è che in questa conoscenza, l'uomo scopre di essere uscito lui pure da questa natura e che quindi è il fine verso cui essa tende. Ciò non significa che l'uomo possa fare con la natura tutto ciò che desidera o che vuole. Qui viene a  porsi il primato dell'etica nei confronti di ogni potenzialità che l'uomo scopre nella natura. L'uomo non può creare progresso distruggendo se stesso o sperimentando nella natura umana; questo non è conforme né alla natura che appunto tesa verso l'uomo né alla natura umana che è tesa alla rigenerazione di sé in conformità con ciò che essa naturalmente produce. In questo contesto entra, inevitabilmente, il tema della dignità della natura umana. Proprio perché non è mai un semplice complesso di tessuti, organi e funzioni, ma sempre unità inscindibile di corpo e spirito, la natura umana non potrà mai essere sottoposta alla sola legge biologica senza attentare alla propria salvaguardia. La scienza e la tecnica dinanzi alla natura umana hanno non solo la responsabilità, ma l'obbligo etico di porsi al servizio della persona e dei suoi diritti inalienabili. Dal concetto di persona scaturisce come conseguenza quello della sua dignità e del suo valore universale e, quindi, l'attenzione che è dovuto per ogni persona, per tutta la persona e per il bene di tutte le persone. Non è azzardato affermare che solo nella misura in cui si vuole salvaguardare il concetto di persona e la sua dignità è determinante che essa rimanga legata a Dio che ne garantisce l'esatta comprensione ed esplicitazione. Nella misura in cui si dimentica Dio si dimentica anche la persona che reca impressa in sé la sua immagine e somiglianza; nella misura in cui si dimentica la persona, si dimentica anche Dio che ne è la sua garanzia ultima.

Il valore della testimonianza

 E' inevitabile che questioni come queste si coniugano con il senso di responsabilità che deve crescere e far sentire ognuno coinvolto in prima persona nelle scelte che impegnano non solo il singolo, ma ognuno nella propria relazione interpersonale. Questo tocca in prima persona il nostro essere sacerdoti. Il ministero che svolgiamo ci pone, in primo luogo, dinanzi alla trasmissione della fede. Questa, lo sappiamo, non è un primariamente un contenuto astratto, ma uno stile di vita che scaturisce dalla scelta di porsi alla sequela di Cristo e di assumere in noi la sua parola come promessa e realizzazione di sé.

In questo contesto, emerge la testimonianza come categoria privilegiata per una coerente ed efficace trasmissione della fede. Non per piaggeria, ma per verificare ancora una volta come il linguaggio derivi dalla concettualità e se preso seriamente incida nella formazione del pensiero e dello stile di vita. Nella lingua tedesca, testimonianza si dice zeugnis; ma il verbo zeugen indica in primo istanza "generare". Il senso semantico porta alla considerazione esistenziale: testimoniare è un generare e non c'è vera e piena testimonianza se non si ha generazione. Abbiamo dinanzi a noi un criterio di credibilità e veracità del nostro essere sacerdoti: se siamo capaci di generare in ciò a cui noi crediamo e a cui abbiamo dato la nostra vita.

Questa prospettiva, permette di raccogliere ancora alcuni termini carichi di senso a cui possiamo solo accennare. I nostri giovani vivono una profonda solitudine. Nasce spesso da non sentirsi accolti, accettati per ciò che si è o rifiutati; le diverse forme di tradimento che la vita impone, dall'amicizia all'amore, in famiglia o con i coetanei, fanno emergere in maniera evidente il profondo senso di solitudine in cui molti sono immersi. Diventare noi, per primi, promotori di una cultura che parla di gratuità e perdono non dovrebbe esserci estraneo. Nessuno, tuttavia, potrà essere testimone fedele e, quindi, capace di generare se non avrà lui stesso sperimentato di essere stato gratuitamente amato e perdonato. Sono convinto che i nostri giovani desiderano da noi una testimonianza di gratuità piena e di perdono sincero. Vogliono essere amati per ciò che sono, ma non per questo dobbiamo dimenticare che per noi amare è ricercare senza sosta e con estrema pazienza il loro bene. Davanti alla domanda iniziale: "Cosa dobbiamo fare?", pertanto, trovo solo in maniera disarmante le parole cariche di significato e di impegno di s. Teresa del Bambin Gesù: "Capii che solo l'amore spinge all'azione le membra della Chiesa e che, spento questo amore gli apostoli non avrebbero più annunciato il Vangelo e i martiri non avrebbero più versato il loro sangue".

Per concludere

 "I Presbiteri… non potrebbero essere ministri di Cristo se non fossero testimoni e dispensatori di una vita diversa da quella terrena; d'altra parte, non potrebbero nemmeno servire gli uomini se si estraniassero dalla loro vita e dal loro ambiente. Per il loro stesso ministero sono tenuti con speciale motivo a non conformarsi con il secolo presente; ma allo stesso tempo sono tenuti a vivere in questo secolo in mezzo agli uomini, a conoscere bene –come buoni pastori- le proprie pecorelle… si applichino (quindi) ad esaminare i problemi del loro tempo alla luce di Cristo… Ai nostri giorni la cultura umana e anche le scienze sacre avanzano a un ritmo prima sconosciuto è bene, quindi, che i presbiteri si preoccupino di perfezionare sempre adeguatamente la propria scienza teologica e la propria cultura in modo da essere in condizione di poter sostenere con buoni risultati il dialogo con gli uomini del loro tempo" (PO 3.4.19). Le citazioni del Decreto sul ministero e la vita dei presbiteri sono solo un pallido esempio di quanto il concilio Vaticano II, a più riprese, ha insegnato circa la necessità e l'urgenza di conoscere il mondo a noi contemporaneo con le sue sfide e progetti, con le sue aspirazioni e contraddizioni, perché sempre e dovunque si sia in grado di annunciare con coerenza il Vangelo di Gesù Cristo. Non possiamo lasciarci prendere dalla stanchezza né dallo sconforto. Lo ribadivano sempre i Padri conciliari: "I ministri della Chiesa, e talvolta gli stessi fedeli, si sentono quasi estranei nei confronti del mondo di oggi e si domandano angosciosamente quali sono i mezzi e le parole adatte per poter comunicare con esso. E non c'è dubbio che i nuovi ostacoli per la fede, l'apparente inutilità degli sforzi che si sono fatti finora e il crudo isolamento con cui vengono a trovarsi, possono costituire un serio pericolo di scoraggiamento" (PO 22). Dobbiamo convincerci che la forza che proviene dal Vangelo e la grazia che sostiene il nostro ministero se sono uniti a una coerente conoscenza dei fenomeni e pongono con lucidità una critica intelligente permettono di guardare al futuro con maggior realismo. Il cambiamento culturale è dinamico e sempre aperto a nuovi sviluppi; ad esso, comunque, non può mancare la nostra intelligenza e il nostro impegno perché l'opera di formazione ed educazione alla fede possano sempre dare la genuina e più coerente risposta alla perenne domanda di senso che alberga nel cuore di ogni persona. Questa risposta di senso è la vera strada da percorrere perché il cambiamento culturale in atto sia ancora una volta rivolto all'uomo nella sua integrità e non contro di lui.

 

 


 

Il messaggio teologico della Centesimus annus

Pubblichiamo di seguito il testo dell’intervento tenuto da monsignor Rino Fisichella, Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense e Cappellano della Camera dei Deputati, in occasione di una conferenza organizzata il 4 maggio scorso a Roma dall’Istituto Acton sul tema “La Centesimus annus e il futuro dell’Europa”. L’incontro è servito a celebrare il quindicesimo anniversario di questa Enciclica sociale di Giovanni Paolo II (1° maggio 1991).

"La dottrina sociale della Chiesa? Non esiste". Sono le parole con le quali un teologo di fama, D. M. Chenu, commentava un suo saggio uscito nel 1977. "La Chiesa non può non possedere una propria peculiare dottrina sociale. Questa è la conseguenza della missione stessa della Chiesa; rientra nel contenuto sostanziale e nei compiti del Vangelo". Sono le parole del card. Karol Wojtyla in un'intervista rilasciata nell'estate del 1978. La contemporaneità di questi due giudizi, aveva dato spazio all'epoca per giudicare uno un progressista e l'altro un conservatore. A trent’anni anni di distanza, è possibile verificare la lucida lungimiranza con la quale Giovanni Paolo II giudicava l'impegno della Chiesa in uno dei campi certamente più impegnativi per l'evangelizzazione. La determinazione di D. M. Chenu aveva un suo orizzonte particolare. E' necessario ritornare con la mente a quegl'anni per comprenderne il giudizio affrettato. La teologia politica viveva il suo momento di gloria e la teologia della liberazione faceva sentire i primi vagiti in quanto figlia primogenita. La dottrina sociale della Chiesa appariva agli occhi di molti come obsoleta e ormai anacronistica. Un senso di sfiducia aleggiava volentieri intorno a quella materia, frutto spesso di un persistente, quanto immotivato, rifiuto del sapere metafisico che aveva plasmato nei secoli precedenti i documenti del magistero, non solo sulle questioni di dottrina sociale. Abbandonata la metafisica e le sue diverse mediazioni concettuali e linguistiche, tuttavia, bisognava trovare un'altra mediazione. Sono gli anni in cui avanza forte in teologia la giusta esigenza di un rapporto con le scienze umane e sociali, solo che non sempre si valutavano correttamente i loro fondamenti epistemologici. Aumentava, inoltre, l'interesse per quanto Gaudium et spes aveva proposto circa l'autonomia delle realtà mondane, ma anche in questo caso, si giungeva da parte di alcuni solamente a una parziale comprensione del concetto che, di conseguenza, diventava ambiguo e incoerente con il pensiero conciliare. A posteriori è facile vedere come alla base di questi movimenti vi fosse l'assunto della teologia della secolarizzazione, soprattutto nell'interpretazione protestante, che vedeva il mondo ormai adulto e maturo, autonomo e in grado di trovare da solo le leggi per regolare il suo sviluppo e il progresso verso cui mirava. Di fatto, si spalancavano le porte al dominio della tecnica che oggi vediamo come padrona indiscussa del vivere sociale, senza che vi sia una reale consapevolezza del fenomeno [1].

Nel natale del 1968, Paolo VI faceva visita ai cantieri di Taranto. In quella circostanza, davanti a centinaia di operai il Papa disse: «Noi facciamo fatica a parlarvi, noi avvertiamo la difficoltà di farci capire da voi. O noi, forse, non vi comprendiamo abbastanza? Sta il fatto che il discorso per noi è assai difficile. Ci sembra che fra voi e noi non ci sia un linguaggio comune. Voi siete immersi in un mondo che è estraneo al mondo in cui noi, uomini di Chiesa, invece, viviamo» [2]. L'espressione mostra la profonda sensibilità di Paolo VI che intravedeva il grande silenzio, in quel particolare momento di contestazione sociale, tra la Chiesa e il mondo del lavoro. La sua Populorum progressio (1967) si poneva sulla scia delle grandi encicliche sociali del magistero pietrino precedente e rimane fino ai nostri giorni come una pietra miliare non solo come coerente sviluppo della Rerum novarum, ma soprattutto per le risposte che in quelle pagine vengono date alle questioni nodali che in quei decenni gravavano sull'ordinamento internazionale. Lo sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini come il cuore pulsante della vera giustizia ed espressione di sussidiarietà e solidarietà tra i popoli, rimane l'intuizione più acuta di quelle pagine. La sua conclusione, secondo cui lo sviluppo è il "nuovo nome della pace" (n. 87), si inserisce ormai come un principio fondamentale della dottrina sociale della Chiesa. Lo scenario di scetticismo nei confronti della dottrina sociale della Chiesa, comunque, veniva a scomparire come la nebbia al sole, quando successore di Pietro diventava l'arcivescovo di Cracovia che di persona aveva conosciuto la fatica del lavoro nel periodo di preparazione al sacerdozio. Più volte Giovanni Paolo II ha voluto fare riferimento a questa sua esperienza di vita, quando sotto la dominazione nazista era stato giovane operaio nei cantieri di Cracovia. "(alla fatica fisica) io ero, in certa misura preparato dal lavoro svolto nella cava di pietra e nel reparto del depuratore d'acqua della fabbrica Solvay" [3]. Questa nota biografica da sola basta a far comprendere non solo la capacità comunicativa di Giovanni Paolo II con il mondo del lavoro, ma l'importanza che egli ha voluto dare alla dottrina sociale della Chiesa.

Laborem exercens (1981), Sollicitudo rei socialis (1987) e Centesimus annus (1991), nessuno Pontefice ha scritto tre encicliche su un argomento di dottrina sociale così importante e quanto mai delicato, perché soggetto continuamente alle mutazioni storiche, alle condizioni dei diversi Paesi, alla diversità delle ideologie e ai peculiari sistemi che regolano la vita economica. Ciò che caratterizza il suo insegnamento, comunque, è che egli pone in maniera determinante la questione sociale al centro della missione della Chiesa nella sua sfida per la nuova evangelizzazione. La lettura che egli fa, comunque, è sempre, in prima istanza, teologica; questa dimensione non può essere dimentica senza cadere nel fraintendimento dei contenuti che vengono espressi: "La dottrina sociale della Chiesa non è una "terza via" tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé" (CA 41). Parole chiare che impongono di cogliere il punto di partenza e la prospettiva differente in cui si colloca il magistero della Chiesa.

Entrare nel merito di queste encicliche e nell'insieme del magistero sociale di Giovanni Paolo II, comunque, è possibile se non si dimentica, in primo luogo, la concezione che sta alla base di tutto il suo magistero. Non pensiamo di sbagliare se affermiamo che l'intero insegnamento sociale di Giovanni Paolo II consiste nel favorire, promuove e difendere la centralità e la dignità della persona, di ogni persona, tutta la persona, di tutte le persone senza eccezione alcuna. Un'espressione che troviamo in Centesimus annus è un buon punto di partenza: "Vi è un primo e fondamentale oggetto della dottrina sociale della Chiesa, costituito dalla dignità della persona umana, ossia della verità dell'uomo, nella pluralità dei beni e dei diritti che la esprimono" (CA 11). In questo testo emerge qualcosa di interessante che è utile far rilevare soprattutto perché si colloca in una enciclica che solo apparentemente sembra lontana dalle comuni tematiche di impronta maggiormente teologica. L'inciso che il Papa pone –"ossia della verità dell'uomo"- merita una particolare attenzione.

In questa espressione, infatti, viene specificata la concezione della dignità dell'uomo offerta da Giovanni Paolo II. Il professore di etica sociale all'Università di Lublino non poteva certo soffermarsi su dei particolari contingenti nel dover definire il fondamento della dignità personale. La "verità dell'uomo", pertanto, permane come la condizione permanente entro la quale ricondurre non solo l'identità della persona, ma la sua dignità e la sua realizzazione piena. Anzi, la missione stessa della Chiesa è riconducibile anzitutto all'istanza veritativa; Giovanni Paolo II, infatti, afferma in Redemptor hominis: "La Chiesa appare davanti a noi come soggetto sociale della responsabilità per la verità divina… Il senso di responsabilità per la verità è uno dei fondamentali punti d'incontro della Chiesa con ogni uomo, ed è parimenti una delle fondamentali esigenze che determinano la vocazione dell'uomo nella comunità della Chiesa" (RH 19). Un brano quanto mai significativo che permette di cogliere un tratto peculiare del magistero di Giovanni Paolo II nel suo dialogo con l'uomo contemporaneo. La concezione antropologica che egli esprime lo porta a verificare che in ogni uomo, prima di ogni concettualizzazione si dà l'esperienza di sé e del mondo. Una verità fondamentale che sta alla base di ogni antropologia e che permette ad ogni persona di cogliere se stessa negli atti che esprime [4]. La verità su di sé, diventa la propria verità scoperta e motivata che apre a una verità ulteriore che trascende e completa ogni percezione di verità personale: "Senza questa trascendenza, senza superamento e in un certo senso crescita di sé verso la verità e verso il bene voluto e scelto alla luce della verità, la persona, il soggetto persona, in un certo senso non è se stesso" [5]. In termini ancora più espliciti, Karol Wojtyla anni prima scriveva così: "L'uomo è se stesso attraverso la verità. La relazione con la verità decide della sua umanità e costituisce la dignità della persona"; in termini ancora più decisi: "La dignità propria dell'uomo, quella che gli è offerta nello stesso tempo come dono e come compito da realizzare, si collega strettamente con il riferimento alla verità. Il pensare in verità e il vivere in verità sono le sue componenti indispensabili ed essenziali"[6]. Se si vuole, in piena continuità con questa visione, si pone l’insegnamento di Benedetto XVI quando scrive: “Il primo contributo che la Chiesa offre allo sviluppo dell’uomo e dei popoli non si sostanzia in mezzi materiali o in soluzioni tecniche, ma nell’annuncio della verità di Cristo che educa le coscienze e insegna l’autentica dignità della persona e del lavoro promuovendo la formazione di una cultura che risponde veramente a tutte le domande dell’uomo” [7]. In un periodo in cui l'istanza veritativa sembra caduta nell'oblio, per una forma di debolezza della ragione, non è affatto secondario sentire un richiamo così forte e convinto alla necessità della verità; questo vale ancora di più, quando si affronta il tema dell'impegno sociale del cristiano che deve rendere esplicita la sua adesione alla dottrina nei comportamenti personali, sociali e politici.

Queste indicazioni, portano ora più direttamente al cuore della Centesimus annus alla scadenza del centenario della Rerum novarum. Mentre sullo sfondo si possono leggere gli avvenimenti che portarono alla data storica del 1989 con la caduta del muro di Berlino e la frantumazione del sistema socialista; l'enciclica permette di addentrarsi ulteriormente nella rilevanza di tematiche proprie della dottrina sociale. In primo piano emerge l'analisi del tema del mercato e dello Stato. Da questa prospettiva, l'enciclica riserva delle rimarchevoli novità. Per alcuni versi, essa si inoltra in un giudizio positivo circa ambiti della politica e dell'economia nate nel corso del secolo precedente. Se si pensa, solo per esemplificare, al fatto che la Chiesa lo concepisce alla stregua di una democrazia costituzionale moderna che affonda le sue radici nella "supremazia della legge" (rule of low), sui diritti umani e sul governo della maggioranza (cfr cap V). Questa prospettiva, comunque, non è mai estranea come nei documenti precedenti, da una sua fondazione antropologica (personalismo) e da un giudizio etico (principio di solidarietà e sussidiarietà) che permangono come elementi discrepanti per una coerente dottrina sociale, senza mai far cadere la Chiesa nel pericolo di proporre essa stessa un particolare modello storico o sociologico di società o di governo. E' interessante osservare il progresso che Centesimus annus compie nei confronti della stessa Sollicitudo rei socialis riguardo al tema del capitalismo liberista e del collettivismo marxista.

Lontano da Centesimus annus dover sponsorizzare ingenuamente il trionfo del mercato e della democrazia liberale, ma certamente scompare la posizione di un'equidistanza tra i due modelli. Il socialismo di ispirazione marxista ha mostrato in maniera definitiva il suo fallimento; dal punto antropologico è stato un errore che la storia stessa ha condannato. Le diverse teorie del liberalismo, capitalismo, economia di mercato e democrazia, invece, si sono imposti, la storia non li ha condannati, ma li ha fatti risultare vincenti; la Chiesa, nei confronti di queste espressioni non li condanna, ma sente il dovere di porre dei paletti che permettano di riconoscere la loro coerente validità politica, sociale, economica e morale. E' sufficiente pensare ai temi quali l'importanza della proprietà privata e l'universale destinazione dei beni a cui la stessa proprietà privata è subordinata, per comprendere gli obiettivi reali della dottrina sociale della Chiesa confermati dall'enciclica: "Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno"; l'uomo con il suo impegno e il suo lavoro, tuttavia, "fa propria una parte della terra (CA 31).

E' merito di Giovanni Paolo II, comunque, aver messo in guardia da una "idolatria del mercato" (CA 40) come se la soluzione di tutti i problemi consista nell'abbraccio acritico al "libero sviluppo delle forze di mercato" (CA 42) privo di regole e leggi che ne segnano lo spazio e i confini. L'enciclica non sposa la tesi del laissez-faire; certo, essa sostiene che il "libero mercato sia lo strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogno" (CA 34), ma questo deve essere "opportunamente controllato dalle forze sociali e dallo Stato, in modo da garantire la soddisfazione delle esigenze fondamentali di tutta la società" (CA 35). Insomma, da ogni parte ci rivolgiamo, anche quest'ultima enciclica pone sempre e soltanto la persona al centro con le esigenze che le sono proprie ed essenziali. Le strutture di mercato, quindi, non possono sottostare passivamente all'ideologia consumistica secondo la quale è il consumatore che decide; senza dire, però, che è stato corroso nelle sue scelte da bisogni effimeri a cui è stato indotto in maniera sublimale. La logica del mercato richiede una preparazione che sappia coinvolgere la persona nei suoi beni essenziali e costitutivi senza cedere a leggi che, a lungo andare, impoveriscono la vera risorsa di tutto: l'uomo. Non si può dimenticare, quindi, l'imperativo di Giovanni Paolo II: "La principale risorsa dell'uomo insieme con la terra è l'uomo stesso" (CA 32).

Non stonerà, come conclusione, riprendere un’ultima espressione di Giovanni Paolo II: "Il cristianesimo vede l'ordine sociale non solo nella dimensione della giustizia, ma anche in quella dell'amore e non può rinunciarvi, nonostante la dialettica materialista della storia. E "Amore" significa sempre l'irruzione dello Spirito nel mondo dell'uomo" [8]. Una dottrina sociale, come si può osservare, che si pone con la carica della sua forza profetica nel contesto del mondo contemporaneo, a volte confuso e incerto, per orientare lo sguardo verso finalità che solo nella responsabilità partecipata e nella comune ricerca possono aprire un orizzonte carico di senso. + Rino Fisichella

NOTE

[1] R. Guardini fu tra i primi a valutare il pericolo nel suo Das Ende der Neuzeit (1950), lo seguì a breve distanza M. Heidegger nel suo Ormai solo un dio ci può salvare,1966 (pubblicata postuma nel 1976): "Tutto funziona. Questo è appunto l'inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica sradica l'uomo sempre più dalla terra… non c'è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell'uomo è già fatto. Tutto ciò che resta è una situazione puramente tecnica. Non è più la terra quella su cui l'uomo vive" (133-134).

[2] Paolo VI, Discorso agli operai di Taranto, 25 dicembre 1968.

[3] Giovanni Paolo II, Dono e mistero, Città del Vaticano, 1996, 62.

[4] E' necessario qui fare riferimento al volume Persona e atto che esprime la dimensione antropologica alla luce dell'esperienza personale.

[5] K. Wojtyla, Perchè l'uomo. Scritti inediti di antropologia e filosofia, Milano 1995, 80.

[6] Idem, Segno di contraddizione, Milano 1977, 133.

[7] Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima 2006.

[8] K. Wojtyla, La Dottrina sociale della Chiesa, Roma 2003, 55.

(Zenit, 22 maggio 2006)

 

 


 

 

ANNO 2005

 

Educare ai valori per sconfiggere il relativismo

Testo della riflessione tenuta ai sacerdoti del Settore Sud della Diocesi di Roma nell’incontro del 15 dicembre 2005.

Oltre il divario tra fede e cultura

"I Presbiteri… non potrebbero essere ministri di Cristo se non fossero testimoni e dispensatori di una vita diversa da quella terrena; d'altra parte, non potrebbero nemmeno servire gli uomini se si estraniassero dalla loro vita e dal loro ambiente. Per il loro stesso ministero sono tenuti con speciale motivo a non conformarsi con il secolo presente; ma allo stesso tempo sono tenuti a vivere in questo secolo in mezzo agli uomini, a conoscere bene – come buoni pastori - le proprie pecorelle… si applichino (quindi) ad esaminare i problemi del loro tempo alla luce di Cristo… Ai nostri giorni la cultura umana e anche le scienze sacre avanzano a un ritmo prima sconosciuto; è bene, quindi, che i presbiteri si preoccupino di perfezionare sempre adeguatamente la propria scienza teologica e la propria cultura in modo da essere in condizione di poter sostenere con buoni risultati il dialogo con gli uomini del loro tempo"[1].

Le citazioni del Decreto sul ministero e la vita dei presbiteri sono solo un pallido esempio di quanto il Concilio Vaticano II, a più riprese, ha insegnato circa la necessità e l'urgenza di conoscere il mondo a noi contemporaneo, con le sue sfide e progetti, con le sue aspirazioni e contraddizioni, perché sempre e dovunque si sia in grado di annunciare con coerenza il Vangelo di Gesù Cristo. I cristiani vivono nel mondo e sono inseriti all'interno dello stesso processo culturale che accomuna le altre persone e le società. Da sempre, la nostra presenza è stata caratterizzata da un'attenzione peculiare perché i diversi movimenti culturali all'interno dei quali siamo inseriti fossero letti e interpretati alla luce di Cristo[2]. Non potrebbe essere altrimenti. Sulla parola del Signore, siamo inviati nel mondo per portare un annuncio di salvezza che sia in grado di dare risposta definitiva alla domanda ultima sul senso della vita.

Se questo ha valore per ogni singolo credente, acquista maggior obbligatorietà nei confronti del sacerdote per le responsabilità proprie che possiede e il ministero che svolge. La dialettica che lo pone all'interno del vivere sociale e civile, ben sapendo di non poter esserne pienamente parte, non lo esonera dall'abbracciare queste situazioni per essere capace di pronunciare una parola significativa nella sua azione pastorale. Ciò che, primariamente, è chiamato a compiere perché il suo ministero possa essere coerente e fecondo è la conoscenza dei fenomeni culturali che sono alla base dei comportamenti delle persone e delle società. Solo in questo modo, infatti, la sua azione pastorale sarà coerente e in grado di sviluppare una predicazione e una catechesi che siano non solo comunicabili, ma efficaci presso il suo interlocutore. Corriamo il grave rischio di utilizzare linguaggi che non sono più adeguati alle categorie di pensiero del nostro contemporaneo e questo porta alla inefficacia nella comunicazione del contenuto della nostra pastorale. Superare la barriera della non comunicabilità è possibile solo nella misura in cui i nostri linguaggi saranno costruiti in modo tale da raggiungere l'interlocutore là dove egli pensa e costruisce la sua vita con modelli e stili di comportamento che sono il frutto più evidente della cultura. Per essere propositivi, quindi, è importante che il contenuto della nostra azione pastorale passi per un'accurata analisi del fenomeno culturale per poter incidere in esso con un orientamento capace di esprimere nuovi stili di vita coerenti con la Parola di Dio e nello stesso tempo capaci di essere compresi nel fluttuare della dinamica culturale.

Già nel 1974, Paolo VI denunciava che uno dei drammi della nostra epoca era costituito dalla rottura tra la cultura e la fede[3]. Ne è derivato che la cultura si è indebolita e frammentata, mentre la fede si è rifugiata nell'esperienza individuale. Ambedue le condizioni non hanno permesso un rinnovato rapporto di responsabilità nei confronti della costruzione di nuovi modelli culturali, soprattutto da parte di quanti hanno il compito della formazione. Sorge, pertanto, l'urgenza di presentare in "termini culturali moderni il frutto dell'eredità spirituale, intellettuale e morale del cattolicesimo"[4] anche per evitare il rischio di una diaspora culturale che per ciò stesso avrebbe poca incidenza per la sua connaturale debolezza. Il rispetto che nutriamo per le diverse culture a cui apparteniamo non impedisce di avere tra i credenti un'unità basilare ancora più profonda. D'altronde, ogni cultura, per sua stessa natura, è capace di immettere in sé e sviluppare con i linguaggi suoi propri la verità della fede. La verità cristiana per la sua istanza di universalità è l'unica in grado di assumere quanto di vero è presente nelle culture e di inserirsi in esse permettendo uno sviluppo di progresso nella creazione di un genuino umanesimo.

La metamorfosi culturale

Viviamo un momento importante della storia. I grandi cambiamenti che sono sotto i nostri occhi coinvolgono in modo particolare la mutazione dei paradigmi di pensiero che dall'antichità ai nostri giorni si sono sviluppati in maniera dinamica, ma coerente. Assistiamo a una sostanziale modificazione dei concetti basilari della cultura quali quello di natura-mondo, uomo-dio, spazio-infinito, tempo-eternità, libertà-verità, diritto-giustizia… solo per fare alcuni esempi. Il pluralismo di posizioni presente nella società impone ai credenti, di volta in volta, una riflessione che si faccia carico non solo di chiarificare i concetti in questione, ma anche di codificare nuovi linguaggi che esprimano con coerenza i contenuti di sempre e ne supportino i conseguenti stili di vita.

La sfida che si pone sul nostro terreno non è affatto di secondo ordine; al contrario. Essa impone di focalizzare lo sguardo perché la mente possa cogliere in profondità l'essenza delle problematiche in gioco e comprenda quanto sia necessaria la nostra presenza nell'agone delle idee e dei progetti perché non avvenga che quanti hanno non solo il diritto, ma la responsabilità di intervenire nel pubblico dibattito siano strumentalmente confinati in un angolo con una emarginazione del tutto ingiustificata. La ricchezza del nostro pensiero, che si fa forte di duemila anni di storia e di tradizione filosofica, letteraria e scientifica è di notevole supporto a ogni cultura che voglia sviluppare in sé concetti e linguaggi che mostrino il reale progresso verso cui si è indirizzati. Una società che volesse escludere o solo emarginare il cristianesimo sarebbe per ciò stesso destinata a un'inevitabile autodistruzione. Non avrebbe in sé, infatti, la forza creatrice e propulsiva di nuove istanze sull'uomo e la sua vita, elementi che provengono solo dalla fede e dalla sua verità. In ogni tempo, in ogni cultura che abbia creato progresso e sia stata promotrice di ricchezza intellettuale, il cristianesimo è sempre stato presente come stimolo per produrre una cultura capace di esprimere un vero umanesimo e come forte strumento di coesione per la società.

La missione propria della Chiesa, in questo frangente storico, non è diversa dal passato; è chiamata a trasmettere quanto ha ricevuto dal suo Signore (cfr. Mt 28,20). Deve essere capace, comunque, di effettuarlo con un annuncio che giunga a tutti, senza distinzione alcuna, perché il contenuto del suo messaggio consiste nella verità sulla vita dell'uomo. Questa verità non è desunta, primariamente, dall'esperienza personale, ma espressa e fatta conoscere per via di rivelazione da parte del Figlio di Dio[5]. Nel mistero della sua incarnazione egli porta a compimento la Rivelazione promessa e con la sua vita segna il punto culminante per dare senso al mistero dell'uomo[6]. Questa dimensione che sembra ovvia, costituisce invece il fondamento della missione della Chiesa. Senza la missione non c'è Chiesa, ma la missione è annuncio di una verità che è stata consegnata con la responsabilità di essere mantenuta dinamicamente integra fino alla fine dei tempi. Ciò comporta l'attenzione che è dovuta a due elementi costanti. Da una parte, la missione della Chiesa nel suo annuncio di verità; dall'altra, il destinatario dell'annuncio: il nostro contemporaneo. Dimenticare una sola di queste due componenti o limitarne lo spazio ad una sola comporterebbe inevitabilmente uno squilibrio che di fatto comprometterebbe sempre la missione della comunità credente. La trasmissione della Parola di Dio deve avvenire con la fedeltà al contenuto, ma senza dimenticare a chi è indirizzato. Ne va non solo della comunicazione presso il contemporaneo, che ha il diritto di ricevere il contenuto salvifico a cui aderire che lo coinvolga a tal punto da permettergli una scelta radicale di libertà con l'atto di fede; ma anche della vitalità con la quale il contenuto deve essere trasmesso per essere efficace presso tutti.

E' necessario, a questo punto, che si affronti la questione nodale del nostro tema: in quale contesto si inserisce l'annuncio della verità salvifica di Gesù Cristo che la Chiesa compie? Questa domanda non è retorica né ovvia. Essa, al contrario, obbliga a delineare lo spazio culturale entro cui vivono il credente e il destinatario dell'annuncio. Misconoscere questa dimensione equivarrebbe a non comprendere le vie entro cui la cultura si sviluppa e le forme della sua comunicazione; si vivrebbe, quindi, con l'illusione che il nostro linguaggio sia compreso e accolto nella stessa misura di sempre, il che è almeno da porre in discussione.

A livello di analisi dei movimenti culturali sappiamo cosa stiamo lasciando, ma non sappiamo verso dove stiamo andando. Se il passato si lascia descrivere con qualche sicurezza, anche se non senza difficoltà, il futuro, invece, rimane ancora avvolto nell'oscurità dell'ipotetico. Stiamo lasciando alle spalle la modernità, che fino ad oggi, nonostante tutto, non si riesce ancora a definire con contorni chiari e si è incamminati verso la postmodernità, che già dal suo nascere porta con sé l'ambiguità del concetto.

La modernità, di cui siamo figli, è ciò che ha permesso di cogliere il valore della soggettività. Alla luce della trasformazione filosofica, che vede Kant come fedele continuatore della scoperta cartesiana del cogito, tutto è puntato sulla scoperta del soggetto come unica fonte di conoscenza veritativa e di libertà. In questo processo, tuttavia, si è aperto lo spazio della secolarizzazione che ha segnato il suo punto culminante della parabola della modernità, sconfinando nell'attuale supremazia del soggettivismo. Questa forma estrema, attuata con passi lenti ma inesorabili, ha condotto a forme culturali che ponevano l'autonomia dell'uomo soprattutto dalla fede nella rivelazione.

In una parola, si è voluto creare uno iato tra Dio e l'uomo, con la convinzione che si sarebbe finalmente raggiunta l'autonomia e la libertà di quest'ultimo. Ne è derivato che si è esaltato l'uomo a spese di Dio e contro Dio. Questa condizione, tuttavia, ha inesorabilmente condotto l'uomo a perdere il ruolo centrale che possedeva. Tolto il riferimento a Dio, egli ha perso anche il ruolo che aveva nella creazione. Non è più al centro del creato, ma costituisce solo una parte qualsiasi del mondo. Le tendenze attuali che vedono la sperimentazione come il culmine della scienza e del progresso, non fanno che dimostrare la tendenza di marginalizzazione che coinvolge direttamente l'uomo. Lo rilevava con lucidità Evangelium vitae: "Del resto, una volta escluso il riferimento a Dio, non sorprende che il senso di tutte le cose ne esca profondamente deformato e la stessa natura, non più "mater", sia ridotta a "materiale" aperto a tutte le manipolazioni"[7]. Ciò che ha creato maggior preoccupazione in questo frangente è il fatto che questo uomo, teso verso la sua piena autonomia indipendente da ogni forma di autorità divina è caduto nelle mani di potenze anonime a cui non può ribellarsi proprio perché anonime. Il fenomeno sempre più marcato del condizionamento espresso dai modelli televisivi non fa che rendere evidente il pericolo e la grande sfida con cui ci si incontra. In una parola, tolto il fondamento dell'esistenza personale, si è caduti nella trappola dell'effimero che apre a una preoccupante era del vuoto, soprattutto con la perdita del senso di responsabilità[8]. L'ambigua concezione di libertà, il forte soggettivismo che non sa più riconoscere il valore della verità perenne e, soprattutto, l'eclissi del senso di Dio, dunque, hanno portato a dimenticare il valore della vita e a disinteressarsi del fratello che vive accanto a tal punto da verificare che una società che si proclama civile ed evoluta è sempre più barbaramente rinchiusa nel circolo della morte.

L'orizzonte che si avvicina

Una cultura postmoderna verso dove si muove? Ciò che crea problema nel dover rispondere a questa domanda è che cosa sarà messo al centro delle nostre riflessioni. Chi sarà il fortunato protagonista entro cui la postmodernità si potrà riconoscere: l'uomo? oppure la natura? oppure Dio? I tre elementi oggi sembrano porsi sullo stesso piano. In ogni caso, sarà necessario chiedersi: quale sarà la concezione di uomo? Con quale concetto di natura ragioneremo? Quale idea di Dio prenderà posto nei prossimi decenni?

Quale uomo sarà quello che vuole dominare la scena del futuro: un soggetto ancora al centro, quasi un microcosmo in cui tutto trova sintesi definitiva del suo essere personale; oppure un individuo ormai schiacciato dal peso della tecnica? E quale natura sarà alla base delle prossime legislazioni? Il concetto di natura immutabile con le sue leggi oppure una materia che è sottoposta alla manipolazione genetica e, quindi, una natura in cui tutto è possibile perché giustificato previamente dal giudizio etico soggettivo? E se sarà Dio, in un contesto di confuso confronto con le religioni a cui è sotteso un inevitabile sincretismo, quale idea di Dio sarà presente nell'immediato futuro?[9].

Sullo sfondo, è necessario porre anche il tema della tecnica e il suo imporsi nell'organizzazione della vita sociale con l'imposizione di visioni del mondo prima inaspettate. Se, infatti, la tecnica è in grado di determinare l'esistenza personale fin dai suoi primordi e neppure la scienza sente il bisogno di porre limiti alla sperimentazione sulla cellula umana, scavalcando le stesse regole che si era data in precedenza, allora non si potrà che verificare le logiche conseguenze. L'uomo, sulla scena del teatro di questo mondo, non potrà più giocare il ruolo di protagonista a cui si era abituato per secoli, ma deve necessariamente lasciare il posto a chi ora pretende di determinare la sua stessa esistenza. Si riaffaccia sulla scena del mondo la tetra figura di Medea che uccide i suoi figli; è proprio così, la tecnica creata dall'uomo per rendere più umana la sua esistenza, sembra respingere in un angolo l'uomo stesso quasi si trattasse di un nuovo e mai mutato complesso di Edipo. E' ormai condivisa l'analisi secondo la quale il nostro contemporaneo ha talmente delegato la tecnica a produrgli ogni cosa, da non comprendere più il grave pericolo in cui è caduto. La tecnica, infatti, ha assunto il ruolo di domina non solo della natura, ma anche dell'uomo riducendolo a un oggetto della sua sperimentazione senza curarsi più delle sue reazioni. Se cresce la tecnica, ma non aumenta di conseguenza anche l'orizzonte spirituale dell'uomo e la persona non permane in una dinamica di maturazione verso la trascendenza, allora si viene spogliati di ciò che possediamo come di più prezioso: la coscienza di sé, del proprio limite e dell'apertura infinita verso cui si è indirizzati[10]. Condizione mortale, perché in questo modo non solo cessa il vero progresso, ma l'uomo stesso muore per asfissia. Egli, infatti, non ha più uno spazio spirituale che gli consente di andare oltre se stesso verso quell'orizzonte di senso ultimo che da risposta alle sue domande fondamentali. Per paradossale che possa sembrare, la tecnica allontana anche ogni domanda sul limite, illudendo di una eternità che non può essere data dalla produzione dell'uomo. Si dovrà guardare con occhio vigile a come il pensiero filosofico e culturale in genere si porrà nel prossimo futuro nei confronti della sofferenza e della morte; è qui, infatti, che ritorna la perenne domanda di senso e le varie visioni trovano la loro barriera insormontabile.

Ritorna con prepotenza, come si nota, il tema di fondo che sta alla base di ogni processo culturale e che provoca anche i credenti a dare il loro originale e insostituibile apporto. Nell'areopago del mondo contemporaneo è necessario porre in primo piano il problema della concezione della vita umana. La vera sfida che si staglia nei confronti del pensiero in generale e della politica più direttamente, è la stessa concezione della vita personale e le modalità della sua genesi, durata e termine ultimo. La sacralità della vita è oscurata per la tenacia di imporre una visione tecnicista, edonista ed effimera come se tutto dipendesse dal puro caso o dalla sperimentazione arbitraria e dove tutto si vive, cogliendo solo il semplice frammento, senza preoccuparsi di una progettazione personale compiuta nella libertà che aprirebbe a spazi di vero futuro. Il mistero della vita viene frantumato per l'arroganza di voler dare a tutto una spiegazione scientifica, partendo da teorie che non intendono limitare l'uso della scoperta al principio etico.

La prima conseguenza si manifesta nella cultura generalizzata secondo cui ciò che differenzia le persone non è la sessualità che è stata donata con il corpo, ma il genere che si è scelto di vivere. Il genere diventa la costruzione sociale in alternativa al sesso, come espediente per esprimere una libertà individuale di voler essere se stessi non in forza della natura, ma della propria volontà[11]; espressione di libertà che si manifesta subito fragile e fittizia e che solo una impenitente faziosità persiste nel difendere. Tolta in questo modo, la differenza tra uomo e donna, si comprende facilmente che viene posta in crisi la prima cellula su cui la società si fonda: la famiglia. Carichi di una visione ideologica, che vuole relegare la concezione cristiana del matrimonio e della famiglia nella sfera dell'oscurantismo e della subordinazione della donna all'uomo, si insinua sempre più una visione individualista ed egoista della relazionalità tra le persone che mette in crisi l'istituzione stessa. Superfluo ricordare che la situazione di crisi che ha toccato la famiglia non fa altro che manifestare la permanente instabilità e crisi della società stessa. Se una società, infatti, è costretta a verificare che al suo interno lo stile di vita che progressivamente si assume è quello del vivere soli, allora si dovrà almeno riflettere sul senso stesso dell'essere societas. Se un Paese inizia ad avere un quarto o un terzo della popolazione che vive solo, allora è necessario che almeno per spirito di sopravvivenza si affronti la problematica e si trovino strumenti idonei per porre rimedio.

Questo quadro ha bisogno di essere integrato dal tema della verità. Giovanni Paolo II nella sua enciclica Fides et ratio ha permesso di evidenziare alcuni aspetti peculiari della problematica. Ciò che oggi si percepisce in maniera evidente è la frammentarietà del riferimento alla verità, preannunciata e costruita dal nihilismo nietzschiano, e il desiderio di ritornare a una unità del sapere: "È così accaduto che, invece di esprimere al meglio la tensione verso la verità, la ragione sotto il peso di tanto sapere si è curvata su se stessa diventando, giorno dopo giorno, incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto per osare di raggiungere la verità dell'essere. La filosofia moderna, dimenticando di orientare la sua indagine sull'essere, ha concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità che l'uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i limiti e i condizionamenti. Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo. Di recente, poi, hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare perfino quelle verità che l'uomo era certo di aver raggiunte. La legittima pluralità di posizioni ha ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull'assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi più diffusi della sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto contemporaneo… sono emersi nell'uomo contemporaneo, e non soltanto presso alcuni filosofi, atteggiamenti di diffusa sfiducia nei confronti delle grandi risorse conoscitive dell'essere umano. Con falsa modestia ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza più tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana, personale e sociale" (FR 5).

Passione per la verità

Le parole dell'enciclica sembrano voler condensare il fatto secondo il quale non esiste più alcun fondamento. L'emotività sostituisce la ragione e diventa presso le nuove generazioni criterio di verità e principio etico! E' valore solo ciò che è soggettivamente percepito come un bene o sentito emotivamente come tale. Da questa prospettiva, spiace dirlo, si vive un periodo di povertà, di forte disagio, di grave mancanza di fiducia nella possibilità stessa di ogni persona di accedere alla comprensione di sé. Si preferisce sottacere sulle differenze, lasciare in ombra i conflitti come se non esistessero e smussare gli spigoli. In breve, si ha paura di misurarsi fino in fondo con il problema della verità. Il primo a farne le spese è il cristianesimo. Bersagliato ogni giorno da una costante critica sul proprio annuncio e sul modello di vita che propone è costretto con estrema fatica a difendere la non assurdità della fede oppure a mostrare la stessa fede quale perfezione e compimento dell'umano[12]. La paura per la verità pervade spesso i nostri ragionamenti. Soprattutto chi è abilitato a un ruolo pubblico, in forza del ruolo che riveste con il ministero, è tentato di timidezza o, peggio, di assuefazione alla cultura dominante. Bisognerebbe riproporre con coraggio le parole di R. Guardini: "Chi parla dica ciò che è, e come lo vede e lo intende. Dunque, che esprima anche con la parola quanto egli reca nel suo intimo. Può essere difficile in alcune circostanze, può provocare fastidi, danni e pericoli; ma la coscienza ci ricorda che la verità obbliga; che essa ha qualcosa di incondizionato, che possiede altezza. Di essi non si dice: Tu la puoi dire quando ti piace, o quando devi raggiungere uno scopo; ma: Tu devi dire, quando parli, la verità; non la devi né ridurre né alterare. Tu la devi dire sempre, semplicemente; anche quando le situazione ti indurrebbe a tacere, o quando puoi sottrarti con disinvoltura a una domanda"[13]. C'è un imperativo, dunque, a cui non si può né si deve sfuggire: attestare che la verità deve riprendere il suo posto e la sua coerente collocazione non solo nell'organigramma delle scienze, ma soprattutto nella vita delle persone perché possano approdare a un'esistenza carica di senso.

Se queste parole sono valide per ogni uomo che porta in sé il desiderio della verità, suonano con maggior carica di significato per il credente che vede nel volto di Cristo l'immagine stessa della verità (cfr Gv 14,6). Il ministero che siamo chiamati a svolgere noi vescovi e i sacerdoti in comunione con noi, obbliga a fare della verità la propria compagna di vita. Il panorama che abbiamo descritto presenta i punti nodali su cui la nostra attenzione dovrebbe concentrarsi per permettere che lo studio e la riflessione abbiano a fornire una risposta carica di senso. Certamente il mondo in cui viviamo presenta tratti di grandi potenzialità e aspetti positivi che appartengono ormai al tessuto della nostra vita quotidiana. Proprio questa consapevolezza del grande bene che è presente nel mondo e della forte maturità che è stata raggiunta consente di esprimere un giudizio anche sugli aspetti che limitano il vero progresso dell'umanità e trattengono la corsa verso la piena umanizzazione. Non saremmo mai sentinelle del mattino (Is 21,6) se non restassimo vigili nella nostra azione pastorale dinanzi alle sfide che la scienza, la tecnica, la cultura e le ideologie in genere pongono sul nostro cammino.

Ripartire dalla persona

Questa memoria deve riprendere posto ai nostri giorni, non per vanagloria né per trionfalismo alcuno, ma solo ed esclusivamente per permettere un salto qualitativo nell'attuale momento di passaggio culturale. Vorrei solamente accennare al ruolo determinante che l'occidente ha avuto nel momento in cui ha compreso l'originalità del concetto cristiano di persona. Se si vuole, è intorno a questo termine che si può rileggere la storia del progresso e della maturazione civile, culturale, sociale e politica. Fino al IV secolo, il termine è soggetto a una lunga discussione sul suo significato più coerente. Nell'accezione latina –che risentiva dell'origine etrusca- il termine persona va ricondotto allo spazio del teatro; indica la maschera che copriva il volto dell'attore. Nella semantica greca, il termine pròsopon indica ugualmente la maschera teatrale, ma insieme ad esso anche "che cade sotto gli occhi", "ciò che si vede". La diatriba sul termine nasce proprio nel momento in cui si vuole esplicitare la fede nella Trinità e la presenza di tre persone con un'unica natura; alla stessa stregua, i primi cristiani dovevano esplicitare nei confronti di Gesù Cristo, sul fatto che la sola persona divina era presente nella natura umana e in quella divina. Si deve alla grande intelligenza di Agostino la soluzione più adeguata che rimarrà fino ai nostri giorni. Egli ha saputo armonizzare il termine con il concetto, mostrando che la persona è se stessa nella relazione con l'altro. Saranno i concili, in seguito a stabilire dogmaticamente l'esattezza della formula; ciò che importa, comunque, è verificare che sulla base della chiarificazione trinitaria e cristologia del concetto si viene a produrre una delle conquiste più rivoluzionarie della cultura universale. Persona è un'identità propria che si qualifica nella sua relazione con l'altro. Per cogliere in profondità il valore semantico, è necessario comprendere la sua derivazione dalla sfera della fede nella Trinità. Nell'unità della natura divina, che non è divisa, ma partecipata totalmente, le tre Persone si qualificano e differenziano come Padre, Figlio e Spirito Santo; ognuna delle tre persone vive solo in relazione con l'altra in una forma di donazione e accoglienza totale che permette loro di essere identificate come Padre che tutto dona, Figlio che tutto riceve e Spirito Santo come Frutto del tutto dare e del tutto ricevere. La persona, insomma, si qualifica per la relazione d'amore che le permette di essere ciò che è.

E' alla luce di questa prospettiva che possiamo comprendere il valore portante della persona nel mondo contemporaneo e lo sviluppo che essa ha avuto nelle diverse istanze scientifiche. Dal concetto di persona scaturisce come conseguenza quello della sua dignità e del suo valore universale e, quindi, l'attenzione che è dovuta per ogni persona, per tutta la persona e per il bene di tutte le persone. Non è azzardato affermare che solo nella misura in cui si vuole salvaguardare il concetto di persona e la sua dignità è determinante che essa rimanga legata a Dio che ne garantisce l'esatta comprensione ed esplicitazione. Nella misura in cui si dimentica Dio si dimentica anche la persona che reca impressa in sé la sua immagine e somiglianza; nella misura in cui si dimentica la persona, si dimentica anche Dio che ne è la sua garanzia ultima.

La crisi di identità che l'Europa vive è sotto gli occhi di tutti. Tolto il concetto di persona si allontana quello della sua sacralità e tutto cade nell'arroganza del più forte. Ne deriva la pretesa di imporre il diritto individuale su quello sociale e la conseguente distruzione di modelli sui quali l'occidente è fondato. Imporre l'esistenza del diritto individuale porta a imprimere nella società la volontà degli individui, spezzando in questo modo il concetto stesso di persona come relazione. Contraddizione insanabile, frutto dell'individualismo che regna sovrano, avendo distrutto ogni possibile tensione verso il bene comune. La prima conseguenza di questo stato di crisi è la solitudine in cui è caduto l'uomo contemporaneo. Privo di una relazione salda che gli consente di comprendere se stesso, è diventato ormai estraneo a se stesso; incapace a doversi collocare e comprendere tende a rinchiudersi in sé con la conseguente mancanza di amore e donazione gratuita. I rapporti diventano soggetti all'interesse individuale e la violenza dell'uno sull'altro ha la meglio. In questo contesto è necessario porre anche la crisi del matrimonio e della famiglia. Incapace a essere se stesso e colto dalla paura di una incapacità stabile alla relazionalità e all'amore, si apre la strada a modelli che contraddicono e distruggono ogni relazione sociale. Il tentativo di minare alla base anche lo stesso concetto di matrimonio monogamico e tra persone di sesso diverso non è che espressione dell’attacco ad uno degli ultimi bastioni che una cultura in crisi intende abbattere per l'imposizione di un progetto, estraneo al mondo, alla natura e alla stessa cultura e che ha il solo intento di eliminare l'uomo.

La Chiesa ha una profonda responsabilità in questo momento. Senza alcuna forma di presunzione, a me sembra che sia rimasta solo lei a far sentire la sua voce per fermare questo insano desiderio di autodistruzione. E' importante, quindi, che la Chiesa provochi a una riflessione che prendendo la recta ratio come compagna di strada, illumini anche i molti non credenti, che sparsi per le diverse strade del mondo hanno compreso i gravi rischi a cui l'Occidente è esposto. Si tratta, in ultima analisi, di riprendere a cercare con maggior vigore e insistenza il bene dell'uomo, a quanto egli produce con sapienza e a farlo diventare responsabile del suo futuro. Tolta la parentesi in cui tutto gli viene concesso in forza di un diritto soggettivo che lo ha viziato facendolo sentire come figlio unico, è determinante recuperare il senso della relazionalità in quanto parte di un'unica famiglia. L'assunzione del principio di responsabilità è una delle priorità che vediamo all'orizzonte; esso impegna a una fatica che sa rimettere alla base i veri diritti iscritti nel cuore di ogni uomo e per ciò stesso garanti dell'uguaglianza e della libertà a cui il legislatore deve ispirare la sua opera. Come credenti nella vittoria del bene sul male sempre e dovunque, noi lavoriamo perché la crisi che stiamo vivendo possa trasformarsi in un reale momento di confronto e di progresso per tutti.

Sono convinto che solo mediante un recupero forte del concetto di tradizione questo sarà possibile. La tradizione, infatti, è forma di una trasmissione che inserisce in un processo più ampio e che genera conoscenza; a nostro avviso, esprime una risorsa di cui i credenti anzitutto dovrebbero farsi carico. La tradizione per noi non significa soltanto il riferimento a una storia bimillenaria che, nel bene e nel male ci appartiene, indica, piuttosto, la partecipazione diretta a una viva trasmissione della fede che ispira e genera cultura. I cristiani dovrebbero ricuperare, in questo frangente, la memoria perenne dell'evento salvifico di cui sono responsabili nel mondo e, all'interno di questo momento, ripensare il ruolo della loro partecipazione alla missione evangelizzatrice della Chiesa in Europa. Ogni azione credente, infatti, anche quella sociale, politica e culturale porta con sé la peculiarità di essere annuncio del vangelo che salva. Il recupero del senso della tradizione e del suo valore per la costruzione dell'Europa è una strada da percorrere. Essa non è semplice; richiede, infatti, uno sforzo di originalità e un recupero di spessore speculativo. Per alcuni versi, comunque, la strada viene spianata per l'apporto di alcune scuole filosofiche che hanno posto come tema centrale della loro ricerca la tradizione. Avendo a fondamento una seria riflessione filosofica e la ricchezza teologica della concezione cattolica sulla tradizione, è possibile identificare l'apporto peculiare che si è chiamati a portare nel sorgere della nuova Europa. Se i credenti perderanno il senso e il peso della tradizione, il rischio per aver costruito un'Europa sulle fragili fondamenta di un interesse puramente economico sarà irreversibile ed essi ne saranno in parte responsabili. Se, invece, il recupero della coscienza storica farà da sostegno, allora anche le obiezioni e gli scetticismi di oggi potranno essere risolti e svanire alla vista della ricchezza che la tradizione ha saputo mantenere.

La Chiesa, in questo frangente, forte della sua storia di maestri e di santi che hanno reso queste terre fermento continuo di cultura e di civiltà, si sente interpellata direttamente ad assumersi le sue responsabilità. Essa dovrà instancabilmente riproporre la fede in Gesù Cristo morto e risorto come premessa per il riconoscimento pieno della persona, della sua dignità e dell'inviolabilità dei suoi diritti fondamentali che sono patrimonio di tutti. Senza illusioni, se mi è dato di guardare con serenità al futuro, io intravedo l'opera dei credenti come un'azione convinta che saprà produrre nuova cultura sulla forza della fede di sempre. Non perderemo la nostra identità, perché non potremmo comprendere le nostre città senza un campanile che richiami a rientrare in noi stessi; non potremo mai assuefarci a un mondo dove non esiste l'amore che porta la nostra impronta. Il rispetto che abbiamo verso tutti e verso chi non condivide la nostra scelta di fede, ci impone di qualificare sempre meglio la nostra identità per evitare di diventare erranti senza più una meta e cittadini senza più una patria.

I Padri conciliari nel Decreto sul ministero e la vita sacerdotale scrivevano: "I ministri della Chiesa, e talvolta gli stessi fedeli, si sentono quasi estranei nei confronti del mondo di oggi e si domandano angosciosamente quali sono i mezzi e le parole adatte per poter comunicare con esso. E non c'è dubbio che i nuovi ostacoli per la fede, l'apparente inutilità degli sforzi che si sono fatti finora e il crudo isolamento con cui vengono a trovarsi, possono costituire un serio pericolo di scoraggiamento" (PO 22). La forza che proviene dal Vangelo e la grazia che sostiene il nostro ministero se sono uniti a una coerente conoscenza dei fenomeni e pongono con lucidità una critica intelligente permettono di guardare al futuro con maggior realismo. Il cambiamento culturale è dinamico e sempre aperto a nuovi sviluppi; ad esso, comunque, non può mancare l'intelligenza e l'impegno dei ministri sacri che con la loro opera di formazione ed educazione alla fede danno la genuina e più coerente risposta alla perenne domanda di senso che alberga nel cuore di ogni persona. Questa risposta di senso è la vera strada da percorrere perché il cambiamento culturale in atto sia ancora una volta rivolto all'uomo nella sua integrità e non contro di lui.

Note

[1] Presbyterorum ordinis, nn. 3.4.19.

[2] Da questa prospettiva è significativo il continuo richiamo del concilio Vaticano II al tema dei "segni dei tempi"; cfr. GS 4.11.44; cf. pure PO 9; UR 4; AA 14.

[3] Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n. 70.

[4] Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, n. 4.

[5] E' il tema trattato specialmente in Fides et ratio nn. 7-14.

[6] E' importante riprendere in questo contesto l'insegnamento che proviene da Dei Verbum 4 e Gaudium et spes 22.

[7] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae, nn 22.

[8] Cfr. G. Lipovetsky, L'ere du vide. Essai sur l'individualisme contemperain, Paris 1993, 49-69.

[9] Un testo di una canzone, cantata dai bambini di una scuola elementare, può essere un segno di come questi inizino a pensare a Dio fin da bambini: "C'è chi prega Dio dicendo Visnù, Budda, Krishna, Allah o Jahvè, noi lo chiamiamo con Maria e Gesù, ma un solo Signore poi c'è. Padre nostro che nel cielo stai, sono tanti i nomi che hai, ma uno solo in fondo tu sei, uno soltanto per tutti noi".

[10] Si confrontino i ripetuti interventi di J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia 1979, 32-37; Id., Fede verità Tolleranza, Siena 2003, 74-82.

[11] Significativo in proposito l'intervento della Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi sulla collaborazione dell'uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, nn. 7.13-14.

[12] Cfr. A. Milano, Quale verità. Per una critica della ragione teologica, Bologna 1999, 12.

[13] R. Guardini, Le virtù, Brescia, 1972, 21.

 

 


 

“Fede e polis”: relazione del Vescovo Mons. Rino Fisichella, Rettore della Lateranense,

durante un incontro con i giovani tenutosi il 30 novembre 2005 presso la chiesa romana dei SS. Ambrogio e Carlo al Corso.

 Lo scenario di un cambiamento culturale

Viviamo un momento importante della storia. I grandi cambiamenti che sono sotto i nostri occhi coinvolgono in modo particolare la mutazione dei paradigmi di pensiero che dall'antichità ai nostri giorni si sono sviluppati in maniera dinamica, ma coerente. Assistiamo a una sostanziale modifica dei concetti basilari della cultura quali quello di natura-mondo, uomo-dio, spazio-infinito, tempo-eternità, libertà-verità, diritto-giustizia… solo per fare alcuni esempi. Il pluralismo di posizioni presente nella società impone ai credenti, di volta in volta, una riflessione che si faccia carico non solo di chiarificare i concetti in questione, ma anche di codificare nuovi linguaggi che esprimano con coerenza i contenuti di sempre e ne supportino i conseguenti stili di vita.

La sfida che si pone sul nostro terreno non è affatto di secondo ordine; al contrario. Essa impone di focalizzare lo sguardo perché la mente possa cogliere in profondità l'essenza delle problematiche in gioco e comprenda quanto sia necessaria la nostra presenza nell'agone delle idee e dei progetti perché non avvenga che quanti hanno non solo il diritto, ma la responsabilità di intervenire nel pubblico dibattito siano strumentalmente confinati in un angolo con una emarginazione del tutto ingiustificata. La ricchezza del nostro pensiero, che si fa forte di duemila anni di storia e di tradizione filosofica, letteraria e scientifica è di notevole supporto a ogni cultura che voglia sviluppare in sé concetti e linguaggi che mostrino il reale progresso verso cui si è indirizzati.

Una società che volesse escludere o solo emarginare il fenomeno religioso sarebbe per ciò stesso destinata a una inevitabile autodistruzione. In ogni tempo, in ogni cultura che abbia creato progresso e sia stata promotrice di ricchezza intellettuale, la religione è sempre stata presente come fonte di riferimento costante per il legislatore e forte strumento di coesione per la società.

Il dibattito tra fede e politica si ripropone spesso in modi alterni nelle diverse fasi storiche. Oggi è di nuovo sul tappeto soprattutto per il profondo cambiamento culturale in cui siamo inseriti. Si tratta di comprendere, quindi, il senso di una possibile relazione e le modalità che siano in grado di salvaguardare l'autoctonia e l'autonomia di ambedue. I due termini sono stati utilizzati in maniera intenzionale per esplicitare non solo la sfera di indipendenza propria in cui fede e politica pensano e si regolano in forza dei propri principi (autonomia), ma anche per evidenziare gli spazi peculiari all'interno dei quali sono nati (autoctonia e che permangono come criterio necessario per la corretta valutazione del loro operare.

Dio e Cesare

Un primo principio fondamentale per la fede e la politica è certamente il mantenimento della propria sfera di autonomia. Le radici di quella sana distinzione tra Chiesa e Stato appartiene proprio a noi. "Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" (Mc 12,17), permane come il criterio fondamentale a cui Chiesa e Stato si richiamano per giustificare il proprio spazio di intervento. E' necessario comunque, comprendere il senso profondo del testo perché non diventi un'espressione ovvia e insignificante. La domanda posta a Gesù inizia con una captatio benevolentiae: gli viene riconosciuto che è buono, parla con verità e il suo insegnamento è fatto non piacere agli uomini ma a Dio. Questa captatio benevolentiae nei nostri confronti è ancora spesso utilizzata, ma come nel passato nasconde in sé una trappola; da ogni parte ci voltiamo sembra non esserci via d'uscita: se parliamo di etica siamo condannati, se parliamo di pace siamo lodati.

La risposta di Gesù non può assolutamente essere fraintesa come una forma di sudditanza alla stato. Il senso del suo rimandare a Cesare e a Dio ha una notevole differenza che si manifesta nel valore della congiunzione. Una traduzione corretta dovrebbe dire: "Date a Cesare quello che è di Cesare, ma date a Dio quello che è di Dio". Si deve, dunque allo Stato ciò che gli appartiene e questo impedisce al cristianesimo di pensare in termini di teocrazia. A Dio, però, appartiene l'uomo che è stato creato a sua immagine. Quanto Gesù attesta è che si deve riconoscere, anzitutto, la volontà di Dio. L'imperatore non potrà mai decidere quanto appartiene a Dio; tenga pure la sua moneta e se la faccia restituire dai cittadini, ma sappia che tutto ciò che tocca l'uomo e la sua vita appartengono a Dio e a lui solo.

Il cristianesimo, a differenza di altre religioni, non si è mai voluto proporre come religione di Stato, ma ha sempre cercato di distinguersi dallo Stato. Siamo disposti a pregare per quanti ci governano, ma non ad offrire loro sacrifici. E' necessario, pertanto, rivendicare più che mai la nostra identità; questo impone di affermare che il cristianesimo non potrà mai essere un semplice sentimento soggettivo, ma una verità che siamo chiamati a rendere manifesta, in modo palese e nei luoghi pubblici. Siamo consapevoli che questa verità non appartiene agli uomini, ma è frutto di rivelazione; in forza di questo chiediamo che anche chi non crede si confronti con essa per verificare le ragioni delle proprie posizioni.

Non si comprende perché un simile intervento debba essere tacciato come un'ingerenza nella vita politica di un Paese. Illuminare la coscienza di ogni credente e provocare chiunque a riflettere dovrebbe essere giudicato, piuttosto, come un esercizio di libertà e acquisizione di responsabilità. Siamo stati sempre in prima linea nel promuovere e difendere i principi basilari del vivere comune e civile. La stessa concezione di democrazia che si è imposta nella modernità, d'altronde, non avrebbe potuto neppure essere concepita se il cristianesimo non avesse posto le premesse fondamentali per la sua genesi e il suo sviluppo.

La democrazia, per l’intera coscienza dell’Occidente, è una conquista tale che si pone come uno dei valori irrinunciabili su cui costruire un sistema politico e su cui giudicare non solo la sua legittimità, ma la stessa forma dei rapporti sociali. In un sistema democratico, quindi, anche la fede è chiamata in questione. I suoi contenuti, tuttavia, non possono essere assunti come surrogati in un momento storico di crisi valoriale per essere poi gettati al vento in un momento successivo. Una vera democrazia, quando si incontra con la fede, è obbligata a confrontarsi con il concetto stesso di verità da cui non può prescindere perché porta in sé un’autorità tale che supera ogni sistema politico e ogni posizione personale.

Nel 1974, Paolo VI denunciava che uno dei drammi della nostra epoca era costituito dalla rottura tra la cultura e la fede. Ne è derivato che la cultura si è indebolita e frammentata mentre la fede si è rifugiata nell'esperienza individuale. Ambedue le condizioni non hanno permesso un rinnovato rapporto di responsabilità nei confronti della costruzione della società, soprattutto da parte di quanti hanno il compito della rappresentanza politica. Sorge, pertanto, l'urgenza di presentare in "termini culturali moderni il frutto dell'eredità spirituale, intellettuale e morale del cattolicesimo" anche per evitare il rischio di una diaspora culturale che poca incidenza avrebbe nella vita politica.

Passione per il futuro

Una breve panoramica sul contesto odierno permette di verificare alcuni punti nodali che meritano una riflessione comune tra fede e politica. Sorge, in primo piano, la questione su quanto stiamo preparando per le generazioni future e su ciò che lasceremo loro in eredità. Se i cattolici non provocassero la politica a questa analisi verrebbero meno nella loro stessa fede che fa dello sguardo verso il futuro il pieno compimento della promessa antica e della conoscenza stessa della verità (cfr Gv 16,13). Situazione non facile quella di far riflettere sul futuro mentre da diverse parti è pressante il canto di nuove sirene che impongono di gestire solo il presente puntando su diverse forme di effimero che producono solo illusione.

A differenza dei compagni di Ulisse, nessuno oggi sembra sentire il bisogno di avvisare i compagni di viaggio, tanta è la presunzione di essere autonomi e maturi da reggere lo scontro e superare il richiamo insidioso. Pia illusione che non trova riscontro. Avere distrutto nel recente passato il fondamento su cui costruire la propria esistenza, non ha coinciso con l'offerta di un solido paradigma della verità e il nostro contemporaneo si ritrova in una pozzanghera da cui non riesce a venire fuori. Non è azzardato affermare che si stanno bruciando intere generazioni che precipitano verso un abisso di debolezza solo perché non si ha il coraggio di prospettare loro un impegno serio e duraturo su cui costruire la loro vita, la società e il loro stesso futuro. Accade così che mentre, da una parte, si accentua la provocazione per prendere coscienza della responsabilità che compete, dall'altra, cresce l'arroganza perché il vuoto e il nulla abbiano il sopravvento.

In un contesto come questo, diventa perfino più difficile trovare la mediazione, vero strumento dell'azione politica. Spesso il modo di pensare che alberga in molti è fondato sull'imposizione del diritto individuale a scapito di ogni interesse per la convivenza sociale. Quando si orienta la cultura all'esasperazione del diritto soggettivo senza più alcun riferimento al vivere sociale e alla responsabilità comune, allora è ovvio che si rende necessaria e urgente una svolta culturale che sappia di nuovo rimettere al centro la persona e la sua relazionalità. Se le scelte sono compiute non più in base a un principio etico, ma si fa diventare etico tutto ciò che proviene dal desiderio individuale e si spalanca la porta all'emotività per farla dominare sulla razionalità, allora è necessario domandarsi se queste premesse su cui si vuole indirizzare la società potranno reggere allo scontro inevitabile con il valore oggettivo del diritto e il mantenimento della democrazia.

Se ognuno ha il diritto di creare un'unione matrimoniale come desidera, se vuole avere figli come vuole, se intende porre fine alla sua vita quando e come ha deciso e impone al legislatore di dare corpo a questo "diritto", allora bisogna ribadire con forza che il diritto individuale non è solo una questione di coscienza singola, ma è primariamente un atto pubblico che deve essere regolato e limitato dalla forza della ragione, della giustizia e della convivenza reciproca. Se il singolo cittadino, pertanto, richiede al legislatore di riconoscere il suo diritto, è obbligo del legislatore ricordare al singolo cittadino che appartiene a una società.

Sorgono, a questo punto, alcuni interrogativi che evidenziano lo stato di reale problematicità a cui non ci si può sottrarre: quale limite si deve porre nel vivere sociale? Chi ha l'autorità per stabilirlo? Sulla base di quali principi può farlo? Andremo verso una sorta di Stato etico di venerata memoria hegeliana? Come si nota, permane un problema di fondo: chi stabilisce i principi a cui tutti sono sottomessi? Lo Stato, la religione, la scienza e la singola coscienza sono chiamati a riconoscere, rispettare ed osservare il primo principio del vivere personale e sociale: fare il bene ed evitare il male. Questa è un'intuizione fondamentale che caratterizza l'agire di ogni persona. Ora, chi stabilisce il confine tra i due e dove si situa il bene e il male? Domanda perenne che rimarrà tale anche per i secoli futuri e che, comunque, deve non solo essere posta, ma anche trovare adeguata risposta.

E se queste domande potrebbero sembrare ovvie, rimane pur sempre aperta un'altra questione di carattere più politico: tutto deve cambiare ogni volta per l'alternanza dei governi o per le nuove ipotesi che la scienza avanza o in forza dei nuovi desideri che sorgono con il cambiare delle stagioni? Come si nota, queste domande e l'incapacità a voler dare risposta creano un'inevitabile situazione di debolezza culturale, di conflittualità dei diritti e di confusione valoriale che sfocia nella paura del futuro. Si crea, insomma, una sorta di vortice di incertezza che trascina inconsciamente ognuno in una indecisione costante, in un profondo senso di impotenza e in una chiusura in se stessi a scapito del vivere interpersonale.

Bisogna ugualmente riconoscere che spesso si ricava l'impressione di una poca stima che la politica ha per se stessa e per ciò che produce. Quando personalità che hanno la rappresentanza pubblica utilizzano nei confronti della legge termini quali: "infame", "indegna", "assurda", "talebana"… allora si rende evidente la disistima per ciò che un sistema democratico produce e la mancanza di responsabilità per il vivere civile e sociale del Paese. Questo stato di cose non esprime primariamente una dissonanza tra laici e cattolici, ma ben altro. Si è dinanzi a un vero conflitto tra il richiamo ai principi etici – che come tali non hanno coloritura confessionale, perché si appellano a quanto è inscritto nella natura e nella ragione e sono quindi universali- e l'imposizione di teorie relativiste, che non hanno neppure il supporto della scienza, tese a impoverire ulteriormente la già debole ragione in forza del richiamo a una perentoria libertà di coscienza.

Certo, la coscienza permane come l'intangibile richiamo ultimo a cui ognuno deve riferirsi e sul quale nessuno può interferire. Deve essere, però, la coscienza, non un surrogato di essa. La coscienza, tuttavia, non è mai neutrale. Quando la coscienza è assopita perché non è posta dinanzi ai contenuti etici o è assordata per lo strepito di chi grida più forte, difficilmente può rinchiudersi nel suo silenzio ed emettere un giudizio. Ciò che emerge, purtroppo, è una coscienza imbrigliata nelle secche stagnanti di slogans pedanti, incapace di formare una consapevolezza che abbia come suo primo fondamento la verità. Ne deriva che il giudizio è stabilito non sul bene e sul male, ma su ciò che individualmente si ritiene bene o male e spesso determinato da un'emotività che erige a valore ciò che ha percepito come proprio interesse privato. Merita, pertanto, ricordare quanto sia importante e non procrastinabile farsi promotori di un pensiero che chiarifichi la base stessa del diritto.

I nodi del dibattito politico

Nel contesto contemporaneo, i cattolici sono provocati a prendere in maggior considerazione alcune tematiche che sono in primo piano nell'agone politico. In primo luogo, è necessario porre il tema della concezione della vita umana. La vera sfida che si staglia nei confronti del pensiero in generale e della politica più direttamente, è la stessa concezione della vita personale e le modalità della sua genesi, durata e termine ultimo. La sacralità della vita è oscurata per la tenacia di imporre una visione tecnicista, edonista ed effimera come se tutto dipendesse dal puro caso o dalla sperimentazione arbitraria e dove tutto si vive, cogliendo solo il semplice frammento senza preoccuparsi di una progettazione personale compiuta nella libertà che aprirebbe a spazi di vero futuro. Il mistero della vita viene frantumato per l'arroganza di voler dare a tutto una spiegazione scientifica, partendo da teorie che non intendono limitare l'uso della scoperta al principio etico.

La prima conseguenza si manifesta nella cultura generalizzata secondo cui ciò che differenzia le persone non è la sessualità che è stata donata con il corpo, ma il genere che si è scelto di vivere. Il genere diventa la costruzione sociale in alternativa al sesso, come espediente per esprimere una libertà individuale di voler essere se stessi non in forza della natura, ma della propria volontà; espressione di libertà che si manifesta subito fragile e fittizia e che solo una impenitente faziosità persiste nel difendere. Tolta in questo modo, la differenza tra uomo e donna, si comprende facilmente che viene posta in crisi la prima cellula su cui la società si fonda: la famiglia.

Carichi di una visione ideologica, che vuole relegale la concezione cristiana del matrimonio e della famiglia nella sfera dell'oscurantismo e della subordinazione della donna all'uomo, si insinua sempre più una visione individualista ed egoista della relazionalità tra le persone che mette in crisi l'istituzione stessa. Superfluo ricordare che la situazione di crisi che ha toccato la famiglia non fa altro che manifestare la permanente instabilità e crisi della società stessa. Se una società, infatti, è costretta a verificare che al suo interno lo stile di vita che progressivamente si assume è quello del vivere soli, allora la politica dovrà almeno riflettere sul senso stesso dell'essere societas. Se un Paese inizia ad avere un quarto o un terzo della popolazione che vive solo, allora è necessario che almeno per spirito di sopravvivenza il legislatore si impegni a porre rimedio.

La rincorsa a voler accontentare ogni tipo di simili manifestazioni, invece, sembra spingere il legislatore ad assumere politiche pubbliche in netto contrasto con i principi etici fondamentali pur di non scontentare il singolo cittadino e pur di ripararsi dall'obbligo di assumere delle responsabilità. Sarà bene ricordare che una legge composta sulla base del relativismo etico, avrebbe fondamenta talmente fragili da non poter neppure pretendere di essere assunta a norma dell'agire universale dei cittadini, perché offende la dignità stessa della legge prima ancora che la dignità del cittadino. Se non esistesse un'autorità morale capace di andare oltre la sfera dello Stato, allora sì, la libertà sarebbe realmente distrutta, perché di fatto un qualsiasi potere politico diventerebbe fondamento dell'istanza etica. Nel qual caso, la caduta in una strumentalizzazione del potere a proprio vantaggio, non sarebbe più solo un rischio e la porta al totalitarismo sarebbe spalancata. Pensare che la qualità della vita migliori, solamente perché si qualificano alcuni servizi di benessere, è illusorio e deludente se poi la concezione stessa della vita è lasciata all'arbitrio individuale.

Si deve ritornare, a nostro avviso, alla legge impressa nella natura che permane come regola suprema di vita e principio etico, nonostante lo slittamento che si è creato con i "diritti fondamentali dell'uomo". Questa legge non è una coercizione perché andrebbe contro la stessa natura dell'uomo; essa, al contrario, è una perenne sfida che si pone all'uomo perché in essa possa scoprire come esercitare la sua libertà e la sua progettualità. L'uomo non potrebbe mai porsi dinanzi alla natura in maniera passiva, quasi da essere asservito dalla natura. Conforme alla sua stessa natura, invece, è chiamato a far emergere dalla natura tutte le potenzialità che la spingono ad essere ciò per cui è. Solo in questa reciproca relazionalità, si può pensare di creare progresso coerente tra lo sviluppo della natura mediante l'intelligenza dell'uomo e la realizzazione dell'uomo stesso.

Quando ambedue, ciascuno conformi a se stessi, tendono verso la finalità impressa in loro, allora siamo dinanzi a una reale conquista per il progresso della specie e a un'applicazione coerente del principio etico. La natura, pertanto, ha bisogno dell'uomo per manifestare ciò che è; la cosa straordinaria è che in questa conoscenza, l'uomo scopre di essere uscito lui pure da questa natura e che quindi è il fine verso cui essa tende. Ciò non significa che l'uomo possa fare con la natura tutto ciò che desidera o che vuole. Qui viene ad inserirsi il primato dell'etica nei confronti di ogni potenzialità che l'uomo scopre nella natura. Quando il legislatore pone al centro del proprio agire il diritto e ne scopre i fondamenti là dove persona e natura si ritrovano in un sano equilibrio, egli potenzia la legge e la rende norma stabile per l'agire dei cittadini nella società.

Il richiamo perché in politica si ponga in primo luogo al centro la dignità della persona, unitamente al bene comune non sono contenuti nuovi; anzi, sono i principi che da sempre sostengono l'insegnamento sociale della Chiesa. Ciò che oggi è necessario considerare è, piuttosto, la concreta condizione storica in cui ci si trova per verificare quali sono le condizioni per la dignità della persona e il raggiungimento del bene comune. Alcune problematiche devono essere considerate proprio perché attestano "esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili" per un credente sia che si impegni in politica sia quando è chiamato a valutare un programma per decidere del suo voto. Su alcune questioni è in gioco l'essenza stessa dell'ordine morale che tocca la totalità della persona.

Si pensi, ad esempio a leggi in materia di aborto e di eutanasia –che non deve essere confuso con la rinuncia all'accanimento terapeutico- il rispetto e la protezione dell'embrione umano; la salvaguardia, la tutela e la promozione della famiglia fondata sul matrimonio monogamico e tra persone di sesso diverso; la libertà di educazione dei genitori per i propri figli; la tutela sociale dei minori; la liberazione dalle nuove forme di schiavitù: droga, prostituzione…; la libertà religiosa; lo sviluppo per un'economia che sia al servizio della persona e del bene comune in base ai principi di solidarietà e sussidiarietà; la pace tra i popoli che non sia irenica o strumentale. Su questi temi si gioca la concezione stessa della vita, della natura e dell'uomo che apparterranno alle prossime generazioni. Pensare che la qualità della vita migliori, solamente perché si qualificano alcuni servizi di comodità, è illusorio e deludente se poi la concezione stessa della vita è lasciata all'arbitrio individuale.

In una fase in cui sembra che la politica viva spesso solo di numeri e di programmazioni economiche, non è male che qualcuno richiami a volare più alto e riproponga una dimensione progettuale che sappia preparare il futuro. Questo tipo di far politica è vincente ed è capace di dissipare i sospetti e il velo di indifferenza, steso particolarmente sulle giovani generazioni, che non riescono ad afferrare la passione per l'impegno politico.

Su questi impegni concreti è necessario evitare la diaspora dei cattolici in politica. Ciò non coincide necessariamente con la formazione di nuove identità. Pericoloso, o forse comodo, cadere in una lettura riduzionistica che spinge tutto a classificare di destra, di centro e di sinistra. Le strategie che vengono assunte per approdare a ipotetiche nuove formazioni non toccano la competenza del Magistero della Chiesa. Le sfide a cui la politica deve guardare sono ben altre. Ciò che per noi acquista importanza decisiva è, piuttosto, la capacità di creare il consenso più ampio, perché ciò che viene perseguito abbia un fondamento etico nel diritto naturale.

In questo contesto, è importante esplicitare il senso di "laicità" che si erge non poche volte a dogma nella vita del nostro Paese. In una società veramente democratica l'ascolto delle diverse istanze presenti non è un optional, ma un obbligo che ognuno deve avere perché non avvenga che chi fa riferimento al proprio credo sia confessionale e chi invece dipende dall'ideologia sia uomo libero. Nessuno potrà dimenticare, tra l'altro, che il principio di autonomia come quello di "laicità" sono espressione dell'originalità del cristianesimo e sua preziosa eredità per le diverse democrazie. Laicità, comunque, non si contrappone a fede. Essa indica, piuttosto, un modo di riflettere, di analizzare e di produrre idee e contenuti che indipendentemente dalla fede fanno leva sulla forza di una ragione libera di ricercare la verità e di proporla quando l'ha trovata.

Non possiamo tacere

Un'ultima considerazione mi sembra necessaria, soprattutto in risposta a quanti ritengono che su diverse questioni i vescovi debbano tacere. Ritorna in questi giorni con una forte carica di arroganza il comando laicista: sileant catholici in campo alieno. I cattolici non prendano la parola su questioni che non li riguardano. Sorge spontanea la domanda: ci sono questioni che non devono interessarmi? Potrebbe essere, ma vorrei essere io a deciderlo. Quando, tuttavia, si parla di problematiche che toccano in primo piano la natura umana, i principi su cui si è costruita e sviluppata la civiltà a cui appartengo e le leggi a cui dovrei obbedire io e il popolo cristiano che ha sempre manifestato lealtà nei confronti dell'autorità costituita (cfr Rm 13,1-7; 1 Tm 2,2; 1 Pt 2,13-17), allora l'imposizione del silenzio diventa una violenza. I cattolici hanno acquisito una maturità tale nei duemila anni di storia che li ha portati a condividere una responsabilità civile e sociale da cui non possono esonerarsi neppure se lo volessero. Verrebbero meno nel loro stesso compito di credenti che li obbliga a impegnarsi nel mondo per trasformarlo a servizio dell'uomo.

Pur nella genericità del titolo, fede e polis presentano una serie di problematiche di ordine culturale, etico, morale, politico e legislativo. Ognuno, a secondo della competenza che possiede, esprime la sua visione del mondo sapendo che l'obiettivo primario rimane la partecipazione diretta alla crescita della società in cui vive. Non possiamo dimenticare, d'altronde, che il sistema democratico in cui viviamo è costituito primariamente dalla forma della rappresentanza non della delega. Non posso delegare nessuno su questioni che toccano la mia coscienza, ma posso essere rappresentato nelle istituzioni competenti perché ciò che costituisce la mia visione del mondo abbia la sua voce diretta nelle sedi legislative. In un sistema democratico dove sono presenti istanze culturali differenti non chi grida di più ha ragione, ma chi presenta le ragioni che possono aggregare il massimo del consenso. Certo, la verità non è data dal consenso – oggi, tra l'altro, troppo facile da essere acquistato – ma dalla oggettività delle ragioni che permettono di raggiungere l'essenza stessa della realtà di cui si discute.

Difficile pensare che quando si ha una debolezza generale allora cresce la forza della Chiesa; come se la nostra forza fosse conseguenza della debolezza altrui. La forza della Chiesa è forza del Vangelo che viene annunciato e percepito come vero senso della vita oltre le ipotesi che si formulano e si vogliono accreditare. Solo nella misura in cui siamo forti del Vangelo che portiamo allora diventiamo anche un segno visibile e concreto presente nella società come espressione di libertà, di fiducia nell'intelligenza dell'uomo e come rimando perenne verso una Presenza che dà pieno significato alla vita dell'uomo e di ogni uomo. Se venissimo meno a questa nostra missione allora sì saremmo deboli e insignificanti; come il sale di cui parla il Signore che diventato insipido non solo viene gettato, ma calpestato con disprezzo dagli uomini (Mt 5,13).

Fino a quando saremo capaci di vivere la nostra fede con coerenza, nonostante le nostre contraddizioni, saremo anche capaci di raccogliere intorno alla forza delle nostre argomentazioni un consenso che va oltre gli schieramenti di partito, perché si fa forte della ragione e del rispetto verso una legge, inscritta nel cuore di ognuno, che non ha bisogno di essere emanata dagli uomini, ma solo riconosciuta. Essa acquisisce la sua legittimità da Colui che sta all'origine di ogni bontà e verità. Solo nella misura in cui il legislatore sarà capace di comprendere la genuinità di questa legge sarà capace di formulare leggi che ricevono il pieno rispetto dei cittadini e si pongono come fattore di autentico progresso per tutti.

Perché questo avvenga è necessario che laici e cattolici riscoprano la nostalgia per la verità e ne facciano di nuovo la loro inseparabile compagna di vita. Si diceva un tempo: amicus Plato, sed magis amica veritas! Quanto la saggezza del tempo antico sia attuale non ha bisogno di dimostrazione. Per noi credenti, l'amicizia di Platone non ci mai disturbato né allontanato dalla verità; al contrario, la nostra sapienza ci ha fatto dire con Tommaso d'Aquino che: "omne verum a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est". Se lo sguardo, pertanto, è fisso sulla verità non ci sarà conflitto alcuno. L'impegno nella politica potrà essere solo fecondo e il riconoscimento delle differenze sarà percepito e vissuto come ricchezza da condividere e non come limite per la libertà.

 

 


 

Trasmettere la fede, il consegnare se stessi di Dio e dell’uomo

Relazione al Consiglio dei Prefetti della Diocesi di Roma, tenuta il 7 novembre 2005

1. Trasmettere la fede è un impegno di chiunque abbia compreso seriamente il proprio battesimo. Alla base della trasmissione di fede, quindi, c'è la missione ricevuta da Cristo di portare tutte le genti alla conoscenza del Vangelo. Nel popolo di Dio vi sono ministeri diversi che impegnano all'assunzione di ruoli differenti nel processo di trasmissione della Tradizione: pastori, presbiteri e i diaconi, consacrati, laici, tutti sono coinvolti nell'assunzione di una responsabilità che proviene in prima istanza dalla Parola di Dio che chiede di essere trasmessa, celebrata, interpretata, testimoniata perché accomuna tutti nell'unità del battesimo che abilita ad essere soggetto ecclesiale e che immette in quella dinamica conoscitiva propria del sensus fidei che viene donato nel lavacro battesimale. Nessuno potrà mai dimenticare, comunque, che prima di trasmettere un contenuto si deve considerare l'atto con il quale si trasmette. Questo è il primo punto decisivo con il quale ci introduciamo. Se manca la consapevolezza della necessità della trasmissione tutto si riduce a una forma di personalizzazione o a un frammento del tempo.

2. E' interessante osservare come nel Nuovo Testamento quando si parla di trasmissione si qualifica in primo luogo il comportamento. Tutti i verbi che vengono usati indicano un'azione concreta, uno stato d'animo, una decisione di vita e un impegno che si assume con la trasmissione della fede: "comportarsi", "servire", "non sottrarsi mai", "predicare", "istruire", "condurre a termine", "rendere testimonianza", "dichiarare", "affidare", "pregare"… L'impressione che si ricava, insomma, è quella dell'apostolo che nel momento in cui sa che sta trasmettendo sta consegnando se stesso e la sua vita. L'atto del trasmettere è, quindi, un atto mediante il quale ci si consegna. Non si consegna primariamente un contenuto; si consegna se stessi e tutto ciò che si è. Questo è l'impegno della fede che si raccoglie proprio nella indissolubilità di un credere come un atto con il quale ci si abbandona alla grazia di Dio che agisce in noi e mediante il quale si accoglie il Vangelo di Gesù Cristo. In una parola, si potrebbe facilmente trasporre l'assioma classico dicendo che actus tradendi specificatur ab objecto Traditionis. Se si trasmette Cristo allora l'atto con il quale lo si fa deve essere consequenziale.

3. Non saremmo consequenziali nella nostra esposizione se non valutassimo il fatto che Gesù stesso, prima di consegnare e trasmettere qualcosa, consegna se stesso al Padre in un atto che dice puro amore e obbedienza alla sua volontà. E' sempre l'evangelista Giovanni che coglie immediatamente la portata di questo fatto quando sottolinea che nel momento della sua morte Gesù "tradidit Spiritum" (Gv 19,30): consegna lo Spirito. La stessa cosa, comunque, viene compiuta nei confronti della sua Chiesa e di quanti crederanno in lui, a cui consegna lo Spirito come presenza visibile e creatrice di un cammino che attraverserà i tempi e i mondi per restituire poi al Padre il popolo dei redenti. Da ogni parte si volge lo sguardo, si nota che l'atto con il quale si trasmette è un atto fecondo che si fa forte della presenza del creator Spiritus.

4. Si deve considerare che l'espressione storica permanente del trasmettere da parte di Gesù avviene con i suoi discepoli nell'ultima cena; qui Egli offre ancora una volta se stesso. Il pane e il vino sono segno che rinviano a colui che in essi è rappresentato e significato. Il Crocifisso e Risorto rimane veramente presente nel segno del pane e del vino perché Lui così ha voluto imprimere nella storia il dono totale di sé. Dove c'è vera tradizione, là vi è una fecondità di vita che non termina e alla quale non si può rinunciare. L'eucaristia permane nella vita della Chiesa come l'atto unitario della trasmissione e della consegna. Si dovrà pertanto ritornare sempre qui per verificare non tanto l'efficacia della nostra trasmissione, ma la fecondità che essa produce in quanto azione trinitaria.

L'eucaristia, quindi, insegna chi trasmettere e come trasmettere. Si trasmette il mistero pasquale di Cristo e lo si trasmette con la partecipazione a una vita di comunione con lui e i fratelli. Il primo soggetto della trasmissione, quindi, è la Chiesa non il singolo credente, ma la comunità dei redenti che fa memoria viva dell'evento della salvezza.

5. Il processo di trasmissione, infine, inserisce in quella Tradizione della Chiesa che permane viva fino al ritorno di Cristo come forma di una Parola che dà senso alla vita. La Tradizione costituisce uno dei temi fondamentali della vita cristiana. E' il veicolo attraverso il quale la Parola di Dio si trasmette nella Chiesa e coinvolge generazioni di credenti a professare la fede nella Trinità. Essa è all'origine del movimento di fede che permette anche a noi oggi di annunciare la Parola di Dio e di vivere dei sacramenti della Chiesa in piena fedeltà con la fede di sempre. E' bene ricordare in questo contesto le parole di Benedetto XVI: il giorno della presa di possesso della sua Cattedrale di San Giovanni in Laterano: "La Sacra Scrittura, la cui comprensione cresce sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, e il ministero dell'interpretazione autentica, conferito agli apostoli, appartengono l'una all'altro in modo indissolubile. Dove la Sacra Scrittura viene staccata dalla voce vivente della Chiesa, cade in preda alle dispute degli esperti".

6. Da quanto abbiamo detto scaturiscono delle conseguenze pastorali, che potrebbero arricchire la nostra azione già molto ricca in proposito per le diverse iniziative che sono tutte tese a trasmettere la nostra fede. Non è mia competenza progettare un piano pastorale, ma solo suggerire timidamente qualche elemento che la Chiesa antica viveva come atto di una trasmissione che ha permesso ancora a noi di credere.

6.1. E' necessario ritornare alla centralità dell'eucaristia come il luogo naturale della trasmissione di fede. Essa richiama all'unità intorno al vescovo e al suo presbiterio di tutti i battezzati che nel giorno del Signore annunciano la sua risurrezione.

6.2. Ne deriva una pastorale che pone il dies domini di nuovo come tempo dedicato a Dio, alla Chiesa, alla famiglia, ai fratelli e alla natura sulla quale abbiamo sempre una parola da dire.

6.3. Con il mistero dell'eucaristia bisogna porre la professione di fede. E' necessaria una catechesi che riprenda tra le mani il "credo" come atto che esprime un'identità personale e come contenuto sintetico di ciò che sempre ab omnibus et ubicumque creditum est. Si dovrebbe recuperare il senso delle diverse professioni di fede: da quella battesimale in prima persona come segno di una scelta della fede a quella del credo niceno-costantinopolitano che tende a mostrare la fede della Chiesa e l'unità delle Chiese tra di loro; senza dimenticare il simbolo romano che ha una sua storia perché pone i dodici elementi che formano la sintesi della predicazione apostolica.

6.4. La quaresima può essere lo spazio più indicato per porre tutta la nostra comunità in un cammino di crescita verso la consapevolezza del credere e del trasmettere la fede. I testi di s. Agostino potrebbero essere molto utili in proposito perché richiamano la prassi corrente nella Chiesa antica e indicano almeno tre elementi utili per la nostra azione pastorale:

6.4.1. Il simbolo va imparato a memoria. E' necessario che il credente sappia che qualcosa gli viene consegnato e che lo deve restituire. E' urgente una catechesi che entri nel merito della consegna (traditio) del simbolo[1] e della sua riconsegna nella V domenica di quaresima (redditio) [2].

6.4.2. Un ulteriore elemento della prassi antica: il credo non veniva recitato in primo luogo durante l’eucaristia, ma nella preghiera quotidiana. Non è un dato importante per noi oggi? Recitare ogni giorno il credo in cui sono stato battezzato. Questo permette di sollecitare forme di formazione che partano da quanto possediamo nella nostra città e che richiama alla storia della fede che è stata trasmessa: recarmi sulla tomba di Pietro e fare lì la mia rinnovata professione di fede come lui la fede davanti al martirio… allora sì che la domenica risulterà più comprensibile professare insieme a tutta la Chiesa la stessa, unica fede. Ritrovare il senso del battesimo nel Battistero di San Giovanni in Laterano, dove la Chiesa madre genera sempre nuove creature. Valorizzare le catacombe come espressione di una fede nella risurrezione. Riproporre la visita e la vita dei nostri santi e beati che hanno vissuto dell'unica e stessa fede. Avremmo solo l'imbarazzo della scelta.

6.4.3. Un ultimo tratto emerge dagli scritti di s. Agostino ed è la professione pubblica della fede. E' necessario educare, in un periodo come il nostro, che il cristiano non è un uomo privato nei suoi impegni quotidiani e lavorativi, e privato in chiesa la domenica. Il cristiano è sempre, per sua stessa natura, un uomo pubblico e attesta pubblicamente chi è, con una responsabilità che gli proviene dall'appartenere alla Chiesa.

7. Da tutta questa prospettiva, infine, lo spazio della nostra riflessione si dovrebbe concentrare sulla cultura per verificare il momento di trapasso culturale che si sta vivendo. L'attenzione dei Pastori è tesa a trasmettere la fede di sempre, ma con l'occhio vigile al cambiamento in atto. La Tradizione, d'altronde, possiede un profondo valore culturale. Il recupero del tema nell'ambito filosofico è una premessa qualificante. Senza Tradizione, d'altronde, non esiste storia e non è pensabile alcun futuro significativo.

8. Una conclusione si pone come attenzione permanente a non mortificare lo spirito. Quante volte, forse senza neppure accorgersene, lo "Spirito è tradito e consegnato alla lettera" (Balthasar). "Siete veramente abili nell'eludere il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione… annullando la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi" (Mc 7,9.13). Dovremo avere sempre un'attenzione particolare per non trasformare le nostre tradizioni locali in Tradizione.

La Chiesa è παράδοσις immessa nel mondo per mantenere vivo quanto è stato "trasmesso" dal suo Signore (Mt 28,19: ενετειλάμην). In una parola, con il tema della trasmissione diventano di nuovo attuali le parole del Vaticano II: "La Chiesa afferma che al di sotto di tutti i cambiamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli" (GS 10) [3].

Note

[1] Agostino, Sermo 212,2: “Ecco dunque: vi ho proposto questo breve discorso su tutto il simbolo, come vi dovevo. Mentre il simbolo lo udrete tutto di seguito, vi ritroverete tutto quanto è stato brevemente sintetizzato in questo discorso. Le parole del simbolo non dovete assolutamente scriverle per impararle a memoria, ma dovete mettervele in testa solo ascoltando; e neanche scriverle dopo che le avrete imparate, ma dovete conservarle sempre nella memoria e così riportarle alla mente. D’altronde tutto ciò che ora sentirete nel simbolo è contenuto nei testi divini delle Sacre Scritture e tutto vi capita di ascoltarlo, or qua or là, secondo l’opportunità. Ma quel che, raccolto così e redatto in una forma particolare, non è consentito scrivere, richiama alla mente quella promessa di Dio quando, annunciando per mezzo del profeta la nuova alleanza, disse: “Questa è l’alleanza che io concluderò con loro dopo quei giorni, dice il Signore: porrò la mia legge nel loro animo e la scriverò nel loro cuore. Per realizzare questa cosa, quando si sente il simbolo, lo si deve scrivere non su tavolette o su qualunque altra materia, ma nei cuori. Ed egli che vi ha chiamati al suo regno e alla sua gloria, quando sarete stati rigenerato con la sua grazia, vi concederà che sia scritto nei vostri cuori anche per mezzo dello Spirito Santo, perché possiate amare quello che credete e la fede operi in voi per mezzo della carità, e così possiate piacere al Signore Dio dispensatore di ogni bene non come servi che temono la pena, ma come uomini liberi che amano la giustizia. Ed ecco ora il Simbolo che, già catecumeni, vi è stato istillato per mezzo delle Scritture e dei discorsi della Chiesa, ma che dai fedeli deve essere confessato e professato sotto questa breve formula”.

[2] Id., Sermo 215,1: Nell’unico testo che possediamo sulla redditio, il vescovo di Ippona introduce così il suo discorso ai catecumeni: “Il simbolo del santo mistero che avete ricevuto tutti insieme e che oggi avete reso uno per uno, sono le parole su cui è costruita con saldezza la fede della madre Chiesa sopra il fondamento stabile che è Cristo Signore. Voi dunque lo avete ricevuto e reso, ma nella mente e nel cuore lo dovete tenere sempre presente, lo dovete ripetere nei vostri letti, ripensarlo nelle piazze e non scordarlo durante i pasti: e anche quando dormite con il corpo, dovete vegliare in esso con il cuore”.

[3] Cfr Giovanni Paolo II in NMI: "Il programma già c'è…"

 

 


 

 

ANNO 2004

 

Il matrimonio come sacramento e il suo rapporto con la realtà naturale del matrimonio

Relazione ai preti del settore sud della Diocesi di Roma, tenuta il 22 gennaio 2004. Trascrizione dal vivo, non rivista dall’autore. I titoli dei capitoli sono redazionali.

Parto da una breve citazione di Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio:

“Poiché il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia riguarda l'uomo e la donna nella concretezza della loro esistenza quotidiana in determinate situazioni sociali e culturali, la Chiesa per compiere il suo servizio deve applicarsi a conoscere le situazioni entro le quali il matrimonio e la famiglia oggi si realizzano. Questa conoscenza è dunque una imprescindibile esigenza dell'opera evangelizzatrice” (FC 4).

“Una imprescindibile esigenza dell'opera evangelizzatrice”: questo testo ci provoca nella nostra pastorale e nella nostra catechesi a riflettere in primo luogo su quello che è il contesto all'interno del quale oggi noi poniamo la dimensione della famiglia e del matrimonio, perché certamente questa tematica è inserita all'interno di un faticoso processo che ci impegna tutti, nessuno escluso, ad un'attenzione vigile sui cambiamenti in atto.

Il legiferare è creatore di mentalità

I cambiamenti in atto non vanno sottovalutati! Penso in modo particolare a quelle che sono le diverse proposte legislative, in cantiere presso i diversi paesi, o che sono già diventate legge nei diversi paesi. Sono sempre più convinto che quando si fanno le leggi si crea anche cultura. Sembra che le leggi possano non interessarci, mentre invece nel momento in cui prendono piede, dopo dieci, venti anni, sono già diventate patrimonio di generazioni. Così diventano cultura, mentalità, nei differenti paesi, così sono diventate cultura anche nel nostro paese. A me sembra che, soltanto guardando sotto questo aspetto le proposte che arrivano nel nostro paese riguardo a questa prospettiva, ci si trovi di fronte ad alcuni fraintendimenti e ad alcune contraddizioni palesi. Infatti, da una parte si assiste ad un profondo cambiamento culturale che viviamo ormai da decenni; dall'altra parte, c'è però anche una volontà di imporre un progetto che voglia rinnegare alla base l'identità della famiglia, così come si è sviluppata a partire dalla concezione cristiana. Vi posso citare testualmente un intervento fatto un paio di anni fa alla Camera dei Deputati, dove una deputata diceva: “Dobbiamo arrivare a distruggere il modello classico di famiglia così come è concepito dai cattolici”. Questi due aspetti sono certamente correlati l'uno con l'altro, però richiedono un'analisi peculiare che sia in grado di verificare le istanze. Non è sufficiente dire che c'è il momento del cambiamento! Quali sono le istanze che sono sottese a questo cambiamento?

Il progresso culturale non è distruttivo

Certamente c'è questa rapida trasformazione culturale che è frutto di un lungo processo, che vede ormai la conclusione della modernità e l'inizio di un qualche cosa che non sappiamo ancora che cosa sarà. Ne vediamo alcuni germi ed in maniera a mio avviso un po' obsoleta, con poca fantasia, usiamo l'espressione “post-modernità”. Certamente noi portiamo le grandi conquiste che hanno segnato il progresso di questo periodo, insieme alle profonde contraddizioni che hanno segnato la fine di questo processo culturale. Quello che avverrà è ancora vacillante. Non sappiamo di preciso che cosa ci porta. Sappiamo che viviamo in una tensione tra il progresso che abbiamo raggiunto e l'incertezza del futuro, all'interno della quale c'è anche l'identità della famiglia. Questa famiglia che è profondamente inserita all'interno del tessuto sociale, di cui forma l'istanza fondamentale, vive essa stessa queste trasformazioni culturali, i cui segni più evidenti sono appunto nelle relazioni generazionali all'interno dei vari componenti del nucleo familiare. Guai se noi ci fermassimo nel vedere le relazioni all'interno della famiglia all'analisi che abbiamo fatto quando eravamo giovani sacerdoti. Tutto questo è profondamente cambiato! Non possiamo vivere questo momento solo a livello emotivo!

E' bene chiarificare subito che un cambiamento culturale per essere efficace non porta di per sé immediatamente all'assunzione di modelli costruiti soltanto ideologicamente con un'intenzionalità che si oppone alla fede. Esemplifichiamo. E' come se, di fatto, la fine del progresso culturale dovesse essere in qualche modo determinata dalla conservazione del modello di fede. “Voi cattolici – essenzialmente – non volete il progresso!”: questa è l'istanza che normalmente viene provocata. “La fede con il mantenimento della sua visione, della sua identità impedisce il progresso! Impedisce che ci siano nuove forme, nuovi modelli che si immettono all'interno della cultura e della società”. Questa è una grande trappola! Perché qualsiasi cultura, quando corrisponde alle determinazioni che la rendono cultura, quando è tale, è sempre, per definizione, dinamicamente aperta ad evolvere il modello che porta in sé e non a distruggerlo. L'evoluzione non è distruzione, perché altrimenti non siamo davanti ad un fenomeno culturale. Nelle culture esiste sempre una dura resistenza che si pone in atto per difendere i contenuti che hanno permesso alla cultura di essere tale. Se posso modificare un concetto di Ferdinand de Saussure – è stato un grande autore che ha creato la semiotica, la struttura del linguaggio - lui parlava del fatto che c'è nel linguaggio una “inerzia collettiva”! E' come se noi volessimo, ad esempio, togliere oggi il nome alla via Cristoforo Colombo. Vedete oggi “via Cristoforo Colombo” è nel linguaggio; se qualcuno decidesse un altro nome, noi continueremmo per trenta, quarant'anni, a chiamarla via Cristoforo Colombo. Perché c'è una inerzia collettiva. Cioè, una volta che si è messo insieme il significato e il segno, cioè il modello che ne viene fuori, c'è una capacità di trattenerlo dentro di sé; quindi la cultura non lo distrugge! Questa dimensione la accenno, perché è nella misura in cui siamo capaci di superare le contraddizioni che noi permettiamo di andare avanti nel progresso culturale. Ora: quando culturalmente si ha un vero progresso nei confronti della famiglia? C'è un pensiero che sta alla base delle diverse leggi, che sostiene “l'allargamento” del concetto della famiglia, estendendolo oltre a quella che è la dinamica tradizionale che abbiamo sempre visto: l'uomo e la donna, che vivono un rapporto stabile. Ebbene questa situazione dell'allargamento della famiglia, come viene proposto, questa dimensione, di fatto, è all'opposto del concetto di cultura e di progresso culturale. La contraddizione dell'estensione del concetto di famiglia porta concretamente, di fatto, a distruggere la forma originaria della famiglia. Ciò che ne consegue, quindi, è l'alterazione e non il progresso. Perché il progresso, per paradossale che vi possa sembrare, richiede la conservazione! Vi rimando per questo, ad esempio, ai nn. 50 e seguenti della Gaudium et Spes, dove si parla del concetto di cultura, che è un concetto desunto dalla filosofia di Maritain. Vedete, il concetto di cultura in Maritain, essenzialmente, è questo: cultura è l'espansione della vita propriamente umana, che consente di condurre un'esistenza eticamente conforme alle leggi della natura e in grado di svilupparsi in questo senso. E' un concetto filosofico, ripreso da Gaudium et Spes.

Queste semplici considerazioni preliminari mi sembravano necessarie per non confondere i piani su cui alcune tendenze dei nostri giorni cercano di esporre le loro opinioni, come se di fatto la proposta che avanzano riguardo alla famiglia sia una ineludibile conseguenza del progresso culturale e quanti non vogliono adeguarsi a questo sono da identificare come i fautori di un movimento di conservazione, che si oppone alle leggi del progresso. A me sembra che sia questo elemento che non funzioni e che ci debba far dire che questa dimensione di fatto arriva all'asfissia del concetto stesso di progresso e di cultura, se non al suicidio.

Il rapporto uomo-natura

Un'attenta lettura dei fatti ci porta a verificare alcune cause che risalgono in primo luogo ad un'errata concezione del rapporto dell'uomo con la natura. Mi domando spesso quale sarà il concetto di natura nei prossimi dieci, venti anni, perché lì si giocano molte cose. Noi, tutti noi, viviamo con il concetto di natura che è una res immutabile. La natura è lì, con le sue leggi, e non si modifica; ma oggi, purtroppo, non si riflette più in questi termini. Quale sarà il concetto di natura con il quale noi ci incontreremo? Quale sarà il rapporto uomo e natura? Perché lì c'è, come conseguenza, anche il cambiamento dei rapporti interpersonali. Noi dobbiamo tenere in considerazione che, in maniera quasi inconscia, c'è la pretesa di dominio dell'uomo sulla natura, senza rispettare le leggi che sono inserite nel processo naturale. E questo ha portato ad una modifica dei costumi. Si pensi soprattutto al campo della sperimentazione. Ad esempio: il grande dibattito sulla procreazione assistita da cui siamo reduci. Un dibattito che è stato fazioso, sproporzionato! Il legislatore ha cercato, a mio avviso con molta lungimiranza, di inserire un rispetto per la natura all'interno di un contesto come quello italiano. Vi immaginate di chiedere a qualsiasi nostro italiano se vuole avere un figlio da sua moglie, senza sapere o sapendo che il seme che sarà “inseminato” è quello di un altro uomo? Perché questo è l'eterologa! In Italia? Oppure la difesa che si fa nei confronti dell'embrione. Perché si è detto solo tre embrioni? Perché la tendenza – ne volevano sette, ne volevano quattordici! - è che gli altri embrioni (c'è vita umana realmente, in essi!), in avanzo, debbano servire per la sperimentazione. Ricordo che negli anni ottanta una ragazza si era fatta mettere in cinta ed aveva poi abortito per prendere le cellule del cervello del feto per cercare di guarire il padre di questa ragazza che era malato di Alzhaimer. E non importa neanche se questo caso sia poi così o no. E' importante aver chiaro che questo è la sperimentazione: pensare che il materiale che si ha davanti, che gli embrioni siano soltanto qualche cosa di neutrale… Tutto questo nei confronti del rapporto uomo-natura modifica inevitabilmente la cultura stessa e il modo di relazionarsi con la natura e anche tra di noi. Si pensi a quello che è il modificato equilibrio nei rapporti uomo-donna, perché qui è scoppiata di fatto l'identità di questi due soggetti. La donna ha certamente rafforzato la sua personalità, indebolendo, però, in maniera drammatica, l'uomo che sembra rinchiuso in un circuito adolescenziale, dal quale difficilmente riesce ad uscire. Sarebbe da verificare, ma sembra risultare dalle statistiche delle cause di separazione, dopo il secondo figlio, come, in tanti casi, l'uomo torni dalla mamma. Questi sono fenomeni culturali che devono necessariamente essere presi in considerazione per comprendere il mutamento culturale. Inoltre c'è una modificata visione di un benessere generale che ha imposto uno stile di vita che fa del corpo l'unico oggetto di attrazione. Quanti problemi oggi per l'adolescente nel rapporto con se stesso e con il proprio corpo! In alcune trasmissioni vediamo, ad esempio, dopo aver ascoltato tutti i racconti della delusione di qualcuna che è stata lasciata per un'altra, la conduttrice che le presenta dieci “maschietti” e le dice: “Adesso, per consolarti, scegline uno!”. Ma la realtà, la vita, non è questo! Ma oggi, se non sei bello, sei da mettere in un cantuccio! Questi problemi non possono essere sottovalutati quando affrontiamo la tematica più ampia della famiglia.

Questo che ho detto, serviva solo a porre alcune domande sullo scenario e il contesto su cui voglio porre alcune riflessioni sulla famiglia.

La dimensione del mistero

Come primo elemento noi dovremmo essere capaci di recuperare la dimensione del mistero. L'uomo di oggi si sente sempre più affascinato da questa categoria, perché la vive in prima persona. Più vede la grandezza delle conquiste che vengono fatte e più, quando riesce a pensare se stesso, si scopre inevitabilmente come un grande mistero. Noi dovremmo, lasciatemi passare il termine, “sfruttare” questo elemento, cioè riprendere tra le mani ciò di cui siamo esperti. Noi siamo esperti del mistero. Allora, come possiamo usare questa categoria, nel momento in cui viviamo il momento della così chiamata “debolezza della ragione”? Se la ragione è debole, perché è frammentaria, la ragione si rafforza nel momento in cui è posta davanti al mistero, perché lì è provocata dall'andare sempre oltre, a non fermarsi mai, ad entrare all'interno del mistero. Ora vedete, l'uomo è un mistero a se stesso! Le grandi questioni sulla propria vita, sulla propria origine, sul proprio fine, sulla presenza del male, sulla vita oltre la morte… queste domande permangono immutate nel cuore delle persone o vengono tenute assopite. Noi dobbiamo provocarle, perché l'uomo le sente dentro di sé. A nulla serve rincorrere la via del divertimento per illudersi di aver trovato la soluzione. “La sola cosa che ci consola nelle nostre miserie è il divertimento e tuttavia è la più grande delle nostre miserie! Perché ci impedisce principalmente di pensare a noi e ci riporta inavvertitamente alla morte” B. Pascal). Questo succedeva nel 1600 e questo succede immutato oggi! Perché l'uomo è sempre lo stesso! Proprio ieri parlavo con gli studenti dell'Università, alla fine di un esame e chiedevo: “Cosa farete ora?” Mi hanno risposto: “Prima mi riposo, poi, in seconda serata – interessante già questo linguaggio - vado al pub a distrarmi e bere birra”. Vedete noi non conoscevamo qualche anno fa in Italia questo fenomeno di ragazzi e ragazze che escono alle 23.00 e che vediamo poi girare per le strade con la bottiglietta di birra in mano. Chi se ne intende di queste cose, sa che l'assunzione in maniera abitudinaria ed esagerata della birra non è per niente diversa o meno pericolosa dell'alcool.

Come in rapporto alla famiglia e al matrimonio possiamo ricuperare questa categoria del mistero? La strada dell'enigmaticità dell'esistenza trova luce, come ci insegna il Concilio in quella bellissima espressione di Gaudium et Spes 22, alla luce di un mistero più grande. Possiamo alla luce di questo mistero più grande prendere quel mistero naturale dell'esistenza e cercare di dare una via di soluzione?

Il testo di Genesi ed il mistero naturale del matrimonio

Cerco di applicare questa prospettiva alla dimensione del matrimonio e della famiglia e mi sembra che sia fattibile se ritorniamo alla prima pagina della Genesi, là dove l'autore sacro narra la tristezza di Adamo dopo la sua creazione. Adamo è triste perché vive una situazione di solitudine. A nulla serve la sua superiorità sugli animali. Il fatto che Dio glieli conduce perché possano ricevere un nome da lui – un nome che sarebbe rimasto per sempre! - non toglie a lui il desiderio di avere qualcuno con cui dialogare – dia-logos, la reciprocità! Dio fa scendere il sonno su Adamo e dal costato Dio crea Eva, la madre di tutti i viventi. Qui c'è il momento del risveglio: “Adesso, sì! Questa è ossa delle mie ossa, carne della mia carne!”

Di fronte a Eva Adamo capisce chi è; davanti ad Eva c'è la scoperta della propria identità personale. E questo non è in riferimento estraneo alla sua natura, ma è conforme a ciò che egli ha scoperto di se stesso. Eva diventa la risposta a quel desiderio naturale, che Adamo aveva in sé, di non voler rimanere solo. Dio, quindi, non ha creato l'uomo per la solitudine, ma per la relazione, la relazionalità, perché nella scoperta dell'altro rinvenisse il senso più profondo di sé. E' così si spezza il cerchio di solitudine! Adamo qui comincia a parlare e nella sua relazione con Eva capisce finalmente chi è e nello stesso tempo capisce che non potrà mai dominare Eva. Perché il nome lo dà Dio. Chi crea è Dio, non è Adamo.. Il testo dice che Adamo chiama “donna”, madre di tutti i viventi; l'uguaglianza tra i due sta nell'atto creativo di Dio, che in ambedue pone l'immagine di se stesso, l'immagine e la somiglianza. Eva e Adamo diventano in questo momento l'uno per l'altro dono. Per questo si capiscono. E capiscono che da quel momento la loro esistenza sarà di un'unità tale da formare una sola carne. Perché questo avvenga devono lasciare il padre e la madre per creare una nuova unità, una nuova forma di vita creata esclusivamente per loro. E qui non c'è ripetizione alcuna in ciò che dovranno essere, perché il progetto di Dio su ognuno di loro, singolarmente e nell'unità della carne è un progetto di salvezza che li porta ad un futuro carico di senso. E' lì in questa reciprocità. I tratti della famiglia sono qui composti in una sintesi mirabile. Abbiamo la dimensione del dono come la forma primaria dell'amore che emerge in maniera così forte fino a trovare poi in Giovanni 3,16 la sua forma più espressiva. Senza questa componente della gratuità, dell'essere dono l'uno per l'altro, è impossibile entrare all'interno della logica dell'amore, perché il rapporto sarebbe sempre rinchiuso nell'ambito della conquista dell'uno sull'altro con alla base una sottile forma di ricatto, che prima o poi si manifesta nel rinfacciare il sacrificio compiuto, costruendo inevitabilmente un impervio dominio destinato a distruggere la sincerità del rapporto. Perché normalmente se non c'è il senso della gratuità e il senso del dono allora c'è quello della conquista. non c'è un'altra forma. Ma se c'è quello della conquista allora c'è anche quello del sacrificio (io ho fatto un sacrificio per te!) e quindi c'è quello del ricatto. Ma non c'è amore! Oggi nell'ambito filosofico c'è una tendenza molto ampia a fare addirittura la filosofia del “dono”, cosa che sembrava impossibile fino a qualche tempo fa. Oggi c'è il recupero del dono e della gratuità.

Ma c'è anche la dimensione della vita familiare come vocazione che permette di inserire il mistero della reciprocità in un piano di salvezza che, giorno dopo giorno, richiede di essere conosciuto e attuato per permettere una partecipazione attiva nella realizzazione di questo piano. La vocazione non è un tratto secondario – lo sappiamo benissimo - nella costruzione della famiglia, ma è ciò che permette di far comprendere che, se i due rimangono soltanto al livello del ruolo, il ruolo cambia a secondo dei contesti in cui ci si viene a trovare. La vocazione è quella realtà per la quale uno non può essere padre o madre soltanto quando è in casa sua e quando è in ufficio è dirigente e così via, come se il ruolo fosse quello che abbiamo e che la società dà a seconda degli ambienti in cui ci troviamo. No! Se ricuperiamo la dimensione di vocazione, allora dal ruolo si passa alla missione; si scopre inevitabilmente che c'è la partecipazione ad una missione più ampia, che è appunto quella di condurre a realizzazione il piano di salvezza. Il mistero – la sottolineatura del mistero! - della propria chiamata a diventare sposi e genitori trova risposta convincente, nella misura in cui viene affidata agli sposi e ai genitori la condizione di “essere missione”, che stanno realizzando un piano di salvezza che è segno efficace per la comunità, lì dove loro vivono e stanno realizzando pienamente un'offerta della loro esistenza.

Efesini 5, il mistero del sacramento

A partire da questa dimensione mi sembra che si possa ricuperare un altro testo della Scrittura – Nuovo Testamento adesso; fin qui abbiamo descritto solo la dimensione naturale - che è Efesini 5. Qui Paolo dice che questo è un “mistero grande!”, perché il rapporto dell'uomo con la donna nell'amore del matrimonio viene definito un “mistero grande”. Mistero che non umilia la ragione, ma che le consente di andare appunto oltre i limiti e la debolezza che possiede. Perché non dobbiamo dimenticare che per Paolo, il mistero non è ciò che non si capisce. Il mistero è ciò che viene rivelato, è ciò che viene fatto conoscere (Rom 16, 25-26); quindi ciò che da noi stessi, dalla debolezza della nostra condizione non riusciamo a esprimere, Dio ce lo fa conoscere! Questo è il mistero: Dio entra nella nostra vita e ci consente di trovare una luce. Alla luce del mistero del Verbo incarnato (GS 22), trova vera luce il mistero dell'uomo: è la stessa cosa! E poi il termine mysterion greco viene tradotto in latino con sacramentum. Il mistero resta, ma diventa sacramento. E sacramento – per definizione – è segno visibile; quindi il mistero non viene abolito; viene mantenuto, impresso ed espresso attraverso la dimensione sacramentale. Quella realtà del dono, della vocazione, dell'incontro, della conoscenza, della reciprocità… viene adesso ripresa e portata dal mysterion al sacramentum. La famiglia quindi rimane mistero di amore, ma è sacramento, è posto dinanzi agli occhi di tutti per cogliere un amore più grande e profondo, perché è tipico del segno sacramentale rimandare oltre la forma visibile. E allora il patto di amore che i due giovani si scambiano (pensate al segno dell'anello!), questa dimensione consente allora di verificare la donazione l'uno all'altro che riguarda tutta la vita. “Io prometto di esserti fedele sempre, nella buona e nella cattiva salute, amarti e rispettarti ogni giorno della mia vita”. Ogni parola ha qui un mondo su cui fare una catechesi!

La fecondità: non solo amarsi, ma amare insieme

Qui prende forma non solo la misura dell'amore che viene versato nell'altro, ma la sua stessa fecondità, perché l'amore è fecondo.

Ma qui devo inserire il tema della pericòresi trinitaria. Qui noi dobbiamo scoprire che questo amore deve arrivare fino alla fine e che quest'amore che si dona è generativo di una forma di un amore pienamente personale, autonoma e libera. Mi piace riprendere qui una bella espressione di S.Bonaventura, quando egli dice che l'amore tra il Padre e il Figlio è certo un amore totale e pieno, perché il Padre dà tutto al Figlio e il Figlio riceve tutto dal Padre, ma “insieme” non hanno dato ancora tutto. Quindi non è sufficiente che il Padre e il Figlio diano tutto, ma il tutto lo devono dare insieme. Ecco perché l'icona - diciamo così - della Trinità non è più soltanto una dimensione da contemplare, ma diventa per la famiglia una immagine reale da vivere, perché gli sposi danno tutto se stessi e si dà tutto se stessi nella reciprocità. Ma “insieme” devono dare ancora tutto se stessi e qui c'è la fecondità dell'amore. In questo orizzonte è possibile capire quello che dice Paolo in Efesini 5,25: “donare se stesso per lei”. Qui c'è il programma di amore che è posto dinanzi alla coppia come vocazione specifica nella chiesa. La famiglia diventa segno non soltanto per i credenti, ma anche chi non crede deve essere provocato a capire qual è il fondamento e l'origine di questa concezione dell'amore. Come mai si amano fino a donare tutto se stessi l'uno all'altro e si amano insieme da donare insieme una carne sola, tutto loro stessi? Questo non è un segno solo per noi, ma un segno che si apre, una provocazione che va al di là e deve essere tale. Come mai si amano per sempre? Cosa sta alla base di questo? L'impronta del Dio-Trino non solo nella singola creatura, ma anche nella relazionalità della coppia: è lì che consente di verificare l'impegno che i due giovani hanno assunto nell'esprimere la loro vita come donazione piena e totale. Lì c'è il frutto dell'amore.

La libertà della verità

Qui viene scoperta – per quanto possa sembrare paradossale, soprattutto nel contesto in cui viviamo oggi - anche l'espressione più alta della libertà! Guai se noi non ponessimo anche nella nostra catechesi la concezione profonda della libertà come dono totale del dare tutto se stessi. Vedete Giovanni Paolo II, sempre in Familiaris Consortio, al numero 6, dice:

“Alla radice di questi fenomeni negativi sta spesso una corruzione dell'idea e della esperienza della libertà, concepita non come la capacità di realizzare la verità del progetto di Dio sul matrimonio e sulla famiglia, ma come autonoma forma di affermazione non di rado contro gli altri per il proprio egoistico interesse”.

Dobbiamo essere capaci di formulare una catechesi su come si è veramente liberi nel momento in cui si ama in maniera genuina. Qui viene fuori tutto il tema della capacità e della responsabilità per l'altro e quindi la capacità della scoperta della scelta della fedeltà.

Respicere

Da ultimo: c'è una particolarità del testo di Paolo in Efesini, che mi piace evidenziare. Mentre al marito viene chiesto di “amare la propria moglie come se stesso”, alla donna l'Apostolo chiede di “rispettare il marito”. A prima vista potrebbe sembrare una umiliazione della sposa, mentre nulla è più distante dal pensiero dell'Apostolo. “Rispettare” ha una valenza semantica fortemente qualificante. Rispettare significa: guardare in profondità! E' il “respicere”! Alla sposa è chiesto di saper guardare in profondità, perché possa compiere sempre ciò che è il bene del proprio sposo. L'amore vive del voler bene e del voler il bene dell'altro. Alla sposa non si chiede qualcosa di diverso dallo sposo; viene esplicitata la forma con cui si deve amare.

La fecondità che non è un diritto

Lasciatemi qui inserire il tema della fecondità della vita e del concetto della vita. Nella concezione del mistero permane quella dimensione profonda della vita che si è fatta visibile. Perché noi sappiamo che la vita si è fatta visibile e “noi ne siamo testimoni” (1 Gv 1,2). Dove si dà il segno che questa vita si è fatta visibile? E' lì in questa capacità appunto di esprimere l'amore senza rinchiuderlo in se stessi e senza volerlo a tutti i costi. Dobbiamo insistere anche su questo! E' propositivo di una cultura! Penso alle scempiaggini che sono state dette nel dibattito su questa legge. Il figlio non è un giocattolo che si deve avere a tutti i costi! “Io voglio un figlio!” Non esiste un diritto assoluto per nessuno! Ci può essere una fecondità che è ferita, ma una fecondità ferita può esprimersi in una pluralità di forme che sono vere espressioni di maternità e di paternità responsabile; perché l'esperienza del proprio limite, il mistero del proprio limite, diventa la forza per debordare in forme di donazione dinanzi alla povertà e alla solitudine, che spesso l'egoismo del mondo impone nella nostra cultura. Questa fecondità prende il volto di una procreazione diversa, ma non per questo meno amorosa; e si trasforma in strumento di salvezza per tanti che non avrebbero possibilità alcuna di sperimentare l'amore di una famiglia. Questa maturità non si può imporre, ma deve crescere nei coniugi, ma non si può dire che questa sia una fecondità meno efficace di quella fecondità che è capacità di procreare a partire dal proprio corpo.

Lo stupore che spinge oltre

Vera sposa e vera madre, Maria da al mondo l'autore della vita. Come sarebbe bello riprendere quel testo di Paolo VI: “La casa di Nazaret è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del vangelo. Qui tutto ha una voce, tutto ha un significato. Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazaret ci ricordi cos'è la comunione di amore, la bellezza austera, il semplice, il suo carattere sacro e inviolabile”. E davanti al mistero, al mistero della famiglia rimane il silenzio come la forma privilegiata per poter contemplare il segno che ci è stato dato. Ci deve essere sempre lo stupore; lo stupore ci da la forza di entrare sempre più nel mistero e, perciò, di trovare sempre nuove immagini, nuovi linguaggi, nuove forme espressive.

Lasciatemi concludere con una espressione che è tipica dell'evangelista Giovanni: “I suoi discepoli credettero in Lui”. Sapete che nella teologia della fede ci sono i diversi modi attraverso i quali si esprime la fede: si crede a Dio, a Gesù, si crede che Gesù è il Figlio di Dio. E c'è questa bella espressione, tipica di Giovanni: si crede in Gesù. Il “credere in” indica una dinamica, una crescita continua nella relazionalità. Ecco io penso che se poniamo il tema della famiglia e della responsabilità che la famiglia possiede oggi – per cui possiamo ripetere con Giovanni Paolo II: “Famiglia diventa ciò che sei!” - lo possiamo fare nella misura in cui c'è questo “credere in”, questa capacità di poter andare sempre, sempre, al di là. E' sempre una crescita continua nell'individuazione dell'identità della famiglia, ma soprattutto in quel rapporto con Cristo che è un rapporto di crescita continua.

Risposte alle domande:

Davanti ai fenomeni culturali c'è bisogno di tempo! Spesso vediamo tutto con la fretta dell'immediatezza e del risultato che abbiamo raggiunto. Mettiamoci nella prospettiva che noi oggi stiamo preparando il cambiamento. Dobbiamo avere davanti la lunghezza del tempo, che è quello della semina. Forse la nostra è una stagione fortunata, perché stiamo raccogliendo la delusione del secolarismo. Quando si parla di famiglia, molti giovani oggi vogliono la stabilità. Alcuni anni fa non c'era questo concetto di stabilità. Abbiamo quindi il recupero di una conclusione e la semina che deve essere portata. “Dovete scoprire in ogni giovane un punto su cui far leva, perché esiste!” (S. Giovanni Bosco). Dobbiamo fare la fatica continua di sapere che la nostra pastorale è una pastorale personale. Prima della dimensione esperienziale c'è quella personale! E' necessaria la pazienza pastorale!

Noi dobbiamo essere non più ottimisti, ma più propositivi. Il nostro compito è quello di far tendere, di suscitare interesse, di provocare a vedere il fine verso cui devono andare. Se noi insistiamo sempre su quelle angosce che già ci sono, non andiamo molto lontano! Dobbiamo proporre che ci sono realtà positive, che l'amore che noi proponiamo non è un'idea astratta, ma è la realtà, tant'è vero che ci sono tante famiglie che vivono questa realtà. Mostrare che l'annuncio che noi facciamo vive di una concretezza.

Il matrimonio è una realtà già “naturalmente” rilevante. Gesù ha fatto di questa realtà un sacramento. Noi a volte viviamo questo come una dicotomia: abbiamo “idealizzato” un sacramento; per cui lo deve ricevere chi è perfetto, chi crede, e dimentichiamo che c'è un passaggio concreto, una condivisione di un elemento che è naturale. Il matrimonio, il segno, in prima istanza vive di questa realtà naturale, tant'è vero che i soggetti del sacramento sono gli sposi e non noi che li benediciamo. Gratia supponit naturam.

 

 


 

 

ANNO 2001

 

Il compito della catechesi oggi ed i suoi problemi

Relazione per i preti ed i diaconi del settore sud di Roma, tenuta il 27 settembre 2001.

1. Un'icona che aiuta a riflettere

Dalla Lettera di Barnaba : "Una grande fede e amore abita in voi nella speranza della vita. Considerando che, se mi preoccupo di parteciparvi ciò che ho ricevuto, avrò ricompensa per il ministero prestato, mi sono premurato di mandarvi una lettera perché voi, oltre la fede, possiate avere una conoscenza precisa. Tre sono i precetti del Signore: speranza di vita (inizio e fine della nostra fede), giustizia (inizio e fine del giudizio), carità, (testimonianza di gioia e di letizia delle opere fatte nella giustizia)" (I, 4-6).

Iniziare con questo testo della Lettera di Barnaba ha un suo significato. Come sapete, sono passato per tutte le parrocchie e ho incontrato i catechisti. Ciò che desidero è in primo luogo comunicare e partecipare a voi l'esperienza che ho vissuto, un'esperienza intensa, fruttuosa, faticosa, che ha permesso di verificare gli aspetti positivi dell'impegno nella catechesi e che, nello stesso tempo, ha portato alla luce alcune questioni cruciali di cui tutti noi sentiamo l'urgenza perché quotidianamente ne viviamo la problematica. Sono convinto, dunque, che partecipare a tutti voi quanto è stato oggetto della mia visita sia una ricchezza per il nostro ministero, nonostante sarà necessario affrontare alcuni puncti dolentes sui quali, in questi anni, si è spesso ritornati, ma che richiedono da parte di tutti noi una presa di posizione comune e convinta.

Vorrei sottolineare, da subito, che il tema che trattiamo oggi non si conclude. Il tema della catechesi lo riprenderemo nel corso dell'anno negli incontri di settore e chiedo di averlo come punto di riflessione negli incontri di Prefettura, oltre alle tematiche che verranno di volta in volta proposte dal Consiglio dei Prefetti. In questo modo avremo l'opportunità, alla fine dell'anno, di poter mettere in comune un lavoro che ci ha coinvolti direttamente e in prima persona in un punto cruciale della pastorale.

2. Il senso di questa icona

Negli anni passati la catechesi ha vissuto un momento di reale presa di coscienza del grande ruolo che svolgeva nella vita della comunità cristiana. L'impegno che i Vescovi hanno assunto ha portato alla formulazione di tutti i catechismi per le diverse fasce di età. Non è il momento di entrare nelle questioni interne a questi catechismi - se sono conformi all'uso che ne facciamo. Un catechismo perfetto non esiste, il vero catechismo, alla fine, è il catechista che trasmette e vive di quel contenuto. La catechesi, si è compreso, non è una delle tante attività della vita della Chiesa, ma è lo strumento della trasmissione della fede. Il nostro ministero pastorale ha, nella catechesi, uno dei momenti centrali. Per la catechesi noi impegniamo la gran parte del nostro tempo. Iniziative, energie, persone e mezzi sono in massima parte dedicate alla catechesi e questo mostra con evidente chiarezza il ruolo che essa assume per la vita della comunità cristiana.

Non possiamo negare, da questa prospettiva, che la catechesi ha saputo dare frutti fecondi e genuini. Si è messo in moto un cammino che non si può fermare sia per la responsabilità della trasmissione della fede, sia per la positività che esso ha portato.

Insieme a questi elementi che caratterizzano in positivo il movimento, è necessario non chiudere gli occhi davanti ai grandi cambiamenti a cui siamo sottoposti. Soprattutto in un periodo come il nostro, caratterizzato da diversi tensioni che segnano un passaggio nella cultura del nostro tempo che non è azzardato chiamare "epocale". Il Cardinale Vicario, a più riprese nel corso di questi ultimi mesi, ci ha aiutato a cogliere i nodi di questo cambiamento e verificare le sue conseguenze nella vita sociale, politica ed ecclesiale. Vediamo dinanzi a noi cambiare così velocemente i comportamenti e i modi di pensare che la tentazione di non vedere queste fasi per poter restare tranquilli è forte e per nulla ipotetica. Concetti quali “uomo”, “natura”, “Dio” sono caricati di significati così nuovi e imprevisti che non sempre ci trovano pronti a delle risposte corrispondenti.

In questo contesto di cambiamento culturale la fede non è immune, ma per sua stessa natura risente del modo di vivere del credente. Tra i diversi modi con cui la vita di fede viene recepita è facile constatare chi permane in uno stato di fede infantile, chi si fa promotore di un impegno per una fede più genuina e adulta, chi avanza la pretesa di ricevere dalla Chiesa dei servizi dovuti, chi rimane confuso per un cambiamento inaspettato... Tra queste diverse e comprensibili situazioni si insinua ferocemente l'indifferenza religiosa, premessa indiscussa di un ateismo che trova diversi volti.

Molti catechisti mi hanno detto con convinzione che i nostri ragazzi oggi hanno desiderio di conoscere Gesù, ma lo vogliono vedere e toccare con mano nel tessuto quotidiano della loro vita. Una simile osservazione è profondamente vera e attendibile. Penso, ad esempio, a quanto avviene nell'ambito teologico che condiziona, a sua volta, l'impostazione catechetica. Uno degli elementi peculiari della cristologia dei nostri anni è certamente l'attenzione privilegiata al Gesù storico. La così chiamata Third Quest tende proprio a questo: far toccare con mano i dati certi della condizione storica di Gesù di Nazareth. Forte di questa esigenza la catechesi dovrebbe essere capace di rapportare la vita di Gesù alla nostra vita, per permettere di verificare che "nel mistero dei Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo" (GS 22).

In questo stesso contesto, emerge l'esigenza di conoscere la nostra Chiesa di Roma. Una Chiesa che affonda le sue radici nella fondazione apostolica di Pietro e Paolo, che mantiene viva questa sua identità non solo nei suoi monumenti storici, ma soprattutto nella sua vitalità e operosità resa ancora più visibile nella persona del Santo Padre, il nostro Vescovo, che è segno dell'unità di tutta la Chiesa. E questa vitalità che deve essere capace di ritornare alle sue radici e permettere ai nostri credenti di approdare a una memoria storica che viene mantenuta viva e che sa generare cultura e fede. Senza la consapevolezza di una tradizione a cui si appartiene è difficile poter pensare che si diventa trasmettitori della fede di sempre.

In questo stesso contesto di cambiamento culturale, i nostri catechisti sentono molto forte il distacco tra il loro insegnamento e l'orientamento culturale odierno con i suoi contenuti spesso effimeri e con l'imposizione di una visione della vita che prescinde completamente dalla visione cristiana. Mi piace riportare un testo di R.Guardini che già negli anni '50 avvertiva questo processo che, purtroppo si è mostrato inarrestabile: “La verità della Rivelazione cristiana viene messa in dubbio sempre più profondamente; la sua validità per la formazione e la condotta della vita viene posta in discussione in forma sempre più perentoria. In particolare la mentalità dell'uomo colto si contrappone alla Chiesa in modo sempre più deciso. Sempre più ovvia o naturale appare la nuova pretesa che i diversi campi della vita, politica, economia, ordine sociale, filosofia, educazione, ecc., debbano svilupparsi muovendo unicamente dalle proprie norme immanenti. Si costituisce così una forma di vita non-cristiana, anzi per molti aspetti anti-cristiana, che si impone in modo così conseguente da apparire assolutamente normale; e sembra un abuso l'esigenza della Chiesa che vuole che la vita sia determinata dalla Rivelazione. Lo stesso credente accetta in buona parte questa situazione, quando pensa che le cose della religione costituiscano un settore a sé e altrettanto le cose del mondo... Ciò significa che l'uomo moderno non solo smarrisce in gran parte la fede nella Rivelazione cristiana, ma subisce anche un indebolimento delle sue disposizioni religiose naturali e viene sempre più portato a considerare il mondo come una realtà profana” (La fine dell'epoca moderna, Morcelliana, Brescia, 1984, pp.93-95).

Se si vuole, il quadro descritto è più facilmente verificabile nell'ordine della morale, dove i contenuti che vengono espressi dalla catechesi trovano i volti dei nostri giovani talmente eloquenti da non richiedere neppure una loro reazione verbale. Il relativismo etico è conseguenza del relativismo culturale e ciò che appare ancora più grave è che da molti esso viene giustificato come forma ineliminabile della democrazia. Viviamo su un altro pianeta nel momento in cui annunciamo la fede della Chiesa? Eppure, molti catechisti hanno osservato che mentre nei primi incontri per i fidanzati lo scetticismo è al culmine, progressivamente prende posto l'interesse, il dibattito, il desiderio di comprendere le motivazioni della fede e la sua accettazione.

In questo passaggio epocale per la cultura e la fede, si deve riconoscere il grande impegno che noi possiamo svolgere. Ho detto con convinzione delle grandi energie che i sacerdoti dedicano a questo momento. Penso, in modo particolare, all'organizzazione dei diversi corsi, agli incontri di inizio d'anno durante il quale si incontrano tutti genitori, al momento della formazione dei catechisti e alla loro scelta. Vorrei ribadire quanto siano importanti questi momenti e quanto preziosi per l'evangelizzazione. Un incontro personale che mostra il sacerdote non come un capoufficio integerrimo, ma come un pastore che sa incontrare chi è affidato alla sua cura e sa venire incontro non ai capricci, ma alle esigenze dell'altro, è un momento insostituibile della pastorale e di un impatto che per molti è un primo ritorno alla Chiesa. E' qui che si crea il primo impatto per l'ascolto, per l'amicizia e per ricondurre alla serietà della fede. Certo, tutto questo richiede tempo, pazienza e discernimento, ma anche questo è via di evangelizzazione.

Non vorrei lasciare cadere troppo velocemente questo tema. Siamo stati abituati, nel corso degli anni passati, a distinguere giustamente tra le diverse fasi della vita della Chiesa. Abbiamo sentito parlare di pre-evangelizzazione, che non deve essere confusa con l'evangelizzazione e questa non deve prendere il posto della catechesi. La catechesi appartiene di fatto al processo dell'evangelizzazione e questa è il compito principale della Chiesa che è convocata per celebrare il mistero della salvezza e per operare la paradosis della Parola che salva. “Nessuna definizione parziale e frammentaria può dare ragione della realtà ricca, complessa e dinamica, quale è quella dell'evangelizzazione. Si corre il rischio di impoverirla e perfino di mutilarla” ci ricordava la Evangelii Nuntiandi (17). L'opera di evangelizzazione si esprime in diversi modi: con la predicazione dei vangelo, con la celebrazione dei segni sacramentali, con la vita di comunione che esprime l'ecclesialità del popolo di Dio, con la testimonianza a favore dei poveri, con l'apostolato di tutti i membri dei popolo di Dio attraverso la competenza loro propria e nel luogo dove sono chiamati a vivere il vangelo. Con tutta la sua presenza la Chiesa evangelizza. Ciò significa che un'azione non può andare a detrimento di un'altra, né la sopravvalutazione di una adombrare l'altra. C'è un'interdipendenza nelle diverse espressioni della Chiesa nella sua opera di evangelizzazione che è fondata sull'azione primaria dello Spirito e sulla finalità che è la costruzione della Chiesa (Ef 4). Scriveva Giovanni Paolo II nella Catechesi tradendae: “Ricordiamo prima di tutto che tra catechesi ed evangelizzazione non c'è separazione od opposizione, e nemmeno un'identità pura e semplice... La catechesi è uno di questi momenti di tutto il processo di evangelizzazione” (CT 18). La catechesi, dunque, inserita in un processo più ampio di evangelizzazione!
Ciò comporta la nostra consapevolezza di non chiedere troppe cose alla catechesi, come anche di non ridurre tutta l'opera di evangelizzazione ad essa. Non possiamo limitare la nostra catechesi alla sola preparazione sacramentale, lasciando in ombra la catechesi più sistematica per gli adulti; è necessario quindi che poniamo maggior attenzione alla specificità della catechesi senza isolarla, ma ponendola all'interno di un processo più ampio quale quello dell'evangelizzazione che ha volti diversi. E la stessa catechesi specifica dei sacramenti, non può dare tutto del mistero della fede, ma deve essere capace di trasmettere l'essenziale, in vista della preparazione. Non riuscirei a comprendere fino in fondo che un ragazzo sa tutto della storia di Abramo e Mosè, ma non sa nulla sull'Ultima cena e il mistero dell'Eucaristia. Alla stessa stregua, per il sacramento della confermazione. Un discorso importante acquista la preparazione al matrimonio. Noi spesso svolgiamo un compito di supplenza alla conoscenza medica, psicologica, della vita di coppia, ma questo non può andare a danno della catechesi sacramentale sul matrimonio cristiano.

Si nota da queste ultime battute, come ritorni con forza l'esigenza di dare specificità all'azione catechetica. Essa ci viene riproposta da Giovanni Paolo II con una duplice finalità: “Far maturare la fede iniziale ed educare il vero discepolo di Cristo mediante una conoscenza più approfondita e più sistematica della persona e del messaggio di nostro Signore Gesù Cristo” (CT 19). Come si nota, una duplice finalità che comporta l'insegnamento della fede e la crescita in essa. La catechesi non va confusa con il gioco né con la scuola. Certo, il suo insegnamento è reale, è un insegnamento, ma richiede l'apporto della vita. Le provocazioni della vita non possono attenuare la forza dell'insegnamento. Noi siamo pur sempre amministratori di quella parola e quanto è richiesto all'amministratore è di essere fedele (1Cor 3, 9; 2Cor 1, 24).

Un ulteriore elemento di riflessione è dato dal tema della complementarità con la vita liturgica. Uno dei grandi problemi che emergono dai catechisti è la separazione tra la catechesi e la messa domenicale. Riprendere con determinazione l'importanza della celebrazione del dies Domini è cruciale per una coerente catechesi. Dobbiamo studiare le forme perché la celebrazione domenicale sia vissuta in continuità con la catechesi e questa come momento che sfocia nella celebrazione. Questo non è solo un obbligo che si deve assumere firmando un documento di iscrizione, è ben di più. E' far vivere la consapevolezza del contenuto che viene trasmesso. Sorge inevitabile il problema sul che fare. Non sarà una rigida disposizione a vincere, pena la non ricezione del sacramento, ma la forza della convinzione che si fa forte della partecipazione. Ritengo, in ogni caso, che dobbiamo sempre presentare seriamente i sacramenti e richiedere l'impegno dovuto verso di essi; tuttavia, senza il convincimento e la pazienza dell'accompagnamento sarà una battaglia persa. La conversione - che è opera della catechesi - richiede molto più tempo e impegno per riconoscere la trasformazione che deve avvenire in noi.

Una sfida a cui dobbiamo rispondere è certamente il coinvolgimento della famiglia. Compiremo un grande sforzo nei prossimi anni perché la famiglia venga rimessa al centro della nostra opera pastorale, ma è necessario che soprattutto per i sacramenti dell'iniziazione troviamo le forme più adeguate perché l'impegno della famiglia non sia solo di una presenza asettica, ma di una partecipazione convinta. Abbiamo diverse esperienze positive in tal senso. E' necessario che le comunichiamo tra noi e ne verifichiamo l'attuabilità in modo tale da coinvolgere il più possibile in un processo di responsabilità. E ovvio che soprattutto per la catechesi alla prima comunione, i genitori si sentano più coinvolti se i loro figli vivono forme di protagonismo che li rendono attivi nella vita liturgica e della comunità.

Un discorso importante si apre per i diversi e numerosi casi di genitori divorziati risposati. Siamo ancora alle prime armi circa una pastorale dei divorziati. Ciò che mi sembra importante sottolineare è il senso di accoglienza che la comunità deve esprimere, senza lasciarsi andare al giudizio. Ma resta il fatto di un loro diretto coinvolgimento e della partecipazione alla vita della comunità. La celebrazione della Parola di Dio potrebbe essere un momento favorevole di catechesi per le famiglie, come pure i diversi “centri di ascolto” presenti ormai in quasi tutte le parrocchie. L'impegno nella carità, nell'assistenza, in alcune fasi della vita liturgica (presentazione dei doni, raccolta delle offerte…) devono essere sfruttate per far comprendere la loro partecipazione alla vita della comunità. Ritengo sia da evitare, comunque, la prassi secondo la quale i genitori devono accompagnare i bambini a fare la prima comunione. Nessuno può essere messo nel disagio nel sentirsi avanzare domande delicate anche dai propri figli.

Insieme al coinvolgimento della famiglia è necessario che i maestri e i professori di religione non pensino di essere una realtà staccata dalla formazione dei nostri giovani. Ritengo sia necessario che si viva un'osmosi sia per i contenuti che devono essere trasmessi – anche se nella peculiarità delle forme proprie all'insegnamento scolastico – sia nella responsabilità nei confronti dei destinatari. Spesso i docenti sono impegnati nelle nostre comunità o lo dovrebbero essere, perché l'insegnamento della religione cattolica non è e non può essere ridotto a una generica lezione sulle religioni o sull'esperienza religiosa. Come si nota, vi è una differenziazione di interventi che meritano la nostra riflessione e la nostra capacità a sapere trovare forme pastorali che permettano il coinvolgimento e l'assunzione di una corresponsabilità formativa.

Per la catechesi dei giovani, riprendo quanto avevo già avuto modo di dire lo scorso anno e mi riprometto di verificare se quanto ci eravamo impegnati a fare ha avuto un seguito. Questo schema, unito a quello proposto dalla pastorale giovanile diocesana, permetterebbero di dare unità al nostro impegno di catechesi, senza ogni anno iniziare da capo.

Un altro tema che è emerso nella mia visita è da collegare con la formazione. Penso che possiate condividere con me l'impressione forte che ho ricevuto del grande entusiasmo che i nostri catechisti mettono nel loro ministero. Lo sentono realmente come una chiamata a vivere la fede in maniera più responsabile e trovano in voi i canali di questa dimensione vocazionale. La gratuità del loro impegno, la convinzione che mettono nel preparare le lezioni, la pazienza che hanno davanti a diverse reazioni è ammirevole. Mi hanno detto quanto sia importante per loro avere una formazione coerente e aggiornata. Devo confessare di avere trovato, nella maggioranza dei casi, delle persone preparate e che con fatica hanno seguito i diversi corsi di formazione. Sentono, comunque, l'importanza di una loro crescita per poter dare di più e vivere l'esperienza di catechisti con maggior convinzione di compiere una missione.

Su questo aspetto non sarà difficile andare loro incontro. Abbiamo la fortuna di avere diversi strumenti efficaci e che potrebbero essere meglio finalizzati a questo scopo. La scuola di teologia per laici è già presente in due prefetture e a Ostia c'è una scuola simile; i padri dei Seraphicum hanno sempre avuto piena disponibilità; alcune prefetture che avessero la forza potrebbero riorganizzare altri momenti formativi, tenendo sempre presente il detto che non sunt multiplicanda entia sine necessitate ! Penso sia importante che da parte nostra si rifletta sulla scelta dei catechisti e sul discernimento da porre in atto. A volte la necessità non aiuta a saper guardare con oggettività la capacità e la maturità delle persone con gravi conseguenze per la vita di fede delle persone che vengono loro affidate. Il discernimento richiede saggezza nella valutazione e, a volte, supplemento di presenza da parte nostra, perché non avvenga che presi dall'entusiasmo si arrivi a porre in atto segni e contenuti non sempre coerenti e sensati con la catechesi. Gli strumenti per andare loro incontro, anche a livello di pubblicistica, non mancano certamente. Mi sembra importante, inoltre, sottolineare l'attenzione che si deve ai portatori di handicap. Sono persone privilegiate nella comunità e verso di loro si deve esprimere a pieno la carità fraterna che trova forma anche nella catechesi. Nel corso del prossimo anno, probabilmente, la CEI emanerà un documento in proposito che sarà di aiuto per i nostri catechisti. Non sarà da sottovalutare, ancora, la formulazione di alcuni strumenti che possono essere utili per il coinvolgimento delle famiglie: da un calendario degli incontri già all'inizio dell'anno a veri strumenti di catechesi per l'accompagnamento dei loro figli.

E' stata chiesta anche più spesso la possibilità di stare insieme tra i catechisti e con il vescovo. Per quanto sarà possibile andremo loro incontro. Una possibilità potrebbe essere quella di organizzare, in tempi più tranquilli, un pellegrinaggio sulle orme di Paolo, ma i tempi diranno la possibilità dell'idea. Mi sembra più importante, comunque, che i catechisti, proprio per la peculiarità del loro impegno, abbiano dei momenti di formazione e di preghiera comuni. E' importante che siano valorizzati nella comunità e che questa li veda come investiti di un particolare ministero (come nel mandato a San Giovanni in Laterano).

Ai nostri catechisti e al nostro popolo abbiamo bisogno di dare segni di unità. Ritengo che un tema improrogabile della nostra riflessione debba essere il nostro accordo sugli anni di preparazione ai sacramenti dell'iniziazione e sull'età. E' necessario che ogni Prefettura ragioni seriamente su questo problema e si attivi perché sul territorio vi sia uniformità di comportamenti. Quest'anno possa essere l'avvio per un confronto sereno tra le diverse prassi pastorali e ognuno si ponga in ascolto dell'altro. La nota del Consiglio Episcopale, che riprende le direttive del Sinodo su questo tema, sia ripreso tra le mani e diventi momento di verifica.

In questo contesto, devo sottoporvi anche la richiesta di diversi catechisti riguardo il ruolo dei padrini. E' un'azione pastorale importante quella che sa porre delle premesse perché la scelta sia fatta con convinzione, valorizzandone il ruolo che possiedono e diventando anche strumento di riflessione per loro stessi. Mi è stato suggerito di rivalutare la presenza dei nonni. Mi sembra un argomento importante; questi sono spesso ormai di giovane età ed esprimono spesso la continuità della fede e la sua convinta adesione. L'affetto che i ragazzi hanno per loro è un importante veicolo di trasmissione, della fede.

3. Per concludere

“Il timore e la pazienza sono i difensori della nostra fede” (II, 2) scrive sempre la Lettera di Barnaba con la quale ci siamo inseriti e che riprendiamo a conclusione. Il timore come riconoscimento che Dio è Dio e il primato della sua grazia, la pazienza come tenacia che non demorde davanti alle difficoltà, ma si sente ancora di più provocata a dare risposte. Abbiamo bisogno di ricompattare la catechesi intorno al centro che è Gesù Cristo e la sua Chiesa. L'invito a “ripartire da Cristo” sta tutto in questo, essere capaci di ritrovare l'essenziale nel nostro impiego. Le nostre comunità sono segno vivo di questa presenza e nella celebrazione dei sacramenti sono strumento di salvezza. Una catechesi continuata che permetta di vedere sviluppata la maturazione della fede dalla sua forma germinale fino all'età adulta è un compito a cui non possiamo sottrarci soprattutto in questi decenni. Ci aiuta la convinzione che stiamo lavorando sempre per il regno di Dio e che per questa Chiesa e questo popolo stiamo offrendo noi stessi.

Giovanni Paolo Il ha scritto nella NMI: “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti al millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere alle attese profonde del mondo” (NMI 43). Casa e scuola di comunione. Le due immagini sono appropriata a conclusione del nostro discorso perché richiamano immediatamente alla capacità di essere segno di accoglienza senza rinunciare alla responsabilità dell'annuncio e dell'insegnamento. Mentre la casa diventa operativa sul piano del fare sentire una sola famiglia, la scuola è indice di un cammino che deve essere percorso interamente, senza paura e senza sosta, nonostante la fatica. Esso si apre a diventare “scuola di preghiera” dove la conoscenza della Parola di Dio diventa nutrimento che permette di accedere alla celebrazione dei mistero eucaristico come reale fonte e culmine dell'intera vita cristiana. I vescovi hanno ribadito nel loro documento “Comunicare la fede in un mondo che cambia” che la catechesi permane un momento indispensabile della missione della Chiesa. In un mondo che cambia e dove sembra che la fatica per lo studio e l'impegno si debbano risolvere in situazioni di facilità e di comodo, noi portiamo la responsabilità di far comprendere “l'impegno nella fede” mediante “l'operosità nella carità” mantenendo “costante la speranza” nel Signore che ci ha eletti ad essere in lui e per lui a servizio del suo Vangelo, che si diffonde per la predicazione della nostra parola e per la potenza del suo Spirito (cfr. 1Ts 1, 3-5).

 

 


 

ANNI PRECEDENTI AL 2000

 

Gesù Cristo via della speranza

Relazione presso il Vicariato di Roma nell'anno pastorale 1994/95

Premessa

“Cristo, mia speranza, è risorto e vi precede in Galilea”. E' con queste parole che viene dato l'annuncio pasquale. La sequenza, che ripercorre i grandi temi del triduo pasquale, si conclude con un annuncio di speranza che è, insieme, richiamo alla responsabilità ed elezione per una missione. E' interessante notare che nei racconti dei Sinottici l'annuncio della risurrezione è dato da un angelo. Il significato teologico sottostante è chiaro: il mistero della risurrezione è tale che può essere rivelato solo da Dio. Ancora una volta, fino alla fine, il credente è posto all'ombra del primato della Parola di Dio che indica non solo il fatto, ma anche la strada adeguata per poterlo raggiungere.

Mai nella storia dell'umanità vi fu annuncio più sconvolgente di quello che è preludio del mattino di Pasqua. Cristo è veramente risorto. L'identità tra il crocifisso e il risorto è il centro del kerigma apostolico e noi, da duemila anni, percorriamo le strade di questo mondo ripetendo in modo immutato lo stesso, identico, annuncio. Qui si scontrano le diverse concezioni della vita umana; qui devono convergere le differenti visioni religiose che esprimono il mistero; qui si risolve l'originalità della fede cristiana. Fuori da questo orizzonte Gesù di Nazareth sarebbe un grande evento della storia con un forte messaggio sapienziale, ma niente di più; lontano da questo scenario, la Chiesa sarebbe una grande società - per alcuni versi, forse, anche perfetta - ma non potrebbe più qualificarsi “sacramento o segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano” (LG 1). La speranza che Pasqua esprime ha nulla in comune con l'utopia e niente da spartire con il mito. Per la prima volta viene posto nella storia dell'umanità il criterio che abilita ognuno ad uscire dalle tenebre della disperazione e della morte per entrare nel sereno della speranza e della vita.

1. La speranza cristiana

In che cosa consiste la speranza cristiana? In una battuta, tanto semplice quanto densa di significato, lo dice l'apostolo Paolo: “Cristo in voi, speranza della gloria” (Col 1,27; 1 Tim 1,1: “Cristo Gesù nostra speranza). La presenza di Cristo nella vita di ogni credente - per Paolo il credente e la Chiesa sono spesso usati in modo intercambiabile senza distinzione alcuna - è il mistero pieno e totale che Dio ha voluto rivelare e questo è fonte e oggetto della speranza. All'origine della speranza cristiana, in altre parole, vi è un atto pieno e totale, quanto gratuito, dell'amore di Dio; esso consiste nella chiamata alla salvezza mediante la partecipazione alla sua stessa vita.

La speranza, quindi, nella prospettiva cristiana non nasce dall'uomo. Essa non è primariamente intesa come un desiderio che si apre al futuro, frutto della coscienza che tende ad andare sempre oltre se stessa in attesa di un compimento; al contrario, è intesa come una chiamata gratuita che parte dalla rivelazione di Dio. E' qui che si percepisce la novità della nostra concezione e si compie il discernimento su ogni altra forma di speranza che appartiene all'umanità come suo sforzo peculiare di tendere verso il futuro. Nella misura in cui si recepisce la ricchezza del nostro patrimonio di fede e lo si valorizza, si sarà in grado di compiere un passo in avanti sia nella conoscenza del mistero e, quindi, nell'approfondimento della fede, della preghiera e della testimonianza, sia, nello stesso tempo, nel contribuire in modo originale alla storia del pensiero.

Tutti possono sperare, ma è il contenuto della speranza che qualifica l'atto e lo fa comprendere diverso dal sentimento o dall'utopia. Anche il suicida - scriveva il filosofo Kierkegaard nei suoi Diari - spera in una vita migliore e in forza di questa speranza compie la follia del suo gesto; ma è davvero speranza quell'atto? La speranza cristiana non sorge nel momento del bisogno, della sofferenza o dello sconforto determinato da diverse motivazioni; se così fosse in nulla si distinguerebbe dal generico sentimento o dal desiderio di aggrapparsi a qualcosa come soluzione estrema al male. La speranza cristiana, al contrario, ha come compagne di viaggio che non l'abbandonano mai la fede e la carità. Essa sorge dalla fede e si nutre dell'amore. Senza questa circolarità non sarebbe possibile comprendere la specificità del sperare credente che vive di certezza e non di delusione.

La teologia paolina è estremamente chiara su questo punto; nei momenti cruciali in cui l'apostolo deve descrivere l'esistenza cristiana pone sempre insieme la triade di fede, speranza e carità. E' sufficiente il richiamo ai tre testi in cui esplicitamente ritorna questo insegnamento: “Memori davanti a Dio e Padre nostro del vostro impegno nella fede, della vostra fatica nella carità e della vostra pazienza nella speranza nel Signore nostro Gesù Cristo” (1 Ts 1,3); “Rivestiti con la corazza della fede e della carità, avendo come elmo la speranza della salvezza” (1 Ts 5,8); “Queste, dunque, le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità” (1 Cor 13,13).

Essendo certezza del compimento della promessa, la speranza cristiana “non delude” perché affonda le sue radici nell'amore (Rm 5,5); e non potrà mai essere separata dall'amore: “Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,35-39). Uno sguardo più attento a questo testo, permetterà di comprendere ulteriormente le caratteristiche della speranza cristiana che Paolo descrive nonostante non appaia esplicitamente il termine. Alcuni versetti prima, l'apostolo aveva detto che per coloro che vivono della fede e della speranza la condizione di sofferenza del presente, pur con tutte le tribolazioni e malvagità, non è paragonabile alla gloria che sarà loro concessa. Questa gloria, non è altro che la rivelazione del Figlio di Dio, la conoscenza del suo volto o, se si vuole, la rivelazione piena del mistero che rapirà in una contemplazione senza fine. Il futuro che attende coloro che oggi sperano e credono, non solo compenserà il presente ma, soprattutto, lo supererà nell'intensità della felicità. Qui, però, sorge la domanda che accompagna ancora oggi molti di noi: chi potrà garantire tutto questo? Chi mai potrà dare garanzia del compimento di questa attesa e della soddisfazione di questa speranza? L'apostolo, per rispondere, introduce il concetto di libertà.

Sia la creazione che l'uomo attendono la liberazione dalla “schiavitù della corruzione” (Rm 8,21). Anche i cristiani, che già sono salvati nella morte di Cristo, attendono ugualmente la pienezza della loro salvezza. Questo tempo che viviamo, quindi, diventa il tempo della attesa paziente. “La pazienza - ricorda sempre Paolo - alberga in sé la speranza, la custodisce, la rafforza e la conduce ad un nuovo sperare” (Schlier). Ciò che dà certezza al nostro sperare e costituisce la garanzia della correttezza del nostro attendere, è il fatto che il credente, proprio perché tale, percepisce e “sente” dentro di sé che attende ancora qualcosa. La presenza dello Spirito di Cristo in noi, poi, non fa che confermare questa prospettiva. Poiché non sappiamo neppure che cosa sia importante chiedere per il nostro compimento, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza. C'è pertanto una duplice garanzia per la certezza della nostra speranza, quella soggettiva, che è il “sentire” di ognuno che tende al compimento; quella oggettiva, la presenza dello Spirito che dà forza nell'attesa.

Ritorniamo di nuovo al nostro testo, dove Paolo ripropone la stessa domanda che, in modo implicito, era stata rivolta precedentemente: chi dà garanzia della nostra speranza e della vittoria sulla sofferenza del presente? Chi o che cosa rende sicuro il cristiano che la sofferenza attuale non sarà definitiva, e deve sperare nella gloria che gli verrà data? La risposta è talmente chiara da non dare adito a equivoci di sorta: l'amore di Dio per noi è fondamento, garanzia e sostegno del nostro sperare. E' il suo amore che ci tiene saldi e legati strettamente a lui. E' in forza dell'amore che viene superato tutto ciò che è motivo di sofferenza. E Paolo ha ben diritto di parlare così, enucleando perfino le sette esperienze di sofferenza che abbiamo ascoltato. Sarebbe utile rileggere il brano di 2 Corinzi per capire fino in fondo che l'apostolo non parla di sofferenze immaginarie, ma di ciò che lui stesso ha provato: “Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso una notte e un giorno in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità” (2 Cor 11,23-27).

Su tutte queste sofferenze, non c'è solo vittoria, ma “trionfo” (õðåñíéêùìåí); per quanto forti e potenti possano essere le forze del male, l'apostolo - e con lui ogni credente - “è persuaso” cioè vive della certezza indiscussa che niente potrà far crollare la speranza della fede nel presente. In una parola, si potrebbe dire che in questa prospettiva tutta la sofferenza che è presente nel mondo, rappresenta per il cristiano non il dolore dell'agonia, ma quello della partoriente! Questa è la certezza dell'amore.

L'atto della speranza cristiano, pertanto, si condensa intorno ad alcuni elementi che la esplicitano e definiscono: l'attesa, anzitutto, della rivelazione piena e definitiva del Signore; la fiducia nella sua promessa che verrà e dove è lui, là saremo anche noi; la pazienza, inoltre, che non cede allo scoraggiamento e che sa perseverare nella sofferenza; la libertà, infine, di agire con e nello Spirito che consente di muoversi in questo modo anticipando la liberazione totale del futuro.

Un'ultima connotazione merita di essere considerata: il carattere comunitario della speranza. Non c'è nulla di privato nella Chiesa. Ricevere il battesimo equivale ad inserirsi nella fede della Chiesa e, quindi, a divenire un soggetto ecclesiale. La speranza cristiana non è un fatto privato, ma azione di tutta la comunità credente che in questo modo si pone come segno per l'umanità intera. Ancora un testo di Paolo permette di fondare questa prospettiva. “Vi esorto io, il prigioniero del Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,1- 6). Il tema di fondo di questo testo, come si vede subito, è quello dell'unità. La pace che i cristiani devono mantenere salda, indica nel linguaggio paolino la salvezza che si è ottenuta con la riconciliazione con Dio. Ciò che sostiene e promuove questa “pace”, viene elencato dall'apostolo: in primo luogo, egli pone l'unità della Chiesa di cui Cristo è il capo e che è sostenuta dallo Spirito Santo. Questa unità è fondamento della sola speranza che i credenti sono chiamati a vivere e testimoniare come loro vocazione peculiare. L'unità e l'unicità della speranza, appartengono all'unità della Chiesa, hanno lo stesso fondamento e non possono essere frammentate. La speranza, pertanto, può essere per i credenti solamente ecclesiale; sia perché è prima di tutto la Chiesa che spera e in essa ogni credente, sia perché è segno di unità dei credenti stessi tra di loro. Una conferma la si ritrova in un significativo testo di LG dove il concilio descrive la Chiesa: “Cristo unico mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente sostenta la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità” (LG 8). La dimensione comunitaria della speranza è anche ciò che permette di affermare che il credente spera per tutti e per la salvezza di tutti. E' Tommaso d'Aquino che ha avuto la grande intuizione di sostenere che a fondamento della speranza per la salvezza universale vi è l'amore del prossimo. Ciò che speriamo per noi stessi, amando lo dobbiamo sperare per tutti (STh II-II,17,3). E' qui, alla fine, che diventa chiaro il paolino “sperare contro ogni speranza”, perché la speranza rimanda all'amore che tutto comprende e perdona.

2. C'è ancora speranza?

In quanto la speranza è sempre stata collegata al futuro, essa ha affascinato non poco la mente e la fantasia degli uomini. Alcuni esempi non stoneranno; consentiranno, invece, di evidenziare ulteriormente la peculiarità della speranza cristiana.

Un primo esempio lo troviamo nell'antichità. Il mito del vaso di Pandora è ben conosciuto. Fuggita dalla presenza di Zeus, Pandora aprì il vaso sulla terra e ne uscirono disgrazie, malattie e pestilenze, insieme ad ogni sorta di malvagità. Alla fine, Zeus rinchiuse all'ultimo momento il vaso e vi rimase imprigionata la speranza, ultimo dono fatto agli uomini per consolarli di tante miserie. Per chi va a visitare il battistero di Firenze, una ulteriore immagine lo colpirà, permettendogli di avere un ulteriore visione della concezione della speranza. Andrea Pisano ha ritratto la speranza come una giovane donna seduta, con le ali, che nonostante queste, tende le mani verso un frutto che non raggiunge mai. Il significato sottostante è anch'esso chiaro: la speranza rimane prigioniera dell'utopia; il suo tendere rimane tale, ma non può pensare di raggiungere il frutto che resta, per sempre, irraggiungibile. Un ultimo esempio può essere preso da alcune pagine di un autore contemporaneo, Cesare Marotta, che scrive un interessante Intervista con la speranza.

“Riconobbi subito la speranza, era lei. Silenziosa ed assorta, sedeva al capezzale di un giovane suicida. Costui non aveva ancora vent'anni: si era sdraiato sul lettino e come uno che si faccia una fotografia con 1'autoscatto aveva contato fino a dieci... La speranza sembrava vegliarlo, ed era indiscutibilmente la speranza: un volto bianco lunare, capelli lisci e quieti come l'acqua nelle vasche, sulle labbra il sorriso gelido e bruciante della Gioconda, le mani in grembo, se non erano serpi, celate dalle pieghe della veste. Non si sa, è inutile, che cosa abbia in mano la speranza. Magari nasconde tutto il piacere del mondo, nei suoi pugni chiusi, oppure l'antico trucco finirà un giorno, la vedremo agitare nell'aria due rossi moncherini e ridere definitivamente di noi. Le dissi, indicando il povero giovinetto: “Eccone uno che non vi appartiene più. Forse avreste potuto aiutarlo, ma siete arrivata tardi?” La speranza disse: “Al contrario. Non l'ho mai abbandonato. Ero con lui quando ha irreparabilmente agito; anzi, vedete, sono ancora qui”. A partire da qui inizia un dialogo tra l'autore e la speranza fatto da reciproche incomprensioni, fino a quando di nuovo rivolgendosi alla speranza viene detto: “E voi.., qualsiasi imbecille, qualsiasi pezzente vi chiami, voi gli date retta. Non negatelo siete stata vista con un mendicante, con un gobbo, con un negro”. “Era un negro?” “Vorreste farmi credere che non lo sapevate?”. La speranza non rispose.... “I miei occhi, li avete veduti?”... Cercai lo sguardo della speranza, ma non c'era: lontani e vuoti, i suoi occhi di un tenue azzurro non ricevevano né immagini né colori; mi resi conto che la speranza è cieca. Continuò a sorridere, mi salutò dicendo: “Hanno commesso un gravissimo errore i vostri artisti di ogni tempo. Non la fortuna dovevano raffigurare bendata. La fortuna trova sempre, a colpo sicuro, gli individui più immeritevoli dei suoi doni. Non sbaglia mai, è ben raro che si comprometta, come me, con mendicanti e negri. Rettificate, vi prego: diffondete la notizia che la speranza è cieca: la speranza non sa di chi siano, ditelo, le braccia che le si tendono; chiunque può ingannarla e chiunque lo fa”.

Questa esemplificazione permette di verificare le grandi differenze che intercorrono tra la visione pagana della speranza e quella cristiana. La prima la vede come ultimo appiglio concesso all'umanità per non naufragare nel mare delle difficoltà e dei disastri - si pensi al vaso di Pandora - la seconda la vede, invece, come provocatrice e sorgente di senso. Per la prima, la speranza si collega spesso e volentieri all'utopia come un qualcosa di irraggiungibile e costitutivamente esposta all'incertezza e alla delusione, perché rimane un tendere senza avere certezza di poter raggiungere; per la seconda, la speranza è legata al presente e chiede di rimanere fedele ad essa nella certezza della fede.

Uno dei problemi fondamentali che il cristianesimo oggi vive, è certamente quello della comunicazione. Abbiamo vissuto per secoli all'ombra dell'imperativo petrino: “Siate sempre pronti a rendere ragione della speranza presente in voi a chiunque ve lo domandi” (1 Pt 3,15) e oggi dobbiamo costatare che, nell'indifferenza generale, siamo nella condizione che più nessuno chiede della nostra speranza, obbligandoci così a provocare la stessa domanda. E' in questo orizzonte che sorgono i problemi più urgenti per l'evangelizzazione. Abbiamo un linguaggio capace di comunicare la verità della fede, perché vicino al linguaggio del nostro contemporaneo? Ho timore a rispondere, conoscendo già il contenuto negativo della risposta. Abbiamo anzitutto bisogno di conoscere il nostro contemporaneo - senza dimenticare che il cristiano stesso è il nostro contemporaneo perché respira la stessa aria culturale - e di porlo davanti a noi con tutta la crudezza dell'analisi possibile.

Vi è una scritta che campeggia sulla riva destra del Tevere all'altezza di Ponte Garibaldi: Keine Schönheit ohne Gefahr! Senza pericolo non c'e bellezza alcuna. Vorrei tentare di descrivere il nostro contemporaneo, nella sua attesa di speranza, proprio a partire da questa scritta. Fino ad alcuni decenni fa per provare i brividi del pericolo e, quindi, l'ebbrezza della bellezza, bisognava trasmigrare in terra straniera, verso popoli e culture diverse dalla nostra. Oggi, invece, la paura e il pericolo sono entrati a pieno titolo nel centro delle nostre città e nel mezzo della nostra vita, senza consegnarci, in cambio, bellezza alcuna. Venendosi a modificare il rapporto con la “vita” ne è derivato, conseguentemente, un modificato rapporto con la speranza.

Non è retorica affermare che il nostro contemporaneo vive una situazione paradossale e per molti versi contraddittoria nei confronti della speranza. Da una parte, caduto nella trappola dell'efficientismo, egli rincorre solo l'immediato senza più avere progetti per il futuro; dall'altra, se appena è in grado di alzare i propri occhi per guardare al di là dell'efficienza, scopre che ha una sete immensa di speranza. E' necessario fare dei passi indietro per capire Io stato di questa crisi, perché i movimenti culturali che oggi viviamo hanno sempre radici più profonde di quanto pensiamo. Le delusioni per la speranza iniziano per noi all'inizio di questo secolo. Come inizio di ogni secolo, anche il nostro si presentava foriero di buoni auspici. Il progresso, soprattutto, appariva come la vera conquista che avrebbe fatto compiere un salto nella qualità della vita. Ma non sono passati che pochi anni e il 1914 ricorda a tutti lo scoppio della prima guerra mondiale. Al di là delle interpretazioni, essa indica che la società, pur avanzata, non riesce a trovare forme di convivenza internazionale che sappiano rispettare le peculiarità di ognuno. Ciò che emerge è il predominio dell'una sull'altra. La seconda guerra mondiale non farà che radicalizzare questa prospettiva. Non è un caso che i] marxismo come ideologia, prima, e come sistema politico, poi, si sia costruito proprio sulla volontà di creare ed attuare un progetto che fondasse la sua consistenza sulle relazioni sociali come perno per il cambio della società. L'internazionale socialista non era che il preludio per una visione mondiale che abbandonati gli schemi borghesi delle classi, attuava l'unicità della classe.

Se Auschwitz aveva rappresentato il sogno folle di esaltare la razza, il Gulag diventava nei decenni successivi il segno della follia del dogmatismo autoritario marxista. Si era puntato tutto sul collettivismo e ci si ritrova a fare i conti con l'individualismo che ha in Nietzsche il suo maestro più rappresentativo. A tutto questo si aggiunga l'evoluzione avvenuta nelle scienze. Fino alla fine della seconda guerra mondiale la certezza era la parola d'ordine della scienza. Ciò che la scienza raggiunge e produce è sicuro, certo e vero. Dovevano sorgere le teorie di K. Popper per mostrare che anche la scienza, anzi soprattutto la scienza, non ha carattere di certezza, ma solo di provvisorietà e probabilità. L'unica certezza che si può raggiungere è quella probabilistica e coloro che ne sono più sicuri sono proprio gli scienziati! Ai problemi nazionali, subentrano oggi quelli mondiali e planetari. I fallimenti delle diverse organizzazioni delle Nazioni Unite sono sotto gli occhi di tutti e mostrano l'incapacità a risolvere problemi che spaziano da quelli economici a quelli armamentari e della sicurezza. Un ultimo riferimento in questo orizzonte, va fatto obbligatoriamente sulla situazione internazionale attuale che vede conflitti sempre più profondi a livello delle determinazioni etiche del vivere sociale. La speranza per la vita e per diverse forme di vita che partirebbero dalle determinazioni degli individui, ha aperto lo spazio alla ricerca biogenetica e non sappiamo ancora dove essa andrà a parare; dall'altra parte la sfiducia nella continuazione della vita in uno stato di sofferenza, porta a valutare la determinazione della propria morte. E' falso affermare che vi è neutralità nelle scienze e, pertanto, tutto è lecito. Non solo si deve giudicare l'uso che viene fatto della scienza, ma insieme ad esso si deve considerare il fatto che ogni scoperta, persa la neutralità, ha alle sue spalle una particolare antropologia o visione del mondo. La conseguenza che ne deriva, nell'ordine pratico legislativo e sociale-politico è quella di una mancanza di normatività etica che obbliga a rinchiudere il tutto nella sfera del privato. Al soggettivismo culturale si aggiunge l'individualismo della determinazione etica senza rendersi conto della micidiale miscela che si viene ad innescare.

Sembriamo persone che stanno sognando a occhi aperti e confondiamo tutto non distinguendo più tra realtà e fantasia, tra il bene e il male, tra ciò che è frutto della fede e ciò che è solo prodotto ideologico. Più lo sguardo si affaccia sul futuro e più sembrano crescere i dubbi e la confusione. Dovremo pur chiederci perché l'occidente mostra con sempre più accentuazione i segni di una follia generale. C'è in molti una situazione patologica di angoscia che nasce dal dubbio e sfocia nella disperazione. Ciò che viene vissuto non è più dramma, ma tragedia che impedisce di vedere una soluzione positiva.

Ciò che sta davanti ai nostri occhi è, comunque, una società vecchia. Non solo per il problema della natalità, ma perché incapace di progettare il futuro. I segni di una Società vecchia sono facilmente riconoscibili: si percepiscono nella paura che accompagna ogni decisione e nell'incapacità a saper scegliere il rinnovamento. Il timore del generare è essenzialmente paura del futuro e di ciò che esso riserva, perché non si è più in grado di guidarlo e progettarlo a partire da noi. Solo la coscienza che si sta mentendo è in grado di definire “progresso” ciò che è invece decadenza. In quelli che vivono solo di nostalgia - puntando tutto sul passato e rompendo quindi la relazione passato-presente - e sono tanti, la paura ha il sopravvento sulla speranza e questa viene combattuta in nome della tradizione, senza rendersi conto che la tradizione o è viva e produttrice di futuro o non è tradizione. Parliamo di crisi, ma con onestà dobbiamo ammettere che più che altro noi fotografiamo la crisi senza avere molta determinazione per uscirne né molta forza per contrastarla. Qui entra di nuovo in gioco la missione dei credenti come testimoni di speranza. In questo orizzonte diventa maggiormente comprensibile l'esperienza dell'uomo biblico che non riusciva più a credere agli annunci di speranza che gli venivano rivolti dai profeti. Per l'uomo veterotestamentario, la promessa della terra e di un popolo erano condizione di vita. Jhwh era stato conosciuto come il Dio della promessa. Ora, però, loro non hanno più né patria né famiglia, né tempio né desiderio di credere ancora... Come è possibile sperare se nel presente vedo solo deportazione ed esilio? E' qui che si gioca la grande sfida della fede biblica e il profeta pone la sua credibilità. Sorgeranno allora Isaia, Geremia ed Ezechiele per ridare speranza ad un popolo in piena crisi di fede. Questa, analogicamente, è la stessa condizione che vive il cristiano nel mondo contemporaneo. In un periodo in cui nel nostro vocabolario sono entrate con impeto parole come: precarietà, degradazione... come si potrà di nuovo porre fede alla parola di salvezza? Il sorgere di nuovi profeti che, nella Chiesa e a nome della Chiesa annunciano un rinnovato esodo e l'entusiasmo per la terra promessa è ciò che serve per rinforzare la speranza.

Conclusione

A partire dalla ristrutturazione urbanistica del Settecento, quando i pellegrini arrivavano a Roma, la prima vista che avevano della città erano i quattro obelischi che indicavano loro la collocazione delle quattro basiliche maggiori. Allo sguardo affaticato del pellegrino l'obelisco indicava che la meta era stata raggiunta, nonostante la fatica e i mille pericoli che il viaggio comportava. Nei giorni successivi si sarebbe messo di nuovo in viaggio, attraversando la città eterna, per raggiungere la meta del suo pellegrinaggio; la speranza che lo aveva accompagnato, ora diventava realtà. Era giunto a Roma, alla tomba di Pietro, per professare la fede e celebrare l'anno Santo. Il sogno che lo aveva guidato gli permetteva adesso di godere della sua presenza a Roma come di un'oasi in mezzo al deserto.

Nella grande città del mondo, vedo oggi diversi obelischi che dovrebbero riportare alla mente di questo uomo affaticato e affannato, tanto da non avere più neppure il tempo per pensare a se stesso, uno spazio di silenzio e di contemplazione. Questi obelischi potrebbero essere i diversi santuari che si ergono ancora come spazi di speranza per quanti hanno ancora forza per sognare e coraggio per testimoniare.

Non si dimentichi, che la speranza oggi, per molti che non credono, potrebbe essere il nuovo nome della fede e, in ogni caso, una speranza vera non è altro che un cammino verso la professione della fede. Mi fa compiere questa considerazione il romanzo postumo di I.Silone, l'uomo che fino alla fine ha voluto esprimere la sua ricerca di Dio senza poter arrivare a professare la fede ecclesiale. Nel suo ultimo romanzo autobiografico, Severina, narra di una suora che in preda ad una crisi di fede lascia il convento. La sua vita è una continua ricerca di Dio; questi, però, poco alla volta diventa solo un'idea e non le dice più nulla. Severina partecipa a diverse attività, si mostra utile agli altri e un giorno, intervenendo a una manifestazione, per sbaglio viene colpita a morte. E' portata in ospedale. Al suo capezzale accorre immediatamente una consorella di un tempo, presa dalla preoccupazione di farle professare la fede. A Severina ormai morente, la suora chiede con insistenza:

“Severina, Severina, credi?” E Severina rivolgendole lo sguardo risponde: “No, però, spero”. Ecco il dramma della nostra epoca e, nello stesso tempo, l'offerta di una mediazione per poter continuare a comunicare e ad annunciare il vangelo. Non trovo conclusione migliore del rimando a due espressioni che tutti conoscono e che potrebbero facilmente divenire i pilastri che aiutano nella comprensione di un progetto di evangelizzazione che accompagna la Chiesa in questo pontificato di Giovanni Paolo Il. Il santo Padre iniziava il suo servizio petrino nell'ottobre del 1978 con le parole: “Non abbiate paura, aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo”. Era un invito pressante al coraggio della fede nel Signore risorto. Sotto la forza della fede e la costanza della testimonianza le porte si sono aperte e perfino dei muri sono caduti. Molte porte, purtroppo rimangono ancora chiuse perché non c'è limite all'egoismo e la gelosia per un riduttivo concetto di libertà vieta di saper guardare al di là di noi stessi. Ecco che in questi giorni viene di nuovo l'invito pressante a saper “Varcare le soglie della speranza”. Vi è tanta poesia e tanto realismo in questa espressione che si coglie intuitivamente. Varcare la soglia dice tutto: coraggio per non rimanere fermi in sé; entusiasmo per sapere che la soglia è il luogo dell'ingresso verso un mondo che permetterà di gustare in pienezza i frutti della promessa; libertà di compiere un gesto, il primo passo che compete a noi e a nessun altro in prima persona... Ritornano alla mente le parole dell'Apocalisse: “lo sto alla porta e busso”. Nel coraggio di aprire quella porta e varcare la soglia per mettersi alla sua sequela vi è il senso di tutta una vita e una missione ecclesiale che, nei diversi ministeri. ci rende tutti responsabili per la salvezza di questo mondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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