TESTI SEZIONE MONASTICA

 

Dom Columba Marmion

 Cristo Ideale del Monaco

CONFERENZE SPIRITUALI

 

Traduzione italiana di Madre Maria Galli

Edito da Scritti Monastici - Abbazia di Praglia (PD)

 

 

 

SOMMARIO

 

 

Parte Prima

LA VITA MONASTICA IN GENERALE

Prefazione

Capitolo 1      Cerchiamo Dio

Capitolo 2      Seguiamo Gesù

Capitolo 3      Il superiore come Vicario di Gesù Cristo nel Monastero

Capitolo 4      La società cenobitica

Parte seconda

PUNTO DI PARTENZA E DUPLICE CARATTERE DELLA PERFEZIONE MONASTICA

Capitolo 5     Vinceremo il mondo con la fede

Capitolo 6     La professione monastica

Capitolo 7     Gli strumenti delle buone opere

A. IL DISTACCO  (Reliquimus omnia)

Capitolo 8      Compunzione di cuore

Capitolo 9      Rinunciamo a noi stessi

Capitolo 10    Povertà

Capitolo 11    Umiltà

Capitolo 12    Il gran bene dell’obbedienza

Capitolo 13    L’abbandono a Dio

B. VITA DI UNIONE CON GESÙ CRISTO  (...et secuti sumus te)

Capitolo 14    La lode di Dio

Capitolo 15    La recita dell’Uffizio come mezzo di unione con Dio

Capitolo 16.   L’orazione del religioso

Capitolo 17.   Zelo illuminato

Capitolo 18    La pace di Cristo

 


 

PREFAZIONE

 

 

Gesù Cristo è l’ideale sublime della santità; il divino modello che Dio stesso presentò all’imitazione dei suoi eletti. La santità cristiana consiste nell’accettare in modo sincero e totale Gesù Cristo, per mezzo della lede; la quale poi si integra con la speranza e la carità. Per mezzo della santità Gesù s’impadronisce totalmente e stabilmente della nostra attività in virtù della sua influenza soprannaturale; egli diventa l’alfa e l’omega di ogni nostra opera, e comunicandoci la sua vita divina, diventa la vita stessa dell’anima nostra. «Mihi vivere Christus est». Questa verità tentammo dimostrare, alla luce del Vangelo e degli scritti di S. Paolo, di S. Giovanni, nella prima serie di conferenze intitolata “Cristo vita dell’anima”. Ma queste verità dogmatiche richiedevano come logica conseguenza lo studio della vita stessa del Verbo Incarnato; quale si è rivelato ai nostri occhi mortali nei misteri, negli atti e nelle parole della santa Umanità di Gesù. Le opere terrene di Gesù Cristo sono per noi modelli e fonti di santità: da esse emana una virtù possente e efficace, che guarisce, illumina e santifica quelli che vi si accostano con gioia, col sincero desiderio di seguire le sue orme. Per questo abbiamo studiato, nel secondo volume, il Cristo nei suoi misteri.

Ma oltre ai precetti da Lui imposti ai suoi discepoli come necessari alla salute eterna e alla santità, noi troviamo nel Vangelo i consigli, proposti dal Cristo a chi vuol salire le sublimi vette della perfezione: «Si vis perfectus esse, vade, vende omnia quae habes, et veni, sequere me». Cioè: Se vuoi essere perfetto, va, vendi ciò che hai e vieni, seguimi!

Sono consigli, è vero: Si vis, se vuoi, diceva il Maestro. Ma quale prezzo egli vi annettesse, lo dimostrano le magnifiche promesse fatte a chi si propone di praticarli: per essi si giunge all’imitazione più completa e perfetta del Salvatore. Egli sempre è la via, il modello: la sua dottrina e i suoi esempi dominano pienamente l’animo che giunge alla perfezione religiosa. «Veni sequere me... Perfectus omnis discipulus erit si sit sicut Magister ejus». Vieni, seguimi... Il discepolo sarà perfetto se sarà come il suo Maestro.

Questi pensieri abbiamo voluto esporre nel volume presente. Alle anime privilegiate, che Dio chiama a seguir la via dei consigli, mostriamo costantemente la figura divina del Cristo; codesta contemplazione è la più efficace a muoverle e ad attirarle, ottenendo gli sforzi richiesti per restar fedeli alla loro alta vocazione, così feconda di grandezze eterne.

In queste pagine si parla spesso dello stato religioso secondo l’ideale di S. Benedetto; ma il Patriarca della vita monastica lo considerava nella sua essenza, non come una forma particolare di vita che può esistere a fianco del Cristianesimo; è invece il Cristianesimo stesso, vissuto pienamente, alla luce del Vangelo: «Per ducatum Evangelii pergamus itinera Christi». La fecondità soprannaturale, straordinaria, propria della regola benedettina nel corso dei secoli, si spiega col carattere essenzialmente cristiano che ne forma l’impronta.

Basta gettare uno sguardo sull’indice delle conferenze, per comprenderne il piano semplice e coordinato. Nella prima parte si espongono sommariamente l’ideale e le forme dello stato religioso, quali appaiono a chi vuol abbracciarlo. Nella seconda parte si svolge il programma di quel che deve fare l’anima, anelante a quest’ideale, per entrare a far parte dell’istituto monastico e assimilarne lo spirito. E il lavoro offre un duplice aspetto: staccarsi dal creato per aderire al Cristo; la vita d’abnegazione che conduce alla vita unitiva: «Ecce nos reliquimus omnia»: abbiamo abbandonato tutto per seguirti: «et secuti sumus te». In sostanza ecco la pratica dei consigli, il segreto della perfezione.

La divisione del piano ricorda quello dell’altro «Cristo vita dell’anima». Ma la perfezione religiosa non si radica soprannaturalmente nella santità cristiana?

Vorrei che queste pagine potessero far meglio conoscere a molte anime, che cosa sia la perfezione a cui Dio chiama molti; e accrescere nei chiamati la stima della vocazione religiosa, non conosciuta esattamente al tempo nostro; vorrei poter aiutare codesti eletti a svolgere in loro il divino appello, trionfando degli ostacoli frapposti dalle affezioni naturali o dalla frivolezza mondana. Ma sopratutto vorrei con queste pagine riaccendere il primo fervore in quei religiosi che si sentono stanchi per il lungo cammino; spingere i ferventi a salire sempre più in alto nella virtù; eccitando nei più generosi l’ambizione insaziabile della santità.

 

Fiduciosi che il Padre celeste riconoscerà in quest’umile lavoro il tradizionale insegnamento dei nostri Santi, si degnerà benedire l’opera che tende a preparargli il campo - Apollo rigavit - lo preghiamo ardentemente di gettare egli stesso il divin seme, di farlo crescere a maturità - Deus autem incrementum dedit.

E così fin d’ora lo ringraziamo con umile e filiale ossequio.

                                                                                                                                     Dom Columba Marmion

                                                                           Solennità di San Benedetto, Badia di Maredsous, 12 Luglio 1922

 

 

 

Parte Prima

LA VITA MONASTICA IN GENERALE

 

CAPITOLO 1

Cerchiamo Dio

 

SOMMARIO: Il fine nella vita umana. — I. Fine della vita monastica è cercare Iddio. — Il. In ogni cosa. — III. Unicamente. — IV. Preziosi frutti che se ne ricavano. — V. Cristo Gesù perfetto modello dell’anima che cerca Dio.

 

Chi esamina la regola di S. Benedetto vede chiaramente che è da lui presentata unicamente come un riassunto del Vangelo, e un mezzo di praticare pienamente e perfettamente la vita cristiana.
Nel Prologo il grande Patriarca si rivolge solo a chi vuol ritornare a Dio, sotto la guida del Cristo; e alla fine del suo codice monastico torna a dichiarare che egli intende proporlo a chiunque si affretta nel cammino della patria celeste, aiutato dalla grazia di Gesù Cristo. «Quisquis ergo ad patriam coelestem festinas hanc .... regulam descriptam, adiuvante Christo, perfice» (Regola di San Benedetto, c. 73).
La Regola per lui non è altro che una guida sicura a Dio. Non intese con essa stabilire un mezzo all’infuori della vita cristiana; né assegnò ai suoi monaci nessuna opera speciale quale scopo particolare della loro vita: il fine è cercare Iddio. — «Si revera Deum quaerit » (Reg. c. 58). Questo egli richiede anzi tutto a chi si presenta al monastero per farsi monaco; e in questa disposizione le riassume tutte; perchè è come la chiave della sua dottrina e centro della vita monastica, com’egli la ideò per i suoi figli. È lo scopo che loro propone, quindi noi dobbiamo sempre averlo davanti, studiarlo spesso e agire solo conformemente ad esso.
L’uomo nei suoi atti coscienti opera sempre per un motivo. Creature libere e ragionevoli, entriamo deliberatamente in atto solo per uno scopo.
Trasportiamoci col pensiero in una grande città come Londra. A certe ore della giornata le vie formicolano di gente: è un esercito che si agglomera, una marea che ondeggia. Chi va, chi viene; gli uomini si passano accanto, s’incontrano; presto, perchè «time is money, — il tempo è danaro»; e tra loro non scambiano una parola, un segno. Ognuno ha la propria indipendenza, il suo fine particolare. Che cosa cercano queste migliaia e migliaia d’uomini che s’agitano nella «City»? che scopo hanno? perchè si affrettano?
Chi cerca il piacere, chi gli onori; questi sono spinti dalla febbre dell’ambizione, quelli dalla sete dell’oro; la maggior parte pensa al pane quotidiano. Le creature occupano la mente ed il cuore della grande maggioranza; di tanto in tanto s’incontra una signora che va a visitare i poveri; una Suora di carità che cerca Cristo nella persona d’un malato; un Sacerdote passa non visto, con la pisside nascosta sul petto e va a portare il viatico a un moribondo... Ma sono poche le anime che cercano Dio nell’immensa folla che si affanna per trovare la creatura.
Eppure dal fine dipende in gran parte il valore delle azioni umane. Osservate questi due uomini che s’imbarcano per terre lontane. Lasciano patria, amici, famiglia; sbarcati in luogo straniero, si addentrano nella regione, si espongono agli stessi pericoli, traversano fiumi e montagne e s’impongono identici sacrifici. Ma uno è mercante e fatica per guadagnar denaro; l’altro un apostolo, e va in cerca di anime da salvare. L’occhio umano scorge appena la differenza; ma per quello di Dio c’è tra i due uomini un abisso, scavato dal fine così diverso. — Date un bicchier d’acqua a un povero, un soldo a un mendico; se lo fate in nome di Gesù Cristo, cioè per un impulso della grazia, perchè nel povero scorgete lo stesso Cristo che ha detto: «Ciò che farete al più piccolo dei miei sarà fatto a me» (Mt 25, 40), compite un atto gradito a Dio, e quel bicchier d’acqua, tanto poca cosa, quel soldo, di così poco valore, non resteranno senza ricompensa

Ma lasciate cadere pugni di monete in mano al povero allo scopo di pervertirlo; per questo solo il vostro atto diventa abominevole.
Dunque lo scopo, il fine per cui operiamo, e che orienta, per dir così, la nostra vita, ha importanza massima.
E poi non dimenticate mai questa verità: l’uomo vale per ciò che appetisce, per quello a cui si avvince. Cercate Dio e tendete a lui con tutto l’ardore dell’anima? Per quanto creature, e prossime al nulla, pure v’innalzate, unendovi all’Essere infinitamente perfetto. Ricercate invece la creatura: danaro, piaceri, onori, soddisfazioni vanitose, ossia voi stessi sotto ogni aspetto? Per quanto grandi possiate essere, voi valete quanto la creatura, vi degradate a lei, e più è bassa più vi avvilisce. Una Suora di carità, un fratello converso che passano la vita in lavori umili e nascosti per amor di Dio, sono molto più grandi agli occhi di Chi solo giudica in modo definitivo, che l’uomo ricco, onorato, ma unicamente amante del piacere. Per questo motivo S. Benedetto, accennando ai cenobiti come a una razza di uomini valorosi: «Coenobitarum fortissimum genus» (Reg. c. 1), chiede al postulante che vuol abbracciarne la regola se il motivo che lo spinge è veramente soprannaturale e perfetto; se davvero vuol possedere Iddio: «Si revera Deum quaerit. Se veramente ama Dio» (Ivi c. 58).
Ma forse voi chiederete: E che vuol dire cercare Iddio? Con quali mezzi si trova? Perchè dobbiamo cercarlo con esito felice. La ricerca di Dio è tutto il programma; trovarlo e rimanere uniti a lui abitualmente, con la fede e la carità, è tutta la perfezione.
Diremo dunque che cosa significa cercare Iddio; ne indicheremo le condizioni, ne vedremo i frutti; e così indicheremo lo scopo da raggiungere e la via da tenere per giungere alla perfezione e alla felicità. Perchè se cerchiamo Iddio sinceramente, nessun ostacolo c’impedirà di trovarlo; e in lui possederemo ogni bene.

 

I. Fine della vita monastica è cercare Dio

Dobbiamo cercar Dio.

Ma egli si trova dunque in luogo tale che ci bisogni cercarlo? Non è dappertutto? — Sicuro; Dio è in ogni essere per la sua presenza, potenza ed essenza. L’operazione in lui non si separa mai dalla virtù attiva che ne è fonte, e la divina potenza s’identifica con l’essenza divina. In ogni essere opera Iddio sostenendolo nell’esistenza; per cui egli è così in ogni creatura, poiché tutte esistettero ed esistono per effetto dell’azione divina; ciò che suppone l’intima presenza di Dio. Per di più gli esseri ragionevoli possono conoscerlo ed amarlo; possedendolo così in modo nuovo e loro proprio.
Ma questa presenza di Dio non basta a noi. C’è un grado d’unione più intima e più alta, per cui Dio non si contenta di essere conosciuto ed amato da noi naturalmente, ma ci chiama a condividere la sua stessa vita e la sua beatitudine.
Per un movimento d’infinito amore verso di noi, egli vuol essere non solo il supremo padrone in ogni cosa, ma l’amico e il padre. Vuole che lo conosciamo come egli conosce se stesso, sorgente di ogni verità e bellezza; quaggiù nell’oscurità della fede, lassù nella luce della gloria; e vuole che lo possediamo in se stesso, come Bene infinito e sorgente d’ogni beatitudine, tanto in questa vita come nell’altra, per mezzo dell’amore.
Per questo innalzò la nostra natura sopra se stessa, con la grazia santificante, le virtù infuse, i doni dello Spirito Santo; e comunicandoci la sua vita infinita ed eterna si fa egli stesso la nostra perfetta felicità. Non vuole che la cerchiamo fuori di lui, che è pienezza d’ogni bene; non dà a creatura alcuna il potere di contentare il nostro cuore: «Sarò io, io stesso la tua ricompensa infinitamente grande. — Ego ero merces tua magna nimis» (Gn 15, 1). E nell’atto stesso in cui s’incamminava a scontare il prezzo del suo sacrificio sanguinoso, Gesù confermò codesta promessa: «Là dove io sono, Padre, voglio che siano anche i miei, testimoni della mia storia, affinchè godano la nostra gioia e siano ricolmi del nostro amore» (Gv 17, 24-26).

Tale è lo scopo unico e supremo a cui dobbiamo tendere: cercare Dio, non quello della natura, ma il Dio rivelato dalla fede. Per noi cristiani cercare Iddio significa tendere verso di lui non solo come semplici creature che vanno al loro primo principio e al fine ultimo del loro essere; ma tendere a lui in modo soprannaturale, come figli che vogliono restar uniti al loro padre con l’amorosa volontà, e con la «misteriosa associazione» alla natura divina di cui parla S. Pietro (2Pt, 1, 4), significa avere e coltivare con le Persone divine l’intimità reale e profonda definita da S. Giovanni «la società del Padre e del Figlio di lui Gesù» (1Gv 1, 3), nel loro comune spirito d’amore.

Vi allude il Salmista quando ci esorta a cercare sempre Iddio e la sua presenza: «Quaerite faciem ejus semper» (Sal 106, 4); la sua amicizia, il suo amore; come la sposa, che fissando negli occhi lo sposo, vi cerca il fondo stesso dell’anima, la sua tenerezza per lei. Dio è per noi un Padre ripieno di bontà; e vuole che fin da questa vita troviamo la felicità in lui, nelle sue ineffabili perfezioni.

S. Benedetto non aspira ad altro per i suoi discepoli: «Non contristiamo Iddio con le nostre cattive azioni, ammonisce nel Prologo, Dio che ci ha accolti tra i suoi figli; affinché questo Padre, irritato dalle nostre colpe, non sia costretto a diseredarci, mentre voleva far di noi i suoi figli carissimi».
«Giungere a Dio» è dunque il nostro fine costante; e questo principio, come linfa feconda, circola in tutti gli articoli del codice monastico. Non siamo venuti al monastero per dedicarci alla scienza, alle arti, all’opera educativa. Il grande Patriarca, è vero, richiede che serviamo Dio coi talenti che ci ha dato: «Ei (Deo) omni tempore de bonis suis in nobis parendum est» (Regola, Prologo), e vuole che «il monastero sia governato saviamente da uomini saggi» (Ivi c. 53); raccomandazione che considera prima di tutto l’ordine materiale, ma che può applicarsi a tutta la vita morale e intellettuale del cenobio. Il Santo non vuole che si seppelliscano i doni di Dio; permette l’esercizio delle arti, e una costante tradizione, che dobbiamo umilmente rispettare giustifica lo studio e le opere apostoliche. L’abate, capo del monastero, trarrà partito dall’attività monastica, variamente manifestata e coltiverà per il bene comune, in servizio della Chiesa, per la salvezza delle anime e la gloria di Dio, le attitudini che riscontra nei monaci.
Ma, ripetiamolo, non è questo il nostro scopo. Le opere sono mezzi ad un fine molto più alto: e il nostro fine è Dio, che noi dobbiamo cercare per se stesso, come suprema felicità.
Vedremo poi che neanche il culto divino in sé può essere il nostro scopo diretto, in quanto monaci.

S. Benedetto vuole che, amando Dio sopra ogni cosa, lo cerchiamo per la sua gloria propria; e che ci sforziamo di unirci a lui con la carità. Questo è il nostro scopo, la nostra perfezione. Il culto divino si rannoda alla virtù della religione, la più alta fra le virtù morali, che è una parte della giustizia; ma essa non è tuttavia una virtù teologale. Fede, speranza e carità, virtù infuse, sono quelle proprie del nostro stato di figli di Dio; esse fondano quaggiù la vita soprannaturale; si riferiscono direttamente a Dio come autore dell’ordine soprannaturale. La fede è la radice, la speranza il tronco, la carità il fiore e il frutto della vita soprannaturale. È appunto la carità lo scopo che S. Benedetto ci assegna, come l’essenza stessa della perfezione: «Se veramente cerca Dio... Si revera Deum quaerit» (Reg. c. 58).
Qui sta la vera grandezza e il principio della vita monastica: «Ci chiamano monaci, - monos, solo, unico, perchè la nostra vocazione non ammette divisione nell’unità della vita, scrive lo Pseudo Dionigi; e ritraendo lo spirito dalle cose molteplici che lo distraggono, sempre lo precipitano verso l’unità divina e la perfezione del santo amore» (1).

 

II. In ogni cosa

La santa brama di possedere Iddio è quanto S. Benedetto esige da chi si presenta al monastero; è una prova di vocazione sicura: ma questa disposizione deve durare tutta la vita.
L’abate stesso deve in primo luogo «cercar il regno di Dio, come il Cristo lo comandò, nella carità» (Reg. c. 2 - Mt. 6, 33); e deve sforzarsi di sottoporre a questa dominazione le anime a lui affidate. Ogni attività materiale che si dispiega nel monastero deve tendere a questo scopo: «Ut in omnibus glorificetur Deus. — In ogni cosa Dio sia glorificato» (Reg. c. 57); perchè l’amore cerca in tutto la di lui gloria.

Notiamo bene: in ogni cosa; condizione importante. Se cerchiamo Dio veramente, lo dobbiamo cercare con costanza, sempre. Voi direte: Ma non lo possediamo noi già dal battesimo, finché siamo in stato di grazia? — Certo. — E perchè allora dobbiamo cercarlo ancora?
La ricerca di Dio consiste nel restar a lui unito con la fede, nell’aderire a lui come all’oggetto del nostro amore. Ora codesta unione può variare infinitamente di grado: «Dio è presente ovunque, dice S. Ambrogio; ma è più vicino a coloro che l’amano, è lungi da quelli che trascurano il suo servizio. — Dominus ubique semper est; sed est praesentior diligentibus; negligentibus abest» (Comm. in Lc 9, 23).
Sempre possiamo cercarlo maggiormente, ossia avvicinarsi di più a lui, con fede sempre più viva, amore più ardente, fedeltà maggiore nell’adempimento del suo volere; ecco perchè possiamo e dobbiamo cercar Dio fino al giorno in cui si darà a noi in modo inammissibile nello splendore glorioso della sua luce eterna.
Se non raggiungiamo codesto scopo la nostra vita è inutile. S. Benedetto nel Prologo riporta e commenta le parole del Salmo 13, 2-3: «Dominus de coelo prospexit super filios hominum ut videat si est intelligens aut requirens Deum; omnes declinaverunt, simul inutiles facti sunt. — Dio guarda se fra gli uomini c’è chi lo cerchi; ma essi tutti hanno deviato e sono diventati inutili». Quanti veramente non comprendono che Dio .è l’unica sorgente d’ogni bene e il fine supremo delle creature! Essi hanno deviato dalla strada che conduce al fine. Come l’orologio che più non segna le ore, anche se fabbricato di metallo prezioso e ornato di gemme, non serve a nulla, è un oggetto inutile.
Anche per noi tutto è «vanità delle vanità» (Qo 1, 2), fuori di questo fine supremo, per cui siamo venuti al monastero. Se non operiamo in modo conforme al nostro fine, siamo esseri inutili; tutto il nostro lavoro, per quanto cospicuo agli occhi dei profani, è nullo agli occhi di Dio; perchè non adempie alle condizioni proprio della esistenza monastica e non tende al fine che essa propone. Cosa terribile una vita umana inutile! Eppure, quanta vanità nella nostra vita religiosa, perchè le nostre azioni non tendono a Dio!
Non siamo dunque come gli insensati di cui parla la Scrittura, che si arrestano alle bagattelle vane e fugaci (Sap. 4, 12). Badiamo a cercar Dio in ogni cosa: nei superiori, nei fratelli, nelle creature, negli avvenimenti che accadono, nelle gioie e nelle contrarietà.
Cerchiamo sempre, e potremo così ad ogni istante dissetarci a codesta sorgente di fedeltà; senza mai temere di veder le acque diminuire; perchè, dice S. Agostino: «sono più abbondanti di quel che ci abbisogna. — Fons vincit sitientem». E Gesù Cristo promise che nell’anima fedele diventeranno come nuova fonte, che sgorga per la vita eterna (Gv. 4, 14).

 

III. Unicamente.

Ma la nostra ricerca per essere sincera deve essere anche esclusiva. E’ importantissimo cercar Dio solo; ossia cercar Dio per se stesso. Notate bene: Dio, e non i suoi doni, per quanto ci possano aiutare a restar fedeli; non le sue consolazioni, quantunque Dio voglia che noi gustiamo quanto sia dolce servirlo (Sal 33, 9):
non ci dobbiamo posare in questi doni né avvinghiarci a queste consolazioni. Siamo entrati in monastero per Dio solo: non potremo dire di cercarlo davvero, né in modo a lui gradito, se ci affezionassimo a cosa che non sia lui.

Se cerchiamo la creatura e a lei ci attacchiamo, diciamo a Dio: Non trovo tutto in te! Ci sono anime che sentono il bisogno di «qualcosa di più» oltre a Dio, o con lui; Egli non è per esse il «tutto» e non possono dirgli come il Santo di Assisi, in piena verità e fissandolo con amore: «Mio Dio e mio tutto!» (Fioretti, c. 2). Non possono ripetere con S. Paolo: «Omnia detrimentum feci, et arbitror ut stercora ut Christum lucrifaciam. — Ho considerato ogni cosa come lordume e ho tutto respinto per trovare Cristo» (Fil 3, 8).

Non si dimentichi l’importantissima verità: finché sentiremo bisogno di una creatura e ci offriremo a lei, non potremo dire di mirar solo a Dio, ed egli non si darà pienamente a noi. «Si revera Deum quaerit», se cerchiamo Dio sinceramente e vogliamo davvero trovarlo, ci dobbiamo staccare da tutto ciò che non è lui e può inceppare in noi le operazioni della grazia.
Così insegnavano i Santi. Caterina da Siena sul letto di morte, chiamò intorno a sé la sua famiglia spirituale e le diede le ultime istruzioni, raccolte dal B. Raimondo da Capua, suo confessore: «Insegnò loro sopratutto che chi entra in servizio di Dio e vuol possederlo veramente, deve strappare dal proprio cuore ogni affetto sensibile verso ogni persona e creatura, e tendere al suo Creatore divino nella semplicità dell’amore indiviso. Perché il cuore non può darsi totalmente a Dio se non è libero da ogni altro amore, e se non s’apre a lui con quella franchezza che esclude ogni riserva (2).

Santa Teresa, che aveva sperimentato queste cose, parla nello stesso modo: «Noi siamo così avare, così poco premurose di far a Dio il dono di noi stesse che non finiamo mai di metterci nelle necessarie disposizioni. Eppure nostro Signore non vuole che godiamo un bene così prezioso [il perfetto possesso di Dio] senza pagarlo a caro prezzo. Capisco che sulla terra non c’è cosa con cui si possa pagarlo. Ma se noi facciamo quanto è da noi per non affezionarci ad oggetti terrestri, se la nostra conversazione e tutti i nostri pensieri sono rivolti al cielo, codesto tesoro ci sarà accordato, ne sono certa» (Autobiografia, c. 11). La Santa dimostra quindi con esempi come accade spesso che ci diamo a Dio pienamente, ma poi in seguito ripigliamo a poco a poco quello che abbiamo dato; e poi conchiude: «Bel modo di cercare l’amore di Dio! Lo vogliamo subito e a piene mani, come si dice, ma a patto di conservare anche le altre affezioni. A pensarci bene, noi non facciamo punto sforzi per mettere in esecuzione i buoni desideri, li lasciamo miseramente cader in terra. E poi vogliamo molte consolazioni spirituali! Veramente non è possibile. A mio parere sono due cose incompatibili. E perchè il nostro dono non è totale noi non riceviamo in una volta il tesoro dell’amor divino».
Abbiamo lasciato ogni cosa per trovar Dio e far posto a lui solo; ad esempio del grande Patriarca: «Soli Deo placere desiderans, — volendo piacere solo a Dio», dice S. Gregorio (Dial., I. 2). Bisogna perseverare in codesta disposizione fondamentale. Solo a questo prezzo troveremo Dio. Se invece, dimenticando a poco a poco il dono fatto, ci lasciamo distogliere da questo scopo supremo se ci attacchiamo a una persona, o creatura, impiego, lavoro, oggetto, siamone persuasi, allora non possederemo mai pienamente Iddio.
Se potessimo dire, ma con tutta sincerità, le parole dell’apostolo Filippo a Gesù: «Signore, mostraci il Padre, e ci basterà!» (Gv. 14, 8). Ma per dirle sinceramente bisogna poter anche soggiungere con gli Apostoli: «Abbiamo lasciato tutto per seguirti...» (Mt. 19, 27). Felici quelli che eseguiscono codesto desiderio, e giungono fino all’ultima, attuale e perfetta rinuncia! Ma non debbono conservar nulla; non dire: il poco a cui m’affeziono ancora è cosa da niente. «Non conoscete la natura del cuore umano? Nel poco che serba si raccoglie tutto quanto, vi restringe ogni suo desiderio. Strappate e rompete tutto, non vi serbate nulla. Felice una volta ancora colui al quale è dato di compiere pienamente questo desiderio e di mandarlo in effetto!» (Bossuet. Medit. sul Vangelo, p. 11, giorno 83).

 

IV. Preziosi frutti che se ne ricavano

Se cerchiamo Dio ad onta di tutte le prove, ad ogni giorno, ad ogni ora gli rendiamo l’omaggio a lui più gradito facendolo nostra sola felicità; se non cerchiamo altro che la sua volontà; se operiamo sempre secondo il suo beneplacito, Dio certamente non mancherà alle sue promesse. Dio è fedele (1Ts 5, 25); e non si nega a quelli che lo cercano: «Non dereliquisti quaerentes te, Domine» (Sal 9, 11). Più ci accosteremo a lui con la fede, la fiducia e l’amore, più ci avvicineremo alla perfezione. Dio è l’autore principale della nostra santificazione, come opera soprannaturale; quindi avvicinarsi a lui, restargli uniti per mezzo della carità è condizione essenziale della nostra perfezione. Più ci svincoleremo dal peccato, dall’imperfezione, dalle creature, da ogni movente umano per pensare solo a lui e conformarci al suo beneplacito, più la vita abbonderà in noi e Dio ci riempirà di se stesso: «Quaerite Deum et vivet anima vestra (Sal 48, 33)».

Alcune anime cercano Iddio con tanta sincerità e ne sono così totalmente padroneggiate che non sanno più vivere senza di lui: «Vi assicuro, scriveva al padre una santa Benedettina, la B. Bonomo, che non sono più io, ma c’è in me un altro che mi possiede interamente; è il mio assoluto padrone, O Dio! non so proprio come scacciarlo! (3)».

Quando l’anima si dà così pienamente a Dio, anche Dio si dà all’anima, e se ne prende cura speciale. Guardate S. Gertrude: sapete che Gesù le dimostrava un singolare affetto; diceva che sulla terra non c’era altra creatura verso cui si inchinasse con tanta delizia (4); e aggiungeva che lo si troverebbe sempre nel cuore di Gertrude, compiacendosi di adempiere i suoi menomi desideri. Un’anima che conosceva codesta grandissima intimità osò chiedere al Signore per quali attrattive avesse meritato tale preferenza: «L’amo così, rispose Nostro signore, per la libertà del suo cuore, in cui nulla può penetrare per contrastarmene il possesso (5)». Perché, interamente staccata da ogni creatura, essa cercava unicamente Dio in tutte le cose, e meritava di divenir oggetto delle sue compiacenze in modo straordinario e ineffabile.
Come questa grande anima, degna figlia del grande Patriarca, cerchiamo Dio sempre e in tutto; sinceramente, dal fondo del cuore. Diciamo spesso col Salmista: «Faciem tuam, Domine requiram. - Cerco il tuo volto, o mio Dio» (Sal 26, 8). E «che può importarmi, in cielo o in terra, fuori di te? Tu sei il Dio del mio cuore, la porzione che mi sono scelta per sempre. — Quid enim mihi est in coelo, et a te quid volui super terram?
Deus cordis mei et pars mea, Deus in aeternum» (Sal 72, 25-26). Mio Dio, tu sei così grande, bello e buono che mi basti interamente. Tu permetti che altri cerchi un amore umano; e la tua Provvidenza l’ha ordinato a preparare gli eletti per il tuo regno, con missione alta e grande, «Sacramentum hoc magnum est» (Ef 5, 32); tu dai loro, se osservano la tua legge abbondanti benedizioni (Sal 127). Ma io desidero e voglio te solo, o Signore; affinché «il mio cuore non sia diviso, miri solo alla tua gloria e si unisca a te senza ostacolo» (1Cor 7, 32,35).

Se la creatura si presenta a noi, diciamole interiormente, come S. Agnese: «Discede a me, pabulum mortis. — Allontanati da me, tu sei pascolo di morte» (Ufficio, 1 ant. del 1° Notturno).

Se così faremo, troveremo Dio e con lui ogni suo bene. Egli stesso dice all’anima: «Cercami con la semplicità di cuore che nasce dalla sincerità; perchè io mi lascio trovare da quelli che non mi tentano, e mi manifesto a chi si affida a me» (Sap 1, 1-2).
Se troveremo Dio, saremo anche lieti. Siamo stati creati per la felicità, il nostro cuore ha una capacità infinita, ma Dio solo ci può saziare. «Ci creasti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto fino a che non riposa in te. — Fecisti nos ad te, et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te» (S. Agostino, Confessioni, L. I, c. 1). Per questo noi non troviamo mai la felicità stabile e perfetta se cerchiamo altro fuori di Dio.
In ogni Comunità alquanto numerosa si trovano categorie diverse di anime. Alcune vivono sempre liete e irradiano intorno a sé la santa dilatazione di cui gioiscono. Non la gioia sensibile, che può dipendere dal temperamento, dallo stato di salute, o da circostanze estranee alla volontà; ma quella che investe l’anima nel suo intimo ed è un preludio della felicità eterna. Non hanno dunque prove e lotte codeste anime? Ne hanno di certo, perchè ogni discepolo di Gesù Cristo deve portar la croce (Lc 9, 23); ma il fervore della grazia e l’unzione divina fanno loro sopportare questi dolori con gioia. Altre invece non gustano quest’allegrezza; nell’intimo del cuore e anche all’esterno, appaiono turbate, inquiete, infelici. Perchè questa differenza? Perchè quelle cercano Dio in ogni cosa, lo trovano ovunque, e con lui il sommo bene, la felicità che non muta. Queste si afferrano alla creatura, o cercano se stesse per egoismo, per amor proprio, per leggerezza; ossia trovano il nulla trovando se stesse; e non possono contentarsi: l’anima, creata per Dio, è assetata di bene perfetto: «Che cosa c’è in voi? là dove si volgono naturalmente i vostri pensieri, è il vostro tesoro, il vostro cuore. Se si volgono a Dio, siete felici; se a cosa mortale, che la ruggine, la corruzione, la morte incessantemente consumano, il vostro tesoro vi sfugge, e il vostro cuore resta povero, sfinito» (6).

Quando un mondano in casa si annoia, può distrarsi andando fuori; va al Circolo, al concerto; può far un viaggio. Ma il religioso non ha queste distrazioni; deve restar al monastero; e la sua vita regolare, inesorabilmente segnata dalla campanella, è tutta formata di occupazioni successive. Se Dio non è tutto per lui, si annoterà facilmente; il monaco, se non trova Dio perchè non lo cerca, sentirà troppo pesante il fardello che deve portare.
Si darà forse tutto alle occupazioni, al lavoro; ma è un diversivo insufficiente e illusorio, osserva Luigi de Blois: «Tutto quello che si cerca fuori di Dio occupa la mente senza saziarla. — Quidquid praeter Deum quaeritur, mentem ocupat, non satiat» (7). Nel monastero più che altrove viene sempre un’ora nella quale ci troviamo soli con noi stessi, ossia col nulla; l’anima non può gustare quell’intima dolcezza che solleva, né il fervore profondo e calmo che proviene dall’intima vicinanza di Dio: se non va dritto a lui, gli si aggirerà intorno senza mai trovarlo davvero.

Invece, quando l’anima cerca Dio solo e tende a lui con tutta l’energia, senza attaccarsi a creatura alcuna, egli la colma di gioia, di quella gioia traboccante di cui parla S. Benedetto allorché dice: «Quanto più la fede, la speranza e l’amore aumentano nel cuore del monaco, tanto più egli corre nella via dei divini comandamenti, col cuore dilatato dall’inenarrabile dolcezza dell’amore. — Dilatato corde inenarrabili dilectionis dulcedine curritur via mandatorum Dei» (Prologo).
Come S. Bernardo, chiediamo sovente a noi stessi: «Ad quid venisti?» (8). Perchè sono venuto qui? perchè ho lasciato il mondo, mi sono separato da quanti amavo, ho rinunciato alla mia libertà, ho compiuti tanti sacrifici? Forse per darmi al lavoro intellettuale? per acquistare la scienza, occuparmi d’arte o d’insegnamento? Non dimenticandoci di esser venuti per un solo scopo: cercar Dio; rinunciammo a tutto per acquistare la preziosa perla dell’unione con Dio: «Inventa una pretiosa margarita vendidit omnia quae habuit et emit eam» (Mt 13, 46).
Esaminiamoci spesso per vedere fino a che punto siamo staccati dalla creatura; se siamo leali, Dio ci mostrerà gli impedimenti che ci trattengono dal raggiungere il nostro scopo e la nostra gloria; è una vocazione elevatissima esser chiamati ad appartenere alla schiera di coloro che cercano Dio: «Haec est generatio quaerentium eum» (Sal 23, 6). Abbiamo scelto la parte migliore: «Hereditas mea praeclara est mihi» (Sal 15, 6).
Serbiamoci fedeli: non potremo raggiungere il nostro ideale né in un giorno né in un anno; non vi riusciremo senza pene né dolori; perché la purezza d’affezione, il distacco assoluto, pieno, costante, senza del quale Dio non si darà a noi, si acquistano solo con la grande generosità; ma se siamo fermamente decisi a non mercanteggiare con Dio, egli ricompenserà i nostri sforzi, e nel suo perfetto possesso troveremo la beatitudine. «Quanta misericordia adopera Iddio con l’anima quando le dà grazia e coraggio per mettersi generosamente e con tutte le forze alla conquista di un tal bene! Se persevera, Dio non si nega a nessuno: a poco a poco egli accresce il coraggio e alla fine otteniamo la vittoria» (S. Teresa, 1. c.).
«Quando ci siamo davvero decisi - scriveva un’anima che aveva compreso questa verità - costano solo i primi passi; perchè appena il nostro diletto Signore vede la buona volontà fa lui tutto il resto. Non ricuserò dunque nulla all’amore di Gesù che m’invita. La sua voce è così eloquente! E poi nessuno è così pazzo da lasciare il tutto per la parte. L’amore di Gesù è il tutto; il resto, checché se ne possa pensare, non conta nulla; merita disprezzo se si paragona col nostro unico tesoro. Sono dunque risoluto di convertirmi all’amore di Cristo. Ciò che non è lui non è uguale per me; voglio amare pazzamente. Spezzerò la mia volontà, sottometterò l’intelletto; farò tutto quello che mi si chiederà pur di non perdere il solo bene, Gesù divino; anzi son sicuro che egli non mi lascerà mai. Le nostre anime debbono piacere a Gesù, e non ad altri» (9).

 

V. Cristo Gesù perfetto modello dell’anima che cerca Dio
Il miglior modello di codesta ricerca di Dio, principio della nostra santità, è Gesù Cristo.

Si dirà: e come può esserci d’esempio? come poteva cercar Dio lui che era Dio stesso?
È vero che Gesù è Dio, luce che sgorga dalla luce increata (Credo della Messa), Figlio di Dio vivo, eguale al Padre. Ma è anche uomo; è veramente come noi per la natura umana; e benché essa sia unita indissolubilmente alla persona divina del Verbo; benché l’anima santa di Gesù godesse le delizie della visione beatifica, incessantemente attratta nel flusso divino che porta il Figlio verso il Padre necessariamente, è pur vero che l’attività umana del Cristo quale derivava dalle sue facoltà umane come da sorgente immediata, era sovrana mente libera.
Nell’esercizio di codesta libera attività possiamo riconoscere in Gesù la ricerca di Dio. Qual’è la sua tendenza fondamentale? quali sono le sue più intime aspirazioni, che riassumono la sua missione e la sua vita?
Ce lo dice S. Paolo svelandoci quel che avveniva in quel «santo dei Santi». All’entrare in questo mondo, il primo atto dell’anima di Gesù fu un intenso slancio verso il Padre suo: «Ingrediens mundum, dicit: ... Ecce venio. In capite libri scriptum est de me: ut faciam, Deus, voluntatem tuam» (Eb 10, 5.7).

E noi vediamo il Cristo Gesù lanciarsi come gigante nella via, per la gloria del Padre suo.

È questa la sua disposizione iniziale; ce lo dice nel Vangelo: «Non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato (Gv 5, 30). Ai Giudei, per provar che viene da Dio e che la sua dottrina è divina, attesta che non cerca la gloria sua, ma di colui che l’ha mandato (Ivi, 7, 18); e la cerca in modo tale da non curarsi della propria (Ivi, 8, 50). Ha sempre sulle labbra queste parole: «Abbà, Padre», e tutto per lui si termina nel fare la volontà e promuovere la gloria del Padre.

Con quanta costanza vi si adopera! Egli stesso ci assicura che non se ne allontana mai: «Quae placita facio semper» (Ivi, 8, 29)); e nell’ora del supremo addio, prima di andare alla morte, protesta di aver compiuta la missione ricevuta dal Padre (Ivi, 17,4).
Nessun ostacolo poté arrestano. A dodici anni lasciò sua madre, la Vergine Maria, e rimase a Gerusalemme:
eppure nessun figlio più di lui amava sua madre; tutto l’amore dei cuori filiali sarebbe come una tremula scintilla di contro a una fornace incandescente. Ma appena si tratta della gloria del Padre, della sua volontà, pare che l’amore per la madre non conti più. Sapeva Gesù in quale abisso di angosce immergeva il cuore di lei; ma la gloria del Padre lo richiede, ed. egli non esita punto. «Non sapete che io debbo consacrarmi tutto a ciò che riguarda il Padre mio?» (Lc 2, 49). È la prima parola detta da Gesù raccolta dal Vangelo: vi è riassunta tutta la personalità e la missione di Cristo.
I dolori e le ignominie della Passione, la morte stessa non diminuiscono quest’impulso del cuore di Cristo; anzi per questo appunto che egli vuol fare la volontà del Padre contenuta nella Scrittura, va amorosamente incontro alla croce: «Ut impleantur Scripturae» (Mc 14, 49). L’anima di Gesù si slanciava interiormente alle sofferenze della Passione con impeto maggiore di quello che trascina all’Oceano le acque di un gran fiume: «Così faccio, diceva, per compiere il precetto che mi fu dato dal Padre. — Et sicut mandatum dedit mihi Pater sic facio» (Gv 14, 31).
Gesù dunque come Dio è termine della nostra ricerca; ma come uomo ne è l’ineffabile modello, l’esemplare unico al quale dobbiamo sempre guardare. Ripetiamo anche noi interiormente: «Ingrediens monasterium dixi: Ecce venio. - Quando entrai nel monastero dissi: Eccomi, o mio Dio: in capo alla Regola, che è per me il libro delle vostre volontà, è scritto che io debbo cercarvi compiendo il vostro beneplacito, perchè voglio giungere a voi, Padre del cielo».
E come il Cristo si slanciò nella via per compiere la sua missione, così noi seguiamolo, perchè egli stesso è la via: «Corriamo, dice S. Benedetto, mentre la luce ci rischiara coi suoi raggi; trascinati dal santo desiderio di arrivare al regno dove il Padre ci aspetta, corriamo senza alcuna sosta nella pratica delle buone opere: è condizione indispensabile per giungere al termine: Nisi illuc bonis actibus currendo minime pervenitur» (Prologo).
E come il Cristo Gesù terminò la sua corsa meravigliosa solo quando ebbe raggiunto il fastigio della gloria: «Et occursus ejus usque ad summum ejus» (Sal 18, 7), così noi non ci stanchiamo nella ricerca di Dio solo, fino a che non siamo giunti «al culmine della virtù, all’altezza della perfezione; culmina virtutum, celsitudo perfectionis» (Reg. c. 73). Quando l’anima è giunta a queste altezze, vive nell’unione abituale con Dio, ha trovato colui che cercava, e assapora come se già le possedesse le gioie della ineffabile unione che si compie nel seno del Padre, perchè è staccata da ogni cosa terrena.

«Signore mio Dio, in cui ho posto ogni mia speranza; esaudisci la mia preghiera. Non permettere mai che io sia così accasciato da rinunciar a te, ma fa che con ardore continuamente rinnovato l’anima mia aneli di vederti. Dammi la forza di cercarti sempre, tu che incoraggi la speranza di quelli che ti cercano, e da essi ti lasci trovare. - Domine Deus meus, una spes mea, exaudi me, ne fatigatus nolim te quaerere, sed quaeram faciem tuam semper ardenter. Tu da quaerendi vires, qui invenire te fecisti, et magis magisque inveniendi te spem dedisti» (10).

 

NOTE

(1) Opere di S. Dionigi, Della gerarchia ecclesiastica (trad. francese di Mgr Darboy, pag 136).

(2) Vita della Santa, scritta dal B. Raimondo.

(3) Du Bourg. La B.se J. M. Bonomo moniale bénédictine. Paris, 1910.
(4) Le héraut de l’amour divin, L. I. c. 3.
(5) D. Guéranger, Introduction aux exercices de S. Gertrude, p. VIII.
(6) Bossuet, Méditations sur l’Evangile, Sermon sur la montagne. 29.e Jour, Edition Marbeau, p. 114.
(7) Canon vitae sptritualis, c. 15. — Cosi dicendo il santo abate ripeteva le parole di un vecchio monaco: «L’anima razionale è fatta ad immagine di Dio; ogni altra cosa può occuparla, non riempirla; è capace di Dio e non s’empie con quello che è minore di lui» (PL CXXXIV, col. 455).
(8) Vita del Santo, Vacandard, T. I, c. 2.
(9) Une âme bénédictine Dom Pie de Hemptinne, 5. ediz., pag. 264.
(10) S. Agostino, De Trinitate, L. XV, c. 28.

 

NOTA: COME SI CERCA DIO, SECONDO S. BERNARDO

Cercar Dio è bene supremo. Quanto a me lo stimo sopra ogni altro bene dell’anima. È il primo dono e l’inizio di ogni progresso.
Non si aggiunge ad altra virtù, né è inferiore ad alcuna; quale virtù potrebbe aggiungersi se le precedette tutte? E a quale sarebbe inferiore se è il compimento di tutte le altre?
Chi non cerca Dio potrebbe mai tendere ad altra virtù? e questa ricerca potrebbe aver termine?

Dunque cerchiamo sempre Dio, perchè, dice la Scrittura, chi l’ha cercato non smetterà di farlo.
Si va a Dio col desiderio, e non col movimento del corpo; ora, il desiderio santo non si sazia con la felicità del possesso; ma si accende sempre più. La perfezione della gioia potrà mai indebolire il desiderio? Anzi, è come olio sul fuoco. Il desiderio è la vampa; e benché la gioia sia completa, non produrrà la fine dell’aspirazione, né metterà termine alla ricerca.
Provati, se vuoi, a immaginare lo zelo della ricerca senza unirvi l’idea della povertà; a pensar un desiderio in cui non sia anche l’ansia del possesso. La presenza del bene soltanto esclude la ricerca; l’abbondanza mette fine al desiderio. (
In Cantica, 84, I.)

 

 


 

CAPITOLO 2

Sulle orme di Cristo

 

 

SOMMARIO: Per il peccato la ricerca di Dio «è il ritorno a Dio»; e si compie seguendo Cristo. — I. il Cristo è la via con la dottrina e l’esempio. — II. È il Pontefice supremo che ci ricongiunge con Dio. — III. È la sorgente di grazie alla quale dobbiamo attingere soccorso. — IV. Queste verità si applicano alla perfezione religiosa; Cristo è il «religioso per eccellenza». — V. La regola di S. Benedetto è impregnata dl queste verità; suo carattere «cristocentrico».

 

Sappiamo che il fine a cui tende la vita religiosa è Dio, pienezza dell’essere; mentre ogni creatura è nulla e possiede solo perfezioni accattate. Inoltre Iddio, per infinita sua bontà, ci ha chiamati a condividere la sua vita intima nel seno della Trinità adorabile, godendo una beatitudine infinita invece del bene limitato a cui avremo diritto come creature.

Già dalla creazione del primo uomo, Dio ci destinò a questo fine. Adamo, capo della stirpe umana, venne creato nella giustizia soprannaturale; e la sua anima, colma di grazia, illuminata dalla luce divina, si orientava verso Dio solo. Possedeva quel dono d’integrità che pienamente sottomette le facoltà inferiori alla ragione, e la ragione alla volontà divina: nel capo della nostra stirpe le facoltà si armonizzavano mirabilmente.

Ma Adamo peccò e si allontanò da Dio; trascinando nella rivolta tutta la sua discendenza. Eccettuata la Vergine Maria, noi siamo tutti concepiti con l’impronta dell’apostasia originale; e Dio vede in noi il segno della ribellione. Nasciamo perciò figli d’ira, figli della disobbedienza, lontani da Dio e da lui straniati; quindi, oggetto della sua avversione. Che cosa ne consegue?

Ne viene che per cercar Dio dobbiamo ritornare a Colui che abbiamo perduto. Per solidarietà nella colpa originale, abbiamo abbandonato Iddio volgendoci alla creatura; la razza umana è ben simboleggiata nella parabola del figliol prodigo. S. Benedetto c’insegna come ritornare; e questo carattere, profondamente impresso nella stessa vita cristiana, si afferma fin dalle prime linee del Prologo: «Ascolta, o figliuolo.., e inclina le orecchie del tuo cuore... affinché tu possa ritornare a lui, dal quale ti eri dipartito». Lo scopo è dunque chiaramente determinato.

Per quale via si ritorna a Dio? Importa molto il saperla; perchè se non ci mettiamo per quella, non raggiungeremo lo scopo. La nostra santità dev’essere soprannaturale, e non possiamo acquistarla coi soli nostri sforzi. Se Dio non ci avesse elevati all’ordine soprannaturale, potremmo trovarlo col lume della ragione e raggiungere così la perfezione e la felicità naturale. Ma Dio ha voluto di più, destinandoci ad una beatitudine superiore a tutte le esigenze della natura. Fuori di qui non vi è che errore e dannazione.

Ciò è vero non solo della salute eterna in termini generali, ma anche della santità, che conduce a una salvezza più alta: la via e lo scopo appartengono all’ordine soprannaturale, e ciò che l’uomo da sé può fare anche di più perfetto non ha valore per la vita eterna. Non ci sono due perfezioni e due beatitudini, fra cui scegliere. Ma poiché Dio è solo autore dell’ordine soprannaturale, egli solo può insegnarcene la via; quindi dobbiamo cercar Dio come egli lo vuole; altrimenti non potremo trovarlo.

Ecco la ragione per cui tante anime fanno così pochi progressi. S’immaginano una santità a loro idea, vogliono architettare da soli la loro perfezione erigendola secondo le condizioni loro proprie: non hanno compreso il piano divino o non vi si sono adattate. Esse fanno sì qualche progresso, perchè la misericordia di Dio è infinita e la sua grazia sempre feconda; ma non sanno volare nella via del Signore, zoppicano penosamente. Più studio le anime e più mi persuado di quanto importi conoscere il piano divino; è il dono prezioso che ci apre una sorgente di comunicazioni incessanti con la grazia divina; e l’adattarsi ad esso è l’essenza stessa della santità. Bisogna dunque comprenderli bene, per verificare in noi i disegni di Dio.

Mi direte forse: Non ci ha Dio manifestata la sua volontà? Certo; S. Paolo dice che egli ha rivelato il segreto nascosto da secoli: «Sacramentum absconditum a saeculis» (Ef 3, 9; Col 1, 26), che è l’«instaurare omnia in Christo» (Ef 1, 10). Dio ci vuole rinnovare nel suo Cristo; «ricapitolare» tutto, dice con grande efficacia il testo greco. Il Cristo, Verbo divino, Figlio di Dio e figlio di Adamo perché nato da Maria Vergine, è costituito capo della stirpe degli eletti per ricondurre al Padre tutti coloro che crederanno in lui; Uomo Dio, riparerà la colpa d’Adamo, ci rifarà figli adottivi di Dio, riaprirà le porte del cielo, e vi ci ricondurrà con la sua grazia. Ecco, in poche parole, il piano divino.

Contempliamo per alcuni istanti: sforziamoci di comprenderne bene la grandezza e la profondità: «Comprehendere... quae sit... sublimitas et profundum... ut impleamini in omnem plenitudinem Dei» (Ef 3, 18- 19) affinché ci colmiamo con la pienezza della Divinità. Dio si dà a noi, e tutto quanto, a tutti, ma solo per mezzo di Cristo, col Cristo, nel Cristo: «Per Ipsum, cum Ipso, in Ipso» (Canone della Messa). È questo il divino segreto per noi. Contempliamolo con fede e riverenza, perchè sopravvanza infinitamente ogni nostro concetto; con amore anche, perchè frutto d’amore: «Sic Deus dilexit mundum» (Gv 3, 16). Dio ci diede il Figlio suo perchè ci ama; e con lui e per lui ci diede ogni bene.

Che cos’è dunque per noi il Cristo Gesù?
È la via; è il Pontefice, è la sorgente di grazia. Via per mezzo della sua dottrina e dei suoi esempi; Pontefice supremo che ci meritò col suo sacrificio di poter seguire la via da lui stabilita; è la sorgente di grazia alla quale andiamo ad attingere la forza e i soccorsi necessari per perseverare nel cammino che conduce alla santa montagna; «Usque ad mortem Dei» (3Re, 19, 8).

Ascolteremo prima la parola immacolata dello Spirito Santo; poi metteremo in corrispondenza gli insegnamenti di colui che fu, al dire dl S. Gregorio, suo primo biografo, «pieno dello spirito di giustizia (S. Gregorio, Dial., L. II, c. 8).

 

I. Il Cristo è la via.

Dio vuole che noi lo cerchiamo nella sua essenza, in modo conforme al nostro fine soprannaturale. Ma Dio, dice S. Paolo, «abita in una luce inaccessibile (1Tim 6, 16), nella santità stessa. — Tu autem in sancto habitus» (Sal 21, 4). Come arriveremo a lui? Per mezzo di Cristo; del Verbo incarnato, dell’Uomo Dio. Egli si fa nostra via: «Ego sum via» (Gv 14, 16); via sicura, infallibile, che guida alla luce eterna: «Qui sequitur me non ambulat in tenebris, sed habebit lumen vitae» (Ivi, 8, 2)». Ed è l’unica via, non lo dimenticate; non ce ne sono altre: «Nemo venit ad Patrem nisi per me — Nessuno viene al Padre se non per me» (Ivi, 14, 6). Al Padre, ossia alla vita eterna, a Dio posseduto e amato nell’intimo segreto della Trinità beatificante; e quindi per trovar Dio, per giungere allo scopo della nostra ricerca, basta seguire Gesù.

Come dunque il Cristo è la via che ci conduce a Dio? Con la dottrina e con l’esempio: «Coepit facere et docere» (At, 1, 1).

Dio vuole che lo cerchiamo com’è in se stesso; bisogna prima conoscerlo; e il Cristo ci fa conoscere Dio; Egli, che è nel seno del Padre, «in sinu Patris» (Gv 1, 18), ce lo rivela: «Unigenitus... ipse enarravit» (Ivi).

Dio si è fatto conoscere a noi mediante la parola del Figlio: «Deus... illuxit in cordibus nostris ad illuminationem scientiae claritatis Dei in facie Christi Jesu» (2Cor 4, 6). E Gesù diceva: «Io rivelo a voi il Padre, vostro Dio; io lo conosco, perché sono suo Figlio; la dottrina che insegno non è mia, ma del Padre che mi ha mandato... (Gv 7, 16). Vi dico solo quello che ho veduto presso il Padre. — Ego quod vidi apud Patrem meum loquor» (Ivi 8, 38)». Non v’inganno, perchè parlo secondo la verità: «Veritatem vobis locutus sum» (Ivi 40). Sono anzi la verità stessa. — Ego sum veritas (Ivi 14, 6). — Chi cerca Dio deve farlo in spirito e verità. — In spiritu et ventate oportet adorare (Ivi 4, 24), — Le mie parole sono spirito e vita (Ivi 6, 64) e chi è unito a me conosce la verità. — Si vos manseritis in sermone meo... cognoscetis veritatem (Ivi 8, 31-32). — Da me stesso non parlo, ma colui che mi ha mandato mi comanda e mi suggerisce ciò che devo dire; e io so che questa mia parola vi condurrà alla vita che non ha termine. — Quia ego ex meipso non sum locutus, sed qui misit me Pater, ipse mihi mandatum dedit, quid dicam et quid loquar; et scio quia mandatum ejus vita aeterna est» (Ivi 12, 49-50).

Il Padre dal canto suo conferma solennemente codesta testimonianza del Figlio: «Questi è il mio Figlio diletto, in cui mi compiaccio; ascoltatelo. — Ipsum audite» (Mt 17, 5).

Ascoltiamola dunque codesta parola, codesta dottrina di Gesù; essa è la nostra via. Diciamogli come S. Pietro: Signore Gesù, da chi andremo? tu solo hai le parole di vita eterna. — «Verba vitae aeternae habes» (Gv 6, 69). Noi crediamo che sei il Verbo Divino venuto in terra per istruirci; sei Dio che parla alle nostre anime; perchè, quando i tempi furono compiuti Dio ci ha parlato per mezzo del Figlio suo: «Novissime locutus est nobis in Filio» (Eb 1, 2). Crediamo in te, o Cristo, e a tutto quello che ci riveli intorno ai divini segreti; e perchè accettiamo la tua parola, ci abbandoniamo a te per vivere secondo il tuo Vangelo. Tu hai detto che per essere perfetti bisogna abbandonar tutto e seguirti (Mt 19, 21); ebbene, noi lo crediamo, ed eccoci pronti; abbiamo tutto abbandonato per seguirti (Ivi 27). Sii tu la nostra guida, o luce indefettibile, perchè mettiamo in te la nostra più ferma speranza. Tu non ci respingerai, poiché veniamo a te per andar al Padre; e tu hai detto: «Chi viene a me non lo respingerò: Et eum qui venit ad me non ejiciam foras» (Gv 6, 37).

Gesù, è via anche col suo esempio.

È Dio, perfettissimo, unico Figlio di Dio: «Deum de Deo» (Credo della Messa); ma è anche vero uomo, della nostra autentica razza. Da questa doppia natura deriva una doppia attività umano-divina; ma le due attività non si confondono, come non si mescolano le due nature benché ineffabilmente unite nella stessa persona. Il Cristo è la rivelazione di Dio che conviene alla nostra debolezza; manifestazione di Dio in forma umana: «Chi vede me vede il Padre, ha egli esclamato. — Qui videt me videt et Patrem» (Gv 14, 9). È Dio vivente fra noi; e nella sua vita umana, tangibile, ci mostra come dobbiamo vivere per essere graditi al Padre celeste.

Tutto ciò che egli ha fatto è perfetto; non solo per l’amore con cui è stato fatto, ma per il modo stesso con cui venne compiuto: le menome azioni di Gesù erano atti divini, infinitamente grati al Padre. Sono dunque per noi modelli da imitare, esempi di perfezione: «Exemplum dedi vobis, ut quemadmodum ego feci ita et vos faciatis» (Gv 13, 15). Imitando Gesù siamo sicuri di piacere al Padre come lui, benché in grado diverso; e di ottenere doni preziosi. La vita di Cristo — diceva un santo monaco che parlava per esperienza — è ottimo libro per i dotti e per gli ignoranti; per i perfetti e gli imperfetti che desiderano piacere a Dio. Chi sa leggerlo bene e spesso, acquista grande sapienza; ottiene facilmente lume della mente, la pace e la tranquillità di coscienza, ferma fiducia in Dio nel sincero amore» (Ven. Ludovico Blosio, Specchio dell’anima, c. 10, 7).

Contempliamo dunque nel Vangelo gli esempi di Gesù: sono la norma di ogni santità umana. Se restiamo uniti a Gesù con la fede nella sua dottrina e l’imitazione delle sue virtù, — principalmente le virtù religiose — noi potremo sicuramente arrivare a Dio. C’è tra noi e lui una distanza infinita, è vero; Egli è il Creatore, noi le creature, e l’ultimo scalino fra le creature intelligenti; Egli è spirito, noi spirito e materia; Egli è immutabile e noi sempre soggetti al cambiamento; ma nella unione col Cristo abbiamo modo di varcare la distanza, di stabilirci nell’immutabilità divina, perchè in Gesù, Dio e la natura si abbracciano in unione ineffabile e indissolubile. In Cristo noi troviamo Dio. «Invano aspirerete, insegna ancora il venerando abate di Liessies, a eminentemente conoscere e godere Dio se non vi sforzate d’imprimere nell’anima vostra l’immagine amabilissima della Umanità di Cristo; perchè la sua Umanità è la via e la porta della Divinità» (Ven. L. Blosio: Santuario dell’anima fedele). «E l’anima non potrà vedere il Signore alla luce dell’amore, stabilirsi in Dio e rivestire, per dir così, la forma della Divinità, se non si è prima trasformata in perfetta immagine di Cristo, nello spirito, nell’anima e della carne stessa» (Idem, Istituzione spirituale, c. 12)».

Gesù ci guida veramente al Padre. Sentite quel che diceva agli apostoli, poco prima di lasciarli: «Ritorno a colui che mi ha mandato, al Padre mio e vostro; al Dio mio e Dio vostro» (Gv 20, 17). Il Verbo è sceso dal cielo per incarnarsi e riscattare gli uomini; compiuta l’opera, ritorna al cielo, ma non solo: conduce seco virtualmente tutti quelli che credono in lui. E perchè? perchè si avveri in lui l’unione di tutti col Padre: «Ego in eis et tu in me» (Ivi 17, 23). Non è forse questa la preghiera suprema di Gesù al Padre? «Fa che io sia in loro, o Padre, con la grazia, e tu in me; affinché contemplino la gloria che tu m’hai data» (Ivi 24).

Non abbandoniamo dunque mai il Cristo che è la via, perchè ci smarriremmo a rischio di perderci eternamente; se lo seguiremo invece troveremo infallibilmente la luce eterna. Se ci lasciamo guidare da colui che è la vera luce del mondo: «Lux vera quae illuminat omnem hominem» (Gv 1, 9), cammineremo con passo sicuro, e arriveremo al termine, per quanto sublime, della nostra vocazione: «Padre, siano essi meco, partecipi anche della mia gloria. — Ut ubi sum ego et illi sint mecum» (Ivi 17, 24).

 

II. È il Pontefice supremo che ci ricongiunge con Dio.

Ma non basta conoscer la via; bisogna poterla seguire; e per questo ancora noi dobbiamo ricorrere al Cristo.

Le ricchezze che ci apporta la mediazione di Cristo Redentore sono inesauribili, ci insegna San Paolo (Ef 3, 8) e più volte, con espressioni diverse ci parla di cotesti inapprezzabili tesori. Ci ricorda soprattutto il nostro riscatto, la nostra riconciliazione, la nuova creazione, per la quale il Cristo ci dà l’attitudine a portare frutti di giustizia.

Eravamo schiavi del demonio, e il Cristo ci libera dalla servitù; eravamo nemici di Dio, e ci riconcilia col Padre; avevamo perduto l’eredità celeste, e il Figlio Unigenito, fattosi nostro fratello, ce ne restituisce il possesso. Contempliamolo per poco ognuno di cotesti aspetti dell’opera mediatrice di Gesù: sono verità conosciute, sì, ma è sempre nuova gioia per noi rimeditarle.

«Giunta la pienezza dei tempi stabilita dagli eterni decreti, Dio mandò il suo Figlio, nato di donna, per riscattare quelli che vivevano accasciati dal giogo della legge» (Gal 4, 4); e allora si vide quaggiù la grazia di Dio, nella persona del Salvatore, che veniva a riscattarci da ogni iniquità (Tt 2, 11.14).

È la missione essenziale del Verbo Incarnato, come lo indica il suo stesso nome: «Lo chiamerete Gesù, ossia Salvatore, perchè libererà il suo popolo dal peccato» (Lc 1, 31); e S. Pietro aggiunge: «Non vi è altro nome nel quale possiamo sperare salute» (At 4, 12): è nome unico, com’è universale la Redenzione da lui operata.

E da che ci libera il Cristo? dal giogo del peccato. Badate: all’epoca della sua passione, quand’era imminente il suo sacrificio, egli dice: «Nunc princeps hujus mundi ejicietur foras. — Ora il principe di questo mondo sarà cacciato dal suo regno; e quando io sarò innalzato da terra attirerò tutto a me» (Gv 12, 31-32).

Con la sua cruenta immolazione sul Calvario il nostro Re distrusse il regno di Satana; S. Paolo ci avverte che il Cristo «strappò al demonio la sentenza della nostra servitù eterna, e la lacerò configgendola alla Croce. — Delens quod adversum nos erat chirographum decreti... afflgens illud cruci» (Col 2, 14). Colla sua morte sanguinosa pagò il nostro riscatto. Che cosa cantano gli eletti nel cielo? che cosa esclama nei santi splendori il coro innumerevole dei riscattati? «A te, Signore lode, gloria, onore; perchè col tuo sangue immacolato, o Agnello divino, ci hai conquistati» (Ap 4, 11.9).

Ma egli ci libera dalla dannazione eterna per ricondurci al Padre e riconciliarci con lui; perché egli è il Mediatore per eccellenza tra Dio e gli uomini; l’unico Mediatore: «Unus mediator Dei et hominum, homo Christus Jesus (1Tim 2, 5)».

Figlio di Dio e Dio egli stesso, ricco di ogni prerogativa divina, il Cristo, Verbo incarnato, può trattare il Padre come eguale. All’atto dl versare il suo sangue per noi, chiede al Padre di unirci a lui: «Volo, Pater» (Gv 17, 24). Il tono assoluto della preghiera dimostra l’unità della natura divina, nella quale Gesù, come Verbo, vive col Padre e col loro comune Spirito.

Ma è anche uomo; e la natura umana conferisce a Gesù il potere di offrire al Padre la soddisfazione che esigono l’amore e la giustizia: «Holocautomata, ... non tibi placuerunt, corpus autem aptasti mihi, ecce venio ut faciam, Deus, voluntatem tuam» (Eb 10, 5-7). Il sacrificio della vittima divina placa il Padre e ce lo rende propizio: «Pacificans per sanguinem crucis ejus» (Col 1, 20). Come mediatore, Cristo Gesù è Pontefice: Uomo- Dio, costituisce il mezzo di passare l’abisso scavato dal peccato tra il cielo e la terra. Per la sua umanità, nella quale la Divinità abita corporalmente, ci rannoda a Dio (Ivi 2, 9) [1].

Per questo S. Paolo ci assicura che Dio stesso era nel Cristo per riconciliare a sé il mondo: «Deus erat in Christo mundum reconcilians sibi» (2Cor 5, 19); per modo che noi, prima lontani da Dio per il peccato, siamo stati a lui ravvicinati nel sangue di Cristo: «Vos qui aliquando eratis longe, faeti estis prope in sanguine Christi» (Ef 2, 13). Ai piedi della Croce la giustizia e la pace si riconciliano: «Justitia et pax osculatae sunt (Sal 84, 11)».

Ben a ragione poteva l’Apostolo concludere: Nel Cristo, mediante la fede in lui, possiamo arditamente avvicinarci a Dio in confidenza: «In quo [Christo] habemus fiduciam et accessum in confidentia per fidem ejus» (Ef 3, 12). E perchè mancar di fiducia quando il Cristo, figlio del Padre, risponde per i nostri peccati, si fa propiziazione per le nostre iniquità, ed ha tutto espiato e saldato? Perchè non avvicinarci a un Pontefice che, simile a noi in tutto, tranne il peccato, ha voluto provare ogni nostra infermità, bere al calice di tutti i nostri patimenti, affinché, esperto nel dolore umano, potesse più profondamente compatire alle nostre miserie?

Così possente è il nostro Pontefice, così efficace la sua mediazione, che la riconciliazione è perfetta. Dal momento in cui Gesù paga col suo sangue, il prezzo della nostra salute, noi riacquistiamo ogni diritto all’eredità celeste. Ascoltate ciò che dice nostro Signore, quando si accinge a compiere la sua opera essenzialmente mediatrice: che cosa implora egli in quel solenne momento in cui, dinanzi al padre, fa valere la sua qualità di Figlio di Dio? L’oggetto di questa suprema preghiera ci discopre gli intimi sentimenti del suo cuore: «Ut illi sint mecum. — Fa che siano con me». E dove si compirà quest’unione? Nella gloria piena di delizie che gli appartiene dall’eternità: «Che essi vedano la gloria in cui tu mi hai costituito prima della creazione del mondo. — Ut videant claritatem quam dedisti mihi ante constitutionem mundi» (Gv 17, 24)).

Tertulliano scrisse in una delle sue opere: «Nessuno è Padre come Dio. — Tam Pater nemo [quam Deus]» [2]. E noi potremo aggiungere: «Nemo tam frater quam Christus. — Nessuno ci è fratello come Cristo». San Paolo lo chiama «primogenito fra molti fratelli; che non si è mai vergognato di darci questo titolo. — Non confunditur fratres eos vocare» (Rm 8, 29; Eb 2, 11). Difatti egli disse alla Maddalena dopo la risurrezione: «Va dai miei fratelli, — Vade ad fratres meos» (Gv 20, 17). E come intende la fraternità! L’unigenito Figlio di Dio assume le nostre infermità, si carica dei nostri peccati per essere simile a noi: e poiché noi siamo fatti di carne e sangue, volle assumere la nostra natura peccatrice, spezzando con la sua morte la potenza di colui che ha l’impero della morte (Eb 2, 14-15) e rimettendoci in possesso dell’eterno regno della vita, presso il Padre.

«Dunque, conclude a ragione l’Apostolo, voi che siete chiamati a partecipare dell’eterna vocazione, contemplate il Pontefice della nostra fede, Gesù; il quale ha fedelmente compiuto il mandato di Colui che lo stabilì capo del proprio regno, purché manteniamo fedelmente e sempre, la fede e la speranza in cui ci gloriamo (Eb 3, 1.2.6).

E che gloria è mai per noi la speranza in Gesù! Possiamo chiamarlo nostro fratello maggiore; e il Pontefice tanto compassionevole verso di noi è anche il nostro autorevole mediatore. Come lo dice bene S. Paolo! Il giorno dell’Ascensione la santa Umanità di Cristo entra in possesso della sua gloriosa eredità in modo ammirabile: «Praecursor pro nobis introivit» (Ivi 6, 20). E là, presso il Padre, offre l’infinito prezzo della sua Passione per ciascuna anima, in una mediazione perpetuamente viva e operante: Semper vivens ad interpellanduin pro nobis» (Ivi 7, 25).

La nostra fiducia deve dunque essere illimitata. Tutte le grazie che ornano l’anima e la fanno progredire, dalla chiamata alla fede cristiana, alla vocazione monastica, tutti i torrenti di acqua viva che ristorano la città di Dio, ossia l’anima religiosa, traggono sorgente dal Cuore, e dalle piaghe di Cristo sgorga il fiume di vita.

Oh! potremmo noi contemplare l’opera magnifica del nostro Pontefice senza giubilare in continui ringraziamenti! «Dilexit me et tradidit semetipsum pro me. — Mi ha amato, esclama S. Paolo, e s’è dato per me» (Gal 2, 20). L’Apostolo non dice «Dilexit nos», che pure è verità; ma «dilexit me, — mi ha amato», perchè il suo amore si rivolge direttamente a ciascuno di noi e ci è appropriato. La vita, le umiliazioni, le sofferenze, la Passione di Gesù riguardano me. E quanto mi ha amato? «Fino all’ultimo limite; in finem dilexit» (Gv 13, 1).

O Pontefice dolcissimo, che mi hai riaperto il Santo dei Santi col tuo Sangue, e sempre intercedi per me, a te lode e gloria in eterno!

I meriti di Cristo ci appartengono in modo che ce li possiamo attribuire; le sue soddisfazioni sono un tesoro di prezzo infinito in cui possiamo attingere continuamente per espiare le nostre colpe, riparare le nostre negligenze, arricchire la nostra indigenza, perfezionare le nostre opere, supplire a ogni deficienza. «È cosa importantissima per l’anima, insegna il Ven. Blosio in un capitolo da leggere e meditare, unire quanto fa e patisce alle opere e ai dolori di Cristo. Perché in simile modo codeste azioni e prove, per quanto meschine, povere e senza valore in se stesse, diventano splendide, importanti e graditissime a Dio; perchè i meriti di Gesù a cui sono Unite comunicano loro una dignità ineffabile; come la goccia d’acqua immersa nel vino è come assorbita dalla dolce bevanda e ne prende il colore, il gusto squisito. Le buone opere di chi è fedele a questa pia pratica sono incomparabilmente superiori a quelle di chi non se ne cura» (Istituzione spirituale, c. 9, 1. t. II, p. 70).

L’illustre monaco, espertissimo nelle vie spirituali, esortava sempre i suoi discepoli ad unire le loro azioni a quelle di Cristo, per arrivare sicuramente alla santità.

«Affidate le vostre opere buone e ogni esercizio al santissimo e dolcissimo Cuore di Gesù affinché li corregga e perfezioni; è il più ardente desiderio di questo Cuore amantissimo, sempre pronto a rifinire in modo meraviglioso ogni nostra opera piena di difetti. Rallegratevi, esultate di gioia al pensiero che, quantunque poverissimi per natura, possedete così grandi ricchezze nel Redentore che ci ha fatto partecipi dei suoi meriti... In lui voi avete un tesoro ingente, purché non vi manchi l’umiltà e la buona volontà» (Specchio dell’anima, 7, § 5). Nostro Signore stesso lo disse a una monaca benedettina, la Madre Delelöe, della quale abbiamo da poco conosciuta l’ammirabile vita interiore: «Che cosa puoi desiderare di meglio? hai la vera sorgente d’ogni bene nel mio Cuore divino... Ogni sua grandezza ti appartiene, i suoi tesori e le sue ricchezze sono per coloro che io ho scelto... Attingi come vuoi in queste ricchezze e delizie infinite» [3].

 

III. È la sorgente di grazie alla quale dobbiamo attingere soccorso

Ma non basta al Padre Celeste darci il Figlio come mediatore: lo fece dispensatore universale dei suoi doni: «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato ogni potere. — Pater diligit Filium et omnia dedit in manu ejus» (Gv 3, 35). Gesù ci comunica egli stesso la grazia che ci ha meritata.

È una verità importantissima che desidero veder impressa profondamente negli animi vostri. Molti sanno pure che Nostro Signore è la sola via per andare al Padre: «Nessuno viene al Padre se non per me. — Nemo venit ad Patrem nisi per me» (Ivi 14, 6); che egli ci ha riscattati col suo sangue; ma dimentichiamo, almeno praticamente, un’altra verità non meno fondamentale: che il Cristo è in noi causa di ogni grazia, e che agisce in noi col suo spirito.

Gesù possiede in sé la pienezza d’ogni grazia. Sentite che cosa dice: «Come il Padre ha la vita in sé, così ha dato al Figlio di aver pure la vita in se stesso. — Sicut Pater habet vitam in semetipso, sic dedit et Filo habere vitam in semetipso» (Ivi 5, 26). E quale vita? L’eterna; l’oceano della vita divina che contiene ogni perfezione e tutta la beatitudine della divinità. E questa vita Gesù la possiede in se stesso; «in semetipso», cioè per natura, di pieno diritto; perchè è il Figlio di Dio incarnato. Quando il Padre contempla il Cristo, ne è rapito, perchè è il suo proprio Figlio, eguale a Lui; ed esclama: «Ecco il mio Figlio diletto. — Hic est Filius meus dilectus» (Mt 3, 17). Tutto ciò che in lui trova viene da Dio: «Tu sei il mio Figlio, da me oggi generato. — Filius meus es tu; ego hodie genui te (Sal 2, 7). «Il Cristo è veramente lo splendore della gloria del Padre e figura della sostanza di lui» (Eb 1, 3); e nel vederlo il Padre prova una gioia infinita: «In lui ho messo le mie compiacenze. — In quo mihi bene complacui» (Mt 17, 5; 3, 17). Il Cristo come Figlio di Dio, è dunque la vita per eccellenza: «Ego sum vita» (Gv 14, 6).

La vita divina, da lui posseduta nella sua pienezza, egli vuol comunicarcela abbondantemente: «Son venuto affinché abbiano la vita e in abbondanza. — Ego veni ut vitam habeant et abundantius habeant» (Ivi 10, 10). Vuole che la vita, sua per l’unione ipostatica, diventi nostra per mezzo della grazia, e noi dobbiamo riceverla dalla sua pienezza: «Vidimus [eum] plenum gratiae et de plenitudine ejus nos omnes accepimus» (Ivi 1, 14.16). Per mezzo dei Sacramenti, e per l’azione dello Spirito Santo in noi, ci infonde la grazia come principio di vita.

Ricordatelo bene: ogni grazia di cui un’anima possa aver bisogno si trova in Gesù come nella sua sorgente; senza di lui noi non siamo capaci di nulla (Ivi 15, 5), ed è in lui che ci ravvicina al cielo e al Padre, perché possiede tutti i tesori della sapienza e della scienza divina: «In quo sunt omnes thesauri sapientiae et scientiae asconditi» (Col 2, 3). Ma li contiene per trasmetterli a noi: il Cristo è divenuto non solo la nostra redenzione, ma la nostra giustizia, la nostra sapienza, la nostra santificazione: «Christus factus est nobis sapientia a Deo, et justitia, et sanctificatio» (1Cor 1, 30). Noi possiamo cantare che è il solo santo: «Tu solus sanctus» (Gloria della Messa), perchè noi tutti siamo santi solo in lui e per lui.

Non c’è forse verità sulla quale San Paolo, l’araldo del mistero di Cristo, insista maggiormente, allorché espone il piano divino. Cristo è il secondo Adamo, capo di una razza come l’altra, ma della razza degli eletti: «Per un solo uomo entrò nel mondo il peccato e per il peccato la morte; così essa passò in tutti gli uomini. Ma se per la colpa d’un solo tutti morirono, a maggior ragione la grazia di Dio e i doni soprannaturali sono stati sparsi sull’umanità per un altro uomo solo ... con questa differenza, che ove abbondò il peccato sovrabbondò la grazia» (Rm 5, 12.17-18.20).

Il Cristo è destinato dal Padre come capo della razza dei riscattati, dei credenti; con essi forma un corpo del quale egli è capo. La sua grazia infinita scorre nelle membra del mistico organismo, secondo la misura stabilita da Dio per ciascuno di loro: «Unicuique nostrum data est gratia secundum mensuram donationis Christi» (Ef 4, 7. Per essa che da lui proviene, Gesù rende ciascun eletto simile a lui, e, come lui gradito al Padre; perchè nei suoi eterni decreti il Padre non ci separa dal Cristo Gesù: l’atto col quale predestinò una natura umana ad essere personalmente unita al Verbo, è lo stesso col quale ci ha predestinati a diventare fratelli di Gesù.

Sicché per vivere della vita divina non abbiamo bisogno d’altro che dei tesori di grazia accumulati nella persona di Cristo. Non possiamo trovar salute fuor di lui, senza la grazia che egli ci dispensa. È la sola via, fuori della quale si smarrisce e si danna; è la verità infallibile senza la quale siamo delle tenebre e nell’errore; è la sola vita che ci salva dalla morte; «Ego sum via, veritas et vita» (Gv 14, 6).

 

IV. Cristo è il “religioso” per eccellenza

Queste verità essenziali si debbono intendere e della salute eterna e della perfezione. Vi stupirete forse che per intrattenervi della perfezione religiosa vi abbia così a lungo parlato del Cristo Gesù. Ma egli ne è lo stesso fondamento. È il religioso per eccellenza, l’esemplare del religioso perfetto; più ancora, la sorgente della perfezione e la consumazione di ogni santità (Eb 12, 2).

Il monachismo, la vita religiosa, non sono istituzioni create di fianco al Cristianesimo; ma immergono le radici nello stesso Vangelo di Cristo; mirano a viverlo integralmente. La nostra santità religiosa è la pienezza dell’adozione divina in Gesù; non è altro che l’assoluto dono di noi stessi, per amore, alla volontà che ci invita dall’alto. Questa volontà nella sua intima essenza, è che siamo degni figli di Dio: Ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del suo Figlio: «Praedestinavit [nos] conformes fieri imaginis Fiii sui» (Rm 8, 29). Ciò che Dio prescrive e chiede, ciò che il Cristo ci consiglia, ha il solo scopo di condurci a dimostrare che siamo figli di Dio e fratelli di Gesù; e quando realizziamo quest’ideale non solo nelle nostre azioni, ma anche nei pensieri e nelle intenzioni che ci spingono ad operare, allora tocchiamo la perfezione.

Si può infatti ricondurre la perfezione alla disposizione intima dell’anima che si sforza di piacere al Padre celeste, vivendo abitualmente e totalmente secondo la grazia dell’adozione soprannaturale.

La perfezione ha come movente abituale l’amore; si estende a tutta la vita, ossia fa pensare, volere, amare, odiare, operare — non secondo le viste dell’umana natura viziata dal peccato; e nemmeno secondo la natura in quanto è buona e retta per sé (quantunque questo secondo motivo sia presupposto) — ma secondo quel divino sovrappiù che ci è stato infuso da Dio, che ci rende suoi figli e ci fa suoi amici.

È perfetto colui che vive abitualmente e totalmente secondo la grazia; per l’uomo adottato come figlio da Dio è una mancanza, un’imperfezione sottrarre alcuni dei suoi atti all’influsso della grazia e della carità che l’accompagna. Gesù ci diede il motto di codesta perfezione cristiana: «Bisogna che io sia nelle cose del Padre mio. — In his quae Patris mei sunt oportet me esse» (Lc 2, 49).

Questa disposizione, che fa vivere pienamente l’anima secondo la divina adozione, ha per frutto di rendere le nostre azioni tutte gradite a Dio, perchè tutte allora hanno veramente radice nella carità. Ascoltiamo S. Paolo: «Vivrete degnamente per Dio, piacendo a lui in ogni cosa. — Ut ambuletis digne Deo per omnia placentes» (Col 1, 10). E come si vive in modo degno di Dio? Vivendo secondo la vocazione a cui ci ha chiamati: «Ut digne ambuletis vocatione qua vocati estis» (Ef 4, 1).

Qual’è questa vocazione? Quella che ci chiama alla vita soprannaturale e alla celeste beatitudine che la corona: «Ut ambularetis digne Deo qui vocavit vos in suum regnum et gloriam (1Ts 2, 12)).

Dunque, la perfezione consiste nel piacere al nostro Padre dei cieli affinché egli sia glorificato, il suo regno si fondi in noi, e la sua volontà interamente si compia; e questo stabilmente e totalmente: «Siate perfetti e integri in ogni volontà divina. — Ut stetis perfectj et pleni in omni voluntate Dei» (Col 4, 12).

Tale atteggiamento farà sì che noi produrremo incessantemente i frutti di buone opere dl cui parla S. Paolo: «Per omnia placentes, in omni bono opere fructificantes» (Ivi 1, 10). E Nostro Signore non dice egli pure che la perfezione glorifica Iddio? «La gloria del Padre è che voi portiate molti frutti. — In hoc clarificatus est Pater meus, ut fructum plurimum afferatis» (Gv 15, 8).

E dove attingeremo la linfa che feconderà le nostre azioni e ci farà presentare al Padre la ricca messe di buone opere colla quale lo glorificheremo?

Questo succo fecondo è la grazia che ci viene solo da Gesù; e solo dimorando uniti a lui potremo essere noi pure divinamente fecondi. «Qui manet in me et ego in eo, hic fert fructum multum. — Chi dimora in me, ed io in lui, questi porterà frutto abbondante. Senza dl lui non possiamo compiere nulla che sia degno del Padre; ma con lui, in lui, porteremo molti frutti: egli è la vite, e noi i tralci» (Gv 15, 9).

Mi chiederete come si dimora in Gesù? — Prima di tutto con la fede. Ci dice S. Paolo che per la fede Cristo abita nei nostri cuori. «Christum per fidem habitare in cordibus vestris» (Ef 3, 17). Quindi con l’amore: «Manete in dilectione mea» (Gv 15, 9); amore, che, unito alla grazia, ci consacra completamente al servizio del Cristo e all’osservanza dei suoi precetti: «Se mi amate, osservate i miei comandamenti. — Si diligitis me, mandata mea servate» (Ivi 15, 15).

E ciò è vero della perfezione nella quale deve vivere ogni cristiano secondo il suo stato; ma vero soprattutto della perfezione religiosa. La perfezione non può esistere senza l’orientamento abituale o stabile dell’anima verso Dio e la sua divina volontà. Lo ripeto: è necessario che siate perfetti e integri in ogni volontà divina: «Ut stetis perfecti et pieni in omni voluntate Dei».

Ma invece troviamo in noi, e attorno a noi, molti ostacoli: la triplice concupiscenza della carne, degli occhi, dell’orgoglio, attira il cuore umano, lo divide, attenta all’integrità che forma la perfezione. Per principio, il religioso allontana gli ostacoli seguendo i consigli evangelici; coi voti si stabilisce nello stato di perfezione, mettendosi, se si mantiene fedele, al sicuro dalle fluttuazioni e dagli stimoli che possono dividere il cuore; e si costituisce interamente in uno stato in cui è più libera la grazia d’agire e può espandersi in frutti più copiosi. «Vorrei, dice S. Paolo, che foste senza preoccupazioni. Chi è vergine attende alle cose di Dio e si sforza di piacere al Signore; chi è coniugato attende alle cose del mondo, vuol piacere alla moglie ed è diviso. Questo vi dico per indicarvi quello che può stringerci al Signore senza divisione né riserva. — «Volo vos sine sollicitudine esse... quod facultatem praebeat sine impedimento Dominuni obsecrandi» (1Cor 7, 32-35).

Per questo Cristo Gesù diceva al giovane innamorato dell’ideale: «Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che hai, e poi vieni e seguimi. — Si vis, perfectus esse, vade, vende omnia quae habes, et veni, sequere me» (Mt 19, 21).

Il religioso, il monaco si spoglia, si distacca da tutto: «Reliquimus omnia» (Ivi 27); e allontana gli ostacoli che possono ritardare il suo cammino e impedire lo slancio verso Dio. In lui è più ardente la fede, per la quale il Cristo abita nelle anime; e l’amore, che lo fa dimorare in Cristo, è più generoso e grande. In questo felice stato l’anima può unirsi a Dio più pienamente, perchè segue il Cristo più da vicino: «Et secuti sumus te» (Mt 19, 27).

La perfezione ha dunque come principio la grazia; come movente l’amore; come misura il grado d’unione a Gesù. Con la vocazione soprannaturale Gesù ce ne è l’iniziatore; poi se ne fa l’unico modello, divino ma accostevole; e finalmente ce la dona egli stesso, come partecipazione alla perfezione propria. Dobbiamo «essere perfetti come il nostro Padre celeste è perfetto» (Ivi 5, 48); ce lo dice Gesù; ma Dio solo può renderci tali ed egli lo fa donandoci il Cristo suo Figlio.

Dunque, tutto si riduce a rimaner uniti a lui in ogni cosa; a contemplarlo continuamente per imitarlo; e a compiere sempre come lui, per amore — «quia diligo Patrem» (Gv 14, 30) — tutto ciò che piace al Padre: «Quae placita sunt ei facio semper» (Ivi 8, 29). Qui sta il segreto della perfezione; il mezzo infallibile per attirarsi le compiacenze del Padre, come egli si compiace nel suo Figlio diletto.

Un giorno di Sabato, si racconta nella vita di S. Metilde, durante il canto della Messa: «Salve, sancta pares», salutò la Beata Vergine e la supplicò di ottenerle la vera santità. La Madonna le rispose: «Se desideri la santità vera, tienti vicina al Figlio mio; egli è la santità stessa e tutto santifica». Metilde si domandava in che modo avrebbe potuto farlo; e la Vergine dolcissima le soggiunse: «Medita la sua santissima infanzia; e, per la sua innocenza, chiedi riparazione delle colpe e delle negligenze della tua fanciullezza. Medita la sua fervente adolescenza, che si espandeva nel più fervido amore, il quale solo aveva il privilegio di dare materia sufficiente all’amore di Dio. Unisciti alle sue divine virtù, che potranno nobilitare ed elevare le tue. In secondo luogo, ti terrai vicina al mio Figlio dirigendo a lui ogni tuo pensiero, parola, azione; affinché cancelli tutto ciò che vi è d’imperfetto, egli che non ha mai fallato. In terzo luogo, ti terrai accanto a lui come la sposa allo sposo, che coi beni suoi la veste e la nutre, mentre essa ama ed onora, per amor suo, gli amici e la famiglia dello sposo. Così l’anima tua si nutrirà del Verbo divino come di ottimo cibo; si adornerà delle delizie che trova in Esso, ossia degli esempi che ne può imitare... Così sarai veramente santa, perchè è scritto: Col santo tu sarai santo; e la regina regna associandosi alla sorte del re» (Lib. della grazia speciale, p. I, 37).

«Dunque, carissimi fratelli, conchiudeva la Santa in altra circostanza in cui le fu rivelata la stessa dottrina, riceviamo con intima riconoscenza l’altissimo favore della nobiltà divina, e serviamoci della santissima vita di Cristo per supplire a ciò che ci manca. Sforziamoci secondo ogni nostro potere di conformarci a lui con le virtù; perchè sarà questa la nostra gloria suprema nell’eterna beatitudine... E quale gloria più grande della somiglianza che ci ravvicina a Colui che è lo splendore dell’eterna luce?» (Ivi, p. III, 14; II, 34; III, 15.16; IV, 22).

 

V. Carattere cristocentrico della Regola di San Benedetto

S. Benedetto viveva di queste verità feconde; la sua grande anima si dissetava a queste fonti di acqua viva; e voleva trasfigurata la vita dei suoi discepoli a questo lume benefico. Ricordiamo il principio del Prologo: al postulante che si presenta per farsi monaco e chiede: Che si fa qui? il Santo risponde: Si ritorna a Dio seguendo Cristo. È il punto principale del programma: trovar Dio in unione con Gesù. «Mi rivolgo a te — dice S. Benedetto — che vuoi servire sotto il comando del Signore Cristo vero Re. — Ad te ergo nunc meus sermo dirigitur quisquis... Domino Christo vero Regi militaturus». — E non è questa una vuota formula; è l’idea che penetra la Regola tutta e le dà quel carattere eminentemente cristiano ammirato da Bossuet (Panegirico del Santo). Con queste parole che iniziano la Regola il santo legislatore fa vedere che intende scegliere integralmente il Cristo come modello e considerarlo come sorgente della perfezione monastica; la sua Regola è cristocentrica. Per questo raccomanda di non preferir nulla all’amore di Cristo (c. 4); di non stimare nessuna cosa più cara di Cristo (c. 5); e alla fine riassume tutto il programma ascetico del monaco nella totale dedizione a Cristo: «Christo omnino nihil praeponant qui nos pariter ad vitam aeternam perducat. — A Cristo nessuna cosa prepongano, il quale noi egualmente conduca alla vita eterna» (c. 72).

Sono le ultime parole, e come il supremo congedo del Patriarca ai suoi figli; esse riproducono quelle che principiano la Regola; e sono come l’eco di ciò che dice l’Eterno Padre quando ci addita il suo divin Figlio: «Ascoltatelo. — Ipsum audite» (Mt 17, 5). Seguite in tutto Gesù Cristo, ci insegna S. Benedetto; non preferite nessuna cosa a lui; attenetevi a lui solo, alla sua dottrina, ai suoi esempi; fate assegnamento solo sui meriti suoi; in lui voi troverete Dio, perchè egli è l’alfa e l’omega della perfezione.

Nel capitolo che forma l’epilogo e il coronamento del codice monastico, egli ci ripete che solo nel Cristo troveremo la via dell’eterna patria; e unicamente per la sua grazia potremo adempiere la Regola tracciata; ottenendo così lo scopo che si propone nelle prime righe: cercar Dio: «Quisquis ergo ad patriam caelestem festinas, hanc Regulam descriptam adjuvante Christo perfice» (c. 73).

Per questo in ogni momento della vita, qualunque sia il nostro stato d’animo o le vicende che ci accadono, non distogliamo mai lo sguardo dal Cristo; divino modello che S. Benedetto sempre ci pone davanti agli occhi. Ci insegna la rinuncia a noi stessi, ma ad esempio di Cristo: «Abnegare semetipsum sibi ut sequatur Christum» (c. 4). Tutta l’osservanza nostra — e che cos’è mai la vita monastica se non una continua osservanza? — deve ispirarsi al sovrano pensiero dell’amore di Cristo: «Haec convenit his qui nihil sibi Christo carius aliquid existimant» (c. 5). Siamo tentati? Dobbiamo ricorrere al Cristo Gesù; e contro lui, come a pietra, spezzare i cattivi pensieri appena sorgono dal cuore: «Cogitationes malas cordi suo advenientes, mox ad Christum alludere» (c. 4). Le tribolazioni, le avversità si debbono unire ai dolori del Cristo: «Passionibus Christi per patientiam participemus» (Prologo) e tutta l’esistenza del monaco è ricondotta a questo principio: seguire Gesù nella via da lui indicata nel Vangelo: «Per ducatum Evangelii pergamus itinera ejus» (Ivi). Se arriveremo finalmente alla carità perfetta che è vincolo di perfezione, ci avrà trascinati l’amore di Cristo, perchè egli è il movente di ogni nostra azione: «Ad caritatem Dei perveniet, illam quae perfecta... universa custodit... amore Christi» (c. 4).

Voi vedete che, per S. Benedetto, Cristo è tutto al monaco; vuole che ricorra a lui in ogni cosa, che pensi a lui e su lui si appoggi: deve vedere il Cristo in tutti, nell’abate, nei confratelli, nei malati, negli ospiti, nei pellegrini, nei poveri (cc. 2, 63, 36, 53). Se è necessario, il monaco pregherà per i nemici «in Christi amore» (c. 4). E perchè tanta insistenza? Perchè vuol fare del monaco, con l’amore a Cristo, un vero figlio del Padre celeste. L’amore lo condusse postulante al monastero, ve lo ritiene e lo trasforma ad immagine del suo divino Fratello.

Si comprende allora perchè all’eremita che s’era legato con una catena S. Benedetto dicesse: «Se tu sei servo di Cristo, non legarti con catena di ferro ma con quella di Cristo. — Non teneat te catena ferri, sed catena Christi» (S. Gregorio, Dial., L. III, c. 16). E questo vincolo è l’amore che a lui ci tiene uniti.

Sia così anche per noi: l’amore ci stringa a Cristo: «Teneat te catena Christi»! Nessun’altra via è per noi più tradizionale. Leggete i più autentici e i più grandiosi monumenti dell’ascesi benedettina; li vedrete traboccanti di questa dottrina. Essa ci spiega le ardenti aspirazioni di S. Anselmo al verbo Incarnato; l’amore tenerissimo di S. Bernardo per il Cristo; le famigliarità sorprendenti di S. Gertrude e S. Metilde col divin Salvatore, le ardenti effusioni del Ven. Blosio verso l’umanità Santissima di Gesù [5]. Queste anime grandi, purissime, molto elevate nella santità, avevano pienamente sperimentato in sé questa via proposta dal santo patriarca, del quale erano discepoli fedeli: «L’amore di Cristo superiore a tutto» (cc. 4, 5, 72).

Questo metodo, caratteristico in S. Benedetto, di tutto ricondurre a Cristo, è immensamente fecondo: rende la vita dell’anima possente, concentrandola nell’unità; nella vita spirituale, come altrove, la sterilità proviene dalla dispersione. La rende attraente, poiché il contemplare l’adorabile persona del Cristo Gesù rapisce maggiormente lo spirito e ottiene dal cuore gli sforzi necessari più che ogni altra pratica devota. Non ci vuol grande esperienza per sapere quanto sia a tutti necessario aver sempre alla mano un mezzo — idea, parola, pensiero — che ci aiuti nelle ore difficili dell’abbandono spirituale, e ci renda forza e coraggio per camminare nel retto cammino. Questo mezzo, vero talismano dell’anima, si trova, se noi lo vogliamo, nel sacro nome del nostro benedetto Signore. La sua presenza dovrebbe essere per ciascun di noi continua e sensibile; non come quella di una personalità teorica ed astratta, ma come un’attualità sempre viva in noi e con noi. Cristo nello spirito, nel cuore, nelle mani; il pensiero permanente in lui, l’amore perpetuo, la cosciente e costante imitazione, ecco ciò che assicura l’unione delle anime con Dio, rende il nostro servizio reale e opera d’amore. Per questo S. Benedetto insiste più spesso e con maggior chiarezza sullo sguardo intimo dell’anima al Divino Maestro e sull’imitazione dei suoi esempi, proponendolo ai suoi discepoli come mezzo preferito per alimentare la fiamma della vera vita spirituale.

Non ne troveremo altro più vero e più sicuro; e per terminare e riassumere questo discorso chiederemo a un grande monaco, che non ci stanchiamo di citare perchè ha parlato con la maggior unzione e ardore comunicativo. Ludovico Blosio, abate di Liessies, e lo ripeto con le sue parole: «Non c’è cosa più vantaggiosa della meditazione del Cristo; ora ripensando alla sua incomprensibile divinità, ora alla sua nobilissima umanità; da questa elevandoci a quella e poi ritornandoci. Così l’asceta, come albero piantato presso le acque, sarà meravigliosamente bagnato dal fiume della grazia celeste; e in modo meraviglioso entrerà e uscirà; e nell’umanità e divinità del Signore Gesù troverà pascolo delizioso. Raggiungerà lo scopo di tutti i suoi esercizi interiori, cioè si unirà con l’amore a Dio solo, per mezzo dell’universale rinuncia, nel centro intimo e indescrivibile dell’anima completamente liberata, e si perderà totalmente nell’amabilissima umanità di Cristo, divenendo simile a lui (Istituzione spirituale, c. VI).

 

NOTE

[1] Citiamo un bel testo del Papa S. Gregorio, biografo di S. Benedetto nel quale troviamo parecchie reminiscenze del prologo della Regola: «Redire ad Deum». «Il figlio di Dio venne in aiuto dell’uomo facendosi uomo: e poiché all’uomo solo non poteva aprirsi la via che conduce a Dio, il ritorno avvenne per mezzo dell’Uomo-Dio. Molto stavamo lungi dal Giusto e immortale noi ingiusti e mortali. Ma tra lui, immortale e giusto, e noi mortali ed ingiusti, apparve il mediatore, Dio e uomo, mortale e giusto, che aveva comune cogli uomini la morte, con Dio la giustizia; affine di congiungere in sé l’infimo e il sommo Dio e noi che per la nostra miseria eravamo tanto lungi dalla sublimità; e cosi aprirci la via del ritorno a Dio e unire alla sua altezza la bassezza nostra» (Mor. in Job, c. XXII, in c. 31. P. L. 76, col. 237, 238).

[2] Quis ille nobis intelligendus Pater? Deus scilicet tam pater nemo, tam pius nemo (De Poenitentia, c. 8).

[3] Une mystique inconnue du XVIIe siècle, M. Delelöe par IX Destrée, p. 171, 211, 215; S. Metilde espone la stessa dottrina.
[4] Regola c. 7. Si deve notare che al termine del capitolo sull’umiltà, S. Benedetto cita testualmente Cassiano, ma vi aggiunge: amore Christi, per indicare il principale movente dei nostri atti e queste due parole trasformano essenzialmente l’atteggiamento e il valore della citazione aprendoci una prospettiva nuova e singolare ignota a Cassiano. È stato giustamente osservato che S. Benedetto gli deve molto per ciò che riguarda le osservanze e il sistema di vita claustrale; ma si stacca completamente da lui nella dottrina sulla grazia. S. Benedetto è originale non solo nel modo con cui adatta l’ascetismo orientale alle condizioni proprie dell’Occidente, ma anche nel chiaro ripudio d’ogni tendenza razionalista, sottomettendo totalmente la natura al soprannaturale; quindi per lui l’ascesi è concepita, come subordinazione della lettera allo spirito dell’atto materiale all’intenzione (D. M. Festugière, in Revue bénédictine, 1912, p. 491). Vedi la Conf. 5, fede; la 7, sugli strumenti delle buone opere; la 12, sull’umiltà.

[5] E di tanti altri, come S. Odilone, S. Ildegarde, S. Elisabetta di Schönau, S. Francesca Romana, la M. Delelöe favorita, molto prima di S. Margherita Maria, di rivelazioni intorno al S. Cuore: la B. Bonomo, ecc. Per i secoli anteriori al XIII, vedi D. Besse: Les mystiques bénédictins, Parigi, 1922; per il Ven. Blosio, il bellissimo articolo: La place du Christ dans la doctrine spirituelle de Luis de Blois di D. Puniet, in: La vie spirituelle, Agosto 1920, p. 386 e segg.

 

 


 

CAPITOLO 3

Abbas Christi agere vices in monasterio creditur

Il Superiore come Vicario di Gesù Cristo nel Monastero

 

 

SOMMARIO: Il monaco deve cercare Iddio seguendo il Cristo nella società cenobitica, in cui l’autorità risiede nell’abate. — I. L’abate rappresentante di Cristo, deve imitarlo come pastore. — II. come Pontefice. — III. Deve risplendere per discrezione. — IV. e bontà. — V. Atteggiamento del monaco verso l’abate: amore umile e sincero. — VI. docilità di mente. — VII. obbedienza negli atti.

 

Cercar Iddio seguendo le orme dl Cristo, è la sublime vocazione assegnata da S. Benedetto ai suoi figli. Quando un secolare chiede dl essere ammesso nella Comunità, gli si domanda: «che cosa desideri»? E la Chiesa stessa gli pone sulle labbra la risposta: «La misericordia di Dio e la vostra società. — Misericordiam Dei et vestram confraternitatem» (Rituale monastico).

Ogni vocazione, anche la semplice chiamata al Cristianesimo, è da Dio. Nostro Signore disse egli stesso che: «nessuno può venire a lui se il Padre non l’attira. — Nemo potest venire ad me nisi Pater traxerit eum» (Gv 6, 44).

Ma il principio di questa chiamata è l’amore di Dio verso di noi, e poiché nasciamo miserabili, è il suo amore misericordioso: «Attraxi te miserans» (Ger 31, 3). E’ grande questa vocazione; primo sguardo amante di Dio verso di noi e primo anello della catena di grazie che ci largisce durante tutto il corso della vita: ogni misericordia divina ha come primo principio l’invito a partecipare, per grazia dell’adozione, alla Figliazione del Cristo Gesù.

La vocazione monastica perfeziona questa figliolanza e la estende, con una partecipazione più profonda alla grazia di Cristo e un’imitazione più totale del modello divino. Ma essa pure è una misericordia, e grandissima. Gesù non obbliga tutti gli uomini a seguirlo così da vicino; e il consiglio che dà non è da tutti compreso: «Non omnes capiunt verbum istud» (Mt 19, 11). Ricordate il suo appello al giovane ricco: «Se vuoi essere perfetto vieni, seguimi» (Ivi, 21, Mc 10,21; Lc 18,22), e sapete pure che Gesù subì un rifiuto. Dapprima il Divino Maestro aveva indicato la via comune: Se vuoi ottenere la vita eterna, custodisci i comandamenti. — Si vis ad vitam ingredi, serva mandata» (Mt 19,17). Ma quando il giovane ebbe risposto: «Li ho osservati sempre fin dalla mia adolescenza», allora volle indicargli una via più alta, che mena a una più sublime unione, a una beatitudine più perfetta. Cotesti appelli successivi e sempre più elevati derivano dall’amore: «Lo guardò e lo amò. — intuitus eum, dilexit eum» (Ivi, 20; Mc 10,21). L’amore di Dio ci attira al chiostro, ci invita a servirlo nella comunità monastica, nella società dei confratelli: «Et vestram confraternitatem».

Il monastero costituisce una società; ossia è un’assemblea d’uomini le cui volontà tendono insieme a uno scopo determinato, sotto un’autorità riconosciuta. Non basta l’aggruppamento materiale per formare una società: come quando i curiosi si radunano sulla pubblica piazza; questa è semplice agglomerazione accidentale, senza coesione; ci vuole anche lo scopo identico al quale tendano di comune accordo; scopo che specifica la società e le dà una propria tendenza. Ma gli uomini sono instabili e tra loro si danno frequenti discussioni; la libertà individuale deve essere diretta; quindi per costituire una società e assicurarne il funzionamento, ci vuole l’autorità che mantenga le volontà dirette verso lo scopo sociale, e faccia loro adoperare gli stessi mezzi.

Si vede subito quanto essa sia fondamentale: per l’autorità le volontà individuali si mantengono unite, coerenti; invece se essa manca, se non è unica, suprema, incontestata, una società, per quanto nobilmente ispirata, è destinata fatalmente a dissolversi e rovinare. «Ogni regno interiormente diviso, sarà devastato; disse il Cristo. — Regnum in seipsum divisum desolabitur» (Lc 11,17; Mt 12,25; Mc 3,24).

Lo nota S. Benedetto in un capitolo della Regola; e in nessun’altra parte il legislatore monastico si esprime con maggiore vigore: è assurdo, egli dice, che ci sia un’altra autorità, in certa misura indipendente e quindi rivale del potere supremo; e con nuove espressioni sempre più vigorose indica le discordie che ne proveranno laceranti e rovinose. La disunione porterà necessariamente ai conflitti, e coi conflitti si perderanno le anime. «Necesse est sub hac dissensione animas periclitari... eunt in perditionem» (c. 65).

Vi ho indicato lo scopo primordiale che ci insegna S. Benedetto: cercar Dio, ritornar a lui: «Ut ad Eum redeas» (Prologo); vi ho mostrato il mezzo capitale che ci mette in mano: Seguire coraggiosamente Cristo, vero nostro Re: «Domino Christo vero Regi militaturus» (Ivi). Nel suo fine e nei suoi mezzi la società monastica soprannaturale; ma prima di studiarla sotto l’aspetto di cenobio è necessario analizzar bene che cosa sia l’autorità che la sostiene, e che si concentra nell’abate.

Troviamo grande analogia tra la Chiesa e il monastero, considerati come società. Il Cristo, infinita Sapienza, quando volle fondar una società che continuasse tra gli uomini la sua opera redentrice, come la ideò? Quando per la prima volta parla della Chiesa ne indica il fondamento, e lo posa, come savio architetto (Prv 9,1): il fondamento è Pietro: «Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam» (Mt 16,8). Il Cristo Gesù stabilisce anzi tutto il capo, l’autorità; perchè poi l’edificio si sistemerà facilmente.

Il grande Patriarca, nella cui regola si vede chiaramente il genio romano e lo spirito cristiano, non segue altro principio. Dopo il capitolo preliminare, nel quale sceglie, tra le varie forme di vita religiosa, la cenobitica, parla subito e in primo luogo dell’abate: «Qualis debeat esse abbas» (c. 2) e lo chiama fin dal principio del capitolo, colui che presiede, il capo del monastero: «Abbas qui praeesse dignus est monasterio». Imitando Nostro Signore egli posa la prima pietra sulla quale poggerà tutto l’edificio, la pietra angolare; stabilisce il capo della società, e consacra uno dei più bei capitoli della Regola — se non assolutamente il più bello — a precisarne le qualità e la missione che gli incombe.

Parliamo dunque dell’ideale che brillò agli occhi di S. Benedetto quando costituì l’abate del monastero; nel quale certo egli tracciava, senza accorgersene nella sua umiltà, il proprio ritratto; perchè, dice S. Gregorio, non ha prescritto diversamente da quanto faceva (Dial. l. II, c. 36).

L’abate ci si mostrerà, ad esempio di Cristo che rappresenta e surroga, quale Pastore e Pontefice; e vedremo che deve essere esimio nella discrezione, imitando la bontà del Pastore supremo. Ne deriverà naturalmente l’atteggiamento del monaco verso di lui, che si riassume nell’amore, nella docilità di mente, nell’obbedienza d’azione.

 

I. L’abate rappresentante di Cristo, deve imitarlo come pastore...

Per comprendere l’ideale che si è proposto il santo legislatore, non basta leggere i due capitoli in cui egli tratta ex professo dell’abate, ma bisogna penetrare tutto il pensiero e conoscere lo spirito del grande Patriarca, quali appaiono nel complesso e nei mille particolari della Regola, come pure nella vita del Santo stesso [1]. Il nostro beato Padre non poteva proporre altro ideale da quello che egli contemplava nelle sue orazioni, che ha ritratto dal codice monastico e riprodotto nel suo proprio governo.

Come di solito, S. Benedetto stabilisce un supremo principio da cui deduce tutta la dottrina, e che darà unità, coesione e fecondità soprannaturale alla società che vuol fondare.

E qual’è questo principio? E’ enunciato nel principio del capitolo: «Abbas... Christi agere vices in monasterio creditur...» (c. 2). L’abate è considerato come chi fa le veci di Cristo nel monastero. Ecco l’assioma in cui è sintetizzato il capitolo intero; e che poi è sviluppato e applicato; per cui S. Benedetto vuole che l’abate stesso in primo luogo s’imbeva di questo pensiero fondamentale e vi si adatti, per farne norma della propria condotta e regola di vita. L’abate è chiamato Signore e Padre perchè si crede che tenga le veci di Cristo; per dar a lui onore e per amor suo; deve rifletterci per primo, e mostrarsi degno di tale carità. «Abbas, quia vices Christi agere videtur, et sic se exibeat ut dignus sit tali honore» (c. 63). L’abate dunque, nella mente del santo Patriarca, rappresenta il Cristo in mezzo ai suoi discepoli; e deve, per quanto lo permette l’umana debolezza, riprodurre nella vita e nel governo la persona e gli atti di Gesù Cristo.

Ma nella Chiesa, che è il suo regno, la sua società, la sua famiglia — lo dice S. Paolo (Ef 11,19) — il Cristo ci appare come Pastore e Pontefice, principe dei Pastori, Pontefice supremo.

Il nome di Cristo indica che è pontefice stabilito dal Padre; l’Apostolo ci insegna che in quanto uomo, egli non si fece da se stesso pontefice delle anime, ma fu chiamato a questa dignità dal Padre (Eb 5,5-6). Altrettanto deve dirsi per l’ufficio di Pastore. Per mezzo del profeta Ezechiele Iddio proclama che costituirebbe sul suo popolo un solo ed unico pastore, per guidare il suo gregge: «Suscitabo super eas pastorem unum qui pascat eas... et ipse erit eis in pastorem» (Ez 34,23). E Gesù dichiara che il Pastore è lui stesso; nel suo discorso sublime dopo la Cena, parlando al Padre celeste, dice di aver da lui ricevuto in custodia le anime: «Tui erant, et mihi eos dedisti» (Gv 17,6).

Per questo doppio ufficio, compete a Gesù la pienezza del potere: «Data est mihi omnis potestas» (Mt 28, 18). Ma egli vuol dividere l’autorità con uomini scelti secondo i disegni della sua Provvidenza eterna, ai quali distribuisce parte dei suoi doni: «secundum mensuram donationis Christi» (Ef 4,7). Scrive S. Paolo che alcuni sono costituiti apostoli, altri pastori allo scopo di edificare il mistico corpo, di cooperare col Cristo alla custodia e santificazione delle anime (Ivi, 11-12).

Questa è la missione dell’abate; è il suo duplice ideale. Chiamato a partecipare alla dignità, all’ufficio e alla grazia del Pontefice universale e del Pastore supremo, l’abate troverà grandezza, perfezione e gioia nell’attendere con ogni cura a quest’impiego soprannaturale.

Ecco perchè S. Benedetto dà alla istituzione dell’abate tante garanzie; dapprima l’elezione fatta in modo da assicurare l’autentico appello divino (come fu per la scelta dell’apostolo Mattia), cioè nel timor di Dio (Reg. c. 64); e che sarà ratificata dal potere supremo, dal Sommo Pontefice, affinché l’eletto sia investito legittimamente dell’autorità abaziale. Inoltre S. Benedetto enumera le qualità che deve avere il futuro abate, e indica agli elettori ciò che essi debbono richiedere al loro capo; finalmente, determina all’eletto i principi da seguire, nel governo, e lo spirito che deve guidarlo nel dirigere le anime (Ivi).

Agli occhi del S. Patriarca l’abate è prima di tutto Pastore: da uomo versato nelle S. Scritture, adopera questo termine, con l’idea che ci rappresenta, per determinare le relazioni del capo del monastero coi membri. Avete certo osservato che egli scrive spesso il pastore, il gregge, le pecore, non solo nei capitoli in cui parla dell’abate ma anche altrove, perchè esprimono un ideale a lui molto caro: «Imiti il pio esempio del buon Pastore. — Pastoris boni pium imitetur exemplum» (c. 27). Ma qual’è il primo dovere del buon pastore? Nutrire il gregge: «Nonne greges a pastoribus pascuntur?» (Ez 34,2). E quale nutrimento deve dar loro? Ci risponde Iddio per bocca del Profeta: «I vostri pastori vi nutriranno con la scienza e la dottrina. — Et pascent vos scientia et doctrina» (Ger 3,15). Lo dice lo stesso Gesù: «L’uomo non vive solo di pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (Mt 4,4; Luc. 4,4). E S. Paolo fa eco a questa sentenza scrivendo più volte: «Il giusto vive di fede. — Justus meus ex fide vivit» (Eb 10,38).

Per questo S. Benedetto richiede con insistenza all’abate che conosca perfettamente la dottrina e la legge divina, affinché il suo insegnamento sia buono: «Ergo cum aliquis suscipit nomen abbatis, duplici debet doctrina sua praeesse discipulis... oportet ergo eum esse doctum in lege divina» (c. 2 e 64).

Che cosa vuol dire il grande Patriarca? Esige forse la conoscenza teorica della filosofia, della teologia? No: si possono avere tutti i tesori della scienza umana, anche in teologia, ed essere infecondi per le anime. S. Paolo insiste: «Se parlassi le lingue degli angeli e degli uomini, se conoscessi tutte le scienze, ma fossi privo della carità, sarei come bronzo che suona o cembalo che tintinna. — Si noverim mysteria omnia, et omnem scientiam... factus sum velut aes sonans aut cymbalum tinniens» (1Cor 13,1-2). E altrove parla di coloro i quali consumano tutta la vita nello studio e non raggiungono mai la conoscenza utile e benefica della verità: «Semper discentes, et numquam ad scientiam veritatis pervenientes» (2Tm 3,7).

La scienza di cui parla S. Benedetto, e che egli vuole nell’abate, è la conoscenza di Dio e delle cose sante attinta nelle Scritture, tutta illuminata dai raggi del Verbo Eterno e fecondata dallo Spirito Santo; il quale ci insegna che vera prudenza è la sapienza dei Santi: «Scientia sanctorum prudentia» (Prv 9,10). E’ la scienza della santità, attinta nell’orazione, assimilata e vissuta da chi la deve trasmettere, sgorgante dall’anima come dardo di luce e di calore celeste che illumina e feconda le anime. E’ dottrina sapiente: «sapientia doctrinae» (Reg. c. 64), nella quale l’abate deve essere esimio; è la fonte di scienza a cui deve incessantemente attingere le massime tradizionali e i nuovi sviluppi atti a dirigere quelli che imparano a servir Iddio (Prologo): «ut sciat unde proferat nova et vetera» (Reg. c. 64). E questo pensiero è accennato di nuovo nel rito della benedizione abaziale, allorché la Chiesa domanda per lui il «thesaurum sapientiae ut sciat et habeat unde nova et vetera proferat». Il Cristo, sapienza di Dio, «Sapientia Dei» (1Cor 24), è anche qui il modello. «Io sono la verità (Gv 16,6), disse Gesù: sono venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità» (Ivi, 17,17). Lo stesso Padre Celeste lo disse la verità viva e parlante quando esclamò: «Ecco il Figlio mio, ascoltatelo: Ipsum audite» (Mt 17,5); e, veramente la dottrina di Cristo non vien da lui, ma da quegli «che l’ha mandato» (Gv 7,16).

Si ricordi l’abate che egli partecipa alla dignità e alla missione del Principe dei pastori; e si sforzi di contemplare incessantemente nell’orazione la legge divina che ci portò il Cristo, unendosi a lui nella fede. Allora soltanto diverrà egli pure faro di verità, illuminando il cuore dei monaci coi raggi purissimi della celeste dottrina; perchè suo massimo dovere è insinuarla nelle menti, come il lievito che feconderà tutte le azioni: «Ejus doctrina fermentum divinae justitiae in discipulorum mentibus conspergatur» (Reg. c. 2).

Quindi è necessario che la dottrina insegnata sia assolutamente ortodossa. Nel costituire Pietro come pastore delle pecore e degli agnelli, Cristo gli assicurò l’inerranza nella fede; ma l’abate non ha questo privilegio; per cui dev’essere sempre sollecito di assicurare la purezza della dottrina, non solo a pascolo del gregge, ma anche a sua difesa; i nemici sono quelli che presentano alle pecorelle nutrimento avvelenato. Vigili continuamente l’abate affinché gli errori o le opinioni temerarie non s’introducano nell’ovile; poichè S. Benedetto esige con tanta fermezza ch’egli sia addottrinato nella divina legge, «doctum in lege divina» (Reg. c. 64), affinché possa discernere gli errori e condannarli senza misericordia. Ascoltiamo i gravi e solenni ammonimenti del santo Patriarca all’abate per insegnargli quale grande responsabilità gli incombe: «Egli non deve mai insegnare, stabilire, ordinare cosa alcuna che sia fuori dei divini precetti. Si ricordi sempre che al tremendo giudizio di Dio saranno esaminate severamente la dottrina insegnata e la direzione da lui data ai monaci. Per minimo che sia il danno sofferto dal gregge del padre di famiglia, sappia l’abate che ne sarà chiamato responsabile» (Ivi, c. 2). A Compieta egli farà leggere solo le Scritture canoniche e le opere dei Padri riconosciute come ortodosse cattoliche; nel culto divino s’ispirerà alle tradizioni della Chiesa romana: si deve recitare la salmodia all’uso romano: «Sicut psallit Ecclesia romana» (Reg. c. 9, 13, 73). Questa sollecitudine costante si rivela in tutta la Regola: l’abate, perchè pastore, deve tenersi in continua unione con Colui che egli surroga, per condurre il gregge a lui affidato nei pascoli abbondanti fino al monte dl Dio: «usque ad montem Dei» (Ivi, c. 19).

E’ responsabilità tremenda, sulla quale S. Benedetto più volte insiste con forza inusitata: «Tenga l’abate come verità indubitata che il giorno del giudizio dovrà render a Dio conto rigoroso non solo dell’anima sua, ma di quelle di tutti i suoi discepoli. Questo salutare timore degli inevitabili giudizi di Dio — continua il santo Legislatore — lo farà attento; ed egli, badando a diriger bene le pecorelle di Cristo, avrà l’occasione anche di mantenere se stesso puro e senza macchia davanti al Signore» (Reg. c. 2).

A questa condizione, ma a questa sola, S. Benedetto gli assicura la felicità celeste, promessa da Dio al dispensatore fedele; il quale secondo il bisogno avrà distribuito ai compagni di servizio il pane della dottrina rivelata, il frumento della divina sapienza: «Dum bene ministravent, audiat a Domino quod servus bonus, qui erogavit triticum conservis suis in tempore suo: Amen, dico vobis, ait, super omnia bona sua constituet eum» (Reg. c. 64).

 

II. e come Pontefice.

All’ideale del Pastore, così spesso evocato dalla Regola, la Chiesa, nei cerimoniale della benedizione abaziale, unisce quello del Pontefice. Con le formule d’invocazione, i riti, le insegne esteriori che impone all’eletto, la Sposa di Cristo vuol significare agli occhi di tutti la qualità del Pontefice che essa annette alla funzione del capo del monastero, da lei benedetto.

Anche in questo l’abate rappresenta Cristo; e deve sforzarsi, per quanto lo concede la sua debolezza, di attuare l’ideale altissimo con la santità della vita. S. Benedetto lo vuole: oltre alla dottrina della sapienza l’abate deve possedere il merito: «vitae meritum».

E’ necessaria al Pontefice la santità individuale; «poiché egli è intermediario tra Dio e gli uomini» (Eb, 5,1), come insegna S. Paolo; egli presenta a Dio le preghiere e i voti del popolo e comunica alle anime i doni celesti. Ma non può accostarsi a Dio e intercedere efficacemente per il popolo senza la purezza, che lo rende a lui gradito.

Il Cristo, chiamato dal Padre ad essere Pontefice unico per diritto proprio, è puro, innocente, senza macchia, separato dai peccatori, innalzato sopra i cieli» (Eb 7,26); anzi è il Figlio stesso di Dio, e come tale, oggetto delle sue compiacenze; e può efficacemente intercedere per noi. Alla santità personale Gesù unisce la GRATIA CAPITIS, per la quale è nostro capo e mediatore onnipotente, che comunica a tutto il mistico corpo vita e santità. Ogni azione di Gesù è omaggio di supremo amore al Padre; è sorgente di grazia per gli uomini.

Qualcosa di analogo deve potersi dire del capo del monastero, per quanto lo permette l’umana infermità. Quando lo riconosce canonicamente, la Chiesa domanda a Dio che gli comunichi lo spirito di grazia salutare; e che si compiaccia di spandere sopra di lui la rugiada di benedizioni abbondanti. Il Vescovo, stendendo la mano sulla testa dell’eletto, chiede per l’imposizione delle mani che l’abate sia veramente l’eletto da Dio, degno di essere da lui santificato.

Da quel momento l’abate deve sforzarsi di vivere e santificarsi, non per sé soltanto, ma per i suoi fratelli. Deve poter dire come il Pontefice supremo dl cui è legittimo rappresentante, perchè partecipa della dignità di lui: «Mi santifico per essi. — Et ego pro eis sanctifico meipsum» (Gv 17,19). Nel giorno della professione monastica, egli si è consacrato a Dio senza riserve per glorificarlo con la sua perfezione personale; ma dopo la benedizione abaziale, deve anche, per quanto può, promuovere la gloria divina con la santità e la fecondità delle anime a lui affidate; affinché il popolo che serve il Signore cresca in merito e in numero: «Et merito et numero populus tibi serviens augeatur» (Orazione supra populum, del Martedì di Passione).

Ogni grado maggiore di unione con Dio, ogni passo nella via della santità lo renderà più potente presso Dio e più fecondo nell’azione soprannaturale sugli spiriti e sui cuori; e per questa ragione la sua santità personale, qual’è richiesta dal N. B. Padre, è importantissima. Sempre deve egli ricordarsi, scrive S. Benedetto, che è guida di anime; e nella società soprannaturale il capo è modello al gregge: «Forma gregis ex animo» (Reg. c. 2); e senza dubbio l’abate dà al monastero la propria impronta, spande su di esso il suo irradiamento. Si dice con ragione: quale l’abate tale il monastero; leggete la storia religiosa e vedrete come ciò si verifichi. I primi abati di Cluny, Oddone, Odilone, Majolo, Ugo, sono quattro grandi ammirabili santi, posti dalla Chiesa sugli altari; la loro santità illuminò l’abazia di così vivo splendore che era chiamata «il vestibolo degli angeli — deambulatorium angelorum» (Vita S. Hugonis, auct. Hildeberto, Migne, PL t. 159, 885). Ognuno ebbe un lungo governo; per cui la storia dei primi due secoli di Cluny è una fioritura di santità; ma dopo di essi venne un abate molto meno virtuoso ed ecco i Cluniacensi disertare il sentiero della perfezione; ci volle un altro santo, Pietro il Venerabile, per riformarli.

Quest’esempio tra mille prova che l’abate è davvero la Regola viva, che plasma a sua immagine il monastero.

Ancora: perchè la santità personale è necessaria all’abate? Per poter compiere interamente il suo ufficio di mediatore. Dice S. Gregorio nei suoi scritti che se un ambasciatore non è persona grata al sovrano a cui è mandato, invece di promuovere la causa che intende patrocinare la potrà mettere in pericolo; e soggiunge altrove che il Pontefice non potrà efficacemente intercedere per il gregge se non è familiare di Dio con la santa vita [2].

Non basta che l’abate conduca vita pura e irreprensibile per poter con l’esempio condurre gli altri alla santità; deve risplendere per il merito della vita, vitae meritum, anche per poter più efficacemente difendere la causa del popolo presso Dio; è questa la più alta condizione del vitale irradiamento del capo sui membri della società ecclesiastica. Nell’Antico Testamento i capi d’Israele, come Mosè, ottenevano favori divini per il popolo perchè erano santi, amici di Dio. «Andate dal mio servo Giobbe, diceva il Signore, egli pregherà per voi ed io dimenticherò i vostri atti insensati» (Gb 42,8).

Mosè e Giobbe erano figure anticipate di Cristo, unico mediatore che potesse placare la giustizia del Padre e ottenerci tutti i doni del cielo. E perché il nostro divino Pontefice diceva che sempre il Padre ascoltava le sue domande? Perchè era puro, immacolato, più alto dei cieli; un vero figlio diletto (Col 1,13). Se dunque l’abate vuol compiere degnamente la propria missione, deve sempre mantenersi unito a Dio. In Gesù la umanità era ipostaticamente unita al Verbo divino, e attingeva in lui fiumi di grazia che scorrevano nelle anime; per analogia, e per quanto lo comporta l’umile condizione umana, l’abate deve vivere unito al Verbo, per trarre dai suoi tesori di sapienza e di scienza (Ivi, 11,3) e le grazie da spargere sul gregge.

Ma quest’unione feconda si ottiene solo con la vita d’adorazione; come Mosè dimori egli sulla montagna e tratti familiarmente con Dio; e allora soltanto potrà comunicare efficacemente ai suoi fratelli i comandi del Signore e i lumi ricevuti nell’assiduo commercio con lui che è il Padre dei lumi, da cui discende ogni dono perfetto (Gc 1,17) capace di rallegrare le anime.

 

III. Deve risplendere per discrezione…

Ma avremmo una nozione molto imperfetta della missione che S. Benedetto assegna all’abate se non conoscessimo le altre due qualità principali con tanta insistenza inculcate dal legislatore monastico: la discrezione e la bontà.

La discrezione è uno dei caratteri della Regola benedettina; S. Gregorio (Dial. L. II, c. 36) lo notava paragonandola alle altre regole ascetiche dell’antichità cristiana; e questa caratteristica spicca più ancora nel capitolo in cui tratta dell’abate. S. Benedetto vuole che nel guidare le anime egli eserciti la discrezione, madre delle virtù (Reg. c. 64); ma che cosa significa questa parola?

Significa l’arte soprannaturale del discernimento e di valutare ogni cosa secondo il fine; adattando i mezzi allo scopo, a seconda della loro natura e delle varie circostanze. Qual’è lo scopo? Condurre le anime a Dio: «Ut animae salventur» (Reg. c. 41); e condurvele non in modo qualunque, ma facendo si che i monaci adempiano il loro compito di buon cuore. Per quanto bisogna, dice il santo Legislatore, temperare opportunamente ogni cosa: «Omnia temperet» (Reg. c. 64); e spiegando meglio il suo pensiero, riassume l’opera dell’abate in una formula precisa e piena di significato: «Si adatti ai diversi caratteri. — Multorum servire moribus» (Ivi, c. 2).

Questa è la regola aurea che definisce la condotta pratica dell’abate verso i fratelli; la nobile impresa che, osservata bene, lo farà riuscire nell’arte delle arti (Regula pastoralis I, 1) — di reggere le anime: «Sciat guam difficilem et arduam rem suscipit regere animas» (Reg. c. 2).

Su questo punto, S. Benedetto chiede all’abate un complesso ben equilibrato dl qualità diverse: forza unita a mitezza, autorità moderata dall’amore. Osservate con quale finezza di discernimento adopera i termini che qualificheranno l’esercizio della discrezione: vuole che l’abate sia zelante ma senza ansietà; prudente senza timidezza (Reg. c. 64); cerchi egli sempre il regno di Dio e la sua giustizia (c. 2), ma senza trascurare il bene materiale del monastero che deve anzi amministrare saviamente; ami i fratelli ma odi i vizi (c. 64); usi prudenza nella correzione stessa, per timore che a troppo raschiar la ruggine non si rompa il vaso. Deve variare la sua condotta con molta pieghevolezza, secondo le circostanze e le disposizioni di ciascuno; questi ha un carattere aperto, quell’altro è concentrato; in alcuni prevale l’intelletto, in altri il sentimento; ora li troverà docili, ora invece restii; deve dunque piegarsi ai diversi temperamenti: «Miscens temporibus tempora, terroribus blandimenta» (c. 2). Al discepolo indocile si mostri qual maestro, severo; nell’anima retta che cerca Dio, come tenero padre: «Pium patris ostendat affectum». Alle menti capaci, avide di trovar Dio, basterà proporre la celeste dottrina: «Capacibus discipulis mandata Domini verbis proponat». Agli spiriti semplici o di temperamento poco mansueto, dovrà mostrar la via col suo esempio: «Duris vero corde et simplicioribus, factis suis divina praecepta demonstret». Attiri questo con le carezze, freni quello coi castighi, persuada quell’altro con le ragioni: «Et alium quidem blandimentis, alium vero increpationibus, alium suasionibus» (c. 64). Si conformi ai temperamenti, si adatti alle facoltà di ciascuno; perchè soltanto così potrà rallegrarsi per l’aumento del gregge e i suoi progressi nel bene, invece di dover pianger il guasto delle anime a lui affidate.

Nel riassumere questo magnifico insegnamento sulla discrezione, il santo Legislatore ci trasmette la formula scultoria a lui dettata dalla grande esperienza delle anime e dal suo genio veramente romano; sentenza di ponderazione nel governo delle anime: «L’abate deve temperare ogni cosa in modo che i forti trovino ancora da desiderare, e i deboli non rifuggano» (Ivi).

 

IV. e bontà.

La discrezione è forse la sola principale virtù richiesta da S. Benedetto all’abate? No; vi deve associare l’amore; o meglio, sarà questo che all’abate darà la chiave dei cuori, affinando in lui l’intuito soprannaturale. Se ama molto e individualmente le anime, farà di tutto per condurle a Cristo, a seconda dei talenti ricevuti, delle attitudini, delle debolezze, dei bisogni, delle aspirazioni.

Solleviamo per un momento lo sguardo all’adorabile Trinità: che cosa contempliamo? il Verbo, principio, col Padre, dello Spirito d’amore: «Verbum spirans Amorem». Come Verbo incarnato, il Cristo è Buon Pastore che dà la vita per le sue pecorelle (Gv 10, 11.15): e così manifesta il massimo affetto: «Mai orem hac dilectionem nemo habet» (Ivi, 15,13). E S. Paolo c’insegna chiaramente che Gesù Cristo assunse nella natura umana tutte le nostre infermità, tranne il peccato, per poter essere Pontefice compassionevole: Pontefice che sa mostrarsi misericordioso con gli uomini deboli: «Ut misericors fieret» (Eb 11,17).

S. Benedetto, in cui sovrabbondava lo spirito del Vangelo, ha ispirato dovunque la sua regola a grande misericordia. Basta osservare con quanta bontà vuole che siano adempiti dall’abate, o da quelli che lo surrogano, i doveri verso i fanciulli, i vecchi, i fratelli cagionevoli di salute, i pellegrini, i poveri; con quanta nobile ed umana delicatezza vuole che si accolgano gli ospiti e i forestieri; con che attenta sollecitudine si deve badare ai malati (Reg. c. 36, 37, 53); i capitoli in cui parla dei membri sofferenti di Cristo rivelano la tenerezza del grande Patriarca!

Ma il precetto d’amore è inculcato soprattutto nel capitolo che tratta dell’abate. «Diligat fratres», deve amare profondamente i monaci, con amore eguale per tutti: «Non unus plus ametur quam alius» (Reg. c. 2); perchè, aggiunge S. Benedetto, siamo tutti eguali in Cristo, in lui non c’è né schiavo né uomo libero; e tutti siamo chiamati alla stessa grazia d’adozione, alla partecipazione della medesima eredità celeste.

Ma come Iddio guarda con maggior compiacenza quelli che maggiormente portano in sé la impronta del suo Figlio Gesù — poiché è il segno della predestinazione — così anche l’abate può mostrare dilezione maggiore a quelli che più si accostano al divino modello con le buone opere o con l’obbedienza: «Nisi quem in bonis actibus aut obedientia invenerit meliorem» (Reg. c. 2).

S. Benedetto insiste molto sull’amore che l’abate deve ai suoi figli. Dice senza ambagi che deve sforzarsi d’ispirare più l’amore che il timore: «Studeat plus amari quam timeri» (c. 64); ossia il governo monastico non sia tirannico. E l’amore dell’abate per i monaci deve estendersi quanto più è possibile: leggete il capitolo in cui insegna minutamente la sollecitudine verso i colpevoli: «Omni sollicitudine curam gerat abbas circa delinquentes fratres»; il Legislatore monastico ricorda l’esempio del Buon Pastore, che lascia le novantanove pecorelle fedeli per ritrovare l’unica smarrita.

Ma la bontà non deve punto degenerare in debolezza. Il Cristo Gesù, così amante e misericordioso con le anime, odiava non meno profondamente il male; perdonava alla Maddalena, all’adultera; tollerava, e con quanta bontà!, i difetti dei discepoli; ma com’è severo coi viziosi e specialmente cogli orgogliosi farisei!

Cosi pure l’abate che tiene il posto di Cristo, si sforzi — per quanto arduo e difficile sia il compito: «difficilem et arduam rem» — d’imitare in questo il divino modello; «ami i fratelli, ma odi i vizi. — Diligat fratres, oderit vitia». Se un monaco ha bisogno di correzione, l’abate deve riprenderlo con grande carità e con amore paterno: un superiore troppo severo può far molto danno alle anime; ma è anche certo che nel monastero in cui l’abate troppo bonario non corregge i difetti, o non nega mai nessun permesso, il fervore presto vien meno. Peraltro deve sempre essere mosso dalla carità: può succedere che durante un certo tempo un monaco non faccia tutto quel bene che si poteva sperare: che cosa fare? lasciarlo in disparte? Tutt’altro, con grande pazienza, l’abate aspetterà il momento della grazia; ricordandosi, dice il N. S. Padre, della discrezione del patriarca Giacobbe, il quale non costringeva le sue pecore a tappe troppo lunghe (Reg. 64); tutte le anime non sono chiamate allo stesso grado di perfezione; ed egli deve mostrare maggior condiscendenza verso quelle che salgono con moto più lento e penoso.

Ma che farà l’abate quando riconosce la volontà veramente cattiva? S. Benedetto allora comanda il rigore; vuole che il capo del monastero adoperi il ferro che recide: «ferrum abscissionis» (c. 28), affinché una sola pecorella infetta non guasti tutto il gregge: ma finché l’ostinazione non sia divenuta incorreggibile, l’abate deve sovrabbondare in misericordia, ad esempio del Cristo Gesù: «Superexaltet misericordjam judicio, afflnché egli stesso, come ha promesso Cristo nelle Beatitudini, ottenga la medesima indulgenza: «Ut idem ipse consequatur» ricordandosi sempre della propria fragilità; «suamque fragilitatem semper suspectus sit» (c. 64,

La bella parola detta dal Santo Patriarca nella Regola del Cellerario deve prima verificarsi nel governo dell’abate: che nessuno si turbi o si contristi nella casa di Dio: «Ut nemo perturbetur neque contristetur in domo Dei» (c. 31). Tutti i cuori semplici e retti che cercano Dio e vivono nella sua grazia, devono sempre esser pieni di gioia, e con la gioia aver la pace divina che supera ogni intendimento (Fil 4,7).

 

V. Atteggiamento del monaco verso l’abate: amore umile e sincero…

Nel Capitolo sull’abate il Santo Patriarca stabilisce il principio che nel monastero egli fa le veci di Cristo; lo dobbiamo credere: «Abbas Christi agere vices in Monasterio creditur»; e lo stesso principio servirà a caratterizzare l’atteggiamento dei monaci fedeli alla loro vocazione.

E’ un pensiero per noi importantissimo; e perchè mai? Perchè il monastero è una società soprannaturale in cui si vive di fede: «Justus meus ex fide vivit» (Eb 10,38). Notate la parola creditur. E’ atto di fede grande veder Cristo nell’abate; e questa fede rigorosa e chiara deve illuminare la nostra condotta, fecondare i nostri atti, O voi credete o no: se non credete con ferma fede, a poco a poco, insensibilmente ma fatalmente, vi staccherete dal superiore, dalla sua persona, dalla sua dottrina; ma altrettanto vi allontanerete dal principio della grazia, perchè, dovete sapere, dice S. Benedetto, che solo la via dell’obbedienza conduce a Dio: «Scientes se per hanc obedientiae viam ituros ad Deum!» [3].

Se voi dunque credete che l’abate rappresenta Cristo, il vostro atteggiamento a suo riguardo sarà regolato dallo spirito di fede; e improntato all’amore, alla docilità di spirito, all’obbedienza negli atti.

Come indica il nome che gli dà S. Benedetto, l’abate è padre: Abba, Pater. Il Santo Legislatore richiede dunque dai monaci amore umile e sincero verso il superiore: «Abbatem suum sincera et humili caritate diligant» (Reg. c. 72). Non si richiede amore sentimentale ed entusiastico; sarebbe puerile pretenderlo; ma quell’amore soprannaturale che dobbiamo a Dio, poiché lo spirito di fede ce lo fa vedere nel capo del monastero.

Amore, vuole S. Benedetto, sincero ed umile! sincero perché umile. Le qualità che egli richiede nell’abate formano un complesso così completo e cospicuo che è quasi impossibile trovarle tutte in un uomo, e non molti assommano armonicamente in sé stessi le diverse perfezioni da San Benedetto riunite in fascio. L’abate ha le grazie speciali al suo stato, è cosa certa; ma queste non trasformano la natura; e anche l’uomo di ottima volontà sarà sempre inferiore all’ideale.

E che faremo dunque quando ci capita di avvertire le manchevolezze, i difetti, le imperfezioni dell’abate, — del nostro abate, — precisa S. Benedetto, di colui che rappresenta per noi il Cristo? Potremo notarle, pensarci su, parlarne con altri per criticarle e censurarle? Ah quanto una simile condotta sarebbe contraria allo spirito di fede! Come saremmo lungi dall’amore sincero e umile; dalla «sincera et humili caritate», imposta dal santo Legislatore! E’ la cosa che più fa male all’anima, perchè è la più contraria allo spirito e alla lettera della nostra professione religiosa.

Asteniamoci dunque con grandissima cura dalle disapprovazioni e dai lamenti; e se alcuno venisse da noi a dolersi del superiore e a criticarlo, sarebbe ottima carità ricordargli la sua professione di monaco, a ricondurlo ai sensi di oblazione generosa e di umile sottomissione promesse con giuramento. Gettiamo un velo rispettoso sulle imperfezioni del superiore, come fecero i due figli di Noè, che invece d’imitare gli scherni dell’altro fratello, coprirono col mantello la nudità del loro padre; voi sapete che essi furono benedetti, e il disgraziato Cam invece incorse nella maledizione (Gn 9,21-25).

Le mormorazioni, le critiche — e non parliamo delle beffe — riguardo al superiore non mutano quello che a noi sembra da disapprovare o biasimare; spesso invece irritano la piaga, turbano le anime e tolgono loro la pace, la gioia, diminuendo la loro intima unione con Dio; attirando sui mormoratori, che si separano dal loro superiore, la maledizione di Cam. S. Benedetto, pur così buono e compassionevole, minaccia lo stesso castigo ai turbolenti, agli indocili, che sprezzano gli avvertimenti ricevuti, sono ribelli alle cure del pastore; siano essi preda della morte: «Poena sit eis praevalens ipsa mors» (Reg. c. 2).

La parola di maledizione risponde infatti a ciò che disse Nostro Signore stesso a Santa Margherita Maria. Non si può leggerlo senza sgomento: «Ascolta bene le parole che escono dalla bocca di verità: i religiosi separati e disuniti dai loro superiori debbono considerarsi come vasi di riprovazione, nei quali le bevande buone si corrompono; e il divin sole di giustizia quando li illumina, opera gli stessi effetti del sole sul fango. Queste anime sono così espulse dal mio cuore che quanto più esse tentano di avvicinarsi coi sacramenti, le buone opere e altri mezzi spirituali, tanto più io me ne allontano inorridito. Andranno da un inferno all’altro; perchè la discussione ha perduto molti e altri sempre più ne perderà giacché ogni superiore sta in vece mia, sia esso buono o cattivo. L’inferiore che crede di contraddirlo, si ferisce altrettante volte nell’animo e inutilmente implora la mia misericordia: lo esaudirò solo ailorchè sentirò la voce del

superiore».

 

VI. docilità di mente…

L’amore sincero ed umile verso l’abate deve tradursi nella grande docilità della mente ai suoi insegnamenti e nella generosa obbedienza ai suoi comandi. Anche qui, vera luce è la fede.

Dio, che ha tutto creato sapientemente, si adatta nell’agire alla nostra natura: parla all’intelligenza per muovere la volontà, e la luce diventa impulso dl azioni. Per questo dice l’Apostolo: Dio volle sollevare il mondo e santificare le anime per mezzo della predicazione, benché paresse follia agli occhi dei sapienti: «Placuit Deo per stultitiam praedicationis salvos facere credentes» (1Cor 1,21). Questa volontà divina è adorabile; e notate bene che il Cristo non comandò agli Apostoli di scrivere, ma di predicare; e con questo mezzo rinnovò il mondo: il Verbo santifica le anime; ma per giungere a loro rivestì la forma umana, sensibile nella predicazione, e mentre suona all’orecchio la parola pronunciata, interiormente parla all’anima; soavemente e fortemente si insinua nella volontà; come risposta interiore, a quel che succede all’esterno: «Fides ex auditu» (Rm 10,17).

Ma, continua l’Apostolo, come può sorgere la fede se i predicatori non sono mandati? - «Quomodo credent nisi mittantur?» (Ivi). Il Cristo risponde: «Ecco, io vi mando; andate, predicate a ogni creatura. — Ecce, mitto vos; ite, praedicate Evangelium omni creaturae» (Lc 10,3). E gli inviati di Cristo non parlano in nome loro, ma in nome suo: «Chi ascolta voi ascolta me, e chi disprezza voi disprezza me» (Ivi, 16). Sono gli ambasciatori di Cristo, i portavoce di Dio: «Pro Christo legatione fungimur tamquam Deo exhortante per nos (2Cor 5,20). Dunque, la loro parola non è umana, ma di Dio stesso; e spiega tutta la sua efficacia solo in quelli che credono [5]; e non sapete voi, esclama ancora S. Paolo, che lo stesso Cristo parla in noi? «In me loquitur Christus» (2Cor 13,3).

I pastori non sono mai dispensati dall’obbligo di spezzare al loro gregge il pane della dottrina; e anche l’abate vi è costretto, perchè, secondò l’intenzione di S. Benedetto e per la natura stessa della sua carica, egli è missus, costituito dalla Chiesa sopra una porzione del gregge cristiano. Ma la sua parola, come quella di tutti gli iniziati di Cristo, e di Lui stesso, non produce sempre gli stessi effetti. E’ stato detto dell’Umanità di N. Signore: «Sarà causa dl rovina e dl risurrezione per molti. — Ecce pòsitus est hic in ruinam et in resurrectionem multorum» (Lc 2,34); e ciò si verifica per ogni parola evangelica: è semente di vita, ma dà frutto, Cristo medesimo l’ha detto, solo nei cuori ben disposti (Lc 8,15). Osservate N. Signore nei Suoi anni di ministero: è il Figlio di Dio, mandato dal Padre, dichiarato dalla Divina Parola come Maestro: «Ipsum audite. — Ascoltatelo». E’ la Sapienza eterna, i suoi insegnamenti, che hanno l’unzione dello Spirito d’amore, sono, come dichiara egli stesso, spirito e vita. Eppure, che cosa dicevano quelli che l’ascoltavano con cuore non retto, che lo spiavano per criticarlo? «Questa parola è dura; e chi può tollerarla? — Durus est hic sermo, et quis potest eum audire?» (Gv 6,61). Mancavano forse di intelligenza questi uditori, questi discepoli? No, ma il loro cuore resisteva; da quel momento non seguirono più Gesù «Et jam non cum illo ambulabant». Abbandonarono Gesù, per loro rovina: «in ruinam». Osservate invece la condotta degli apostoli: anch’essi odono le stesse parole, ma per i loro cuori semplici e retti son parole salutari: «Volete anche voi andarvene? chiede loro il Maestro. — Signore, da chi andremo noi? tu solo hai parole dl vita eterna» (Ivi, 67-69). Donde questa differenza? chi ha scavato l’abisso che separa i due gruppi di ascoltatori? Le disposizioni del cuore.

Altrettanto avviene per la parola degli inviati da Gesù: Chi ascolta voi ascolta me; chi disprezza voi disprezza me. Ora, dice S. Benedetto, l’abate fa le veci di Cristo; bisogna dunque ascoltarlo come si ascolterebbe Cristo, con cuore buono: «corde bono» (Lc 8,15).

A principio del Prologo noi leggiamo una parola importante: il grande Patriarca raccomanda di accogliere con gioia — libenter — i suoi insegnamenti per poterli praticare con efficacia; e per questo ci consiglia d’inclinare l’orecchio col cuore ai suoi detti: «Inclina aurem cordis tui» [6]. Se lo spirito solo ascolta e il cuore non si piega, la parola di Dio non produrrà tutti i Suoi frutti; e così se ascoltate la parola di colui che tiene per voi le veci di Cristo senza fede e Umiltà, senza lo spirito filiale, che richiede San Benedetto, ma con uno spirito critico o anche solo col cuore chiuso, la parola, fosse pure d’un santo, rimarrà sterile, sarà forse nociva. Al giorno del giudizio dovremo render conto di tutti gli insegnamenti del quali non abbiamo voluto profittare; e perciò il Salmista esclama: «Se oggi sentite la voce del Signore non indurite i vostri cuori. — Hodie si vocem ejus audieritis nolite obdurare corda vestra» (Sal 94,8). E perchè s’indura il cuore? per l’orgoglio della mente.

Beati invece, lo dice il Signore stesso, coloro, che ascoltano la parola divina con fede e umiltà, anche se sono, oppure si credono più sapienti di colui che parla: «Beati qui audiunt verbum Dei» (Lc 11,28). Ricevuto in un cuore ottimo e ben disposto (è sempre la stessa Idea) «corde bono et optimo», il seme celeste produrrà il cento per uno; darà l’abbondanza di frutto che solo rallegra il nostro Padre dei Cieli perchè lo glorifica: «In hoc clarificatus est Pater meus ut fructum plurimum afferatis.» (Gv 15,8).

 

VII. obbedienza negli atti.

Alla docilità dl spirito vuole S. Benedetto che il monaco unisca l’obbedienza dell’atto: per amor di Dio si sottometta al superiore con tutta obbedienza: «Pro Dei amore omni obedientia se subdat maiori» (Reg. c. 7); ma noi tratteremo più avanti quest’argomento, perchè il santo Patriarca vi consacra un importante e speciale capitolo. Bisogna qui notare il doppio aspetto caratteristico del suo modo di fare: da un lato mostra grande larghezza nel delineare l’organizzazione materiale della vita monastica; dall’altro invece, esige fedeltà quasi illimitata ai minimi particolari dell’osservanza, quando sono imposti dall’autorità.

Lontanissimo dai preconcetti convenzionali e dal formalismo, il Legislatore dei monaci affida al potere discretivo del capo del monastero, molti particolari, e a volte anche punti segnalati. Per esempio: quanto al cibo, non vuole fissarne con troppa precisione la quantità o la qualità, perchè, dice egli stesso, ognuno ha special dono da Dio per i bisogni materiali (Reg. c. 40): per i malati e i cagionevoli di salute permette l’uso delle carni (c. 36,39), e in modo generale l’uso moderato del vino (c. 40); allorché i lavori dei monaci saranno più gravosi del solito, l’abate potrà anche aumentare la quantità di cibo. Altrettanta podestà gli accorda S. Benedetto, per la qualità dei vestiti: decida l’abate a seconda del clima e di altre considerazioni (c. 55); e quando si tratta di pene e castighi per le colpe commesse egli ha pure molta libertà. «Culparum modus in abbatis pendeat arbitrio» (c. 24); la stessa concessione, e ciò fa stupire, per la distribuzione dei Salmi nell’Officio: proponendo un ordine da tenere, il santo Legislatore soggiunge che non lo vuole imporre; se ad un abate dispiacesse, stabilisca altrimenti, come gli par meglio (c. 18).

Con grande discrezione e libertà S. Benedetto stabilisce i regolamenti materiali; ma non è meno notevole l’obbedienza assoluta che esige alle menome prescrizioni, quando sono state imposte. L’autorità dell’abate si estende, per dir così, indefinitamente: dal priore e dal cellerario all’ultimo converso, tutti devono obbedire alle prescrizioni che stima utile dover fare: «In abbatis pendeat arbitrio, ut quod salubrius esse judicaverit, ei cuncti obediant» (c. 2). Ogni azione coscientemente compiuta senza il permesso dell’abate si considera come presuntuosissima; per quanto minima ne sia la materia, chi l’ha fatta deve soggiacere alla pena: «Vindictae regulari subjaceat qui praesumpserit... quippiam quamvis parvum sine abbatis jussione facere» (c. 67). Questa sottomissione totale si estende, com’è naturale, all’uso degli oggetti del monastero: non è lecito aver checchesia che l’abate non abbia dato o permesso di ricevere: «Nec quidquam liceat habere quod Abbas non dederit aut permiserit» (c. 33); e S. Benedetto va più oltre ancora: gli stessi atti di mortificazione, che i monaci volessero offrire a Dio oltre la misura imposta, sono da lui considerati come presuntuosi, vani, indegni di ricompensa se furono fatti senza averlo detto all’abate, né da lui permessi e accompagnati dalla sua orazione. «Dunque, tutte le cose son da fare secondo la volontà dell’abate. — Ergo cum voluntate abbatis omnia agenda sunt» (Reg. c. 49).

Come si spiegano due atteggiamenti così contrari? come conciliare così rigorosa esigenza e tanta larghezza?

S. Benedetto era troppo illuminato nello spirito da porre la monastica perfezione in questo o quel particolare della vita comune considerato per se stesso: ci sarebbe stata una tendenza farisaica a cui la sua grande anima ripugnava; per questo lato mostra così meravigliosa discrezione: gli atti particolari sono importanti, ma sono la materia della perfezione: la forma ne è molto più elevata; ossia il dono assoluto del monaco alla volontà di Dio, con l’obbedienza di amore e generosità; e per questo S. Benedetto è rigoroso nei casi in cui è manifesta la volontà divina. L’obbedienza che si fa al superiore è prestata a Dio: «Obedientia quae majoribus praebetur, Deo exhibetur» (c. 5). Quindi, coloro che hanno desiderio della vita eterna desiderano anche che l’Abate sia loro preposto: sopportano l’autorità del capo del monastero. Tanto è vero che il Santo Legislatore vede nell’obbedienza prestata per amore la via che conduce a Dio: «Se per hanc viam ituros ad Deum» (c. 71).

Fedele al suo metodo essenzialmente cattolico, il grande Patriarca mostra ai suoi figli l’unico esemplare di perfezione, Cristo Gesù; mediante l’obbedienza all’abate imiteranno colui che ha detto: Non sono venuto per compiere la mia volontà, ma quella del Padre che mi ha mandato.

E’ questa la fecondità soprannaturale del principio che pone S. Benedetto: nel monastero l’abate si considera veramente come rappresentante di Cristo: «Abbas Christi agere vices in monasterio creditur»; e le anime sono condotte a Dio modellandole a immagine del Figlio in cui il Padre ha messo le sue compiacenze.

Non distogliamo mai lo sguardo da questo principio essenziale, perchè riassume perfettamente tutta la nostra vita; e come faro luminoso e benefico illumina la via.

L’abate fa le veci di Cristo; è capo della società monastica, pontefice, pastore; i monaci devono dimostrargli affetto umile e sincero, grande docilità di spirito, obbedienza perfetta.

Una comunità benedettina che sia animata da cotesti sentimenti, diventa il vero palazzo del Re, il Paradiso in cui si danno il bacio d’amore giustizia e pace (Sal 84,11). Dalle anime che cercano Dio sinceramente, secondo la parola del Patriarca, erompe il grido intimo e generoso: «Padre, si faccia la tua volontà in terra come in cielo. — Pater, fiat voluntas tua sicut in Coelo et in terra!». Con l’umile preghiera, con la continua dipendenza dalla sapienza eterna, con l’intima unione al Principe del Pastori, l’abate si sforza di conoscere la volontà divina e proporla ai fratelli; e questi la compiono con obbedienza generosa ispirata dall’amore.

E quando il Signore (per ricorrere di nuovo alle parole di S. Benedetto: Prologo) guarderà la terra per vedere se ci sono anime che vanno in cerca di lui, troverà nella comunità del cuori che gli sono graditi perchè imitano il suo Figlio diletto; ivi scorgerà verificato l’ideale dallo Spirito Santo ritratto nelle S. Scritture. «Ecco la generazione che cerca il Signore, il Dio di Giacobbe. — Haec est generatio quaerentium Eum; quarentium faciem Dei Jacob» (Sal 23,6).

La migliore espressione di quest’ammirabile e feconda dottrina soprannaturale è la Messa conventuale, celebrata dall’Abate in mezzo a tutti i monaci: rivestito delle proprie insegne, il capo del monastero offre a Dio la Vittima santa; o meglio per suo mezzo Gesù Cristo stesso, supremo Pontefice e mediatore universale, si offre al Padre. L’abate presenta a Dio gli omaggi, i desideri, i cuori stessi del monaci, dal quali s’innalza il profumo del sacrificio e dell’amore; il Padre li riceve per il Cristo, in odore di soavità: «in odorem suavitatis» (Es 29,41).

Nel solenne momento della santa oblazione, quando le voci si fondono nella stessa lode e i cuori si uniscono nell’identico palpito dl adorazione e d’amore verso Dio, l’abate che è veramente degno del nome che porta, ha il diritto di ripetere le parole del Divin Pastore dette ai discepoli, nell’ora in cui andava ad offrir la propria vita per le sue pecorelle: Padre, erano tuoi e tu me li hai dati... Non ti domando di toglierli dal mondo, ma di premunirli dal male. Siano essi una cosa solo tra loro, e con me, come sei tu e il tuo Figlio diletto, nel comune nostro Spirito (Gv c. 17).

 

NOTE

[1] S. Benedetto ne tratta in due capitoli nel c. 2 parla delle qualità che deve possedere l’abate; nel c. 64 indica in quel modo si deve eleggere, e dà altri avvisi. Nel corso della Regola parla spessissimo del potere abaziale.

[2] Qua mente apud Deum intercessionis locum populo arripit qui familiarem se ejus gratiae esse per vitae meritum nescit? Reg. past. I,10. Cfr. Lex levitarum, di Mg. Hedley vescovo di Newport. il Papa S. Gregorio Magno, adopera le parole vitae meritum, come S. Benedetto.

[3] Reg. c. 71; nel quale tratta dell’obbedienza dei monaci. Ma l’obbedienza suppone il superiore; e ciò che è detto dei frutti spirituali che ne derivano, si può applicare tanto più all’obbedienza particolare prestata all’abate.

[4] Vita e opere di S. Margherita Maria. 1. edizione pubblicata dalle Visitandine di Paray-le-Monial e da Mons. Gauthey, arcivescovo di Besanzone; I, p, 264.

[5] 1Ts 2,13. — «Cum accepissetis a nobis verbum auditus Dei, accepistis illud non ut verbum hominum, sed sicut est vere, verbum Dei, qui operatur in vobls qui credidistis.»

[6] S. Gregorio adopera spesso le parole medesime: «Si ipsa verba Dei audit qui ex Deo est, et audire ejus non potest quisquis de illo non est, interroget se unusquisque si verba Dei in aure cordis percipit; et est interroget se unusquisque intelligit unde sit». Omilia 18 in Evang. S. Paolo parla degli occhi del cuore, coi quali si conosce la verità. (Ef 1.18).

 

 


 

CAPITOLO 4

LA SOCIETA’ CENOBITICA

  

SOMMARIO: I. Relazioni gerarchiche tra l’abate e i monaci. — II. Attività proprie della società monastica: preghiera. — III. Lavoro: spirito da cui dev’essere informato. — IV. Stabilità della vita comune. — V. Vicendevoli relazioni tra i membri nella società cenobitica. — VI. La stabilità fissa anche i monaci al loro monastero.

 

Posto l’abate a fondamento della società cenobitica, ci resta, per completare il quadro sintetico dell’ideale benedettino come deve conoscerlo il postulante che entra nel chiostro, da esaminare più davvicino gli elementi diversi che costituiscono l’organismo e l’intima esistenza della comunità.

Tratteremo prima delle relazioni gerarchiche fra l’abate e i monaci; vedremo poi in quali forme deve manifestarsi, secondo le linee direttive dell’organizzazione, la loro attività, ricondotta alla preghiera e al lavoro. Parleremo quindi della stabilità nella vita comune, come di un elemento caratteristico della società cenobitica; e termineremo indicando da quali sentimenti debbono essere animati i membri della famiglia monastica, afflnchè in essa si compia l’ideale del Santo Patriarca.

 

I. Relazioni gerarchiche tra l’abate e i monaci

Avete già osservato l’analogia spiccata tra il governo istituito da S. Benedetto e quello della Chiesa; e non dobbiamo meravigliarci, perchè il santo Legislatore aveva profondo senso cristiano associato al genio romano [1].

La costituzione che la Sapienza Eterna ha dato alla Chiesa vi stabilisce il regime monarchico e gerarchico; quasi un riflesso in terra della monarchia suprema di Dio in cielo e della gerarchia che vi presiede. Alla base della società visibile che forma la Chiesa, Gesù Cristo ha collocato un fondamento visibile, Pietro e i suoi successori; da essi deriva ogni potere e giurisdizione. Così pure il N. B. Padre fa dipendere dall’abate tutta l’organizzazione del monastero: «Nos vidimus expedire... in abbatis pendere arbitrio ordinationem monasterii sui» (Reg. c. 65). Dalla suprema autorità abaziale proviene nella società monastica autorità e delegazione ai principali ufficiali del monastero, priore, cellerario, decani: sono preposti solo quelli che egli nomina. Si dice del priore che deve essere ordinato dall’abate: «Ordinet ipse sibi praepositum (Ivi). E non solo la prima investitura dell’ufficio dipende dal potere abaziale; ma nell’esercizio della carica, i nominati non debbono nulla intraprendere né compiere fuori degli ordini o della volontà dell’abate [2]. È una delle idee più chiaramente espresse nel codice monastico.

Ma per quanto assoluta, l’autorità dell’abate non è peraltro arbitraria. Il Sommo Pontefice nel suo insegnamento deve seguire la dottrina di Cristo e la tradizione; e così l’abate, dice S. Benedetto, non deve ordinare cosa contraria ai precetti divini; bisogna che egli segua, come i fratelli, la Regola, maestra di vita: «Omnes in omnibus sequantur Regulam» però, come rappresentante di Cristo, è interprete autorevole della regola, e stabilisce, se è necessario, il significato delle parole del codice monastico; lo modifica, permette le eccezioni che crede necessarie al buon andamento della comunità [3].

D’altronde l’abate non deve far assegnamento solo sui propri lumi personali. I Cardinali formano il consiglio del Papa e lo guidano in parecchie circostanze; l’abate ha nei seniori, «seniores», il consiglio che lo illumina in molte circostanze comuni che si riferiscono alla vita della badia.

S. Benedetto va oltre ancora. Negli affari più gravi, temporali o spirituali, vuole che l’abate raccolga i fratelli per esporre ad essi ciò di cui si tratta e ascoltare i loro pareri. Per quale ragione raccomanda il santo Legislatore questa consulta? Perchè spesso Iddio rivela al più giovane quello che è meglio (Reg. c. 3); e questo ci dimostra ancora una volta lo spirito soprannaturale che guidava la penna di S. Benedetto quando stendeva la Regola. Ma è una consulta molto differente da quella dei parlamenti. S. Benedetto vuole che i fratelli diano consiglio con tutta soggezione d’umiltà, senza procacemente difendere il loro parere; la decisione spetta all’abate, il quale, raccolti i consigli, esaminerà la cosa e giudicherà. come gli parrà meglio: «Et audiens consilium fratrum, tractet apud se, et quod utilius iudicaverit faciam» (Ivi).

L’abate deve certamente ordinare ogni cosa con previdenza ed equità; perchè dovrà render conto rigoroso a Dio, giusto giudice, di tutti i suoi giudizi; Inoltre il Diritto Canonico ha stabilito le garanzie che sono richieste in certi casi determinati; come nell’ammissione dei Novizi, per i quali si richiede il voto della comunità.

Finché la questione è discussa, si deve parlare con umile franchezza, e anche, se occorre, con ardimento rispettoso; ma sia in presenza dell’abate, sia altrove, quando egli ha deciso, tutti obbediscono: «Ei cuncti obediant (c. 3». Il mormorare, il discutere la cosa giudicata, «contendere, è atteggiamento rigorosamente condannato dal santo Legislatore, come indegno e sleale: si oppone allo spirito di fede e di sommissione amorosa che è caratteristico del monaco vero.

La patria potestas da S. Benedetto accordata all’abate fa presentire il tono familiare della vita cenobitica: il regno dl Dio è una famiglia. La Liturgia dice spesso la famiglia di Dio [4] per indicare la Chiesa; è l’eco della parola di S. Paolo: «Ecco, voi non siete più ospiti passeggeri o estranei; ma i concittadini dei Santi e i familiari dl Dio». E Gesù aveva detto: Voi siete tutti fratelli; il Padre mio è anche Padre vostro: «Ascendo ad Patrem meum et Patrem vestram» (Gv 20,17). I cristiani tutti, figli dl Dio per la grazia d’adozione, costituiscono una famiglia nella quale il primogenito è l’unico Figlio, in cui il Padre eterno si compiace; gli altri membri debbono rassomigliare a lui, a seconda del vincolo più o meno intimo con cui gli sono uniti; e saranno graditi a Dio nella misura con la quale riproducono in sé con maggiore o minore perfezione i lineamenti dell’Unico figlio, che si è fatto primogenito di molti fratelli: è questa la loro divina predestinazione: «Praedestinavit [nos] conformes fieri imaginis Filii sui, ut sit ipse primogenitus in multis fratribus» (Rm 8,29).

Padre visibile della famiglia di Dio sulla terra è il sommo Pontefice; e l’abate ha lo stesso ufficio nella piccola società monastica: è davvero, secondo la parola del grande Patriarca, il Padre del monastero, che deve provvedere ai bisogni del figli: «Omnia a Patre monasterii sperare» (Reg. c. 33). Nella famiglia, dal N. B. Padre chiamata «la casa di Dio», tutto è ordinato a che i membri riproducano in se stessi l’impronta del Fratello primogenito, sulle cui orme debbono camminare, non anteponendo mai nessuna cosa all’amore di Cristo (Ivi c. 4 e 72).

Da questo principio della patria potestas proviene anche la conseguenza sancita dalla tradizione, benché non si trovi espressa nella Regola: il potere dell’abate, come quello del Sommo Pontefice è a vita; cioè la Provvidenza sola vi mette termine quando tronca i suoi giorni. In altri Istituti più moderni, i superiori, chiamati priori, guardiani, rettori, sono eletti ogni tre anni; e per loro è condizione di vitalità e di perfezione; ma nella società monastica, costituita a famiglia, l’abate, chiamato Padre, conserva il potere per tutta la vita, normalmente parlando: è una caratteristica del cenobio; e modificarla sarebbe scuotere uno dei principi essenziali dell’istituzione. La continuità del potere nell’abate assicura più largamente al monaco il bene dell’obbedienza, che egli venne a chiedere al monastero; inoltre questa forma dl governo è imitazione di quella che il Cristo stesso, sapienza eterna, ha dato alla Chiesa.

Ha i suoi inconvenienti, nessuno lo nega; l’esperienza ci mostra che ci furono cattivi abati, come nella storia ecclesiastica troviamo dei Papi indegni; ma nessun sistema umano è perfetto; e la Chiesa si è premunita con garanzie e rimedi contro gl’inconvenienti di questo regime monastico per mezzo delle visite canoniche, dei capitoli generali e di altre prescrizioni del Diritto. Ad onta di tutto, rimane intatta l’autorità monastica come monarchica ed assoluta; i nostri democratici e l’orgoglio umano non la gustano certo; ma è la forma più fedele allo spirito e alla lettera della Regola scritta del Legislatore monastico. Quando i monaci sinceramente cercano Dio vi è stretta unione tra i figli e il Padre; e nelle intelligenze e nei cuori regna sovrana la pace, frutto dello spirito d’amore.

 

II. Attività proprie della società monastica: preghiera.

Vediamo ora di che genere sia l’attività che si dispiega nella società così costituita: si può ricondurre a due capi: preghiera e lavoro; «ora et labora».

Il nostro beato Padre nel fondar la vita cenobitica non ebbe scopo speciale; come la cura dei poveri, l’evangelizzazione dei popoli, il culto delle lettere, il lavoro scientifico; e in ciò si distingue radicalmente l’ordine monastico da molti altri venuti dopo. Noi non intendiamo con questo paragone esaltare l’uno per disprezzare gli altri: sono tutti fiori con cui lo Spirito Santo ha ornato il giardino della Chiesa; ciascuno ha la sua bellezza propria, il suo splendore speciale; ciascuno occupa un posto nel cuore di Cristo e glorifica il Padre celeste con le sue opere. Ma, secondo il pensiero di S. Tommaso, per affermare la natura di un oggetto è utile capire non solo quello che è, ma anche ciò che non è; per definire bisogna distinguere.

Tutti i religiosi abbandonano i beni di questo mondo per seguire Cristo: «Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito: — Ecce, nos reliquimus omnia et secuti sumus te» (Mt 19,27).

Ma il modo di seguire o d’imitare il Cristo differisce per ogni Ordine secondo la sua vocazione particolare: chi si propone di evangelizzare i poveri; e chi i popoli infedeli; uno si dedica alla predicazione come all’opera propria, l’altro è fondato per educare i fanciulli. Capite subito che questo fine particolare subordina le energie e gli sforzi a direttive proprie e imprime alla società il carattere specifico e le sue modalità distintive.

Il monaco cerca Dio in se stesso, per se stesso (Reg. c. 58) è il solo scopo adeguato alla vita monastica; ciò che le dona valore e bellezza. Le diverse forme di attività, di lavoro, di zelo o di carità non formano lo scopo di questa vita; ma sono conseguenze e manifestazioni della ricerca dell’unico bene (Lc 10,42).

Il Santo Patriarca, scrivendo la Regola, ha inteso fondare una società soprannaturale, una scuola di perfezione con la pratica della santità evangelica in tutta la sua ampiezza; un centro del più puro spirito cristiano. I membri di questa società hanno lasciato i beni del mondo per seguire il Cristo, quello stesso Cristo «al quale non si deve nulla anteporre: — Cui nihil praeponendum»; e si sforzano di arrivare all’unione con Dio col praticare quanto più perfettamente è possibile i precetti e i consigli del Vangelo: «Per ducatum Evangelii pergamus itinera eius» (Reg. prologo). S. Benedetto le volle dare un ordinamento modellato su quello che il Verbo Incarnato diede alla sua Chiesa; ora, tra le opere ingiunte al cristiano, ce ne sono di più o meno rilevanti agli occhi di Dio; più gradite gli sono quelle che si rannodano alle virtù più elevate o se ne informano, come ad esempio alle virtù teologali o alla religione; perciò i doveri religiosi sono gravissimi tra quelli prescritti al cristiano, come l’assistere alla Messa, il ricevere certi sacramenti, la preghiera; mentre la maggior libertà per le altre opere: non gli viene imposta un’occupazione più che un’altra; nessuna professione onesta è respinta qualora non impedisca gli obblighi dì religione.

In una scuola di cristiana perfezione, questo principio sarà naturalmente affermato e ribadito. Nella società soprannaturale fondata da S. Benedetto, che ha per fine di perseguire la perfezione della santità evangelica, si darà necessariamente posto preponderante alla pratica della religione; è una delle ragioni per cui il santo Legislatore consacra tanti capitoli della Regola a ordinare l’Ufficio divino [5]. Esso è l’opera delle opere, che non si deve posporre a nessun’altra; e per il monaco, con la Lectio divina, il lavoro e ciò a cui obbligano i voti, specialmente quello dell’obbedienza [6] sono il mezzo più autentico con cui raggiungerà il fine che si è proposto: l’unione con Dio.

Quest’opera è dunque strettamente obbligatoria per tutto il monastero; le altre invece dipendono da circostanze di tempo, di luogo, di persone; e potranno intraprendersi qualora non siano nocive all’Ufficio Divino, che è la principale, l’opera per eccellenza; anzi, secondo la bella espressione del Patriarca, è «l’opera di Dio — opus Dei» (Reg. c. 43, 47, 52), che direttamente lo glorifica; e diventa per il monaco la sorgente più naturale, importante e feconda della sua intima preghiera, dell’assiduo commercio con Dio.

Svilupperemo più oltre queste considerazioni come meritano di essere trattate, ampiamente; qui ci limitiamo a fissare certi punti capitali nell’esposizione sintetica del diversi elementi della vita cenobitica. Basta per ora aver assegnato all’ opus Dei il posto principale che gli spetta nel disegno del N. B. Padre e in tutta la tradizione benedettina.

 

III. Lavoro: spirito da cui dev’essere informato.

Per importante che sia l’Ufficio Divino, non è tuttavia e non può essere il fine della vita monastica; dobbiamo cercarlo più in su. Non è neppure l’opera esclusiva né costituisce la caratteristica della nostra vocazione: noi non siamo canonici e non siamo stati raccolti con lo scopo diretto di recitar l’ufficio in coro. La regola vuole che il monaco attenda anche, e non per poco, alla lettura e al lavoro; e nemmeno la tradizione ci autorizza ad ammettere che l’opera di Dio costituisca una prerogativa speciale del nostro Ordine [7].

Alla preghiera liturgica e all’orazione mentale deve necessariamente unirsi il lavoro: Ora et Labora.

La tradizione monastica ci prova che quando questi due mezzi preghiera e lavoro, sono stati più fiorenti, si sono anche raccolti i più copiosi frutti di santità monastica.

Si comprende subito che il lavoro è necessario al monaco per praticare la sanità della sua vocazione. Non dimentichiamo che esso è parte essenziale dell’omaggio che la creatura ragionevole deve a Dio, poiché l’uomo, a immagine di lui, deve imitarlo; ma Dio è l’artefice supremo: Il Padre mio — diceva Gesù — sempre opera ed io pure: «Pater meus usque modo operatur et ego operor» (Gv 5,17). Quantunque Dio trovi in se stesso ogni felicità, volle rallegrarsi con l’opera delle sue mani; giudicò la creazione molto buona: «valde bona» (Gn 1,31), e in tutto rispondente alla sua idea eterna; e «il Signore gioirà nelle sue opere — dice la Scrittura — Laetabitur Dominus in operibus suis» (Sal 103,31). Dio si compiace anche nell’armonico dispiegarsi dell’attività delle sue creature, che lo glorificano conformandosi alle leggi naturali.

Il lavoro è una di queste leggi. Noi troviamo nel Genesi una parola che va notata bene: dopo aver narrata la creazione del mondo, lo Spirito Santo aggiunge che Dio collocò l’uomo in un giardino di delizie; che doveva farci? Passar la vita nel riposo e nella contemplazione? No; «doveva coltivare e custodire il giardino. — Ut operaretur et custodiret illum» (Gn 2,15). Dunque, prima ancora della caduta, Dio voleva che Adamo lavorasse, perché il lavoro è l’esercizio delle potenze ed energie umane; ma il lavoro allora si compiva dall’uomo innocente in modo facile e dilettevole; era anche un inno di lode, un cantico di tutto l’essere umano a Dio.

Dopo il peccato, il Signore rinnova all’uomo la legge del lavoro; ma stavolta costerà ad Adamo il sudore della fronte: «In sudore vultus tui» (Gn 3,19): il lavoro divenne penoso, arduo, sgradito; e come la morte, costituisce la sovrana mortificazione inflitta all’uomo peccatore. Il N. B. Padre non parla esplicitamente nella Regola di cilici, di tuniche pungenti, di discipline [8]; ma in molti capitoli invece tratta del lavoro, che costituisce una vera penitenza; chi vi si sottrae non può progredire nell’unione con Dio. Perchè siamo venuti nel monastero? Per cercar Dio. Ora la nostra legge ci impone di cercarlo non solo con la preghiera, ma col lavoro: e lo troveremo tanto più quanto più gli daremo gloria; e lo glorificheremo col libero dispiegamento delle nostre forze, impiegate nel servire alla sua volontà suprema. Voler i propri comodi e il vile benessere dell’oziosità, è disobbedire al piano stabilito da Dio; e con tale condotta non è possibile ottenere i suoi favori.

Consideriamo anche come egli agisce col suo divin Figlio quando s’incarna. Il Padre volle, per la nostra imitazione e il nostro esempio, che fosse operaio; e il Cristo Gesù accettò ed effettuò simile programma. Non è chiamato nel Vangelo «figlio dell’artigiano, — Fabri filius»? (Mt 13,55) Per quanto cosciente della propria divinità, della grande opera che deve compiere sulla terra, Gesù passa trent’anni della sua vita nella fatica oscura di un’officina; e le sue corse apostoliche durante la vita pubblica erano forse altro che un lavoro infaticato e continuo, offerto per la gloria del Padre e la salute delle anime?

Poiché il monaco deve compiere perfettamente il piano di vita cristiana di cui Cristo è il primo e autentico modello, gli abbisogna dunque dare parte importantissima al lavoro; ma le forme in cui si può determinare e gli oggetti a cui si applica sono vari. Secondo il testo della Regola, il tempo libero dopo l’Ufficio dev’essere impiegato nel lavoro manuale o in pie letture largamente intese che favoriscano la ricerca di Dio; il santo Legislatore consacra un capitolo intero al lavoro; permette che siano esercitate nel monastero le arti e i mestieri (Reg. c. 48); ma solo in caso di necessità i monaci stessi faranno la mietitura (c. 57).

A poco a poco, con un’evoluzione che aveva il principio anch’essa nella Regola, al lavoro della mano subentrò quello della mente; tanto più quando i monaci furono innalzati alla dignità sacerdotale. Noi non possiamo ora esaminare i molteplici aspetti dell’opera monastica nel corso dei secoli; ma è necessario fissare subito l’ultimo spirito che deve informare e vivificare il lavoro del monaco: è lo spirito di obbedienza.

Il grande Patriarca volle forse istituire delle imprese agricole o industriali? No. Volle fondare un’accademia? Nemmeno. Volle costituire un’associazione di dotti? Per nulla affatto. Che cosa volle fare? Una scuola di perfezione (Prologo). Che cosa si viene a chiedere a questa scuola? Soddisfazioni dell’amor proprio, piacere intellettuale, godimento da dilettanti? No; vi siamo venuti a «cercare Dio»; senza di che potevamo restare al secolo; vi avremmo potuto fare quello che adempiamo qui.

Ma noi sappiamo che la via più diretta a trovar Dio nel monastero è l’obbedienza: «Scientes se per hanc obedientiae viam ituros ad Deunm»; S. Benedetto taccia di presunzione e vana gloria le mortificazioni che il monaco prende a fare senza l’approvazione dell’autorità. Così è per il lavoro: dev’essere intrapreso e compiuto per volontà dell’abate e da lui benedetto; «cum [Abbatis] fiat oratione et voluntate» (Reg. c. 49). L’obbedienza benedice gli sforzi e ne assicura il buon successo davanti a Dio, perchè fa scendere su di noi e sull’opera nostra la luce di lassù, prima causa della fecondità. Brilli su di noi, o Signore il tuo splendore, e tu, o Dio, dirigi l’opera delle nostre mani. «Et sit splendor Domini nostri super nos, et opera manuum nostrarum dirige» (Ufficio Divino: ora Prima). È questa la preghiera che si recita al Capitolo, prima di distribuire a ciascuno il lavoro.

Il monaco, il quale vive nella luce di Dio, sa che ogni opera imposta o commessa, non approvata o permessa dall’obbedienza, è sterile per lui e per il regno celeste. Invano lavoreremo ad edificare la città spirituale, se Dio, per la voce dell’obbedienza non ci benedice e non ci aiuta con la sua grazia: «Nisi Dominus aedificaverit domum in vanum laboraverunt qui aedificant eam» (Salmo 126).

 

IV. Stabilità della vita comune.

Altra caratteristica della vita cenobitica, com’è intesa e ordinata da S. Benedetto, è la stabilità.

Il gran Patriarca vuole che il monastero abbia, per quanto è possibile, ogni cosa necessaria al sostentamento, perchè non è punto utile all’anima dei monaci l’andar vagabondando fuori: «vagari foras» (Reg. c. 66). Il mondo, per il quale Gesù Cristo non pregò (Gv 17,9), ha massime, costumi e modi di fare contrari allo spirito cristiano, e soprannaturale, funesto all’anima che vuoi custodire il profumo della vita con Cristo in Dio: «Vita vestra est abscondita cum Christo in Deo» (Col 3,3. Il vero ambiente sociale e morale in cui l’anima del monaco potrà naturalmente espandersi in Dio, è il chiostro; e perciò il vero monaco non chiede di andar fuori, nemmeno con pretesti di zelo; si rimette per questo alle prescrizioni dell’obbedienza.

La stabilità, ignorata prima di S. Benedetto, è da lui costituita oggetto di voto; per cui il monaco si incardina per tutta la vita alla badia e alla comunità di cui fa parte.

Il Santo rimproverò un giorno un monaco della Compagnia di essersi legato alla parete rocciosa con una catena di ferro: noi ci vincoliamo al Cristo con stabilità: «Teneat te catena Christi» (S. Gregorio, Dial. L. III, c. 16); ma il voto non sarà caro a Dio se non ne manteniamo lo spirito per amore, osservando fermamente le pratiche della vita cenobitica.

Per ben intendere la gravità di questo punto, bisogna ricordare un principio che voi già conoscete, ma così importante che è sempre utilissimo rimetterlo in luce.

Ogni misericordia di Dio sopra di noi ha origine dalla predestinazione in Gesù Cristo; è una delle verità più chiaramente espresse da S. Paolo, l’Apostolo che fu rapito al terzo cielo, e fu scelto e preparato da Cristo stesso. Nella solitudine della prigione, egli scrisse agli Efesini che l’aurora di ogni grazia è l’eterna elezione che Dio fece di noi nel Verbo del suo figlio: «Sia benedetto Iddio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ricolmò di benedizioni celesti e ci elesse in Lui — Benedictus Deus et Pater Domini nostri Jesu Christi, qui benedixit nos in omni benedictione spirituali... sicut elegit nos in ipso» (Ef 1,3-4). In un libero moto di amore, Dio volle eleggere i membri della famiglia umana a suoi figli; ma cominciò prima col predestinare l’umanità del suo unigenito Gesù Cristo.

Nel divino pensiero, Gesù è «il primogenito delle creature: — Primogenitus omnis creaturae» (Col 1,15); e per questo Iddio adornò la sua umanità con tutti i tesori di sapienza e di scienza (Col 2,3), in modo da renderla veramente piena di grazia e verità (Gv 1,14); oggetto delle sue compiacenze. Ma Cristo attira e unisce a sé tutta l’umanità che viene a riscattare e salvare; e Dio, in lui e per lui, estende al corpo mistico di Gesù le sue compiacenze e le sue grazie. Se qualcosa potesse esistere all’infuori di Cristo, per Dio, non sarebbe nulla, a così dire; l’unione a lui è condizione essenziale di salute e di santità, come fu ragione della nostra scelta. «In lui ci ha eletti: — Elegit nos in ipso».

Ora, come possiamo noi dimorare in lui? Per mezzo della Chiesa. Dopo l’Ascensione, la via normale e regolare dell’unione al Cristo, ciò che la produce e la custodisce, è la partecipazione alla società visibile da lui fondata. Il corpo di Gesù, unito all’anima, era strumento della divinità e canale di tutte le grazie; ed ora queste non ci pervengono se non apparteniamo al corpo della Chiesa. Il Battesimo, che ci incorpora ad essa, e la fede, sono la prima condizione di ogni grazia e della salvezza: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra»; ha detto il Cristo; — «andate, ammaestrate tutte le genti! chi crederà e sarà battezzato sarà salvo» (Mt 28,18-19). È la legge costituita dal Cristo stesso e ratificata dal Padre, il quale ha rimesso a lui il giudizio e ogni cosa (Gv 3,35; 5,22). Nessuno va al Padre, cioè gli è gradito, né riceve doni, se non per Gesù. «Nemo venit ad Patrem nisi per me» (Ivi, 14,6). Nessuno, secondo la via normale e la legge comune; (noi sappiamo che in certi casi basta il battesimo di desiderio, e che molti nostri fratelli separati vivono in buona fede) - nessuno, dico, si unisce al Cristo se non per la Chiesa, né riceve la sua dottrina e partecipa alla sua grazia fuori della Chiesa; perchè il Cristo è capo del mistico corpo e la Chiesa è la sua carne e le sue ossa, dice S. Paolo (Ef 5,30); ma nessuno odia la sua propria carne, continua l’Apostolo; anzi la nutre e la mantiene per perfezionarsi. E ciò fa il Cristo col suo Spirito vivificatore.

Voi subito comprendete che quanto più si vive della vita della Chiesa, accettandone la dottrina, obbedendone i precetti, praticandone il culto, tanto più abbondantemente avremo parte alle benedizioni che Gesù versa incessantemente sulla sua sposa. La verità s’irradia nell’anima in modo più fecondo quanto più intimamente siamo uniti alla Chiesa; e comprendete anche quale terribile pena sia la scomunica, che separa dalla sorgente, di grazie, come il tralcio tagliato dal ceppo; la linfa che nutre non passa più nel ramo reciso; non si può far altro che bruciarlo. Secondo l’etimologia, la scomunica recide l’anima dalla comunione dei Santi, dalla solidarietà coi benedetti dal Padre, (Mt 25,34); la priva di tutte le grazie di luce e di forza che Dio spande sulle anime per il suo figlio Gesù; è come l’ombra anticipata della scomunica finale e della maledizione suprema: Andate lungi da me, o maledetti: «Discedite a me, maledicti» (Ivi, 41).

Ecco nel suo complesso il piano divino stabilito dal Padre, che ci ha predestinati a godere, come figli, la sua beatitudine infinita. «Ogni dono perfetto che rallegra le anime viene da lui» (Gc 1,17), per il Figlio suo Gesù; e il Cristo ci unisce a sé nella Chiesa, dispensatrice delle grazie dello Sposo. Per averci parte, dobbiamo dimorare in questo visibile organismo e vivere della sua vita.

Ora, vi ho detto che c’è analogia grande tra la Chiesa di Gesù e la società monastica costituita da S. Benedetto.

Osserviamo dapprima che gli Ordini e gli Istituti religiosi, suscitati dallo Spirito di Dio, riconosciuti, approvati dalla Chiesa e da lei associati a sé in modo ufficiale e canonico, possiedono per ciò stesso una più stretta unione con la Sposa di Cristo; e i loro membri, a cui essa attribuisce privilegio, acquistano come un nuovo e speciale titolo alle benedizioni divine.

Ma queste grazie singolari arrivano alle anime in quanto esse vivono la vita organica della società di cui sono membri. È questa una verità importante: come ci uniamo a Gesù per la Chiesa, nel giorno del Battesimo, così partecipiamo alla grazia religiosa per la professione; e vi abbiamo parte efficacemente a seconda del grado in cui viviamo la vita comune. Se dite: Io me la intendo da solo con Dio, gli esercizi comuni non mi apportano altre grazie, siete simili ai protestanti; anch’essi credono poter andar a Dio da soli, senza l’aiuto della Chiesa; vogliono la grazia di Dio a modo loro, mentre i cattolici cercano Dio a modo suo, come vuol essere cercato; e facendogli omaggio di umiltà e di fede, lo trovano sicuramente. E noi che cosa abbiamo domandato il giorno della vestizione? La misericordia divina e l’incorporazione alla società monastica, per la quale potremo ottenere. Separati dalla vita comune, che è il segno della speciale elezione divina, saremmo come rottami incagliati alla riva del fiume: la corrente li sfiora, ma non li trasporta più, non li trascina con l’impeto delle sue acque vive.

Vedete dunque l’importanza capitale per il religioso della vita comune, nel quadro dell’ordinamento stabilito e accettato; per il monaco, come per il cristiano, la scomunica — sia pure nel significato strettamente monastico, come l’ha intesa San Benedetto —‘ costituisce una pena tremenda.

Ci sono delle menti, osserva il santo Legislatore, che non sanno valutare quanto essa sia terribile, né il danno gravissimo che può subire il monaco quando è escluso dalla vita comune per decreto del superiore.

Il grande Patriarca ha stabilito questa pena per alcune colpe; ma non dobbiamo credere che in simili casi lo scomunicato sia escluso dall’amore paterno che l’abate deve avere per tutti i monaci; l’amore umano, come il divino, non rifugge dalla severità, in certi casi; si manifesta tanto nella giusta applicazione del salutare castigo, quanto nelle ricompense e nelle carezze. Per guarire chi si affida a lui, il medico non ricorre a volte alle interdizioni, alla segregazione, alle medicine amarissime?

Ma è raro che l’abate, al quale solo appartiene la facoltà di pronunciar la scomunica, debba veramente applicarla; inoltre essa ha diversi gradi. Ma se non ci badiamo può accadere che ci scomunichiamo praticamente da noi stessi; e il danno non è meno grande; forse ancora di più, perchè meno si può attendere la salutare resipiscenza.

Come potrebbe accadere? Con le infedeltà consentite e abituali; colla volontà propria, che gradatamente ci allontana dagli esercizi e dalle usanze della vita comune. Ci sono anime che tengono a preferire quanto fanno da sole agli esercizi propri della comunità; s’immaginano, per esempio, che sarà loro più utile passar il tempo di ricreazione nell’oratorio, invece di unirsi ai fratelli; tale pietà, non solo è falsa in se stessa, ma è praticamente sterile, se non peggio. Come potrebbe Dio comunicarsi ad anime che da se stesse si allontanano dal corso di grazie da lui determinato? Non è possibile; Dio si comunica soltanto all’anima docile e fedele, cioè a quella che, obbedendo alla legittima autorità, si trova là dov’essa l’ha collocata, nell’ora e nell’impiego da essa voluto. Se Dio non ci incontra laddove ci vuole, non ci benedice: «Beati i servi che il padrone, al suo arrivo, troverà vigilanti: — Beati servi illi, quos, cum venerit Dominus, invenerit vigilantes» (Lc 12,37).

Ricordiamoci che nessuna circostanza esterna può impedire l’azione divina e la sua benefica efficacia sulle anime.

S. Caterina da Siena ebbe sulla via, mentre ritornava a casa di sera col fratello minore Stefano, la sua prima visione; e le apparve Nostro Signore, seduto su d’un magnifico trono, che le sorrideva amorosamente, facendo con la mano il segno della croce. La benedizione dell’Eterno fu tanto possente che, rapita fuori di sé, la fanciulletta timida per natura, rimase là sulla pubblica strada cogli occhi levati al cielo, in mezzo al viavai degli uomini e delle bestie (Joergensen, Vita della Santa).

Ciò che avviene ai santi, si compie, nelle debite proporzioni, in ogni anima fedele: Il Cristo Gesù coglie a volta i momenti che sembrano per sé più distraenti, e meno favorevoli al raccoglimento, per comunicare invece i suoi lumi; e con tanta maggiore abbondanza in quanto l’anima è più attenta a distogliersi dalle soddisfazioni dell’amor proprio, conformandosi invece per obbedienza al divin beneplacito. Prodiga la sua luce in modo che l’abbraccio dello Sposo non si dimentica più, e l’anima resta per lungo tempo imbalsamata dall’olezzo della visita divina...

Ci si può scomunicare da sé, non soltanto col distogliersi per infedeltà o pietà malintesa dagli esercizi, dalle usanze, dalle tradizioni della vita comune, ma col rendersi singolari, Si può farlo in molti modi, ma più specialmente negli esercizi di pietà e di devozione; si trovano ottimi pretesti per giustificare se stessi; e ci si persuade di intender meglio gli atti di religione, di compierli con maggior generosità. Ma S. Benedetto stesso ci insegna che spesso si tratta di vano orgoglio; perché sembriamo dire: So meglio degli altri ciò che debbo fare; me ne intendo più di loro quanto al modo di agire: «non sum sicut caeteri» (Lc 18,41). Per quanto i metodi comuni ci possano apparire ordinari e mediocri, è prova di umiltà — osserva il B. Padre — conformarvisi e non dar nell’occhio: «L’ottavo grado d’umiltà è che il monaco nessuna cosa faccia se non quello che è comandato dalla comune regola del monastero, o come ammaestrano gli esempi dei maggiori» (Reg. c. 7).

È questo un punto di grande importanza, perchè la grazia è nascosta nell’umile osservanza degli usi e tradizioni comuni. Dio la concede agli umili: «Humilibus dat gratiam» (1Pt 5,5); mentre l’orgoglio, quasi sempre causa della singolarità, ci allontana da Dio, e ci rende anche insopportabili al prossimo, sebbene noi non ce ne accorgiamo. Osserviamo il divin Salvatore: quale modello più perfetto di santità potremmo contemplare e imitare? È Dio, sapienza eterna incarnata; tutto quello che fa è infinitamente gradito al Padre: «Quae placita sunt ei facio semper» (Gv 8,29); non solo perchè è figlio suo, ma perché compie ogni cosa con divina perfezione. Ma per trent’anni è rimasto così nascosto — proprio al contrario della singolarità — che al principiare della vita pubblica era conosciuto solo come il figlio dell’artigiano: «fabri filius» (Mt 13,55); si stupivano per la sublimità della dottrina, la grandezza dei miracoli, perchè nessuno lo aveva notato fra gli altri. Anche nella sua vita pubblica, che semplicità ammirabile! Stanco dalle corse apostoliche, riposa sull’orlo di un pozzo: «Fatigatus ex itinere, sedebat sic supra fontem» (Gv 4,6); non mostra mai posa, né affettazione, né singolarità. Eppure, chi più di lui possedeva tutti i tesori della sapienza? (Col 2,3).

Le nostre conoscenze personali a tutto il sapere umano che cosa sono in confronto? Nulla, stoltezza.

Il vero monaco, che tiene l’occhio sempre fisso al divino modello, segue con semplicità, dirittura e filiale sicurezza le consuetudini della società in cui è entrato, segno dell’unità voluta da Cristo tra i membri del suo mistico corpo. Formano il programma pratico di perfezione che ha giurato di eseguire; e se il demonio tenta ingannarci, vuol farci credere che ci manterremo più uniti a Dio vivendo a parte, rendendoci singolari, non dobbiamo ascoltarlo. Se un giorno davvero saremo giunti all’alto grado di santità da S. Benedetto richiesto per la vita eremitica, se il disegno di Dio si chiarirà, ebbene, ci fabbricheranno una cella in un angolo solitario, e ci tributeranno la venerazione e i riguardi che son dovuti a così sublime vocazione.

Intanto, — o semplici monaci, oppure investiti d’autorità perché l’abate ha fiducia in noi — teniamoci stretti all’osservanza della vita comune: è la via consigliata dal santo Patriarca, quella che Dio ha voluto per noi. L’osservanza indicherà che siamo stabili nel bene, e che permane in noi la divina grazia; perché in essa troveremo il Cristo Gesù; e il Padre, vedendoci in tutto uniti al suo Figlio, ci colmerà per sua cagione e in lui, di ogni benedizione celeste: «Benedixit nos in omni benedictione spirituali» (Ef 1,3) [9].

 

V. Vicendevoli relazioni tra i membri nella società cenobitica.

La scomunica, nel senso cenobitico, può avere altri aspetti e suggerire nuovi insegnamenti.

Può accaderci — e non sarà cosa meno grave — di scomunicare i nostri fratelli; con mancare alla carità, coll’escludere alcuno, se non proprio dal cuore, almeno dall’affettivo irradiamento caritatevole; e si può scomunicarlo dal cuore altrui suscitando diffidenze. È un peccato così contrario allo spirito cristiano che dobbiamo star molto in guardia e agire in questa materia con grande delicatezza.

La società cenobitica, è una, e i membri sono uniti dalla carità, come da cemento.

Se diminuisce, la vita divina scade nel corpo sociale; perchè l’effetto, il segno distintivo al quale si riconoscono infallibilmente i membri della cristiana società, segno indicato dal Cristo medesimo, è l’amore scambievole: «In hoc cognoscent omnes quia discipuli mei estis, si dilectionem habueritis ad invicem» (Gv 13,35); altrettanto si dica per la società monastica; il vero segno della protezione di Cristo sopra la comunità religiosa è la carità che regna fra i suoi membri. Guai a coloro che intaccano, in un modo qualunque, lo spirito di carità: lacerando la veste della Sposa strappano anche dal proprio animo il segno più cospicuo del cristiano.

Il Cristo è uno; egli stesso ci disse che quel che facciamo al minimo dei nostri, dei suoi fratelli, sia bene sia male, lo facciamo a lui stesso (Mt 25,40 e 45); e S. Benedetto lo rammenta all’abate, comandandogli di amare tutti, senza esclusione (Reg. c. 2). Vuole pure che noi tutti ci mostriamo scambievolmente amore fervente e casto; «Caritatem fraternitatis casto impendant amore» (c. 72). Questo amore deve tradursi nella dimenticanza di sé preferendo al nostro piacere l’utile altrui, (c. 71); cotesto amore, dice egli ancora, farà si che i monaci pazientissimamente sostengano le infermità corporali e i difetti gli uni degli altri: «Infirmitates suas sive corporum sive morum patientissime tolerent» (c. 72).

L’amore si manifesterà anche nell’obbedienza dell’uno sull’altro — nei casi, s’intende, in cui il Superiore non ha nulla prescritto; — sottomissione sollecita, che si può prestare in molte circostanze quando ci chiedono un servizio: «Etiam sibi invicem obediant fratres. Obedientiàm sibi certatim lmpendant» (Reg. c. 71).

E perchè l’amore sia casto, esige S. Benedetto che sia rispettoso; ricordando le raccomandazioni di S. Paolo ai semplici cristiani: «Prevenitevi con onore gli uni gli altri: Honore se invicem praeveniant» (c. 72). Qual’è la profonda ragione del mutuo rispetto? Ogni anima in istato di grazia è tempio dello Spirito Santo; dobbiamo rispettare gli altri come cose sacre. Il santo Legislatore vuole soprattutto nei giovani simile atteggiamento verso gli anziani: «Onorare i vecchi — Seniores venerari» (Reg. c. 4); ma vuole anche affettuosità da parte di tutti, e specialmente dagli anziani verso i giovani: «Juniores dirigere». Siamo tutti rispettosi; evitando la familiarità volgare, che ingenera disprezzo.

Rispetto, obbedienza, amore, ecco il triplice carattere delle relazioni che devono stabilirsi fra i membri della società cenobitica. Felice, tre volte felice la comunità in cui dominano cotesti sentimenti; nella quale i membri formano un sol cuore e un’anima sola. Nostro Signore verserà su di lei copiose benedizioni, perchè in essa si compie l’ardente desiderio del suo cuore: «Siano consumati nell’unità: — Ut sint consummati, in unum» (Gv 17,23). «Il solo mezzo col quale possiamo dimostrare che Dio regna in noi, scrive il V. Beda, è lo spirito della santa e indivisa carità. — Docet eos non posse aliter dare experimentum Christi in se inhabitantis nisi per spiritum sanctae ac individuae caritatis» (Vita di un antico anonimo, P.L. 90, col. 51).

Il grande monaco era l’eco fedele di Cristo: «si conoscerà che siete miei discepoli se vi amerete reciprocamente».

 

VI. La stabilità fissa anche i monaci al loro monastero.

Il voto di stabilità, che ci unisce alla famiglia monastica, ci lega anche al monastero; e il monaco deve amare le mura stesse della sua badia; poiché è per lui la Gerusalemme santa, la città di pace, in cui vive sotto lo sguardo di Dio, obbedendo a chi fa le veci di Cristo, nella preghiera e nel lavoro.

Per essa ripete ogni giorno la preghiera del Salmista: «Sia la tua forza abbellita dalla pace, e affluiscano tutti i beni dentro ai tuoi bastioni» (Sal 121,7). Il vero monaco abborre l’egoismo, sorgente di sterilità spirituale, e sa dimenticare se stesso, faticare senza tregua nei più duri lavori, nel compito più oscuro; perchè sente che l’amore al chiostro nobilita i più umili servizi e feconda le fatiche più sterili; non ricusa mai di fare ciò che può essere profittevole e vantaggioso a quel luogo, per lui benedetto fra tutti. Gli consacra i pensieri, l’amore, i desideri, le preghiere, le fatiche, la vita, fino all’ultimo respiro: «La mia lingua si attacchi al palato se mi dimenticassi di te: — Adhaereat lingua mea faucibus meis, si non meminero tui» (Sal 136,6).

In questa Gerusalemme, il centro dell’amore monastico dev’essere il Tempio. La Chiesa abaziale sia davvero per il religioso «l’edificio sacro, destinato a Dio; la cara dimora in cui risuonano armoniose le lodi nel santo giubilo; e che dimostra a tutti il fervore della fede nell’unico Signore, tre volte Santo» [10]. Là il monaco, più volte al giorno in mezzo alla famiglia cenobitica, stende le braccia supplichevoli, come Mosè sulla montagna, per i fratelli che combattono nel piano; e sa che, mediante la preghiera ardente e costante, può ottenere vittoria alle armi d’Israele sopra i nemici di Dio e del suo popolo. Il suo sguardo, illuminato dalla fede, conosce tutto ciò che riguarda il regno di Dio; la carità ne eccita la devozione, ed egli vorrebbe aiutare tutte le anime che si dibattono nella ignoranza, nell’errore, nel dubbio, nella miseria, nella tentazione, nel dolore, nel peccato; tutte quelle che lavorano a propagare sulla terra il regno di Cristo; che sentono desiderio ardente di avvicinarsi sempre più a Dio. Affinché la sua intercessione sia più efficace, l’unisce a quella sempre ascoltata e onnipotente, della vittoria divina, che stende le braccia sul nuovo Calvario, l’altare...

Oh come lo venera quell’altare della sua chiesa, sulla cui pietra venne sparsa l’unzione santa e bruciò l’incenso! Non ha esso perduto i doni ottenuti alla consacrazione; anzi, la Messa conventuale, alla quale ogni giorno assiste l’intera famiglia cenobitica, lo consacra ognor più; e per questo il monaco lo deve amare come lo ama Dio stesso. Non è l’immagine del suo Figlio diletto l’altare, con le cinque croci scolpite nella pietra, simbolo delle piaghe di Cristo? Non vi abbiamo noi deposta la scritta della professione monastica, unendo così più strettamente la nostra oblazione al sacrificio del Cristo Gesù, affinché salisse al cielo in odore di soavità? «Ecco il profumo del mio figlio, simile a quello d’un campo fruttifero, benedetto da Dio: — Ecce odor filii mei, sicut, odor agri pleni, cui benedixit Dominum» (Gn 27,27).

In questo tempio, che ci suggerisce l’adorazione, la immolazione, il ringraziamento, il monaco vede spesso riprodotta l’immagine del grande Patriarca, e impara da lui la scienza più importante, quella delle divine cose. Il nostro santo Legislatore non fu egli per eccellenza vir Dei, il Veggente che in ogni ora della sua vita magnanima camminò al cospetto di Dio nella perfezione: «Ambula coram me et esto perfectus»? (Gn 17,1) non è egli il novello Abramo, al quale Dio promise, come segno di suprema benedizione, la posterità numerosa e forte che renderebbe illustre il suo nome? «Faciam te in gentem magnam, et benedicam tibi, et magnificabo nomen tuum, erisque benedictus»? (Ivi, 12,2)

S. Benedetto tiene in mano la Regola: detta da lui nella sua grande umiltà, un abbozzo (c. 73 - Vedi la Nota alla fine del Capitolo). - Ma noi sappiamo che da questo codice immortale trabocca lo spirito di santità; sappiamo che ha santificato innumerevoli falangi di monaci durante molti secoli; sappiamo che fu di strenuo soccorso alla Chiesa di Cristo e che diede al mondo frutti cospicui di cristiana civiltà. «Chi può misurare lo straordinario influsso che codeste pagine [della Regola] esercitarono per quattordici secoli sull’evoluzione del mondo occidentale? S. Benedetto pensava solo a Dio, alle anime desiderose di ascendere a lui; nella tranquilla semplicità della sua fede, voleva fondare solo una scuola del divino servizio: «Schola dominici servitii»; e appunto perchè egli cercò solo l’unico necessario, Iddio benedisse la «Regula monachorum» con una grazia singolare di fecondità, e San Benedetto si schiera tra i grandi Patriarchi [11].

Infatti questa Regola santa ci insegna che per il monaco tutto sta nel cercar Dio per darlo agli altri; con caratteri sicuri, desunti dal Vangelo che rispecchia, ci guida nella via della perfezione più sublime, sulle orme di Cristo; nell’obbedienza, nella preghiera, nel lavoro.

Per essa il monaco si santifica, e perviene ad edificare il regno di Cristo, glorificando il Padre celeste, per essa il grande Patriarca vive ancora nella Chiesa, intrattenendo in coloro che la praticano quello spirito di santificazione che fece di lui il Benedetto di Dio.

Davanti all’immagine del santo Legislatore possiamo rallegrarci assai e ringraziare umilmente Iddio, poiché apparteniamo, per quanto indegni, alla stirpe santa che è la sua posterità. Dobbiamo ridire per noi, per i nostri fratelli, per tutti gli abitatori della città di Dio la preghiera che la Sposa di Cristo ci mette sulle labbra: «Accendi, o Signore, nella tua Chiesa, lo spirito di santità che animava il N. B. Padre Benedetto, abate; affinché, pieni del medesimo spirito, ci sforziamo di amare ciò che egli amò, e di operare secondo i suoi insegnamenti: «Excita, Domine, in Ecclesia tua, spiritum cui Beatus Pater noster Benedictus abbas servivit, ut eodem nos repleti, studeamus amare quod amavit et opere exercere quod docuit».

 

Note

[1] C’è soltanto analogia: tra il monastero e la Chiesa ci sono punti di somiglianza, è vero; ma anche differenza, e alcune molto cospicue. Accenniamo alle più importanti: in certe occasioni il Sommo Pontefice è infallibile; il capo del monastero non gode mai tale privilegio; l’autorità del Papa è universale; quella dell’Abate ristretta; ecc.

[2] «Praepositus illa agat cum reverentia quae ab abbate suo ei injuncta fuerint; nihil contra abbatis voluntatem aut ordinationem faciens, (c. 65); celerarius sine jussione abbatis nihil faciat quae jubentur custodiat; omnia quae ei injunxerit abbas ipse habeat sub cura sua; a quibus eum prohibuerit non praesumat» (c. 31); «decani sollicitudinem gerant... in omnibus... secundum praecepta abbattis sui» (c. 21).

[3] Si deve notare perciò che il Sommo Pontefice è più che interprete delle leggi nella Chiesa; è egli stesso legislatore.

[4] Colletta della V Domenica dopo l’Epifania; della I Domenica di Quaresima e XXI dopo Pentecoste.

[5] Si deve notare che, storicamente e criticamente, il grande sviluppo dato da S. Benedetto all’opus Dei nel testo della Regola proviene da ciò, che al V secolo non vi era un Breviario uniformemente costituito. Bisognava stendere un regolamento per religiosi.

[6] L’obbedienza accettata per amore, è il mezzo supremo. Per accidens, senza l’ufficio divino, potrà il monaco santificarsi, ma non potrà farlo mai senza l’obbedienza.

[7] La preghiera canonicale è un elemento della vita benedettina; il più nobile certo, perchè si riferisce direttamente a Dio; ma permette anche altre forme di attività, e non è fine necessario, indispensabile di tutto il resto. Ha il primo posto tra gli esercizi monastici perchè cosi la consideravano i primi cristiani. (L’Ideal monastique et la vie chrétienne des premiers jours, par D. G. Morin 1921, 3. Ediz. p. 97).

In questo volumetto, che svolge idee molto originali, l’autore ha provato che la vita religiosa si rannoda a quella del fedeli della Chiesa primitiva, quale ce la tramandano gli Atti come eterno esempio ai cristiani di ogni epoca; come modello di santità, di forza e fecondità all’Ecclesia perennis.

[8] Le penitenze afflittive sono chiaramente indicate, benché non apertamente quando S. Benedetto parla della Quaresima (c. 49): ma sono soltanto suggerite; il monaco conserva grande iniziativa personale, benché debba agire sempre in dipendenza dell’abate, vedi anche la conferenza intitolata: Il rinnegamento di sé.

[9] Meglio poco nell’obbedienza, - scriveva Mgr. Gay a una carmelitana - che molto per volontà propria, anche se tendesse ad immolare sé stessa. La preferisce più in questa vita comune e riguardosa, che non in una vita più santamente cospicua, e in apparenza più immolata. - (Citato da D. du Boisrouvray: Mgr. Gay directeur de consciance; nella Revue da Clergé trancais, 1916 II, p. 313).

[10] Omnis illa Deo sacra - et dilecta civitas - plena modulis in laude - et canore jubilo, - Trinum Deum unicumque cum fervore praedicat (Inno delle Laudi, Festa della Dedicazione).

[11] Commento alla Regola di S. Benedetto, dell’abate di Solesmes. Introduzione. II. Citeremo spesso quest’opera di D. Delatte, molto importante.

 

NOTA:

«Hanc minimam inchoationis Regulam» (Reg. c. 73).

Non bisogna dare a codesta parola del Santo Patriarca un senso letterale; la Regola contiene osservanze esteriori relativamente lievi, e direzioni ascetiche elevatissime; S. Benedetto parla solo delle prime; e paragona le sue prescrizioni a quanto esigevano S. Antonio, S. Macario, S. Pacomio.

Sotto l’aspetto individuale, la Regola comprende non solo le norme per la via purgativa e illuminativa; ma dà alle anime — senza troppo presumere dalle forze umane — consigli di virtù eroica; e schiude loro — senza voler prevenire la grazia — le vie dell’unione con Dio.

Il Santo Legislatore scrive che non vuole punto scoraggiare i deboli che vanno piano; ma neanche vuol impedire le sante ascensioni dei valenti che anelano alle cime: «Ut et sit quod infirmi non refugiant et fortes quod cupiant». Basta leggere il 4° grado d’umiltà per vedere a quali altezze d’eroismo il Santo chiama i suoi discepoli.

Ma il valore della Regola benedettina è provato anche dalla rapidità con cui si sostituì a tutte le altre allora praticate; ed erano regole scritte da uomini di grande santità. È provato anche dalla sua straordinaria fecondità soprannaturale nel corso dei secoli. Bisognerebbe citare il lungo corteo di santi che si sono perfezionati alla scuola di colui che S. Gregorio chiama l’ottimo Maestro della vita perfetta: «Magister optimus arctissimae vitae».

«Fuori del Vangelo — scrive molto bene D. Delatte nel Commentario alla Regola (p. 556) — c’è forse un altro libro che si sia, come la Regola, prestato ad ogni necessità della vita cristiana, dal VI secolo ai giorni nostri?... Bisogna riconoscere che essa ha saputo adattarsi con grande pieghevolezza alle opere più svariate, acconciandosi meglio d’ogni altra ai tempi e alle circostanze; e che ha preparato un’orditura legislativa molto soda ad altri fondatori di Comunità religiose. Aver elaborato una regola che sapesse tutto abbracciare nella sua larghezza; tutto frenare con la sua forza; così divinamente semplice da esser compresa dai Goti illetterati e gustata da S. Gregorio Magno: «perfetta così da essere chiamata senz’altro “la Regola”, «ossia la Regola monastica per eccellenza, non è forse opera «di un genio straordinario?».

 

 


 

Parte Seconda

Punto di partenza e duplice carattere della perfezione monastica

 

Capitolo 5

«HAEC EST VICTORIA QUAE VINCIT MUNDUM FIDES NOSTRA»

(La nostra fede è la vittoria che riportiamo sul mondo)

Vinceremo il mondo con la fede

  

SOMMARIO I. Come la fede ci fa vincere Il mondo. — II. Quanto sia preziosa cotesta vittoria e di quale vita sia il preludio. — III. La fede è anche il principio della perfezione monastica; il Lume deifico che deve rischiarare la vita del Monaco, come vuole S. Benedetto. — IV. Ne proviene grande stabilità della vita interiore. — V. Come si esercita la virtù della fede e di quali gioie essa è sorgente.

 

Nelle Conferenze che precedono abbiamo tentato dl dare uno sguardo complessivo all’ideale e alla costituzione dell’Ordine Benedettino. «Cercar Dio», unicamente, seguendo il Cristo Gesù, è lo scopo supremo della vita monastica: il monaco per ottenerlo si rinchiude nel chiostro, tra fratelli, per viver con essi sotto la guida dell’abate, che fa le veci di Cristo; e con essi conduce vita di obbedienza, nella preghiera e nel lavoro. Ecco le linee maestre della società cenobitica.

Vedremo ora come si possa realizzare praticamente cotesto Ideale. Conosceremo così che la fede sola ci fa entrare nel chiostro, e l’amore vi ci stabilisce; appunto come il neofita, entrando nella Chiesa, compie un atto di fede; e diventa membro della società soprannaturale per il battesimo, sacramento d’adozione e d’iniziazione. La fede e la professione religiosa sono necessarie per avvincerci al Cristo nello stato di perfezione costituito dal monachismo.

Ricordate ciò che accade per il cristiano. Dio propone come modello all’imitazione degli uomini il Figlio suo Gesù: due volte, sulle rive del Giordano e sul Tabor, rompe il silenzio suo eterno per offrirci cotesto Figlio, viva espressione della forma umana della Divina Maestà; e per quanto siano alte le cime di santità a cui giungono le anime, sono sempre e solo un riflesso della santità del Verbo incarnato.

E come ci assimiliamo noi al Cristo? Come diventiamo partecipi della sua grazia e della sua santità? Prima di tutto mediante la fede.

Dice appunto S. Giovanni: «Ricevono il Cristo coloro che credono in lui. — Quotquot autem receperunt eum... his qui credunt in nomine ejus» (Gv 1,12)... È ciò che Dio vuol da noi in primo luogo: credere in colui che egli ha mandato: «Hoc est opus Dei ut credatis in eum quem misit ille» (Ib 6,29).

La fede è la prima disposizione di chi vuol seguire il Cristo; dev’essere l’atteggiamento iniziale dell’anima davanti al Verbo incarnato (Vedi: Cristo vita dell’anima, c. La Fede).

Il Cristianesimo consiste in ciò: accoglie con fede pratica l’Incarnazione, con tutte le conseguenze che ne derivano; e la vita cristiana traduce nell’opera costante cotesto atto di fede a Gesù: «Tu sei il Cristo, Figlio di Dio vivo» (Mt 16,16). Senza di ciò non possiamo essere cristiani. Se accettiamo la divinità di Gesù Cristo dobbiamo, per necessaria conseguenza, accettare i suoi voleri, le sue opere, le sue istituzioni; la Chiesa e i Sacramenti; il suo corpo mistico e reale.

Ma tanto più deve farlo il monaco. Egli tende ad attuare la perfezione del Cristianesimo; deve dunque prima essere cristiano perfetto; e voi vedete che la fede in Cristo anzitutto ci fa cristiani, figli di Dio nella sua grazia.

Vediamo dunque di spiegare che cosa sia per noi la fede. È il principio della vittoria sul mondo: la quale vittoria ci viene dal Cristo per la fede che abbiamo in lui, e ci rende figli di Dio; è il fondamento e la radice della perfezione monastica, nonchè della cristiana; per questo S. Benedetto la chiama «luce deifica, — deificum lumen» (Prologo). Ci resterà poi da spiegare come dobbiamo vivere di fede e quali frutti ne ricaveremo.

 

I. Come la fede ci fa vincere il mondo.

Che cos’è la fede? È l’omaggio totale della intelligenza alla veracità divina.

Dio, mostrandoci il Figlio a sè uguale, ci disse: «Ascoltatelo» (Mt 17,5); e il Cristo a sua volta: «Io sono l’unico Figlio dl Dio; e ciò che conosco dei segreti eterni rivelo a voi; la mia parola è infallibile, perchè Io sono la Verità» (Mt 11,27; Gv 14,6). Accettando la testimonianza di Gesù, e accordando a ogni sua parola, a ogni suo detto, l’assentimento dell’intelligenza, noi facciamo un atto di fede.

Ma dev’essere una fede integra, che si estende, nel suo oggetto, a tutto ciò che ha detto o fatto il Cristo Gesù: non dobbiamo soltanto credere alle sue parole, ma nella divinità della sua missione, al valore infinito dei suoi meriti e della sua soddisfazione: la nostra fede deve abbracciare tutto il Cristo. Quando è ancora viva ed ardente, ci fa cadere ai piedi di Gesù per compiere tutti i suoi voleri; ci stringe a lui per non più abbandonarlo: è la fede perfetta, che si espande nella speranza e nell’amore.

Per essere cristiani bisogna averla cotesta fede in Gesù Cristo; non si può portar questo nome se non si preferisce la parola, la volontà e i comandamenti di Cristo alle nostre proprie idee, ai nostri vantaggi personali. Il monaco la possiede certamente; ma in lui essa è più feconda: gli fa anche abbandonare il mondo per unirsi a Gesù Cristo. Perchè siamo noi usciti dal mondo? Perchè abbiamo creduto alla parola di Cristo: «Vieni, seguimi, e sarai perfetto» (Mt 19,21). E noi abbiamo risposto al Signore: «Tu mi chiami? Eccomi. Ho In te fede così grande, sono così persuaso che sei la via, la verità, la vita, così convinto che troverò tutto In te, che voglio aderire a te solo. Tu sei così potente da sollevarmi al tuo Padre che è nei cieli; coi tuoi meriti infiniti e con la tua grazia mi puoi rendere simile a te afflnchè sia gradito al Padre; mi puoi far raggiungere la perfezione più alta e la suprema beatitudine; e perchè lo credo fermamente e ho fiducia in te che sei il bene infinito, senza del quale tutto è vano e sterile, mi voglio stringere a te solo, e abbandonar tutto per servirti. — Ecce nos reliquimus omnia et secuti sumus te» (Ib 27).

È questo un atto di fede pura nell’onnipotenza e bontà infinita di Gesù Cristo.

Questo atto di fede è appunto, dice S. Giovanni, una vittoria sul mondo «Haec est victoria quae vincit mundum, fides nostra». E subito soggiunge che è la fede che noi abbiamo nel Cristo, Figlio del Dio vivo; «Quis est qui vincit mundum, nisi, qui credit quoniam Jesus est Filius Dei?» (1Gv 5,4.5). Meditiamo un poco coteste parole, importantissime per l’anima nostra.

Che significa «vincere mundum», vincere il mondo? Il mondo qui indica non i cristiani, fedeli discepoli di Gesù Cristo, obbligati dalla loro posizione a viverci; ma coloro per i quali esiste solo la vita naturale; e che restringono ogni loro desiderio, ogni loro gioia alla vita di quaggiù. Questo mondo ha principi, massime e pregiudizi ispirati, come dice S. Giovanni, dalla concupiscenza degli occhi, dalla concupiscenza della carne, dall’orgoglio della vita (1Gv 2,16). È questo il mondo per cui il Divin Salvatore non prega (Gv 17,9); e perchè? Perché tra Gesù e il mondo c’è assoluto divario: questi respinge le massime del Vangelo; la croce è per lui scandalo e follia.

Il mondo ci presenta ricchezze, onori, piaceri; egli adulava in noi l’uomo naturale e ci attirava con le sue lusinghe; ma noi, seguendo il Cristo e aderendo solo a lui, lo respingemmo; superammo ogni sua offerta o promessa per il cuore o per il corpo, e ci mostrammo insensibili alle sue attrattive. È la vittoria sul mondo.

Chi ha dato il trionfo? La fede in Gesù Cristo. Ci siamo offerti a lui perché crediamo che egli è Figlio di Dio, e quindi è perfezione e beatitudine suprema. Osservate il giovane ricco, che si presenta a Dio e vuole essere suo discepolo: domanda che cosa deve fare per ottener la vita eterna; e Nostro Signore, che al subito vederlo lo amò, «intuitus eum dilexit eum» (Mc 10,21), gli suggerisce prima l’osservanza dei Comandamenti. «Li ho custoditi fin dall’adolescenza — risponde il giovane» (Ib 20). Allora il Maestro si eleva al consiglio: «Se vuoi essere perfetto, va, vendi, ciò che hai, dallo ai poveri; e vieni, seguimi» (Mt 19,21). Ma, dice il Vangelo, quel giovane, dopo simili parole, se ne andò molto triste (Ib 22), e non seguì il Divin Salvatore. Perché si ritirò egli? Perchè aveva grandi ricchezze; il mondo lo teneva avvinto coi suoi beni; e poichè non ha creduto che il Cristo sia il tesoro infinito, non potè vincere il mondo. Ma a noi il Cristo Gesù ha dato la luce della fede; è la vocazione; e in questa luce, la quale ci mostrava la vanità del mondo, le cui gioie sono vuote, le opere sterili, e ci rivelava che cosa sia la perfezione, l’imitazione di Cristo, noi abbiamo vinto il mondo «Haec est victoria quae vincit mundum, fides nostra». Vittoria fortunata, che ci svincola dalla dura servitù per darci la libertà dei figli di Dio; affine di poterci unire pienamente a colui che solo merita il nostro amore!

 

II. Quanto sia preziosa cotesta vittoria e di quale vita sia il preludio

Ciò che rende tanto preziosa cotesta vittoria è la sua speciale natura di dono insigne a noi fatto dal Cristo: lo pagò col suo sangue. Diceva egli ai suoi discepoli negli ultimi momenti della sua vita: «Confidate; io ho vinto il mondo» (Gv 16,33). Come lo ha vinto? col danaro? con l’appariscenza delle azioni esteriori? No; giacchè per il mondo Gesù non era altro che il figlio del fabbro di Nazareth: fabri filius. Visse umile per tutta la sua vita: nacque in una stalla, lavorò in una officina; durante le corse apostoliche non ebbe luogo in cui posare il capo; e i sapienti del mondo alzano le spalle al solo pensiero che si possa trionfare con la povertà e la rinuncia. Gesù vinse il mondo forse coll’immediato buon successo nelle cose temporali? o con altri vantaggi naturali che fanno colpo e portano al dominio? No davvero; fu beffato e crocifisso. Agli occhi dei savii d’allora, la sua missione finì male, con la croce; i suoi discepoli sono dispersi, la folla scuote il capo; i Farisel sogghignano: «Ha salvato gli altri e non può salvar se stesso; scenda dalla croce, e allora — ma allora soltanto — gli crederemo» (Mt 27,42).

Ma lo scacco era solo apparente; e allora appunto Gesù riportava la vittoria. Agli occhi del mondo, per chi guarda secondo la natura, Gesù era un vinto; ma agli occhi di Dio egli era proprio allora il vincitore del principe delle tenebre e del mondo: «Abbiate fiducia: io ho vinto il mondo. — Confidite; ego vici mundum». E da quell’ora il Cristo Gesù è stato costituito dal Padre come re delle nazioni (Sal 2,6); non v’è sulla terra altro nome nel quale possiamo trovar salvezza e grazia (Atti 4,12; Sal 109,1) e i suoi nemici gli faranno da sgabello ai piedi (Eb 1,13; 10,13).

Gesù dà ai suoi discepoli il potere di vincere in egual maniera il mondo; e come li rende partecipi della vittoria? Con l’adottarli a figli di Dio nella fede. Questo profondo insegnamento di San Giovanni va chiarito meglio.

Dio è l’essere per eccellenza, la vita; egli conosce se stesso; s’intende con pienezza, ed esprime con parola infinita, tutto ciò che è: cotesta parola è il Verbo, che esprime tutta l’essenza divina, non solo considerata in se stessa, ma in quanto può essere esternamente imitata. Nel Verbo, Dio contempla l’esemplare di ogni creatura, anche di quelle possibili; nel Verbo è tutta la vita. «In principio era il Verbo e il Verbo era Dio; senza di lui nulla è stato fatto, e ciò che è stato fatto era vita in lui... — In principio erat Verbum... et Deus erat Verbum... Sine ipso factum est nihil; quod factum est in ipso vita erat» (Gv 1,1-4).

La vita naturale ha l’origine prima dal Verbo, ma ci viene immediatamente dai genitori. Però voi sapete che noi siamo chiamati a uno stato superiore, partecipando alla vita stessa di Dio e alla sua natura: «Efficiamini divinae consortes naturae» (2Pt 1,4); e cotesta vocazione a un’infinita beatitudine è opera d’amore per eccellenza, la quale corona, — e in un senso profondo spiega — tutto il resto. La vita naturale viene dalle mani divine: «Manus tuae fecerunt me et plasmaverunt me totum in circuitu» (Gb 10,8; Sal 118,73); ma la vita soprannaturale sgorga dal suo Cuore. Vedete, diceva S. Giovanni, quale amore il Padre ci ha dimostrato, facendo sì che possiamo chiamarci figli di Dio ed essere veramente tali: «Videte qualem caritatem dedit nobis Pater, ut filii Dei nominemur et simus (1Gv 3,1). Cotesta vita divina non distrugge la natura in ciò che ha per sè e che è un bene; ma la innalza e la trasfigura, rendendola capace di far di più, conferendole altri diritti e altri bisogni.

La sorgente di questa vita divina è ancora nel Verbo; da lui si effonde; in lui Iddio ci vede, non quali semplici creature, ma in istato di grazia. Ogni predestinato rappresenta un’idea eterna di Dio: «Volontariamente egli ci generò nella sua parola di verità. — Voluntarie enim genuit nos verbo veritatis» (Gc 1,18); il Cristo, Verbo Incarnato, è l’immagine a cui dobbiamo conformarci in quanto figli di Dio: «Praedestinavit [nos] conformes fieri imaginis Filii sui» (Rm 7,29). Egli è Figlio di Dio per natura; noi, per grazia; ma la stessa vita divina inonda l’umanità di Cristo e le anime nostre; figlio unico, nato da Dio nei santi splendori di una generazione eterna e ineffabile, il Cristo è Figlio di Dio vivo, perchè possiede in sè la vita; e, anzi, la vita stessa: «Ego sum vita» (Gv 16,6); e s’incarna per comunicarla a noi: «Ego veni ut vitam habeant» (Ib 10,10).

Come potremo partecipare a cotesta vita? Ricevendo Cristo per mezzo della fede. «A tutti quelli che l’hanno accolto ha dato il potere di diventar figli di Dio, a quelli che hanno creduto nel nome suo e sono nati da Dio. — Quotquot autem receperunt eum, dedit eis potestatem filios Dei fieri, his qui credunt in nomine ejus... qui ex Deo nati sunt» (Gv 1,12 e 13). Il nostro ingresso nella nuova vita è una vera nascita, che avviene per mezzo della fede e del battesimo, sacramento di adozione: «Renatus ex aqua et Spiritu Sancto» (Ib 3,3.5); per questo scrive S. Giovanni: «Chi crede nel Figlio di Dio, da lui è nato. — Qui credit quoniam Jesus est Christus, ex Deo natus est» (1Gv 5,1).

Ecco dunque: per nascere da Dio, per essere figli di Dio bisogna credere in Gesù Cristo e accoglierlo: la fede è il fondamento di cotesta vita soprannaturale, che ci fa partecipare in modo ineffabile alla vita divina; la fede ci introduce in quest’atmosfera soprannaturale, che gli occhi dei mondani non possono penetrare: «La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. — Vita vestra est abscondita cum Christo in Deo» (Col 3,3). E’ la sola vita vera, perchè non finisce con la morte naturale, ma fiorisce nell’eternità con una beatitudine completa.

Il mondo non vede, o meglio, non vuol vedere e conoscere altro che la vita naturale, per l’individuo e per la società; stima ed ammira solo ciò che apparisce, che brilla, che si effettua quaggiù; e giudica solo dall’esterno, secondo gli occhi della carne; si affida solo agli sforzi umani, alle virtù naturali. E’ il suo solito modo: trascura e misconosce per sistema la vita soprannaturale e si burla della perfezione che oltrepassa la ragione; e davvero i raziocini umani possono produrre solo risultati naturali; lo sforzo della natura ha per effetto una produzione dello stesso ordine naturale: «Ciò che è nato dalla carne è carne, dice S. Giovanni: — Quod natum est ex carne, caro est» (3,6); e quello che può produrre la natura sola agli occhi di Dio non ha valore. «Caro non prodest quidquam» (6,64). Un uomo che non ha la fede nè la grazia, può con lo sforzo della volontà vigorosa e perseverante acquistare una certa perfezione naturale; può diventare buono, integro, leale, giusto; ma si tratta di virtù morali umane, e sempre manchevoli, per certi lati; tra esse e la virtù soprannaturale, e la beatitudine eterna, c’è un abisso. Eppure il mondo si contenta della perfezione e della vita naturale.

La fede invece si solleva con un colpo d’ala; e trasportando l’anima più in su dell’universo intero, la innalza fino a Dio; Essa ci fa nascere da Dio, ci rende suoi figli, nel Cristo, e ci fa anche vincitori del mondo: è la dottrina mirabile di S. Giovanni nella sua Epistola: «Chi è nato da Dio trionfa sul mondo... E chi vince il mondo se non colui il quale crede il Cristo Figlio di Dio? — Omne quod natum est ex Deo vincit mundum... Quis est qui vincit mundum, nisi qui credit quoniam Jesus est Filius Dei?» (1Gv 5,4-5).

 

III. La fede è anche il principio della perfezione monastica

A cotesto destino glorioso ogni cristiano è chiamato: chi riceve il Battesimo, si svincola moralmente dal mondo, e rinnega le sue massime, i suoi principi, il suo spirito per vivere secondo il Vangelo; ma per il monaco, la liberazione e la trasformazione si compiono pienamente. La vita divina ricevuta nel battesimo con la grazia è il germe tanto della santificazione monastica quanto della vita cristiana; la nostra perfezione non è essenzialmente diversa; entrambe appartengono intrinsecamente al medesimo ordine soprannaturale; ma la perfezione religiosa costituisce lo sviluppo dell’adozione divina, in una forma di vita e in uno stato speciale. E’ figlio di Dio anche il semplice cristiano; il monaco vi aggiunge il proposito di far espandere questa grazia col maggior possibile rigoglio e con i mezzi particolarmente adatti. Il cristiano può, senza cessare di esser figlio di Dio, usare legittimamente di alcune creature; il monaco vuole per sè Dio solo; e allontana da sè o distrugge, quei beni creati che potrebbero impedire l’espansione completa della vita divina nell’anima sua. Per lui tuttavia, come per il semplice cristiano, la fede in Gesù Cristo è la porta per la quale entra nella nuova vita; fondamento e radice della giustiflcazione (Concilio di Trento, Sess. VI, c. 8).

La fede è un fondamento. Pensate a un monumento grandioso e armonioso nelle sue parti: che cosa gli dà stabilità? le fondamenta; se queste vengono scosse, subito i muri si fendono e l’edificio è in pericolo; se non si assicura, rovinerà presto. E’ immagine della vita spirituale: edificio che Dio si costruisce in noi alla sua gloria, e col nostro concorso: dimora nella quale egli vuoi abitare; se non basiamo sopra uno stabile fondamento non potremo erigerlo; e più si innalzerà, più ci vorrà profonda e incrollabile la pietra fondamentale. L’uomo spirituale può credersi giunto alla cima della perfezione; ma se la fede, base della vera carità, non si afferma nella stessa proporzione, può avvenire una catastrofe.

Il S. Concilio paragona la fede anche ad una radice. Vedete l’albero maestoso, dal vigoroso tronco, dai rami distesi, dal lussureggiante fogliame: donde viene tanta forza e bellezza? Da ciò che non si vede, dalle radici, che si sprofondano nel terreno per fissarvelo e trarre la linfa necessaria alla vita del gigante; se la radice si dissecca l’albero perisce.

Radice della vita cristiana è la fede: senza di lei tutto si dissecca e muore; è condizione indispensabile di vita e progresso spirituale.

Come per la vita cristiana, così è per la vita monastica, la quale si dispiega e si mantiene per la fede; ed è essa pure la conseguenza pratica di un atto dl fede. Perchè siamo cristiani? Perchè abbiamo detto a Gesù: «Tu sei il Cristo, Figlio di Dio vivo, che mi puoi condurre al Padre, alla vita eterna». Perchè ci siamo fatti monaci? Perchè abbiamo detto a Gesù: «Tu sei il Cristo: la via che sola conduce al Padre; sei la sorgente della vita, del bene, della perfezione, della beatitudine».

Senza la fede nel Cristo Gesù, la vita che conduciamo non ha ragione; difatti il mondo ci chiama insensati: «Vitam illorum aestimabamus insaniam» (Sap 5,4). Ma l’uomo terreno, l’uomo animale per dire come S. Paolo, non percepisce le cose divine; per lui sono pazzie, e non può conoscerle, perchè «per discernerle ci vuole lo spirito di Dio, e non lo spirito del mondo (1Cor 2,14).

Agli occhi della fede la nostra vita è la parte migliore: «Optimam partem» (Lc 10,42), serbata dal Cristo a quelli che vuole stringere maggiormente a sè; a quelli che guardano con amore speciale: «Intuitus eum, dilexit eum» (Mc 10,21). È la caparra sicura della magnifica eredità: «Haereditas preclara» (Sal 15,6); e si verifica non solo nel complesso della nostra vita, ma in ogni particolare della giornata.

All’occhio del mondo, naturalmente parlando, le mille particolarità di una vita di preghiera, di obbedienza, di umiltà, d’abnegazione, di lavoro, sembreranno meschine, grette, di nessun conto; e l’uomo che giudica secondo lo spirito secolaresco, che ci vede salmodiare in coro per tante e tante ore impiegate nella lode di Dio, alza le spalle e dice: è tempo perduto! Egli non capisce, e non può capire, perchè non ha la fede; la sua corta ragione non vede oltre l’orizzonte naturale; la fede non lo fa penetrare nei segreti di Dio, e perciò non può intendere come la nostra opera di pietà sia tra le più gradite a lui e le più feconde spiritualmente.

Altrettanto si dica di ogni articolo del codice monastico: la fede ci mostra quanto valga per la eternità; e ci fa superare i giudizi e la sapienza del mondo, follia agli occhi di Dio, insegna San Paolo (1Cor 3,19); poichè abbiamo ricevuto, continua l’Apostolo, non lo spirito del mondo, ma quello che viene da Dio, affinchè possiamo conoscere i doni che egli ci ha fatti nella sua grazia: perchè cotesto Spirito scruta la profondità stessa di Dio (Ib 2,10 e 12).

La fede, nella quale aderiamo allo Spirito, diventa per noi la «luce deifica, — deificum lumen» (Prologo Regola) che illumina e trasfigura la nostra vita, come dice il N. B. Padre; ed è per noi la vera luce divina. Come nella vita naturale Dio ci dà il lume della ragione, e l’intelligenza è la facoltà specificamente umana; così nella vita spirituale Dio ci prepara una luce adatta. Quale? Nel cielo, in cui la vita sarà perfetta, avremo il lume radioso della gloria, la visione beatifica: «Nel tuo lume vedremo la luce — In lumine tuo videbimus lumen» (Sal 35,10); quaggiù è la luce velata dalla fede. L’anima che vuol vivere la vera vita deve lasciarsi guidare da questa luce; la quale la fa partecipe del conoscimento che Dio ha di se stesso e di ogni cosa.

Nostro perfetto modello è ancora il Cristo e noi siamo predestinati a riprodurre il divino ideale. Come si attuavano le sue facoltà? Per la luce che la santa anima di lui attingeva nella visione beatifica: fin dal primo istante della sua creazione l’anima di Gesù contemplò Dio; e da questa visione sgorgava il lume speciale in cui egli vedeva ogni cosa, col quale si dirigeva nelle sue operazioni. Egli ci rivela quello che ha conosciuto; ci ripete ciò che ha inteso (Gv 3,11), fa soltanto quello che ha visto fare dal Padre, o che il Padre gli svela; e lo fa nello stesso modo, con la medesima dignità e perfezione, perchè è Figlio Unigenito, Dio da Dio, perfezione che proviene dalla perfezione (Bossuet, Méditations, 38 jour).

La luce di fede è per noi sulla terra il preludio della visione beatifica. Il figlio di Dio conosce il suo Signore e vede tutto nella luce di lui (Gv 1,18); conosce Dio. Nessuno quaggiù lo ha visto, perchè egli abita in una luce inaccessibile (1Tm 6,16); ma si è nondimeno rivelato a noi nel suo Figlio Gesù: «Illuxit in cordibus nostris... in facie Christi Jesu» (2Cor 4,6). Il figlio Unigenito, che mai non esce dal seno del Padre «in sinu Patris» (Gv 1,18) ci manifesta Dio; «Chi mi vede, vede il Padre — Qui videt me, videt et Patrem» (Gv 14,9), e se accettiamo la testimonianza del Figlio, del Verbo, conosceremo i segreti della vita divina. A questa celeste chiarezza, l’anima giudica le cose secondo il giudizio e l’apprezzamento di Dio: guarda il mondo creato con occhi naturalmente simili a quelli dei mondani; ma pure in esso vede ciò che gli altri non scoprono, il riflesso delle perfezioni del Creatore. Nelle cerimonie della Chiesa, l’anima credente non vede solo svolgimento esteriore degli atti simbolici; è l’aspetto sensibile che ognuno può constatare; ma penetra i riti e vi riconosce il divino ideale, le intenzioni della Chiesa, i reconditi misteri del culto, il divino pensiero che vi si concreta, le perfezioni di Dio che si manifestano, la gloria che a lui si dà; e l’inno del cuore amante e grato sale al Signore col fumo dell’incenso. Parimenti, sotto la scorza volgare e comune, o nell’aspetto inatteso, enigmatico, penoso dei fatti giornalieri, il figlio di Dio sa discernere l’opera amorosa della Provvidenza infallibile e materna.

Se cotesta vita di fede è ardente, conduce ad alta perfezione; com’era per Gesù, che attingeva nella visione beatifica l’unico principio di attività, che è la verità e la luce; per cui chi vive di fede è simile nell’esterno agli altri, come ogni uomo, esercita le proprie facoltà umane, ma nella luce suprema della divina verità di Cristo, che è la verità e la luce; e chi vive di cotesta verità è figlio della luce: «filius lucis» (Gv 12,36), porta frutti abbondanti dl luce, che sono, dice S. Paolo: «la bontà, la giustizia, la verità. — Fructus enim lucis est in omni bonitate et justitia et ventate» (Ef 5,9).

Ci stupiremo dunque se S. Benedetto vuole che ci guidiamo sempre col lume della fede? Ricordiamoci che il Santo Patriarca trasporta subito il monaco nell’ordine soprannaturale; vuole che teniamo giornalmente «quotidie» l’occhio fisso nella luce deificante, per riceverne continuamente le irradiazioni; vuole che tutta la vita dei suoi discepoli si radichi nella fede.

A conferma di ciò, meditate coteste poche righe ricavate dalla Regola. perchè deve il monaco obbedire all’abate? Solo perchè fa le veci di Cristo: «Abbas Christi agere vices creditur». Perchè devono i fratelli restare idealmente uniti fra loro? perchè sono una sola cosa in Cristo. Perchè gli ospiti, a qualunque ora arrivano, — e al tempo di S. Benedetto erano numerosi, «nunquam desunt», — arrivando improvvisi, devono essere ricevuti premurosamente e con gioia? Perchè in essi riceviamo il Cristo, ci prostriamo davanti a lui gettandoci ai loro piedi: «Christus in hospitibus adoretur qui et suscipitur… Omnes supervenientes hospites tamquam Christus suscipiantur» (c. 53). Perchè dobbiamo aver cura speciale dei poveri e dei pellegrini? Perchè il Cristo si discopre alla fede più specialmente nei più reietti. «Pauperum et peregrinorum maxime, susceptio omni cura sollicite exhibeatur: quia in ipsis magis Christus suscipitur» (Ib). Altrettanto dice San Benedetto per gli ammalati del monastero; raccomanda con vivissima istanza di non lasciar mancar loro nessun soccorso; e a chi si meravigliasse, perchè la vita monastica è votata all’abnegazione, si può rispondere che il comando del Santo è esplicito: «Infirmorum cura ante omnia et super omnia adhibenda est» (c. 36). Perchè tanta insistenza? Perchè la fede vede il Cristo nei suoi membri che soffrono: «Saranno serviti come se fossero Cristo stesso, perchè egli ha detto: Ero ammalato, e voi mi avete visitato. — Ut sicut revera Christo ita ei serviatur, quia ipse dixit: infirmus fui et visitastis me» (Ib, Mt 15,36).

Questa fede, questo sguardo soprannaturale, vuole S. Benedetto si estenda anche ad ogni atto della vita monastica: sia in coro, o serva alla mensa, o si trovi in viaggio, sempre il monaco deve essere immerso in cotesta luce di fede. Il grande Legislatore enumera accuratamente le doti naturali che richiede nei superiori; ma prima di tutto vuole che siano uomini timorati di Dio; (c. 31 e 53) e il maestro dei novizi deve essere prima di tutto «capace di guadagnare le anime» (c. 58). Anche le cose materiali sono abbellite dal lume di fede. Il monastero è la casa di Dio: domus Dei (c. 31); quindi S. Benedetto vuole che si considerino i mobili e tutti gli utensili come vasi sacri dell’altare: «Omnia vasa monasterii cunctamque substantiam, ac si altaris vasa sacrata conspiciat» (Ib). I mondani direbbero che la raccomandazione è ingenua e meschina; ma il santo Legislatore non la pensa così; perchè la sua fede era vivissima; ed aveva compreso che le azioni valgono agli occhi di Dio soltanto per la fede che le investe [1].

 

IV. Ne proviene grande stabilità della vita interiore

In cotesta atmosfera soprannaturale vuole San Benedetto che viva e respiri il monaco; come S. Paolo ai cristiani, così egli dice ai monaci di viver di fede; «Justus ex fide vivit» (Eb 10,38). Il giusto, ossia colui che nel Battesimo è rinato nella giustizia, vive, come tale, di fede e di luce, ricevute nel sacramento d’illuminazione; e più vive di fede, più gode la vera vita soprannaturale, verificando in sè la perfezione dell’adozione divina. Notate bene quest’espressione: ex fide. Che cosa significa precisamente? Che la fede deve esser la radice di ogni nostro atto, di tutta la nostra vita. Ci sono anime che vivono «con fede: cum fide»; hanno la fede, e innegabilmente la praticano; ma se ne ricordano efficacemente soltanto in certe occasioni; per esempio, alla Messa, alla Comunione, all’Ufficio divino; perchè in queste azioni essa viene eccitata, essendo di per se stesse dirette a Dio, soprannaturali.

Ma si direbbe che queste anime se ne contentano; e finiti gli esercizi, entrano in un’altra atmosfera, nella vita puramente naturale. Se l’obbedienza comanda loro un atto penoso, mormorano; se un confratello ha bisogno d’aiuto, non se ne accorgono; stuzzicate, impermaliscono. Sono in questi momenti illuminate dalla fede? Ad ogni modo, non ne vivono; in teoria conoscono che l’abate fa le veci di Cristo, che il Cristo vive in ciascuno dei nostri fratelli, che dobbiamo dimenticare noi stessi per imitare Gesù obbediente; ma in pratica, è come se queste verità per loro non valessero, perchè sono senza influsso sulla vita, ed essi non agiscono in virtù della fede che hanno; la adoperano in certe circostanze, ma poi ridiventano puramente naturali e pare che abbiano per un certo tempo messo la fede in disparte. La vita naturale prepondera, ridiventa dominatrice; e questo non è certo un viver di fede: ex fide vivere.

Una vita simile, così poco omogenea non può essere stabile nè ferma; è alla mercè delle impressioni, degli impulsi del temperamento e dell’amore, della salute cagionevole, delle tentazioni: e cambia ogni giorno, secondo la capricciosa bussola che la guida.

Quando invece la fede è vivace, forte, ardente, e noi viviamo in lei, quando ci guidiamo sempre coi principi di fede, che è la radice di ogni nostra azione, il principio interiore di ogni nostra attività; allora diventiamo forti e stabili, anche nelle difficoltà esteriori ed interiori, nelle oscurità, contraddizioni, tentazioni. E perchè? Perchè giudichiamo tutte le cose come Dio le vede, le giudica, le stima; partecipiamo all’infallibilità, all’immutabilità, alla stabilità divina.

È ciò che disse Nostro Signore: «Chi ascolta le mie parole e le mette in pratica — ossia, vive di fede — sarà come l’uomo savio, che fabbricò la casa sulla pietra. Cadde la pioggia, si gonfiarono i torrenti, i venti si scatenarono contro d essa, ma non poterono rovesciarla». E aggiunse subito Gesù: «perchè era fondata sulla pietra» (Mt 7,25).

Noi lo proviamo quando abbiamo fede viva e profonda. Viviamo allora di vita soprannaturale; entriamo nella famiglia di Dio, apparteniamo alla sua casa divina, «della quale Cristo, dice San Paolo, è la pietra angolare. Ipso summo angulari lapide Christo Jesu» (Ef 2,20). Per la fede ci stringiamo a lui, e l’edificio della nostra vita soprannaturale diventa per lui fermo e stabile; il Cristo ci rende partecipi della fermezza che è propria della roccia divina, contro la quale non prevarranno le furie infernali: «Portae inferi non praevalebunt» (Mt 16,18). Così divinamente sostenuti, vinciamo gli assalti e le tentazioni del mondo e del demonio, principe del mondo: «Haec est victoria quae vincit mundum, fides nostra» (1Gv 5,4). Il diavolo, e il mondo di cui si serve come complice, ci violentano o ci sollecitano; ma noi vinciamo i loro assalti per la fede nella parola di Gesù.

Avrete osservato che il demonio insinua sempre il contrario di quello che Dio afferma; e ne fecero la triste esperienza i nostri progenitori: «Il giorno in cui mangerete il frutto proibito, morrete» (Gn 2,17); ecco la parola divina. Il demonio impudentemente dice il contrario: «Non morrete - Nequaquam morte moriemini» (Ib 4). Quando noi prestiamo l’orecchio al demonio, di lui ci fidiamo e mostriamo di avere fede in lui, non in Dio; ma il demonio è «padre di menzogna e principe delle tenebre» (Ef 6,12); mentre Dio è la verità (Gv 14,6); è la luce senza tenebre (1Gv 1,5); se ascoltiamo lui, vinceremo sempre. Che fece nella tentazione Nostro Signore, che è modello per noi in ogni cosa? Ad ogni invito del maligno oppose l’autorità della divina parola; dobbiamo far lo stesso, e respingere gli assalti dell’inferno con la fede nella parola di Gesù. Il demonio ci dice: «Come mai il Cristo può essere presente sotto le specie del pane e del vino?». Rispondiamogli: «Il Signore ha detto: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue (Mt 26,26 e 28); egli è la verità, e questo mi basta». Il demonio ci suggerisce di vendicare le ingiurie, gli affronti; rispondiamogli: Il Cristo ha detto che ciò che faremo al minimo dei nostri fratelli lo faremo a lui (Ib 25,40); dunque se volontariamente dimostro ai miei fratelli un sentimento di freddezza, o lo serbo in cuore, offendo Gesù».

Altrettanto si dica del mondo: lo vinceremo con la fede; perchè quando si crede fermamente in Cristo, non si temono le difficoltà, nè le contraddizioni; nè i giudizi del mondo; il Cristo abita in noi per la fede e ci appoggiamo sopra di lui. Gesù lo assicurava esplicitamente a S. Caterina, quando la mandava attorno per il bene della Chiesa, e per ricondurre il Sommo Pontefice da Avignone a Roma. La Santa, nella sua dolcezza e umiltà temeva una missione che portava seco gravissime difficoltà; ma Gesù le disse: «Poichè hai la forza della fede, tu trionferai felicemente di ogni avversario» (Vita scritta dal B. Raimondo). Nel suo Dialogo, Caterina parla della fede con santo entusiasmo: «Nel lume della fede, dice rivolgendosi al Padre, acquisto quella sapienza che si trova nella sapienza del Verbo, tuo Figlio; nel lume della fede divengo più forte, più costante, più perseverante; nel lume della fede io trovo la speranza che tu non mi lascerai mai venir meno nel cammino. Cotesta luce m’insegna la via per cui debbo passare; senza di essa camminerei nelle tenebre; ed ecco perchè, Padre santo, ti ho domandato d’illuminarmi col lume della santissima fede».

 

V. Come si esercita la virtù della fede e di quali gioie essa è sorgente

Domandiamo noi pure al Padre, al Cristo Gesù, suo Verbo, questa luce della fede. Noi abbiamo avuto il germe nel battesimo; dobbiamo conservarlo, svilupparlo; e come potremo noi cooperare con Dio su questo punto?

Egli vuole anzitutto che preghiamo. La fede è un dono di Dio; lo spirito di fede viene dal suo spirito. «Signore, aumenta in noi la fede. — Adauge nobis fidem» (Lc 17,5). Diciamo spesso a Gesù, come nel Vangelo il padre del povero lunatico: «Credo, Signore, ma aumenta la mia fede; ma aiuta la mia incredulità. — Adjuva incredulitatem meam» (Mc 9,23). Dio solo può, come causa efficiente, aumentare in noi la fede, ma dobbiamo meritare l’accrescimento con le preghiere e le buone opere.

Ottenuta la fede, abbiamo il dovere di esercitarla. Dio al battesimo ce ne conferisce l’habitus; è una forza, una potenza; quest’energia non deve restar inattiva, quest’abitudine non si deve irrigidire, ma fortificarsi sempre più con atti corrispondenti. Non lasciamo la fede sonnecchiare in noi; rinnoviamone spesso gli atti, non solo durante gli esercizi di pietà, ma eziandio, come vuole il santo Patriarca, in ogni momento della vita: quotidie, poichè dobbiamo sempre camminare nella sua luce.

Per S. Benedetto, come avrete notato, la fede è sempre pratica, non si separa mai dalle opere; egli vuole che abbiamo succinti i lombi con la fede e le buone operazioni (Prologo), e non promette gioia e beatitudine se non facciamo progresso tanto nell’operare quanto nel credere: «Processu vero conversationis et fidei» (Ib). Guardiamo ogni cosa con l’occhio della fede soprannaturale, che è il solo vero; e facciamo in modo che l’operare vi corrisponda, compiendo ogni azione in questa luce. Allora, potremmo dire che la fede si traduce nell’amore, diventando logicamente e praticamente perfetta, perchè l’anima per amore ne adempie le opere.

Così armati spiritualmente, eviteremo il formalismo, che è un grande nemico della vita regolare, e l’ardore della fede animerà ogni nostro menomo atto. Con questo la nostra vita sarà luminosa e lieta; ogni piccolo particolare della giornata sarà per noi una perla preziosa, e la vorremo acquistare per il tesoro del cielo. Più avanzeremo nella fede, più essa diventerà ardente, ferma, attiva, più l’anima nostra sarà inondata di gioia; procederemo di chiarezza in chiarezza, la speranza si farà sempre più vasta e ferma, l’amore più fervente ci renderà facile il cammino; e noi correremo nella via dei comandamenti del Signore. Ce ne assicura il grande Patriarca perchè ne aveva fatto esperienza. Ascoltiamo che cosa dice alla fine del Prologo dopo averci indicato lo scopo da raggiungere e mostrata la via: «Poi per uso di buona operazione e di fede, con dilatato cuore, per dolcezza d’amore che non si può esprimere, si corre per la via dei comandamenti di Dio. — Processu vero conversationis .et fidei, dilatato corde, inenarrabili dilectionis dulcedine, curritur via mandatorum Dei». S. Benedetto non ci dice che il monaco sarà lieto solo in certi momenti, ma gli promette la dilatazione del cuore nella gioia. Nel cielo godremo poi il possesso sicuro, perfetto, inammissibile del bene supremo e immutabile, nel pieno lume di gloria; quaggiù troveremo la gioia nel possesso iniziato da Dio, nell’unione a lui anticipata; possesso e unione tanto più intime quanto più saremo immersi nella luce della fede.

Abbiamo bisogno di cotesta gioia; Dio stesso ha formato il nostro cuore, e l’ha fatto tale che gli è necessaria l’allegrezza. Ci sono anime che vivono assorte nella speranza delle gioie eterne, ma sono poche privilegiate; e noi, che abbiamo lasciato tutto per seguire il Cristo, non possiamo mendicare la gioia dalle creature; dobbiamo aspettarla solo da Cristo. «Quid ergo erit nobis?» (Mt 19,27). Che cosa avremo? Il centuplo, che egli ci promette fin d’ora; e la gioia è compresa; gioia alimentata dalla fede, la quale ci mostra la grandezza e la beltà della vita soprannaturale a cui Dio ci ha chiamati. «Son io la vostra ricompensa magnifica — Ego merces tua magna nimis» (Gn 15,1). Ci mostra l’elevatezza e la sublimità della vocazione monastica, che ci fa vivere nella famiglia di Cristo; poichè per amore l’abbiamo preferito a tutto, come dice S. Benedetto.

La fede ci dà gioia anche perchè è sorgente di verità e di speranza; è il pegno dei beni promessi e già ce ne dà il possesso: «Sperandarum substantia rerum» (Eb 11,1). Essa ci rende come tangibili fin d’ora le realtà soprasensibili, le sole che durino eternamente.

Viviamo dunque di fede, quanto ci è possibile con la grazia di Cristo; tutta la nostra esistenza ne sia investita profondamente, e in ogni minimo atto, come vuole il nostro santo Patriarca. Allora non saremo feriti dalle tentazioni, il nostro edificio sarà fissato sulla roccia della stabilità divina, e vinceremo ogni assalto del mondo e del demonio; liberati dai nostri nemici, vivremo nella luce della mente e nella gioia del cuore. Quando Nostro Signore nell’ultima Cena rivelava ai discepoli i secreti divini che egli solo possedeva — poichè: «Nessun conosce il Padre tranne il Figlio, e colui a cui egli si compiace rivelarlo — Neque Patrem quis novit nisi Filius, et cui voluerit Filius rivelare» (Mt 11,25; Lc 10,22) — quale era l’intimo significato e lo scopo delle infallibili rivelazioni di Dio ai suoi figli? Colmarli di gaudio con la sua stessa gioia divina: «Vi ho detto coteste cose affinchè sia in voi la mia gioia, e sia gioia perfetta - Haec locutus sum vobis ut gaudium meum in vobis sit, et gaudium vestrum impleatur» (Gv 15,11).

 

NOTA

[1] La fede, o meglio ciò che noi chiamiamo spirito di fede, spirito soprannaturale, appare nella Regola in mille modi; che sono al fedele commoventi ed edificanti, ma paradossali e anche ridicoli agli occhi del mondano: il mihi fecistis del Vangelo è spinto alle ultime conseguenze (D. M. Festugière, La liturgie catholique, p. 95).

 

 


 

Capitolo 6

LA PROFESSIONE MONASTICA

 

SOMMARIO: Per divenire monaci, bisogna essere incorporati alla società monastica con la professione religiosa. — I. La professione monastica è una oblazione, e Gesù Cristo ne è modello. — II. Ha natura di olocausto. — III. Bisogna unirla all’oblazione che il Cristo fece di sé. — IV. Benedizioni accordate da Dio a chi fa voti religiosi. — V. È necessario mantenere costantemente le promesse giurate.

 

Per attingere la vita cristiana alla sua autentica sorgente, per essere discepoli di Cristo, bisogna appartenere non solo all’anima ma al corpo della Chiesa, e diventare membri del suo organismo visibile. Cotesta incorporazione si fa mediante la professione di fede e col Battesimo, sacramento dell’iniziazione cristiana; si mantiene col ricevere gli altri sacramenti, col partecipare al culto, con l’obbedire ai capi stabiliti dal Cristo.

Altrettanto succede al monaco, nella vita religiosa. Per essere veramente tale gli basterà avere lo spirito del grande Patriarca? No; deve anche aggregarsi all’organismo visibile da lui fondato; deve essere ricevuto e incorporato nella società monastica; e lo chiede il postulante nel ricevere il santo abito: «Vestram confraternitatem» (Rituale della vestizione); ma si compie nel giorno della professione. La fede l’ha condotto al chiostro; l’amore ve lo stabilisce con impegno solenne quando diventa professo.

Ciò che è il battesimo per la vita cristiana è la professione per la vita religiosa; non è un sacramento, no; ma ha conseguenze analoghe a quelle del battesimo. Questo inserisce il neofita nella famiglia di Dio e lo fa cristiano, discepolo di Cristo; la professione, con l’emissione dei voti, inserisce il novizio nella famiglia monastica e lo consacra, per così dire, al divino servizio, afflnchè diventi perfetto discepolo del Cristo Gesù [1].

Analizziamo dunque il significato della professione monastica; vedremo che essa è un’immolazione di tutto se stesso, graditissima a Dio, se è fatta per amore; e diventa allora per chi la compie un principio di vita perfetta, una sorgente inesauribile di spirituali benedizioni.

 

I. La professione monastica è una oblazione, e Gesù Cristo ne è modello.

E’ cosa ormai chiara per noi che nella perfezione dobbiamo mirare a Gesù Cristo, non solo come modello, ma come sorgente di santità.

Quando Nostro Signore chiama a sè i discepoli, li invita a lasciar tutto per seguirlo e imitarlo; ed essi lo fanno; «Abbandonata ogni cosa, lo seguirono. — Relictis omnibus, secuti sunt eum» (Lc 10,11).

Non possiamo, come egli dice, diventare suoi veri e perfetti discepoli, capaci di aver parte alla gloria del suo regno, se non abbandoniamo tutto per darci a lui, e perseveriamo senza voltarci indietro: «Nemo, mittens manum suam ad aratrum, et respiciens retro, aptus est regno Dei» (Ivi 9,62).

Ma noi siamo, per natura, deboli e incostanti; per cui S. Benedetto vuole che colui il quale viene al monastero per ritornare a Dio seguendo Cristo, sia dapprima provato per un anno, onde assicurarsi che veramente cerca Dio: «Si revera Deum quaerit» (c. 58). Tutti gli Ordini religiosi fondati nel Medio Evo adottarono l’anno di probazione; e il Concilio di Trento lo fissò come durata del Noviziato canonico. Se Il postulante persevera durante questo tempo nel suo proposito, lo sanzionerà in modo irrevocabile con una promessa a Dio: promessa di stabilità nella conversione dei costumi e nell’obbedienza: è la professione; dopo la quale il monaco diventa in modo definitivo membro della comunità: «Et jam ex illa hora in congregatione reputetur».

Voi sapete come il santo Legislatore abbia reso solenne quest’atto: vuole che la formula venga scritta, e sia letta ad alta voce nell’Oratorio, davanti a tutti i membri del monastero; che sia fatta a nome dei Santi, le reliquie dei quali sono ivi: «Ad nomen sanctorum quorum reliquiae ibi sunt». Fatta pubblicamente l’oblazione, il monaco s’inginocchierà ai piedi di tutti, affinchè preghino per lui: «Tunc prosternatur singulorum pedibus, ut orent pro eo».

La promessa è anche una preghiera, una petizione: il novizio chiede di essere ricevuto, implora dai fratelli di ottenergli l’aiuto divino, e a Dio egli domanda che la accetti e non sia resa vana la sua attesa.

Le parole: voto e giuramento indicano ciò che fa la volontà umana, causa seconda nella professione monastica; ma S. Benedetto le considera invece essenzialmente come atto di cooperazione tra la volontà divina e umana.

Notiamo un particolare: il Santo unisce la professione al sacrificio dell’altare: dopo aver letta e firmata la petizione, il novizio di sua propria mano la pone sull’altare: «Et manu sua eam super altare ponat»; come per associare la prova tangibile e autentica della sua promessa ai doni che si offrono a Dio in sacrificio.

Il monaco dunque unisce l’immolazione sua a quella di Cristo; e questo vuole il Beato Padre; lo ripete e chiarisce nel capitolo in cui tratta dei ragazzi e come saranno ricevuti: i genitori debbono avvolgere la mano del figlio, con la domanda scritta, nella tovaglia dell’altare (c. 59).

Infatti la professione monastica è un’oblazione, il cui valore deriva dall’essere unita a quella di Cristo. Ma lo stesso sacrificio della Messa attinge il proprio valore da quello della Croce, che si rinnova e riproduce sull’altare: conosceremo dunque le qualità indispensabili all’offerta che facciamo di noi stessi nella professione, studiando come esemplare l’immolazione di Gesù sulla croce. Ci offre tre caratteristiche: - è un olocausto degno di Dio - è completo - è offerto con amore. Anche la nostra professione deve avere queste tre doti.

E dapprima, l’olocausto è degno di Dio: San Paolo ci dice che nell’istante in cui Cristo entrò nel mondo con l’incarnazione, primo suo atto fu considerare le ostie che nel passato si erano offerte a Dio, sotto l’antica legge; e conoscendo la infinita perfezione del Padre, non le trovò degne di lui: «Cotesti sacrifici non ti sono piaciuti. - Holocautomata non tibi placuerunt» (Eb 10,6). Ha conosciuto invece che il suo corpo dev’essere la ostia vera del sacrificio degno di Dio: «Tu mi hai, o Dio, preparato un corpo. - Corpus autem aptasti mihi» (Ivi, 5). Perchè mai sarà l’oblazione di cotesto corpo il solo sacrificio accetto al Padre? Prima di tutto, perchè la vittima è pura e senza macchia; inoltre, perchè il sacerdote che l’offre è santo, innocente, segregato dai peccatori (Ivi,7,26); e il sacerdote e la vittima s’identificano nella persona del Figlio diletto (Col 1,13). Tutto quello che fa Gesù è gradito al Padre, perchè egli compie sempre il suo beneplacito: «Quae placita sunt ei facio semper» (Gv 8,29) tanto più gli è dunque accetto il sacrificio che fa di se stesso.

La pienezza dell’offerta ne aumenta il valore; infatti essa è un olocausto. Non la dobbiamo considerare solo nel periodo della passione; perchè Gesù si fa ostia fin dall’Incarnazione e come tale s’immola; al suo entrare nel mondo, ha veduto quante ignominie, umiliazioni, abbassamenti e torture doveva sopportare, dal presepio alla croce; ha tutto accolto pienamente ha detto al Padre: «Eccomi! Ecce venio! L’offerta iniziale con la quale immolava tutto se stesso, conteneva virtualmente il sacrificio totale; l’immolazione era già principiata, e la sua vita di sofferenze ne fu la continuazione. Il consummatum est di Gesù in croce, prima dell’ultimo sospiro, ha senso attuale e retrospettivo; è l’eco suprema della prima parola: Ecce venio.

Unico è il sacrificio di Nostro Signore, e perfetto in tutta la sua durata; perfetto nella sua pienezza; perché sempre offre tutto quanto se stesso: «Semetipsum obtulit» (Eb 9,14); e si offre fino a versare l’ultima goccia del proprio sangue, adempiendo tutte le profezie, e ogni volere del Padre suo. Non ci può essere olocausto più perfetto; e l’oblazione che Gesù ha fatto una volta in sè basta per santificarci: «In qua voluntate sanctiflcati sumus per oblationem corporis Jesu Christi 5EMEL» (Ivi 10,10; e quest’unica offerta ottiene per sempre la perfezione a coloro che sono santificati: «Una enim oblatione consummavit in sempiternum sanctificatos» (Ivi 14).

Ma quest’olocausto è reso infinitamente più gradito a Dio perchè offerto con amore perfetto. Quale motivo interiore spinse l’anima di Cristo ad abbracciare la volontà del Padre, per conoscere, con la sua oblazione ed immolazione, le di lui infinite perfezioni e i suoi diritti supremi? L’amore. «Eccomi, o Padre; in capo al libro è scritto di me che farò la tua volontà; ed io lo volli, e la tua legge è nel mezzo del mio cuore. — In capite libri scriptum est de me: ut faciam voluntatem tuam; Deus meus volui, et legem tuam in medio cordis mei» (Sal 39,8-9). Gesù custodisce la volontà del Padre con tutto il suo cuore, ossia, egli si offre tutto quanto al divin beneplacito perchè ama. Il nostro Divin Salvatore lo dà a conoscere chiaramente quando è giunta l’ora di consumare sulla croce il sacrificio principiato nell’incarnazione. Muore per amore dei fratelli: «Non v’è prova maggiore di affetto che il dar la vita per gli amici. — Majorem hac dilectionem nemo habet ut animam suam ponat quis pro amicis suis» (Gv 15,13); ma la carità fraterna è in lui totalmente subordinata all’amore del Padre, allo zelo per la sua gloria e per gli interessi suoi; ed egli vuole che cotesto amore sia noto al mondo intero quale supremo ispiratore della sua condotta «Ut cognoscat mundus quia diligo Patrem... sic facio» (Ivi 14,31).

 

II. Ha natura di olocausto.

Lo stesso carattere noi troviamo nel sacrificio della Messa.

Nostro Signore volle che l’immolazione dell’altare rinnovasse l’immolazione della croce e ne applicasse i frutti a tutte le anime: lo stesso Cristo si offre al Padre come profumo soave: «cum odore suavitatis» (Ordinario della Messa); e quest’oblazione incruenta gli è tanto gradita quanto il sacrificio del Calvario. Gesù vi è ostia, come sulla croce; come quando scese dal cielo in terra, ogni giorno sull’altare egli ridiscende come vittima, per rinnovare la sua oblazione e la sua immolazione per noi. Vuole che noi l’offriamo al Padre; ma ci spinge anche incessantemente ad offrirci noi pure, in unione con lui; per essere noi pure accetti; e affinchè, dopo aver avuto parte quaggiù al sacrificio, partecipiamo alla gloria eterna.

E di nuovo Gesù è nostro modello; modello di chi vuole seguirlo, di chi è divenuto suo membro: se egli, il capo, si è offerto a Dio, potremo noi fare in altro modo? Già come creature vi saremmo obbligate perchè ha dominio supremo su di noi: la terra e tutto ciò che contiene, l’universo con tutti i suoi abitanti, al Signore appartengono: «Domini est terra et plenitudo eius; orbis terrarum et universi qui habitant in eo» (Sal 23); con l’adorazione e la sommissione dell’atto d’offerta noi dobbiamo accettare la divina volontà, riconoscere la sua suprema perfezione e la nostra dipendenza assoluta.

Ma come membri di Gesù Cristo dobbiamo imitare il nostro capo. Per questo motivo S. Paolo, desideroso che i cristiani restino uniti a Cristo, diceva loro: «Vi supplico, o fratelli, per la misericordia di Dio, — ossia per la bontà infinita che Dio vi ha dimostrato — di offrirvi come ostia viva, santa, accetta a Dio, in sacrificio spirituale. — Obsecro vos, fratres, per misericordiam Dei, ut exhibeatis corpora vestra hostiam viventem, sanctam, Deo placentem, rationabile obsequium vestram» (Rm 12,1). Coteste parole devono valere tanto più per coloro che si offrono a Dio nella professione religiosa; perchè essa pure, come l’immolazione del Cristo, è un olocausto.

I cristiani nel secolo gli offrono pure sacrifici; e a tutti è necessaria l’abnegazione, l’immolazione di se stessi, per obbedire costantemente ai comandamenti di Dio; ma per loro l’immolazione ha certi limiti; il semplice cristiano può offrire a Dio i suoi beni, ma conserva il libero uso della propria persona; deve amare Dio, ma può accordare alle creature una parte legittima del suo amore. Invece chi si dà a Dio con la professione religiosa, rinuncia a tutto; viene a Dio con quanto possiede e quanto è: Vengo: Ecce venio e tutto offre a lui, senza riserve: si fa vittima; si immola in olocausto. Con la professione noi diciamo: «Mio Dio, per natura io avrei la capacità di possedere; ma rinuncio ai beni della terra per avere te solo; potrei amare le creature; ma voglio amare solo te; potrei esser libero di me; invece ti offro la mia libertà». Non solo noi abbandoniamo i beni esteriori e rinunciamo al diritto di farci una famiglia; ma rinunciamo alla cosa a noi più cara, la libertà; e col cedere cotesta rocca diamo tutto noi stessi, la radice di ogni attività; non ci resta davvero più nulla; da quel giorno non abbiamo nemmeno più la libera disposizione del nostro corpo, come dice il Beato Padre: «Ex illo die nec proprii corporis potestatem se habiturum sciat» (Regola c. 58). Noi diamo tutto con lieta e amorosa semplicità: «Domine, in simplicitate cordis mei, laetus obtuli universas» (1Cr o Paralipomeni 29,17).

È un sacrificio grandemente accetto a Dio perchè è come un olocausto. Allorchè un’anima, dice S. Gregorio Magno, offre all’onnipotenza divina il complesso dei beni che possiede, tutto ciò che è vivo in lei, che le è gradito, compie un olocausto. — Cum quis omne quod habet, omne quod vivit, omne quod sapit omnipotenti Deo voverit, holocaustum est» (Super Ezech. II, 8,16). S. Tommaso esprime la stessa idea: «L’olocausto consiste nell’offrire tutto ciò che possediamo. — Holocaustum est cum aliquis totum quod habet offert Deo» (II-II, q. 186, a. 7).

Con cotesta immolazione noi riconosciamo che Dio è il supremo principio di ogni cosa; gli rendiamo quanto ci ha dato e ci offriamo pienamente a lui, affinchè tutto il nostro essere e ogni nostro avere a lui ritorni.

Ma per rendere l’olocausto più perfetto, completo, e per quanto è possibile, perpetuo, ne facciamo promessa solenne, pubblica, accolta dalla santa Chiesa: è la professione, l’emissione dei voti. Fin dal giorno in cui entrammo nel chiostro, abbandonammo tutto effettivamente per seguire Cristo, ma non avevamo varcato la grande soglia: i voti soli consacrano la donazione, e la fanno per sè irrevocabile. Essi richiedono, come sapete, una volontà risoluta, che si lega con pubblica promessa alla Chiesa; così intende S. Benedetto: il novizio deve a lungo studiare se stesso, esaminarsi nella solitudine prima di legarsi coi voti: «Et si habita secum deliberatione, promiserit se omnia custodire» (Reg. c. 58).

O mio Dio, essere infinito, che sei la beatitudine per essenza, quale grazia immensa ed inestimabile tu fai a povere creature, quando le chiami a diventare, col tuo Figlio diletto, ostie a te accettevoli, e tutte consacrate alla gloria della tua Maestà!

 

III. Bisogna unirla all’oblazione che il Cristo fece di sè.

Afflnchè un simile olocausto sia gradito a Dio «Deo placens», come dice S. Paolo, deve essere unito al sacrificio di Gesù Cristo: è verità fondamentale: solo l’oblazione sua dà valore alla nostra e la rende degna del Padre celeste. Per manifestare esteriormente cotesta unione, il santo Legislatore vuole che si compia durante il sacrificio per eccellenza; e che il novizio di sua mano deponga sull’altare la scritta della promessa. Ciò che si pone sull’altare come offerta è consacrato a Dio; e perciò quest’atto del professo è simbolo dell’immolazione che egli fa di se stesso nel santuario dell’anima propria.

Come si compie in noi interiormente l’unione del sacrificio a quello di Gesù? Per l’amore; poichè esso è che unisce. Perché amiamo il Cristo, vogliamo darci tutti a lui e preferirlo a ogni cosa. «Vieni e seguimi, dice Gesù, e ti darò il centuplo. — Veni, sequere me». Come egli fece entrando nel mondo, così noi pure rispondiamo:
Eccomi: Ecce venio; voglio stringermi a te solo, perchè credo che tu sei Dio, perfezione e felicità per essenza, perché spero nell’infinito valore dei tuoi meriti e delle tue grazie, perchè amo in te il bene supremo; per causa del tuo nome, «propter nomen tuum» (Mc 10,29-30), ho abbandonato tutto, e ti do anche quello che in me è più intimo e profondo, la libertà: «Ecce nos reliquimus omnia et secuti sumus te».

Ciò che abbiamo dato a Dio, in sè, è poca cosa; siamo povere creature, tutto abbiamo avuto dal Padre celeste: «Omne donum perfectum desursum est, descendens a Patre luminum» (Gc I,17); e Dio non ha bisogno dei nostri beni (Sal 15,2); ma egli ci chiede il cuore, l’amore; e secondo il bel pensiero di S. Gregorio, quando l’amore dà tutto, per quanto poco dia, è sempre un dono gradito al Signore, perchè chi dona non ritiene nulla per sè. In questa transazione, si guarda all’affetto più che al valore. «Hac in re, affectum debemus potius pensare quam censum; multum reliquit qui sibi nihil retinuit; multum reliquit qui quantumlibet parum, totum deseruit» (I, V in Evang., 2). Il Santo Pontefice osserva che gli Apostoli Pietro e Andrea materialmente abbandonarono solo le reti da pesca; ma le abbandonarono per amore di Cristo e per seguirlo, spogliandosi anche del diritto e del desiderio di possedere.

Dunque, staccarsi da ogni cosa terrestre, da tutto il creato è il primo requisito della santità; poi viene la donazione di sè a Dio. Bisogna essere separato per poter essere consacrato. I voti ci conducono al più alto grado possibile di separazione dalla creatura, poichè ci fanno rinunciare alla propria volontà; possiamo davvero esclamare: Ho abbandonato tutto! Reliquimus omnia. Ma non bisogna tardar a soggiungere: E ti seguo per unirmi a te. Et secuti sumus te. È la formula dell’unione a Dio, secondo requisito della santità: noi a lui ci abbandoniamo, ci consacriamo; e gli possiamo dire con la professione monastica: «Signore, ricevimi secondo la tua parola, e vivrò; non confondere la mia speranza. — Suscipe me, Domine, secundum eloquium tuum, et vivam; et non confundas me ab expectatione mea» (Sal 118,116).

Quando un’anima si dà a Dio così pienamente per amore, e cerca lui solo; quando si stacca, per quanto è possibile, da ogni creatura, da se stessa, da ogni movente umano, per aderire a Dio solo, allora offre un olocausto santo: «Hostiam sanctam»; secondo le parole di S. Paolo.

È una vittima senza macchia, la terra non la contamina; ma se invece si serba unita alle creature, è invischiata alla terra, non è più santa. Il cuore del Cristo Gesù aderiva solo al Padre; «Ego vivo propter Patrem» (Gv 6,58); e per questo S. Paolo lo chiama ostia immacolata: «Qui semetipsum obtulit immaculatum Deo» (Eb 9,14. Il monaco, facendo professione, allontana da sè come condizione, ogni creatura, ogni cosa che potesse distoglierlo da Dio; si libera da ogni ceppo e aderisce perfettamente al Cristo, cercando solo la volontà del Padre suo: è un atto d’amore perfetto, che piace moltissimo a Dio; e poìchè la professione esprime un amore totale, Dio colma di benedizioni immense, di gioia incessante l’anima che si dà a lui coi voti e gli serba fedeltà.

 

IV. Benedizioni accordate da Dio a chi fa voti religiosi.

La più inapprezzabile benedizione che porta all’anima la professione religiosa è il renderla molto cara a Dio: tutti i teologi insegnano che essa è come un secondo battesimo, e restituisce al cristiano l’innocenza (Dom Morin, L’idéal monastique, 3. Ediz. p. 60). All’atto di cui il professo fa i voti, Dio dimentica il passato, gli accorda il perdono universale, e non vede più in lui che una creatura rinnovellata. «Nova creatura» (Gal 6,15). In quell’ora benedetta, l’anima si è abbandonata al Cristo come la sposa allo sposo; e la tomba mistica in cui si è sepolta può paragonarsi al fonte battesimale in cui fu immerso il neofito: come del battezzato, così di quell’anima il Padre può dire: Ecco il mio figlio diletto in cui mi sono compiaciuto; e di quali larghezze la colmerà, guardandola nel suo Figlio, con tanto amore!

La seconda benedizione che Egli dà al religioso è il valore annesso d’allora in poi a ogni sua azione, perchè tutte partecipano della virtù di religione.

Voi sapete che ogni virtù ha una sua forma propria, una particolare bellezza e merito speciale. Ma gli atti di una qualunque di esse possono essere comandati da una virtù superiore: per esempio, l’atto di mortificazione, d’umiltà, può essere ispirato dalla carità, regina delle virtù; e allora, oltre allo splendore proprio e al valore intrinseco, acquista la bellezza e il merito di un atto di carità. Ma nella vita del monaco ogni atto di virtù si trasforma, per il voto, in atto di religione, e ne diventa migliore e più meritorio, come insegna S. Tommaso; perchè appartiene al culto divino, come se fosse un sacrificio. «Opera aliarum virtutum... sunt meliora et magis meritoria si fiunt ex voto, quia sic jam pertinent ad divinum cultum, quasi quaedam Dei sacrificia» (II-II, q. 88, a. 6). La professione dunque comunica a tutta la vita del monaco il valore dell’olocausto, e fa di essa un perpetuo sacrificio. L’atto con cui l’abbiamo emessa durò pochi istanti; ma gli effetti sono permanenti, i frutti eterni: e come il battesimo è il punto di partenza della santità cristiana, così la professione per la santità monastica: è come lo sviluppo graduale d’un primo atto di immenso significato. Coi voti la nostra volontà si è stabilita nel bene, si è rinsaldata alla volontà divina; e ciò costituisce una grande cagione di progresso. «Caratteristica del voto, insegna S. Tommaso, è di confermare la volontà nel bene. Ora gli atti che procedono da essa appartengono alla perfezione della virtù. — Per votum immobiliter voluntas firmatur in bonum. Facere autem aliquid ex voluntate firmata in bonum, pertinet ad perfectionem virtutis» (Ivi).

Ma bisogna precisare meglio, perchè non si tratta di una perfezione qualunque. Come i voti del battesimo sono l’inizio della perfezione soprannaturale, così la professione monastica è il primo impulso alla perfezione benedettina: ciò che deve risultare non è un santo domenicano o certosino ma un benedettino; perchè i nostri voti tendono alla pratica della Regola di S. Benedetto e delle Costituzioni che ci dirigono: «Promitto... oboedientiam secundum Regulam S. P. Benedicti in congregatione nostra» (Cerimoniale monastico).

La Regola, com’è interpretata dalle Costituzioni nostre, e non quella d’un altro Ordine, o secondo le Costituzioni di altra congregazione, ecco quanto dobbiamo praticare; essa contiene ciò che è necessario alla nostra perfezione, alla nostra santità; così si sono santificati tanti monaci e sono giunti alla più alta perfezione, al fastigio della santità.

La professione è anche l’origine della nostra gioia. Signore, nella semplicità del mio cuore vi ho offerto tutto lietamente; esclama l’anima mentre si dona a Dio; ed egli ripaga la gioconda generosità di lei con un aumento di gioia. «Dio ama colui che dà lietamente. — Hilarem datorem diìigit Deus», dice S. Benedetto, seguendo l’Apostolo (Reg. c. 5); e poichè egli è la sorgente di ogni beatitudine, e noi tutto abbiamo abbandonato per darci a lui, ecco che egli ci risponde: «Sarò io l’immensa tua ricompensa. — Ego merces tua magna nimis» (Gn 15,1). Ego: Io stesso! Non lascerò ad altri l’incarico di ricompensarti, dice Dio all’anima; perchè tu sei tutta mia, io son tutto tuo, la tua eredità, il tuo possesso, e in me tu avrai la beatitudine: «Ego merces tua».

Ah Signore così è! «Che può esserci per me in cielo, e che cosa ho desiderato sulla terra se non te solo? Tu sei il Dio del mio cuore, la mia parte d’eredità: — Quid enim mihi est in coelo, et a te quid volui super terram? Deus cordis mei, et pars mea Deus in aeternum» (Sal 72,25s).

 

V. È necessario mantenere costantemente le promesse giurate.

Ma per gustare simili gioie, dobbiamo vivere negli alti pensieri della nostra professione e mantenerci nello stato di assoluta oblazione; per tutta la vita dobbiamo esser fedeli ai voti. Come nel battesimo il cristiano s’impegna a sempre morire al peccato e a sforzarsi sempre di vivere a Dio, così il monaco per la professione si obbliga a staccarsi sempre più dal creato per seguire Gesù Cristo sempre più da vicino.

È un’opera ardua, che vuole grande generosità, perchè la natura decaduta tende a impadronirsi di nuovo di ciò che ha dato; ma non dobbiamo farlo più; e se cadiamo in infedeltà volontarie ci attiriamo la collera divina.

Ce ne avverte S. Benedetto con queste parole impressionanti: Se manchi alle tue promesse ti farai condannare da colui del quale ti sei burlato. «Ut si aliquando aliter fecerit, ab Eo se damnandum sciat Quem irridet» (Reg. c. 58). Non ci dobbiamo dimenticare che la scritta della nostra professione è ratificata in cielo nel libro dei predestinati; e che saremo giudicati non solo per riguardo alle promesse del Battesimo, ma ai voti emessi davanti al sacro altare: «Stas in conspectu Dei ante hoc sacrosanctum altare (Cerimoniale)».

Il pensiero di non aver osservato i voti liberamente emessi sarebbe una tremenda angoscia al religioso nel punto di morte; perchè Dio giudica secondo verità, non a cavilli; ma giudica le stesse nostre buone opere; «Ego justitias judicabo» (Sal 74,3). Esaminiamo dunque spesso l’oggetto della nostra triplice offerta, per constatare se siamo stati fedeli, ad onta di ogni contrarietà e difficoltà; se siamo rimasti fermi, lavorando a correggere le nostre abitudini, a vivere nell’obbedienza, sotto la guida di chi a noi rappresenta Cristo e ne fa le veci.

Certo, cotesta fedeltà può coesistere con le miserie, le debolezze, le colpe che ci sfuggono e che sono da noi detestate, che tentiamo di riparare; ma non si può conciliare con la tiepidezza abituale e non combattuta; con le mancanze freddamente riflesse, con le infedeltà deliberate. La persona religiosa, il monaco o la monaca, la quale mercanteggia col Cristo, e pensa che le si domanda troppo; che nel dono di sè non dà tutto; che «guarda indietro» non è degna dl Gesù. Per essa non vi è perfezione, nè unione intima con Dio.

Dobbiamo metterci con tutto l’ardore per restar generosamente fedeli. Strana aberrazione di alcuni, i quali credono che fatta la professione, si può lasciar correre! Ma si deve far proprio al contrario; poichè da quel punto incomincia per noi la vera vita d’intima unione con Gesù nei sacrificio, ma anche la via delle ascensioni interne, perchè se così possiamo parlare, Iddio si è impegnato da parte sua, ed è obbligato ad aiutarci, a farci santi; per parte sua, state sicuri, manterrà il patto «Fidelis Deus» (1Cor 1,9). Dio è fedele; non mancherà mai all’anima che va in cerca dl lui sinceramente. Nostro Signore l’ha detto senza ambagi: «Chi per me abbandonò padre, madre, fratelli, sorelle, ricchezze, riceverà il centupio e la vita eterna». Garantisce la promessa con una specie di giuramento: «In verità, ve lo dico — Amen, dico vobis» (Mt 19,28-29). Egli è la parola di verità, infallibile: se fedelmente ci atterremo a Gesù solo, avremo tutto fin d’ora senza alcuna possibile delusione, il centuplo promesso; avremo piene le mani d’immense benedizioni; perchè egli è l’amico più sincero, lo sposo più fedele.

Domandiamo al Signore la grazia di non lasciarlo mai. «Iuravi et statui». L’ho giurato, Signore Gesù, e voglio osservare tutti i comandamenti della tua giustizia. «Custodire judicia justitiae tuae» (Sal 118,106). Come te e per amor tuo, voglio adempiere fino all’ultima prescrizione della mia Regola; non un jota, nè una virgola, nè un apice sarà da me cancellato nella tua legge «Jota unum aut unus apex non praeteribit a lege donec omnia fiant» (Mt 5,18).

Diamo uno sguardo al divino modello, Cristo si offerse al Padre entrando nel mondo, e fin da quell’istante egli fece, per dir cosi, la sua professione, offrendosi tutto; benchè l’esecuzione si dovesse compiere distributivamente nel corso della vita, fino alla morte di croce. «Mio Dio, lo volli, e la tua legge sta in mezzo al mio cuore. — Deus meus volui, et legem tuam in medio cordis mei» (Sal 39,9); né mai ritrattò punto cotesta sua volontà, cotesto dono di sè; mai fece rapina nell’olocausto; ma durante l’intera sua vita volle solo ciò che era accetto al Padre, anche quando il calice che gli porgeva traboccava d’amarezza, «Ho compiuto tutto. — Consummatum est» (Gv 19,30). Contempliamo spesso il Cristo, e la fedeltà suprema ed incrollabile con cui compi la sua missione, domandandogli la grazia di non ritogliere mai nulla al dono che gli abbiamo fatto: come lui, e per amor suo, tutto abbiamo offerto all’atto della professione; il bene che facciamo poi è il nostro debito quotidiano e la manifestazione esteriore della volontà buona, divenuta irrevocabile mediante il voto.

S. Paolo esorta il discepolo Timoteo a far rivivere in sè la grazia dell’ordinazione, per la quale diventò partecipe del sacerdozio eterno di Cristo (2Tim 1,6). Anche per noi sarà bene far rivivere la grazia della professione rinnovandone la formula. Il sacramentale monastico è sempre a nostro uso; e quando ce ne serviamo, le nostre anime ricevono una nuova effusione di vita divina.

Ripetiamolo: la nostra santità è lo sbocciare della grazia ricevuta nella professione, non la troveremo altrove; e se custodiamo costantemente le promesse fatte, Dio vi ci condurrà, perchè i voti religiosi ci hanno completamente dedicati al suo servizio.

Dopo la santa Messa, non vi è atto più gradito a Dio dell’oblazione che si fa con la professione religiosa; non vi è stato più prezioso agli occhi suoi di quello in cui si trova un’anima determinata a rimanervi costantemente fedele. È una santa abitudine quella di rinnovare i voti, per esempio, all’offertorio della Messa, unendo il nostro sacrificio a quello di Gesù: offriamoci con lui, «in spirito d’umiltà e con cuore contrito afflnchè il nostro sacrificio sia accetto al Signore. — In spiritu humilitatis et in animo contrito suscipiamur a te, Domine, et sic fiat sacrificium nostrum in conspectu tuo hodie, ut placeat tibi, Domine Deus» (Ordin. della Messa).

O Eterno Padre, accogli non solo il tuo divin Figlio, ma anche me stesso con lui e per lui; «egli è l’ostia pura, santa, immacolata, — hostiam puram, hostiam sanctam, hostiam immaculatam»; noi siamo invece povere creature; ma per quanto miserabili, tu non ci respingesti, perchè il tuo Figlio Gesù è la nostra propiziazione; a lui ci vogliamo unire, e renderti per lui, con lui, in lui, gloria ed onore, o Padre onnipotente, in unione con lo Spirito Santo. «Per ipsum, et cum ipso, et in ipso est tibi Deo Patri omnipotenti, in unitate Spiritus Sancti, omnis honor et gloria» (Canone della Messa).

Se con tutto il cuore ci uniremo così al sacrificio di Nostro Signore, la vita quotidiana diventerà la pratica espressione del dono fatto alla professione; e sarà come un prolungamento della Messa, in cui s’immola il nostro divin capo; tutta la nostra esistenza si trasfigurerà in un inno di lode, come un incessante Gloria che s’innalzerà a Dio; incenso del sacrificio dall’olezzo gradito: cum odore suavitatis; atto di adorazione perfetta rinnovato senza tregua.

I voti ci fissano alla croce col Cristo; e si può dire che cotesti mistici chiodi sono stati preparati dalla Chiesa, sposa di Cristo, perchè essa è che li ratifica; il suo ufficiale intervento ci garantisce che i Voti sono graditi a Dio e di vantaggio alla nostra anima. Indubbiamente lo stato religioso è duro alla natura, perchè obbliga continuamente a rinunciare a se stesso, alle creature. Santa Geltrude un giorno d’Ognissanti, contemplando le schiere degli eletti, vide i religiosi tra le file dei martiri; e ciò indicava che la professione fa della nostra vita un perpetuo olocausto (L’Araldo dell’amor divino – IV, 55).

«Non dite, esclama un autore dei primi secoli, non dite che ai nostri tempi non si hanno più i combattimenti dei martiri; la pace, che noi godiamo, ha essa pure i martiri suoi. Sedare l’iracondia, fuggire l’impurità, custodire la giustizia, reprimere l’avarizia, abbassare la superbia non è un grande martino?» [2].

Ma l’anima generosa e fedele trova una gioia inesauribile in quest’oblazione di sè continuamente rinnovata; una gioia che sempre aumenta, perchè procede da colui che è beatitudine infinita e immutevole. «In voi, Signore, non si danno vicissitudini. — Tu autem idem ipse es» (Ebr 1,12). E noi appunto volemmo acquistare un tal bene divino coll’abbandonare tutto; come colui che, trovata una perla preziosa, vende ogni suo bene per comperarla: «Inventa autem una pretiosa margarita... vendidit omnia quae habuit, et emit eam» (Mt 13,46). Cotesta felicità la troveremo, se la cercheremo costantemente; la possederemo un giorno nell’amplesso perfetto, inabissandoci nel bene infinito; e ci perderemo in lui tanto più profondamente quanto più ci saremo staccati quaggiù dalle creature, aderendo unicamente a Cristo: «Ecce nos reliquimus omnia et secuti sumus te».

 

NOTE

[1] Nell’opera: L’idéal monastique et la vie chretienne des premieree jours, c. IV., troveremo una notevolissima, benché succinta esposizione delle molte analogie che esistono tra il battesimo e la professione monastica. Leggiamo coteste pagine scritte con scienza sicura; ci mostreranno come nello spirito della tradizione ecclesiastica la professione è un secondo battesimo. Noi però ora lasciamo da parte questo aspetto della trattazione, e vogliamo anzitutto mostrare perchè la professione religiosa è un’oblazione; vedremo quanto sia messo in chiaro da S. Benedetto questo modo di vivere.

[2] «Nemo dicat quod temporibus nostris martyrum certamina esse non possint; habet enim pax martyres suos. Nam iracundiam mitigare, libidinem fugere, justitiam custodire, avaritiam contemnere, superbiam humiliare, pars magna martyrli est». (Sermone attribuito a S. Agostino, Migne P. L., XXXIX, col. 2301). L’identico pensiero trovasi in San Gregorio: «Quamvis occasio persecutionis desit, habet tamen et pax nostra martyrium suum: quia etsi carnis colla ferro non subjicimus spirituali tamen gladio carnalia desideria in mente trucidamus». (Homil. 53 in Evang). il nome martiri va inteso in senso largo; il vero onore del martirio si deve solo a chi versa il sangue per la fede.

 

 


 

Capitolo 7

GLI STRUMENTI DELLE OPERE BUONE

 

SOMMARIO: La professione religiosa inaugura le vera vita monastica. — I. Perché S. Benedetto paragona la vita monastica a un’officina spirituale. — II. Strumenti che egli ci dà per segnalarci. — III. Come dobbiamo usarli; tappe successive. — IV. Ciò che fa l’opera divina nel lavoro ascetico. — V. Di una vita guidata dall’amore. — VI. Per riuscire ci vuole energia perseverante.

 

Dobbiamo tornare a Dio sotto la guida di Cristo; perché egli è il capo che ci indica la via e ci conduce alla meta suprema. La fede ci dà a Cristo e lo fa regnare in noi, con un regno che noi accettiamo sostanzialmente all’atto del battesimo e che domina completamente in noi per la professione monastica. Allora, con atto di fede pratica, noi abbiamo vinto il mondo per darci al Cristo e stringerci a lui irrevocabilmente: «Signore, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito: — Ecce nos reliquimus omnia et secuti sumus te» (Mt 19,27).

Ma con la professione s’incomincia soltanto la vita monastica; appunto come il dono che il Cristo faceva di sè al Padre entrando nel mondo era solo l’ineffabile preludio della sua attività umanodivina. La fede ci ha offerti a lui mediante la emissione dei voti, deve essere per noi ogni giorno un principio d’azione; e per esser perfetta si deve espandere nella carità, eccitando tutte le nostre energie ad operare per amore, onde poterci veramente unir al Cristo Gesù con le opere buone.

Così intendeva la vita cenobitica S. Benedetto, che possedeva lo spirito di ogni giustizia, al dire di S. Gregorio (Dial. 1. II, c. 8). Osservate: il primo voto che ci fa pronunciare è quello di stabilità, per cui ci leghiamo alla società cenobitica, flssandoci nel monastero fino alla morte «Usque ad mortem in monasterio perseverantes» (Prologo). E sotto quale aspetto ci presenta il monastero? Come un’officina spirituale, in cui non si imparano i mestieri, ma l’anima si esercita nella ricerca di Dio; è anche «una scuola del servizio di Dio; — Dominici schola servitii» (Ivi). In cotesta officina, in cotesta scuola, il santo Legislatore dispone «gli strumenti delle buone Opere», gli attrezzi dell’arte spirituale: «Instrumenta bonorum operum, artls spiritualis» [1].

Sforziamoci d’intendere la profonda dottrina nascosta sotto espressioni siffatte. Perché S. Benedetto paragona la vita monastica a un’arte spirituale? Quali strumenti ci mette fra le mani per segnalarci in essa, e come dobbiamo adoperarli? Distingueremo ciò che è operazione divina nel nostro lavoro ascetico; diremo quindi come l’amore dev’essere il movente supremo di tutta l’impresa; — e con quale perseverante energia dobbiamo continuarla per arrivare ad un felice risultato.

 

I. Perché S. Benedetto paragona la vita monastica a un’officina spirituale.

S. Benedetto si serve di parole usuali per dimostrare che dobbiamo compiere un attivo lavoro.

Sono necessarie, egli dice, le buone opere: l’alta meta a cui ci invita — trovar Dio — si raggiunge solo con le buone opere: «Avendo domandato al Signore di abitare nel suo Tabernacolo, dobbiamo compiere l’ufficio» (Sal 18,6; 118,32), dice egli nel Prologo; anzi egli vuole che si corra per la via — e lo ripete più volte — con le buone opere; perchè altrimenti non vi riusciremo. Il Signore ce lo domanda come risposta ai suoi insegnamenti e non saremo eredi del regno se non adempiamo alle condizioni richieste. Per questo, soggiunge il Santo, la vita presente ci è data come tempo utile onde ottenere la vita eterna (Prologo).

Quali sono le opere che egli esorta a compiere, e per le quali indica strumenti adatti nell’arte spirituale? La parola è molto appropriata: «Ars», dice S. Tommaso, «est ratio recta aliquorum operum faciendorum» (I-II, q. 57, a. 3); l’arte riproduce con fedeltà un’idea, un ideale. L’opera artistica esiste prima nella mente dell’autore; il pensiero guida la mano, e l’opera finita è spesse volte un imperfetto riflesso dell’ideale intravveduto, accarezzato dal genio del maestro. Dio, se così possiamo parlare, è l’Artista massimo: tutta la creazione è aspressione esterna dell’idea che egli ebbe di ogni cosa nel Verbo; e come l’artista si compiace nell’opera che riproduce il suo ideale, così è a lui sembrata buona la creazione, uscita dalle sue mani, perchè rispondente all’ideale dell’autore divino: «Viditque Deus quae fecerat et erant valde bona» (Gen. 1,31).

Lo Spirito Santo eccita il Salmista a contemplare la natura per glorificare Iddio creatore: «Domine, Dominus noster, quam admirabile est nomen tuum in universa terra — Signore, Dio nostro, come il tuo nome è ammirabile nell’universo!» (Sal 8,1) — «Omnia in sapientia fecisti — Tutto hai ordinato con sapienza» (Sal 102,24). Nel Benedicite delle Laudi noi pure diamo a tutte le cose create gli accenti del nostro labbro, la vita della nostra intelligenza e del nostro cuore, per lodar Iddio che le ha fatte.

Ma c’è una grande differenza tra noi e le cose materiali: queste sono soltanto un vestigio, un lontano riflesso della bellezza divina; l’uomo invece fu creato con intelligenza e volontà, ad immagine di Dio: «Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram» (Gn 1,26). Questa è la causa della sua dignità e dell’amore ineffabile che Dio gli porta: «Le mie delizie consistono nello stare coi figli degli uomini - Deliciae meae esse cum filiis hominum» (Prv 8,31). Dio ama in noi la sua immagine; ma voi lo sapete, essa è degradata, sfigurata dal peccato originale e dagli attuali: ora l’arte spirituale consiste nel rimediare cotesta degradazione, ridonando all’anima la primitiva bellezza, afflnchè Dio abbia la gioia e la gloria di veder riflessa in noi con maggior perfezione l’immagine sua.

Per questo Egli lavora per il primo a cotesta restaurazione; e manda il suo Figlio, veramente Dio, veramente uomo: «Perfectus Deus, perfectus homo» (Simbolo attribuito a S. Atanasio),. In quanto Dio, egli è immagine del Signore invisibile e splendore della sua gloria (Col 1,15; Eb 1,3); immagine adeguata e sostanziale delle sue eterne perfezioni; è il Dio perfettissimo, luce purissima e senza macchia, ornato con pienezza di grazia; il Figlio diletto in cui il Padre si riconosce; il capolavoro divino della creazione, nel quale si compiace.

Ecco il nostro tipo, l’esemplare che dovremo riprodurre per riabbellirci divinamente ed essere ammessi al regno celeste. Quante volte le abbiamo meditate coteste verità! Sappiamo che per volere del Creatore, il Cristo è la forma stessa della nostra predestinazione: «Praedestinavit (nos Deus) conformes fieri imaginis Filii sui» (Rm 8,29).

La creatura novella «nova creatura (Gal 6,15) che è il figlio d’adozione in Cristo, si mostra agli occhi di Dio come l’immagine del suo Figlio diletto: Dio desidera immensamente che noi gli assomigliamo nel modo più perfetto; e tutta la metodica dell’arte spirituale consiste nel tenere lo sguardo dell’anima sempre fisso in Cristo, nostro modello ideale umano e divino, per riprodurre i suoi lineamenti. Così si riabilita la nostra natura e ricupera il primitivo splendore; così diventa accetta al Celeste Padre e se ne acquista la benevolenza; perchè in lei egli riconosce i fratelli del suo Primogenito: «Ut sit ipse primogenitus in multis fratribus» (Rm 7,29).

Voi mi direte: Non ha il Battesimo cancellato il peccato, e non ci ha rivestiti di Gesù Cristo? «Quicumque in Christo baptizati estis, Christum induistis» (Gal 3,27). Certo; ma è un germe divino, principio del nostro progressivo sviluppo; e restano in noi le cattive tendenze, che producono gli atti peccaminosi, da cui è sfigurata l’anima. Tutto il lavoro dl chi tende appassionatamente alla perfezione consiste nel togliere coteste macchie e nel dominare coteste tendenze; procurando il perfetto sviluppo delle virtù che ci renderanno somiglianti a Cristo. Che cos’è il cristiano? Un altro Cristo, ci rispondono gli antichi; e il Cristo è l’Uomo Dio. Che cosa fa egli? Viene a morire per distruggere il peccato; ci dà la pienezza della vita che egli stesso possiede e il neofito deve, secondo l’insegnamento di S. Paolo, rinunciare al peccato e partecipare a cotesta vita divina quando, col battesimo, diventa discepolo di Cristo. «Consideratevi come morti al peccato, ma vivi a Dio, in Gesù Cristo. — Ita et vos existimate vos mortuos esse peccato, viventes autem Deo, in Christo Jesu» (Rm 6,11). Ecco riassunta l’opera cristiana, compendiata l’ascesi religiosa.

S. Benedetto ne fa il punto di partenza della perfezione che vuol coltivare nei monaci: per la grazia di Cristo il fedele muore al peccato e vive a Dio; e il monaco deve compir l’opera, deve portarla al coronamento. Anch’egii è figlio di Dio, come il semplice cristiano; è chiamato da Dio all’eterna felicità; ha per capo Gesù Cristo, la sua grazia come aiuto; il punto di partenza dunque è lo stesso, ma il punto d’arrivo è più alto; la beatitudine è sostanzialmente sempre la medesima, ma con infiniti gradi possibili.

Il cristiano muore al peccato; il monaco, per mezzo dei voti, rinuncia alla creatura, a se stesso; il fedele deve con la grazia vivere per Iddio solo; il monaco deve tendere alla carità perfetta, in cui più non opera il movente umano, e attuare la vita cristiana pienamente; quindi egli morirà di una morte mistica più intima, per vivere anche di una vita più intensa e più potente. Oltre ai precetti che danno diritto alla vita eterna egli osserverà i consigli che costituiscono lo stato di perfezione; e la vita cristiana diventerà in lui più vigorosa e più perfetta.

Il Santo Patriarca così ci manifesta questi principii; fa udire al monaco dapprima la voce divina: «Il Signore chiama il suo operaio dalla moltitudine del suo popolo... e dice: Chi è l’uomo che desidera la vita e vuol godere i giorni buoni?». È indicato lo scopo: «la vita divina»; la felicità di Dio, a cui partecipiamo quaggiù nella fede, lassù negli splendori dell’eterna luce.

«E se tu - continua il santo Legislatore - udendo rispondi: Io; il Signore ti dirà; allontanati dal male e fa il bene; domanda pace e seguila» (Prologo).

È caratterizzata la duplice opera alla quale ci invita S. Benedetto, mentre viviamo in monastero: «Evitare il male, fare il bene»; e con questo «aver la pace»; è un riassunto generico dell’arte spirituale; poichè veramente S. Benedetto considera la santità monastica come lo svolgimento normale, ma completo, della grazia battesimale; la sua spiritualità, che proviene direttamente dal Vangelo e ne è tutta impregnata, ha per ciò stesso il carattere di grandezza e di semplicità, di soavità e di forza che le è proprio.

 

II. Strumenti che egli ci dà per segnalarci.

Allontanarsi dal male e fare il bene, è massima troppo generica (2); e si adempie seguendo precetti specificatamente diversi e facendo azioni molteplici. 5. Benedetto fornisce quindi la sua officina spirituale, il monastero, dl numerosi attrezzi; e gli operai, ossia i monaci, debbono imparare a conoscerti e a maneggiarli.

Che sono mai cotesti strumenti? Sono massime, in gran parte prese dalla S. Scrittura, altre dai Padri più antichi della Chiesa o da scrittori monastici anteriori al santo Legislatore; sono sentenze, aforismi, che indicano i difetti da evitare, i vizi da correggere, le virtù da praticare: nella forma concisa ricordano il Decalogo, per cui facilmente si ritengono a memoria, e la mente può ruminarli per trarne frutto e praticarli nel momento opportuno. Ci aiuteranno ad abbattere gli ostacoli opposti in noi all’azione divina, a praticare gli atti di virtù.

Le anime sono diverse, e non hanno sempre le stesse tendenze al male o le medesime attitudini al bene; per questo il Santo enumera molti strumenti; in tutto settantatre. Quando un profano ne legge l’elenco (Reg. c. 4) si meraviglia spesso nel vedere che S. Benedetto ridice ai suoi figli alcuni comandi della morale naturale o del semplice cristiano: «Amar Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, amare il prossimo come se stesso; onorare tutti gli uomini; e quello che non vuole fatto a sè egli non faccia agli altri; sia sincero nel cuore e con la bocca; non uccida, non faccia furto, nè falsa testimonianza; attenda a ricreare i poveri, a visitare gli infermi, a consolare i dolenti».

Perchè il B. Padre intreccia alle esortazioni strettamente monastiche cotesti consigli generali e d’indole morale? Prima di tutto perchè, ai suoi tempi, la civiltà cristiana non si era ancora diffusa in ogni luogo, e la società era impregnata di miasmi cattivi, residui del paganesimo e dell’invasione barbarica [3]. Si trovano nei monasteri i nobili romani che avevano vissuto nei bassifondi della decadenza, e i Goti, appena dirozzati dalla loro brutalità; per cotesti discepoli bisognava promulgare di nuovo anche i precetti della legge naturale e le più ovvie verità del Vangelo; ma sappiamo anche come ogni comandamento contenga implicitamente la perfezione della virtù che gli corrisponde.

Ma un’altra ragione più profonda guidava il santo Legislatore: stabilire il carattere di «unità cristiana» proprio della sua spiritualità; il monaco deve prima osservare la legge naturale, quindi praticare integralmente quella di Cristo; la perfezione religiosa si associa alla virtù naturale; e il santo Legislatore intreccia precetti e consigli. L’ideale evangelico non è mai stato intravveduto con unità maggiore.

Per questo gli strumenti non sono elencati in ordine sistematico e secondo un piano metodico preordinato, perchè così è anche il Vangelo; c’è grande semplicità — e non minore sicurezza — nel modo dl condurre a Dio le anime. Tuttavia ci sono alcuni raggruppamenti nitidamente disegnati; alcuni strumenti riguardano i doveri verso Dio, altri, le relazioni col prossimo; altri ancora più direttamente riguardano noi stessi; ma per numerosi e diversi che siano, gli strumenti debbono essere adoperati con discernimento. Non si deve pretendere di impiegarli tutti in una volta, come non si potrebbero esercitare tutte insieme le virtù: le anime sono differenti, e le loro necessità sono diverse.

Alcune sentenze ci danno le disposizioni generali che sempre devono animarci: Amar Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima; nessuna cosa anteporre all’amore di Cristo; desiderare intensamente la vita eterna; star in guardia in ogni azione della vita; in ogni luogo tener certo che Dio ci vede. Altri strumenti vanno adoperati a certe ore; per esempio, nella tentazione: rivolgerci a Cristo immantinente nel cattivi pensieri. Altri ancora saranno utili per sradicare vizi e reprimere cattive tendenze; ognuno vi deve studiare le inclinazioni perverse che in lui prevalgono, e che tendono a sfuggire l’immagine divina, per imparare a rintuzzarle. Se l’anima aderisce alla creatura, si configura a immagine di lei e si deforma; ogni cattiva tendenza non combattuta costituisce una sorgente di atti peccaminosi che ci macchiano; e noi le dobbiamo distruggere per assomigliare al Cristo Gesù. In alcuni domina l’orgoglio e diventa principio di atti biasimevoli: a costoro il B. Padre dà strumenti propri a rintuzzare ogni sua manifestazione: non amare la contenzione; fuggire la vanagloria che innalza; se scorgono in sè alcun bene, credere che sia da Dio e non da sè; ma il male sempre reputare a se stessi; avere in odio la volontà propria; non voler esser detti santi innanzi di esserlo, acciocchè lo si dica con più verità. In altri, invece, la leggerezza della mente è ostacolo all’unione divina: pregano alla mattina, e ricevono Dio nella Comunione, per cui sono imbalsamati dal profumo della divinità; ma usciti dall’oratorio si offendono e si dissipano in parole inutili. Se quest’imperfezione non viene combattuta, l’anima perde molto dei frutti acquistati nell’unione con Dio; deve dunque impegnare gli strumenti adatti al suo difetto; badare ad ogni atto della sua vita; custodire la bocca da ogni cattivo discorso; non amare di parlar molto; e così sia.

Ognuno deve conoscersi nella luce di lassù e studiare che cosa gli manca; tutti per quanto progrediti, troveremo in cotesta officina lo strumento adatto a perfezionare in sè l’immagine del modello divino.

 

III. Come dobbiamo usarli; tappe successive.

C’è diversità fra le anime; e spesso variano le loro condizioni spirituali; il N. B. Padre sa riconoscerlo molto bene.

L’arte spirituale è penosa sul principio, come ogni altra; angusta è l’entrata alla via della salute. «Via salutis non est nisi angusto initio incipienda» (Prologo; e questo avviene perchè è una conversione, nella quale ci dobbiamo spogliare del nostro modo di vedere e di fare; dobbiamo abnegare noi stessi, rintuzzare le abitudini viziose, gli impulsi della concupiscenza; attendere a sradicare i vizi, e a rettificare pazientemente l’immagine deforme dell’anima peccatrice; e quanto più le abitudini contrarie alle virtuose predominano, tanto più si deve durare in questa fatica. Per trarre dal marmo una statua bisogna prima sgrossarlo; ora quando noi entriamo in monastero, siamo come blocchi informi; Dio, che è tanto buono, opera interiormente su di noi; ma ci lascia anche in mano ai superiori, e vuole che lavoriamo noi stessi, affine di attuare a poco a poco il divino ideale. Se non ci mettiamo all’opera con coraggio, e non adoperiamo con fedeltà gli strumenti necessari, non otterremo nessun risultato; inoltre, novizi come siamo nell’arte da praticare, siamo maldestri, incerti nell’uso di essi, andiamo a tastoni, esitanti, perplessi, dubbiosi, e così il lavoro diventa più penoso. È la prima meta da raggiungere: con opera laboriosa, ma indispensabile.

S. Benedetto incoraggia l’anima che incomincia; e l’assicura che nella sua officina spirituale, nella scuola in cui impariamo a cercar Iddio, egli non vuole ordinare nessuna cosa aspra e grave (Prologo). Ha cuore di padre e molta discrezione; per cui all’anima che viene a porsi sotto la sua direzione, egli dice: Se alcuna cosa ti apparisce un «po’ troppo rigorosa.., non per questo devi fuggire incontanente spaventato... — Si quid paulum restrictius... processerit... non illico pavore perterritus refugias viam salutis» (Ivi).

Ma come ci persuade? Forse coll’allentare il rigore dei precetti, velando l’obbligo della rinuncia? Tutt’altro; ci mostra invece l’agevolezza e la gioia della virtù acquistata, e fa pregustare le intime ricompense promesse allo sforzo: «Per uso di buona conversione, e di fede, con dilatato cuore per dolcezza di amore, si corre per la via dei comandamenti di Dio: — Processu vero conversationis et fidei, inenarrabii dilectionis dulcedine curritur via mandatorum Dei» (Ivi). Se fin dal principio saremo generosi, attenti ai lumi della fede, l’amore aumenterà, perchè Dio si darà sempre più a noi; e con la presenza di Dio crescerà la gioia di essere al suo servizio; il cuore allora si dilata, afferma il B. Padre; poichè è capace di amare e di amare infinitamente, per riguardo all’oggetto a cui tende; ma questa capacità non si colma con gli oggetti creati: «Ci hai creati per te, o Dio, e il nostro cuore è inquieto fino a che non si riposa in te: — Fecisti nos ad te, et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te» (S. Agostino, Confessioni, 1,1). La capacità attuale del cuore si misura con l’oggetto che ama: se piccolo, l’impicciolisce; se infinito, ne dilata la potenza infinitamente. A colui che contempla Dio, le creature appaiono meschine: — Videnti Creatorem, angusta est omnis creatura», dice S. Gregorio (Dial. II, 35), parlando dello stesso S. Benedetto.

Ora, quando cerchiamo Dio veramente, senza voler insieme le creature, senza ripiegarci per amor proprio sopra di noi stessi, il cuore a poco a poco si dilata; Dio lo ricolma, e l’inonda di gaudio, aumentandole la potenza di amare; e allora, dice il B. Padre, accennando al secondo stadio, si corre nella via dei comandamenti: non siamo più agli inizi penosi, agli sforzi ripetuti con ripugnanza: ormai al lume sempre crescente della fede, ci sentiamo animati di fervore, inondati di dolcezza. Ricordiamo però che, in qualunque momento della vita si trovi, mai il religioso si diparte dagli insegnamenti del Divin Maestro, che è la Verità, ma persevera nella sua dottrina, luce dell’anima: e partecipa sempre alle sofferenze di Cristo; perchè è il solo mezzo di meritare, con la pazienza, il godimento della felicità nel suo regno (Prologo).

L’ultima tappa indicata da S. Benedetto è quella della carità perfetta; e si raggiunge quando l’anima è purificata dai vizi e dai peccati: «munda a vitiis et peccatis» (Reg. c. 7). Allora, non solo essa non obbedisce più alle tendenze viziose, perchè le ha sradicate, per quanto è possibile a creatura umana; ma agisce solo per movente soprannaturale; tutto fa per amore di Gesù Cristo, per tendenza virtuosa: «Universa... incipit custodire, non jam timore gehennae sed amore Christi... et delectatione virtutum» (Reg. c. 7) [4]. Ardente di amore per Cristo, tutto le pare leggero, per quanto penoso possa essere, e le opere che prima con ripetuti sforzi eseguiva solo imperfettamente, ora compie con facilità e in modo perfettissimo. La virtù le è divenuta come una seconda natura: «Absque ullo labore, velut naturaliter» (Ivi).

È lo stato della perfetta carità, della perfetta unione con Dio: l’anima tende a lui solo, vuole soltanto la sua gloria, e più non opera che per impulso dello Spirito Santo. Non ci sono forse più croci da portare, prove da subire, dolori da tollerare? Ce ne sono ancora; ma l’unzione della grazia addolcisce le prove, e l’amore trova nella croce nuove occasioni per affermarsi e crescere; diventando principio di ammirabili ascensioni interne, che si operano e si manifestano dal Signore nelle anime purificate, mediante l’azione del suo Spirito: «Quae Dominus in operario suo mundo a vitiis et peccatis, Spiritu Sancto dignabitur demonstrare» (Ivi).

 

IV. Ciò che fa l’opera divina nel lavoro ascetico.

Qualunque sia però lo stato in cui si trova l’anima, il suo lavoro è sempre cooperazione; non è mai sola: Dio fa in lei e con lei, ed è sempre l’autore principale del progresso.

Sul principio, quando l’anima è ancora impigliata nei vizi e nelle cattive abitudini, e deve con virile ardore togliere cotesti ostacoli all’unione divina, la cooperazione che Dio le richiede è specialmente attiva, molteplice, e si rivela chiaramente alla coscienza. Dio sostiene e incoraggia l’anima con grazie sensibili; ma essa prova continue alternative e vicende interiori: cade e si risolleva; fatica e riposa; riprende forza e si rimette in cammino.

Ma via via che progredisce, e che gli ostacoli svaniscono, la vita interiore diventa più uguale, regolare ed unita; l’azione di Dio si fa più potente perchè può esercitarsi con maggiore libertà, e trova nell’anima più pieghevole minor resistenza; allora si fanno rapidi progressi nella perfezione.

Quest’economia della vita religiosa si spiega con ciò che la santità è soprannaturale; Dio solo la produce, e se egli non erige la casa, inutilmente lavorano gli operai: «Nisi Dominus aedificaverit domum, in vanum laboraverunt qui aedificant eam» (Sal 126, 1). Questa dottrina fondamentale ci fu chiaramente insegnata dal Signore: «Io sono la vite, voi siete i tralci; dimorate in me se volete portar frutti, perchè senza di me non potete far nulla: — Sine me nihil potestis facere» (Gv 15,5). «Nessuno creda, dice S. Agostino, commentando questo passo, di poter da sè portar frutti. Si tratti di far poco o molto, solo può farsi con l’aiuto di colui senza del quale non è possibile fare. Se non dimori nella vite, e non attingi il succo dalla radice, da te stesso non farai nulla. — Sive ergo parum, sive multum, sine illo fieri non potest sine quo nihil fieri potest... nisi in vite manserit et vixerit de radice, quantumlibet fructum a semetipso non potest ferre» (Tract. in Joann. 80,3).

Il B. Padre ben conosce coteste verità, e sotto ogni aspetto; non ci dice di non fare le buone opere; tutt’altro! dobbiamo fare tutto il possibile. Benchè Nostro Signore sia la sorgente suprema della santità, egli trova opportuno di lasciar compiere a noi un certo lavoro, perchè ne siamo noi pure vere cause, quantunque interamente subordinate alla causalità divina; e solo a patto di compiere generosamente e fedelmente la nostra parte, possiamo meritare che Dio continui e consumi l’opera di perfezione. Sarebbe un’illusione dannosa credere che il Signore farà tutto il lavoro lui; ma non meno pericoloso sarebbe l’illudersi di poter far da soli alcunchè, ci dobbiamo convincere che la nostra opera vale soltanto se è unita a quella del Cristo.

Fra gli strumenti che ci porge il santo Legislatore uno si riferisce espressamente alla necessità di tutto riportare a Dio nell’opera della perfezione: «Se scorge in sè alcun bene, credere che sia da Dio e non da sè; ma il male sempre reputare a se stesso — Bonum aliquod in se cum viderit, Deo applicet, non sibi; malum vero semper a se factum sciat et sibi reputet». E come c’insegna S. Benedetto ad operare conforme a questa convinzione?

Prima di tutto, ci inculca la necessità della preghiera, al principiare di ogni nostra azione. Nel prologo, mostrata che ha la meta — cercar Dio — e indicata la via — il Cristo — subito dice di non metter mano a nessuna opera buona senza prima chiedere istantemente a Dio che la conduca a buon fine: «In primis, ut quidquid agendum inchoas bonum, ab eo perfici instantissima oratione deposcas». Pesate ogni parola perchè ognuna ha grande valore.

In primis ciò che importa fin dal principio e che subito vuoi insegnarci, è la necessità dl ricorrere a Colui che è l’autore primo e principale della nostra santificazione, perchè senza la grazia sua non possiamo far nulla.

Quidquid Bonum: qualunque sia l’opera che ci proponiamo: dev’essere moralmente buona, atta a procurare la gloria di Dio, non cattiva, o che abbia come scopo principale la ricerca di sè, della creatura.

Instantissima oratione: con preghiera intensa; perchè occorre bussare afflnché Dio ci apra; bisogna cercare per poter trovare; bisogna chiedere se vogliamo avere. Che cosa domanderemo? Che Dio conduca a buon fine l’intrapresa: Ab eo perfici. Il santo Patriarca si ricordava delle parole di S. Paolo: «Dio opera in noi il volere e il fare, a suo beneplacito — Deus est qui operatur in vobis et velle et perficere pro bona voluntate» (Fil 2,13).

Vedete come il B. Padre mette in pratica egli stesso la raccomandazione: quando i monaci si mettono in viaggio o ritornano (Reg. c. 67); prima di servir alla mensa, e dopo terminato (Ivi, c. 35); al ricevere gli ospiti che si presentano (c. 53); in ogni azione, per quanto semplice e comune, vuole che domandiamo l’aiuto di Dio, o nell’oratorio, o in comunità.

Terminata l’opera buona, S. Benedetto vuole che ne riferiamo la gloria a colui senza del quale non l’avremmo potuta compiere. «Quelli che temono Dio, scrive nel Prologo, di nessuna loro buona osservanza si levano in superbia; ma credono quei beni che vedono in sè non da sè poter esser fatti, ma da Dio; e sempre magnificano il Signore, il quale opera in loro — Operantem in se Dominum magnificant»; e dicono col Profeta: «Non a noi, o Signore, ma al nome tuo dà gloria». Così, continua egli, e non poteva scegliere esempio migliore, S. Paolo Apostolo della sua predicazione non attribuiva a sè cosa alcuna, ma diceva: «Per la grazia di Dio son quel ch’io sono» (1Cor 15,10); e altrove pure: «Chi si gloria, nel Signore si glorii» (2Cor 10,1).

Voi direte: Ma le opere nostre non appartengono a noi? Certo, poichè noi le facciamo: ma sono buone soltanto se le compiamo nella fede e nell’amore di Cristo, mossi dalla grazia; noi siamo i sarmenti, Cristo è la radice. Chi porta i frutti? Non la radice, ma il ramo, in quanto è unito alla radice e ne trae la linfa; cioè noi, in quanto siamo uniti al Cristo Gesù e in lui attingiamo la grazia. Se al vedere un albero carico di frutti pensassimo che li ha prodotti il ramo, senza tener conto della radice a cui è unito, ci inganneremmo: il tralcio è fecondo se attinge dalla radice il succo che deve nutrirlo. Così è di noi; non lo dimenticate mai: la grazia di Gesù è la radice; e il ramo separato dal tronco, e quindi da lei, muore; come faremmo noi, se non restassimo uniti a Cristo con la grazia.

Quest’unione comprende molti gradi: più sarà vivificante e forte, cioè, meno ostacoli noi frapporremo alla grazia, più in noi la fede e l’amore saranno profondi, più numerosi saranno anche i frutti che produrremo.

Bisogna dunque rivolgere con fede e amore lo spirito e il cuore a Dio prima di incominciare checchessia: lo spirito, per avere un solo fine, la gloria del Padre celeste, il cuore, per non avere altra volontà fuorchè la sua; e l’otterremo con la preghiera instante, come vuole S. Benedetto. Non si richiede che sia lunga, ma frequente; potrà ridursi a uno slancio verso Dio, a una scintilla spirituale; potrà somigliare nella forma a ciò che venne chiamato, in questi ultimi secoli, orazione giaculatoria; ma avrà valore dalla rettitudine d’intenzione, dalla purezza della fede e dalla intensità dell’ amore. Cotesta dottrina concorda mirabilmente con quello che afferma il B. Padre: l’anima tanto progredisce nella perfezione quanto avanza nella fede; perchè la fede aumenta l’amore, e l’amore sempre più abbandona l’anima all’azione di Dio, che opera in noi per mezzo del suo Spirito; cotesta azione diventa sempre più potente e feconda via via che i vizi si sradicano, le creature per noi svaniscono e ogni movente umano non ha più forza. Con la sua Regola il Grande Patriarca si sforza di dilatare l’anima nostra, affinchè vi penetri abbondantemente la grazia del Vangelo e ci produca tutti i suoi effetti di santità: «Operantem in se Dominum magniflcant». Nell’allestire l’officina dell’arte spirituale e nell’aprircene l’ingresso, il Santo si propone di dare, libertà completa alla azione divina nelle anime nostre; vuole si che cerchiamo Dio con le buone opere, ma appoggiati unicamente sul suo divin Figlio, Cristo Gesù.

Così praticamente saldamente convinti che tutto vien da Dio, siamo anche premuniti contro lo scoraggiamento. E difatti senza l’unione a Cristo nella fede e nell’amore non possiamo nulla; ma uniti a lui possiamo fare quanto Dio aspetta da noi: «Tutto posso, esclamava S. Paolo, in colui che mi fortifica. — Omnia possum in eo qui me confortat» (Fil 4,13).

La nostra unione a Cristo può bene coesistere, non col peccato specialmente se deliberato o abituale, ma con le nostre debolezze, le miserie, le manchevolezze di pura fragilità. Dio «conosce l’argilla di cui siamo fatti. — cognovit figmentum nostrum» (Sal 102,14); egli sa che lo spirito è pronto, ma la carne è debole (Mt 26,41). Non lasciamoci dunque abbattere dalle colpe, nè scoraggiare dalle tentazioni; l’ultimo strumento indicato dal B. Padre è: «Della misericordia di Dio giammai disperare. — Et de Dei misericordia nunquam de- sperare». Se anche ci fossimo serviti male degli altri non ci lasciamo mai sfuggir di mano questo: mai, numquam. Durante il corso della vita spirituale il demonio ci spinge alla tristezza, allo scoraggiamento, perchè sa che l’anima accasciata tende ad abbandonare l’esercizio delle opere buone, con grave suo danno. Se dunque ci nasce in cuore un simile movimento, stiamo sicuri che viene dal demonio o dal nostro orgoglio; e che seguendolo ascoltiamo Satana, così abile a servirsi della nostra superbia. Potrebbe mai un sentimento di diffidenza, di disperazione procedere da Dio? Mai, numquam; fossimo pure caduti in gravi colpe, o fossimo vissuti lungamente nell’infedeltà, lo Spirito Santo ci spingerebbe certamente a far penitenza, a immolarci, ad espiare — anche S. Benedetto ci esorta a piangere i peccati commessi e a correggercene (Reg. c. 4); — ma ci ecciterebbe anche a sperare, a confidare in Dio, così misericordioso (Ef 2,4); a diffidare, a scoraggiarci, a disperare, mai. Finchè vivremo quaggiù non dobbiamo mai perder fiducia; perchè le soddisfazioni e i meriti di Gesù Cristo sono infiniti, e il Padre Eterno si è compiaciuto di dare a lui tutti i tesori dl grazia e di santità che egli ha destinato alle anime: tesori inesauribili; e lo stesso Gesù «sempre intercede per noi presso il Padre: — Semper vivens ad interpellandum pro nobis» (Eb 7,25); «la nostra forza sta in lui, e non in noi stessi. — Omnia possum in eo qui me confortat».

«O mio Dio! Diriga la tua misericordia i nostri cuori; perchè senza di te non ti possiamo piacere. — Dirigat corda nostra, quaesumus, Domine, tuae miserationis operatio; quia tibi sine te placere non possumus!» (Colletta della 18 Domenica dopo Pentecoste).

 

V. Di una vita guidata dall’amore.

Per quanto sia lodevole la sollecita ricerca di Dio con le buone opere, e specialmente con l’osservanza della Regola, bisogna tuttavia premunirsi contro un certo concetto erroneo della perfezione che si trova a volte nelle anime poco illuminate. Ripongono tutta la perfezione nell’obbedienza puramente esteriore e materiale delle prescrizioni che si può caratterizzare con una parola severa ma necessaria: questo errore si avvicina, o arrischia di condurre, al fariseismo, ed è un grave pericolo.

Nostro Signore, che era la stessa bontà e verità, diceva ai discepoli: «Se la vostra giustizia non supera quella dei Farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20). Son veramente parole di Cristo! Egli, che non volle condannare l’adultera; che si degnò conversare con la Samaritana e rivelare i misteri celesti a una donna colpevole; che consentì a mangiare coi pubblicani, ritenuti come peccatori; che permise a Maddalena di lavargli i piedi e di asciugarli coi capelli; egli, così mite e umile di cuore (Ivi 11,29), lanciava l’anatema ai Parisei: «Ipocriti, guai a voi! non entrerete nel regno dei cieli» (Ivi 23,13).

I Farisei erano chiamati santi dal popolo, ed essi pure si dicevano tali; ma facevano consistere la perfezione nell’osservanza esatta delle cose esteriori. Erano così meticolosi nella fedeltà letterale e nella puntualità che si hanno esempi ridicoli del loro formalismo [5]. Non contenti di osservare scrupolosamente la legge mosaica, che già costituiva un grave peso, vi aggiungevano una lista di prescrizioni fatte da loro, dette dal Signore le tradizioni umane (Mc 7,8); ed osservavano tutto così bene che non si sarebbe potuto far loro il menomo rimprovero; era impossibile trovar discepoli di Mosè più precisi di loro. Ricordate il Fariseo descritto da Cristo quando va al Tempio per pregare. Che cosa dice? «Mio Dio, sono un uomo irreprensibile: osservo ogni norma puntualmente; digiuno, pago le decime (Lc 18,11-12); non mi potresti cogliere in fallo in nessuna osservanza; ti puoi vantare di me!». In senso letterale diceva vero; era un fedele osservante; eppure, Cristo Gesù dice che uscì dal Tempio non giustificato, senza la grazia. Perchè una simile condanna? Perchè lo sciagurato si gloriava delle sue buone azioni, e faceva consistere la perfezione nel puro formalismo esteriore, senza badare alle disposizioni interne del cuore; per questo Nostro Signore ci ripete: «Se la vostra giustizia non supera quella dei Farisel, non entrerete nel regno dei cieli».

Comprendiamo bene il significato profondo di cotesta sentenza. Che cos’è la vita cristiana? Un elenco di osservanze? No davvero; è la vita di Cristo in noi, con tutto ciò che egli ha decretato per intrattenerla; vita divina, che dal seno del Padre fluisce nel Cristo e da lui nelle nostre anime; la vita soprannaturale in lui ha la sorgente; il resto è nulla senza di ciò. Vogliamo dire forse che le prescrizioni esteriori del Cristianesimo si devono disprezzare? Affatto; nell’osservarle noi manifestiamo la vita interiore, perchè ne sono la condizione normale; ma l’interno è ciò che più importa; come nell’uomo l’anima vale più del corpo, perchè è spirituale, immortale, creata a immagine di Dio; il corpo è un po’ di fango della terra. Peraltro l’anima viene creata al momento in cui deve informarlo, e per esercitar bene le sue facoltà ha bisogno del corpo ben custodito. Anche nella Chiesa di Cristo c’è l’anima e il corpo; secondo la legge comune, bisogna appartenere al corpo, ossia alla Chiesa visibile, e osservarne le prescrizioni, per aver parte alla sua vita intima, di grazia; ma l’essenza della vita cristiana non va riposta principalmente nell’osservanza esteriore delle norme materiali, per quanto esattissima sia.

Si hanno gli stessi principi nella vita monastica: la sua essenza non è costituita dalle regole esteriori. Si potrebbe arrivare a forza di volontà e di energia a non rompere nessuna regola, e nondimeno esser vuoti di spirito monastico, senza vita interna; avremmo la scorza, non il succo; il Corpo senza l’anima; e non è raro di trovar religiosi che fanno lentissimi progressi, benchè esteriormente inappuntabili. Le osservanze esteriori, per se stesse, son poca cosa; e tra loro si equivalgono [6]. Ascoltate ciò che dice Gesù Cristo stesso: «Giovanni Battista non beveva vino, e fu biasimato; il Figlio dell’Uomo mangia quello che gli imbandiscono e i Farisei pure lo disapprovano, perchè sono una genia d’ipocriti» (Mt 11,18-19; Lc 7,33-34).

Ma quantunque le pratiche esteriori per se stesse non si differenziano tra loro, noi tuttavia abbiamo promesso di praticare quelle a noi prescritte; per questo l’osservanza ispirata dall’amore è molto accetta a Dio. Ho soggiunto: ispirata dall’amore, perchè nel cuore sta la perfezione, e l’amore è la sua legge suprema. Gesù Cristo scruta i cuori, e vede che colui il quale parla d’amore senza le opere, non ama veramente; ma è anche vero che colui il quale custodisce la sua parola esteriormente, non per impulso d’amore, non la osserva veramente. Dobbiamo associare la pratica della legge con l’amore; perchè il precetto principale che tutti li riassume insegna che dobbiamo amare [7].

L’osservanza della Regola non è la santità, ma un mezzo per arrivarci. Mi direte, non dobbiamo dunque obbedire a tutte le prescrizioni? Certo; poichè il mancare abitualmente e volontariamente a questo o quel punto di Regola: preghiera, carità, lavoro, silenzio, può essere causa di rallentamento nella vita della perfezione; ma badiamo bene: ciò che importa è il principio interiore che vivifica l’osservanza. Anche i Farisei erano rigidamente fedeli, ma per vanità, per essere applauditi dalla folla: siffatta deviazione morale intaccava ogni loro opera buona. L’osservanza esteriore, quando è scopo a se stessa e non elevata da altro principio, è per lo meno inutile alla perfezione.

La vita interiore deve vivificare la fedeltà esteriore; e questa sia il risultato, il frutto e la manifestazione dei sentimenti di fede, di confidenza e d’amore che ci animano. La Regola ci manifesta la volontà di Dio; nell’adempierla per amore consiste la fedeltà, che è il fiore più delicato in cui sboccia l’affezione quaggiù; in cielo si effonderà nel ringraziamento, nella compiacenza, nel godimento, nel possesso pieno e sicuro dell’oggetto amato; ma qui deve tradursi nella fedeltà generosa e costante, ad onta delle oscurità della fede, delle prove, di difficoltà e contraddizioni.

Come il nostro divino modello, ci dobbiamo offrire pienamente, imitando quell’offerta che fece di sè entrando nel mondo: «Ecce venio ut faciam voluntatem tuam». Ogni mattina, dopo essersi uniti a lui nella santa Comunione, diciamo a Gesù: Voglio essere tutto tuo; vivere della tua vita per la fede e l’amore; i tuoi desideri saranno i miei desideri; e come te, per amore del Padre, farò quanto può essergli gradito. «La tua legge è in mezzo al mio cuore. — Et legem tuam in medio cordis mei» (Sal 39,8-9). Vuoi che io osservi fedelmente i precetti della legge cristiana da te stabilita, quelli del codice monastico che ho accettato? Come prova del mio amore tenerissimo verso di te, dirò anch’io: «Non toglierò alla legge un jota nè un apice. — Jota unum aut unus apex non praeteribit a lege donec omnia fiant» (Mt 5,18). Dammi la tua grazia per fare tutto ciò che ti piace; e, fedele nelle piccole cose, potrò osservare anche i precetti più grandi (Lc 16,10); ma soprattutto fa che io agisca sempre per amore di te e del Padre: «Ut cognoscat mundus quia diligo Patrem» (Gv 14,31). Mio solo desiderio sarebbe dl poter dire come te: «Faccio sempre quello che è gradito al Padre mio. — Quae placita sunt ei facio semper» (Ivi 8,29)

Così insegnava Nostro Signore alla B. Bonomo, benedettina nel monastero di Bassano Veneto: «Prima di ogni azione, offrila a me, e così pure il tuo essere tutto quanto, chiedendomi aiuto e grazia onde operare solo per me; perchè io sono il tuo fine, il tuo Dio e Signore a cui devi piacere» [8].

Fare ogni cosa per amore — e l’amore sia il movente della nostra attività, il custode della fedeltà nostra — non è questo il segreto della perfezione? In ultima analisi, il valore dei nostri atti, anche più comuni, è dato dall’amore. Per questo S. Benedetto indica come primo strumento l’amor di Dio: «In primis, il Signore Iddio amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze». È come dire: Prima di tutto, nel vostro cuore sia l’amore, come luce e guida in ogni azione: vi farà adoperare facilmente tutti gli altri strumenti delle buone opere e darà valore altissimo a ogni menomo atto della vita. «Le piccole cose — dice S. Agostino — sono minime in se stesse; ma diventano grandi per l’amore fedele con cui si fanno — Quod minimum est, minimum est; sed in minimis fidelem esse magnum est» [9].

L’osservanza esterna, voluta per se stessa, senz’amore che la vivifichi, è apparenza formalistica, e anche farisaica; dobbiamo fuggirla; ma l’amore interno, che volesse esimersi dalla fedeltà esteriore, suo frutto naturale, sarebbe illusione; perchè Gesù Cristo ha detto: «Chi mi ama osserva i miei comandamenti (Gv 14,21); e si verifica tanto nella vita monastica quanto nella cristiana. Gesù ci dice: Voi mi amate? Avete lasciato tutto per me: «Propter nomen meum?» Ebbene, osservate fedelmente i menomi punti di Regola.

Dobbiamo mirare ad essere esatti per amore; non per scrupolo, o per la preoccupazione di non mancar mai, né per il desiderio di poter dire a noi stessi: Voglio che nessuno mai mi possa cogliere in fallo; sarebbe orgoglio! La vita interiore sgorga dal cuore; e se l’avete, farete quanto è possibile per adempiere amorosamente ogni prescrizione, con grande purezza d’intenzione e accuratezza: «Universa custodire… amore Christi» (Reg. c. 7). Il monaco, dice S. Benedetto, dev’essere fedele in ogni cosa… per amore di Cristo»

«Non basta dunque eseguire letteralmente la legge; l’anima della legge sta nell’osservanza per amore; ed effetto dell’amore è l’osservanza della legge. Belle speculazioni e bei discorsi, non sono ciò che dice amare; bisogna arrivare alla pratica. Gli atti esteriori non costituiscono l’osservanza della legge; l’anima della legge è amare e far tutto per amore; il rimanente è scorza; esteriorità della vita buona» [10].

«Badiamo bene a non contentarci della regolarità esteriore; anche Dio deve aver il suo spettacolo, ossia un cuore che lo cerca nell’intimo» [11]. Questo appunto ci domanda il grande Patriarca: cercar Dio nella sincerità del cuore: «Si revera Deum quaerit».

 

VI. Per riuscire ci vuole energia perseverante.

Quando siamo esatti per amore, facciamo tutto con comodità e facilità; con larghezza, libertà, amabilità e letizia. Invece, che cosa avviene spesso a chi pone tutta la perfezione nell’osservanza puramente esteriore? Se gli accade senza sua colpa di omettere questa o quella consuetudine, si turba, si disorienta; crede che tutto l’edificio spirituale debba rovinare, che la perfezione gli sfugga, e se accade più volte, si scoraggisce. È naturale in lui, poichè tutto riassume e fa consistere nell’osservanza esteriore; e per questo falso principio gli accadrà di mancar di carità coi fratelli, di disgustar gli altri. Stretto fra l’osservanza, a ora fissa, di questo o quel punto, e la fortuita occasione di aiutare alcuno, non tentennerà: prima di tutto, l’osservanza! Questo è un vincolarsi alla lettera, dura e arida. I Farisei rimproveravano il divin Salvatore di guarire i malati di sabato (Lc 6,11); accusavano i discepoli perchè avevano sfregate le spighe con le mani per mangiare i grani, col pretesto che il sabato era giorno di riposo! (Mt 12,2).

Invece, colui che ama Gesù e fa tutto per amor suo, gode libertà di spirito riguardo alle osservanze; poichè la perfezione per lui non sta principalmente nelle pratiche materiali, non le stima per se stesse; e quando è impedito di compierle non se ne turba, perchè non ci teneva smodatamente. Se vede un fratello che ha bisogno d’aiuto, ciò che può accadere, non esiterà a dargli una mano, anche se dovesse omettere questa o quella prescrizione; s’intende, purchè essa non obblighi sotto pena di peccato. E chi dicesse di lui, come i Farisei a Gesù: «Quest’uomo non è da Dio; non osserva il sabato» (Gv 9,16), mostrerebbe uno spirito farisaico; non gli si deve badare.

Impariamo anche da ciò a non costituirci giudici della regolarità di chi sta con noi. Alcuni esteriormente possono sembrarci meno regolari, eppure la loro vita interiore è più intensa; certo sarebbero perfetti se non ci fosse nulla in loro da riprendere; ma non tocca a noi far da censori, Non imitiamo i Farisei; se no, per voler essere troppo monaci, finiremo col non essere più cristiani, nè umani, mancando al grave precetto della carità. Osservate invece come le intende bene queste verità il nostro santo Legislatore: egli stimava certo le osservanze monastiche, poichè le aveva stabilite dopo lunga esperienza; ma sapeva anche farle piegare per motivi più alti. Se un giorno di digiuno arriva un ospite, S. Benedetto vuole che per umanità e carità il superiore che l’accoglie, possa rompere il digiuno: «Jejunium a priore frangatur propter hospitem» (Reg. c. 53). Un Fariseo non lo avrebbe fatto; avrebbe digiunato lui e costretto a digiunare… l’ospite suo; ma il B. Padre «che aveva in sè lo spirito di giustizia» (S. Greg., Dial. 2,8) considerava la perfezione anzitutto nella carità; sia rivolta direttamente a Dio, sia manifestata a Cristo nella persona del prossimo.

Non si deve fraintendere il mio pensiero. Non voglio lodare le mancanze alla Regola, nè scusare la negligenza, la trascuratezza; tutt’altro; voglio solo farvi stimare ogni cosa al suo vero valore, ossia al grado d’unione a Cristo nella fede e nella carità; tutto dobbiamo compiere per amore del Padre celeste, e in unione di fede con Nostro Signore. Non dimentichiamo mai: la sorgente stessa di ogni valore per le nostre opere, è l’unione al Cristo Gesù nella grazia, nell’amore con cui le adempiamo, Per questo bisogna, come dice il B. Padre, rivolgere a Dio l’intenzione, con grande intensità dl fede e d’amore, prima d’incominciare qualunque opera buona: «Quidquid agendum inchoas bonum, ab eo perfici instantissima oratione deposcas» (Prologo).

Ciò che per Iddio abbiamo intrapreso e messo sotto la sua protezione, non deve mai essere interrotto per colpa nostra; meriteremo la ricompensa promessa al servo buono, dice S. Benedetto, solo con la fedeltà perseverante.

La perseveranza è la virtù che perfeziona e corona le altre; bisogna distinguerla bene dal dono della perseveranza finale, che fa morire nel bacio del Signore, assolutamente gratuito; e nessuno, dice il Concilio di Trento, può avere la certezza assoluta che gli sarà accordato (Sess. VI, c. 13). Nondimeno, aggiunge che dobbiamo avere e conservare vivissima fiducia nel soccorso di Dio, perchè egli è onnipotente e può compiere in noi il bene prineipiato, a meno che noi stessi siamo infedeli alla grazia: «Nisi ipsi illius gratjae defuerint».

Il mezzo che ci è dato per poter far affidamento su questo preziosissimo dono, il dono per eccellenza, è la fedeltà quotidiana; e finiremo bene, con lieto successo, la grande opera della nostra vita, se terminiamo bene ognuna di quelle che incominclamo per amor di Dio: questa è appunto la virtù della perseveranza.

S. Tommaso la rannoda alla forza (II-II, q. 136, a. 2), e con grande ragione. Che cos’è mai la forza?

È una ferma disposizione dell’animo a sopportare valorosamente ogni male, anche il peggiore e più continuato, piuttosto che tralasciare il bene; e quando raggiunge il grado massimo, ci fa sopportare il martirio.

La forza è particolarmente necessaria ai cenobiti che vivono insieme in un monastero; e si direbbe che nell’istituire i chiostri la Provvidenza abbia avuto uno scopo principale: plasmare il «coenobitarum fortissimum genus» (Reg. c. 1); e uno secondario: accogliere anime deboli che si possano appoggiare sui forti. Una foresta, bella e vigorosa, lascia sussistere sotto di sè gli arbusti, i quali vivono all’ombra dei grandi alberi che li proteggono, e che soli veramente costituiscono il bosco.

S. Benedetto non ha voluto scoraggiare i deboli; ma ai forti soprattutto schiude gli immensi spazi della perfezione. L’abate agisce in modo conforme allo spirito del grande Patriarca, se non respinge sempre i postulanti che vengono al chiostro anche per fuggire le tentazioni del mondo e trovare un asilo sicuro; ma purchè si accerti che cercano davvero Iddio ed hanno carattere serio. Tuttavia il santo Legislatore si volge specialmente agli animi risoluti; questi soli possono raggiungere le cime della perfezione: «culmina virtutum» (Reg. c. 73), che egli loro addita.

La forza non costituisce solo il principio che fa aggredire: «aggredi», ma quello anche per cui resistiamo: «sustinere» ed in questo atto, il quale richiede maggior fermezza d’animo, sta principalmente la virtù, secondo S. Tommaso: «Principalior actus fortitudinis est sustinere» (II-II, q. 123, a. 6). La vita religiosa fedelmente praticata nel chiostro, richiede cotesta resistenza e la educa; per sua natura, essa tende a dare all’anima una fermezza capace di produrre anche l’eroismo, tanto più vero quanto più è nascosto. E ciò per due ragioni: perchè la natura umana cambia spesso e il tempo frange la volontà anche risoluta; e perchè la vita comune non accorda distrazioni o allettamenti. Ogni giorno, nell’oscurità della fede [12], sopportare generosamente una vita per sé monotona, come la claustrale; vivere sempre nel medesimo luogo, compiendo esercizi continuamente ripetuti, sotto il giogo dell’obbedienza, specialmente quando contraria la natura o la violenta; e tutto ciò, come vuole S. Benedetto, con pazienza, in silenzio, senza stancarsi, senza cedere né indietreggiare: «tacita conscientia, patientiam amplectatur et sustinens non lassescat vel discedat» (Reg. c. 1); fare ogni giorno quello che impone l’obbedienza, per quanto umile, oscuro, sgradito possa essere, senza lo stimolo possente dell’attività umana, in lotta con ostacoli esterni; e non accattar compenso dalle creature, nè avere distrazioni o divertimenti, come si potrebbe fare nel mondo, per interrompere l’uniformità delle occupazioni, è cosa che esige molta resistenza, padronanza di sè e fermezza [13].

Si vengono così a comprendere le parole di Dio nella Scrittura: «Vale più l’uomo paziente, che padroneggia se stesso, del guerriero, che espugna la città — Melior est patiens viro forti, et qui dominatur animo suo, expugnatore urbium» (Prv 16,32). Si capisce perchè S. Benedetto chiama viltà, ossia mancanza di forza, la disobbedienza, e dice fortissime e lucenti le armi che egli presenta (Prologo); basta leggere il quarto grado di umiltà per vedere a quali altezze di eroica resistenza egli chiama i suoi figli [14].

Per questo la Regola fedelmente osservata diventa un allenamento all’energia: disciplinando la volontà, la tempra; ordinandola, ne moltiplica le energie e la sottrae alla dissipazione [15]. È argomento trito la pazienza dei monaci nel lavoro, la loro santa ostinazione e fedeltà al compito imposto [16]: essi diedero esempio di laboriosità coscienziosa, perseverante, qualunque fosse l’obbligo loro; e furono nel Medio-Evo i pionieri della civiltà cristiana in Europa [17]. Si sarebbe ottenuto un simile risultato se i chiostri fossero stati popolati di uomini deboli? No, certamente.

Non ci dobbiamo stupire dunque se i monaci ebbero un forte petto. Missionari come Bonifacio e Adalberto attinsero nel chiostro l’energia che fece loro sopportare il martirio a corona d’una lunga vita d’apostolato, e d’incessanti fatiche: un Anselmo, un Gregorio VII, e la magnifica falange dei loro collaboratori, un Pio VII, vi appresero la mirabile fermezza d’animo che li sostenne nelle memorande lotte per la libertà della Chiesa. La vita comune del chiostro provò e lavorò le loro anime, ne temprò il carattere e diede loro cuore intrepido e magnanimo, che nessun pericolo potè spaventare, nessun ostacolo arrestare; per cui, secondo le nobili parole dello stesso Gregorio VII ai Cluniacensi, non si erano mai curvati sotto la dominazione dei principi secolari, ma erano rimasti i coraggiosi e docili difensori di S. Pietro e della Chiesa... Monaci e abati non mentirono mai alla santa Chiesa loro madre [18].

Resistenza quotidiana nella vita comune e laboriosa fedeltà richiede da noi S. Benedetto nella spirituale officina in cui ci distribuisce il lavoro e ci dà gli strumenti di santificazione. Dobbiamo adoperarli giorno e notte, «diu noctuque»; incessantemente, «incessabiliter» (Reg. c. 6); senza stancarsi per la lunghezza del lavoro, senza scoraggiarci per la poca riuscita e le sconfitte.

La forza continuamente esercitata, mantenuta, eccitata fino all’ultimo giorno, produce la perseveranza. Il nostro Santo Patriarca ci esorta chiaramente ad acquistarla allorchè dice che non dobbiamo mai allontanarci dagli insegnamenti del divino Maestro, ma perseverare nel monastero seguendo la di lui dottrina fino alla morte: «Ab ipsius nunquam magisterio discedentes, in ejus doctrina usque ad mortem in monasterio perseverantes» (Prologo). In monasterio: il santo Legislatore ci ripete alla fine del capitolo che l’officina in cui tutti gli strumenti adoperiamo è il chiostro, il monastero; mediante la stabilità nella Congregazione [19].

Per animarci a esercitare questa difficile virtù e darci coraggio a resistere, il B. Padre ci mette davanti agli occhi l’ideale divino; fa appello al supremo motivo: l’amore di Gesù Cristo: «Partecipiamo con la pazienza ai patimenti di Cristo. — Passionibus Christi per patientiam participemus» (Prologo). Bisogna davvero stringerci a Gesù; non possiamo esser suoi discepoli se non rispondiamo al suo appello; se imitiamo il giovane del Vangelo che era troppo affezionato alle creature; se dopo aver cominciato a seguirlo lo abbandoniamo; se non lasciamo i morti seppellire i loro morti (Mt 8,22); se dopo aver messo la mano all’aratro ci voltiamo indietro (Lc 9,62); se ogni giorno, quotidie, non porta ognuno la sua croce, crucem suam, e non lo segue dovunque fino alla morte; et sequatur me» (Ivi, 23). «Si salverà soltanto colui che persevererà fino alla morte: — Qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit» (Mt 10,22). Cristo Gesù prepara il posto nel suo regno a quelli soli che perdurano con lui nella prova: «Vos estis qui permansistis mecum in tentationibus meis, et ego dispono vobis regnum» (Lc 22,28-29).

Ascoltiamo cotesti gravi insegnamenti dell’ infallibile verità; domandiamo quotidianamente a Dio il dono della finale perseveranza; ripetiamo la preghiera che ogni giorno la Chiesa mette sulle labbra del Sacerdote alla Messa: «Ordina i nostri giorni nella pace, preservaci, o Signore, dalla dannazione eterna e degnati annoverarci fra i tuoi eletti. Fa che noi aderiamo sempre ai tuoi comandamenti e non permettere mai che ci separiamo da te» (Ordinario della Messa). Mostriamo a Dio che il nostro desiderio è sincero, tenendo sempre fisso lo sguardo all’ideale divino, per raggiungere la perfezione a cui Egli ci chiama, ad imitazione del suo divin Figlio, che è la forma della nostra predestinazione; per ognuno di noi è stabilita una misura secondo la quale Egli ci sarà dato: «Secundum mensuram donationis Christi» (Ef 4,7). Non possiamo sapere quaggiù quale sia la misura a noi prefissa; ma dobbiamo formar in noi il Cristo, riprodurne i lienamenti, come unico ideale che il Padre stesso ci ha mostrato: «Inspice et fac secundum exemplar» (Es 25,40).

Se saremo fedeli al lavoro, ad onta delle tentazioni e delle difficoltà, verrà il giorno della ricompensa promessa da Dio: ce ne assicura il grande Patriarca nel terminare il Capitolo che tratta degli strumenti delle buone opere: «Illa merces nobis a Domino recompensabitur quam ipse promisit». Se ci saremo costantemente applicati per amore a perfettamente compiere i desideri del nostro Padre celeste; se avremo sempre fatto quello che a lui piace: «Quae placita sunt ei facio semper» (Gv 8,29), riceveremo certamente la magnifica ricompensa promessa da Colui che è la stessa fedeltà: «Vieni, o servo buono; poichè sei stato fedele nelle piccole cose, entra nella gioia del tuo Signore; ti farò partecipe di grandi beni (Mt 25,21).

Ogni santo che entra in cielo ode coteste parole benedette; è il benvenuto del Cristo Gesù. Quali beni gli sono dati? Dio stesso, nella sua Trinità e le sue perfezioni; e con Dio, ogni bene spirituale. L’anima gli sarà somigliante perché lo vedrà qual’è nell’essenza: «Similes ei erimus, quoniam videbimus eum sicuti est» (1Gv 3,2). Con questa visione ineffabile, ricompensa della fede, l’anima sarà stabilita in Dio, e troverà in lui la divina fermezza; aderirà a lui per sempre, nell’amplesso perfetto, senza timore di perder mai il Bene eterno e immutabile: «Participatio incommutabilis boni» (S. Agostino; Epist. ad Honor. 140,31).

In attesa di veder rifulgere al nostro sguardo purificato gli splendori della luce eterna ridiciamo spesso la preghiera della Chiesa che sintetizza i diversi punti di questa conferenza: «Dio, amico e riparatore dell’innocenza, indirizza a te i cuori dei tuoi servi; affinchè, possedendo il fervore del tuo spirito, divengano stabili nella fede ed efficaci nelle opere» (Feria IV dopo la II Dom. di Quar.; Orazione supra populum).

 

NOTE

[1] Regola, c. IV. - Le parole metaforiche: strumenti, officina ci vengono dall’Oriente, e son comunemente adoperate nel linguaggio ascetico dei primi secoli e dei Padri del deserto. Vedi anche 5. Tommaso, II-II, q. 184, a. 3. c. fin; q. 188, a. c. fin.

[2] Questa massima costituisce, per i filosofi, il primo principo dell’ordine morale.

[3] Vedi S. Gregorio Dial. L. II. Narra come S. Benedetto rovesciò gli idoli dl Montecassino; ed era stato prima indegnamente trattato da un cattivo prete; per poco non era stato avvelenato dai perfidi monaci che dimoravano a Vicovaro presso Subiaco.

[4] S. Agostino, Tratt. V. in I. Joann. N. 4, definisce cosi i tre stati: La carità, nata che sia, si nutre; nutrita, si rinforza; rinforzata, si perfeziona: Caritas, cum fuerit nata, nutritur: cum fuerit nutrita, roboratur; cum fuerit roborata, perficitur. — S. Tommaso (II-II q. 24 a. 9) divide le anime in tre categorie: inicipientes, proficientes, perfectl.

[5] Vedi: Le Christ dans ses mystères, c. 11, Quelques aspects de la vie publique du Sauveur.

[6] Vedi il c. 3: L’abate, rappresenta Cristo; par. 7 in cui è detto ciò che S. Benedetto pensa su questo argomento.

[7] Bossuet: Méditations sur l’Evangile. La cène; 8. jour. Ed. Marbeau p. 706.

[8] La B.se Bonomo, moniale bénédictine, par D. Du Bourg, p. 54. Si legga nel Libro della grazia speciale di S. Matilde il c. 27 della III. parte: Come il cuore dell’uomo si unisce al cuore di Dio.

[9] De doctrina christiana. L. IV. c. 18. Anche il Pascal ha scritto. Facciamo le cose piccole come fossero grandi, a cagione della maestà di Gesù in noi.

[10] Bossuet, Méditations sur l’Evangile; Dernière Semaine du Sauveur, 44e jour.

[11] Ivi, p. 131.

[12] A parità di cose, ha bisogno di maggior fede colui che vive di vita nascosta con Dio (e non lo vede per esperienza propria) che non un altro il quale compie opere esteriori, e nel loro continuo sviluppo constata il risultato dei suoi sforzi.

[13] Fu domandato un giorno al Mabillon di far conoscere i fatti straordinari di un religioso della Congregazione dl San Mauro, D. Claudio Martin; ed egli scrisse due sole righe, concise ma espressive: So di D. Martin ciò che tutti hanno visto; ma la sua vita costante e uniforme nel bene per me vale i miracoli. (Vie D. Claude Martin. Tours, 1697, p. 388).

[14] Si noti come in questo solo paragrafo il santo patriarca accumula le parole che indicano resistenza: sufferre, non discedere non lassescere; due volte scrive: patientia; quattro volte: sustinere.

[15] Si leggano in proposito le belle pagine del Bauthier: Le Sacrifice; c. 16, Le sacrifice et la volonté.

[16] Il santo Legislatore combatte ogni forma e manifestazione d’instabilità, irrequietezza e capriccio. Si legga il c. 48, nel quale vuole che i monaci leggano per ordinem et integre i libri dati loro dell’Abate per edificazione in quaresima.

[17] Berliére. L’Ordre monastique, cc. 2 e 3. L’apostolat monastique, l’oeuvre civilisatrice.

[18] Ivi: Cluny et la lutte des Investitures. «Ricordiamo l’intrepida condotta di un Vescovo educato nel chiostro, Mgr. Benzler, che si trovò ultimamente a Metz in momenti difficilissimi. Originario dalla Vestfalia seppe tuttavia resistere per vent’anni alle pressioni del governo prussiano, specialmente riguardo ai matrimoni misti; ma fu eroico specialmente durante la guerra. Nella questione scolastica, e nella lotta per la confessionalità dei Cimiteri, non ha ceduto».

[19] Vedi la IV Conferenza La società cenobitica, nella quale si parla della stabilità.

 

 

 


 

A - IL DISTACCO

(Reliquimus omnia)

 

 

Capitolo 8

LA COMPUNZIONE DEL CUORE

 

SOMMARIO: Si può ritornare a Dio solo quando sono stati rimossi gli ostacoli. — I. La compunzione è mezzo efficacissimo per evitare il peccato; è il sentimento abituale di contrizione. — II. Che cosa ne dicono i Santi e insegna la Chiesa. — III. Invece di opporsi alla confidenza e al compiacimento in Dio, la compunzione li facilita. — IV. Ci fortifica contro le tentazioni. — V. Come dobbiamo resistere alla tentazione. — VI. Mezzi con cui si acquista la compunzione: preghiera e contemplazione frequente dei patimenti di Gesù.

 

Fin dalle prime righe del Prologo, S. Benedetto presenta all’anima la vita monastica come un ritorno a Dio: «Ut ad eum redeas a quo recesseras». Ne sapete il motivo: il peccato, fin dalla nascita ci distoglie da Dio: «Eratis longe» (Ef 11,13), dice S. Paolo. Col peccato, l’anima si allontana da Dio, bene infinito e immutabile, e si dà alla creatura, che è un bene momentaneo: così lo definisce S. Tommaso: «Aversio ab incommutabili bono et conversio ad commutabile bonum» [1]. Se dunque vogliamo davvero cercar Dio, dobbiamo romper ogni attacco disordinato alla creatura e rivolgerci a lui pienamente; per S. Benedetto è la conversione: «Veniens quis ad conversionem» (Reg. c. 58.

Il B. Padre non intende la parola nel senso moderno, più particolare e preciso; ma accenna al complesso degli atti coi quali l’anima, distogliendosi dal peccato, svincolandosi dalla creatura e da ogni movente umano, si adopera tutta nell’allontanare gli ostacoli che le impediscono di andar a Dio e di cercare lui solo.

Tra il peccato e Dio, lo sapete, c’è opposizione assoluta; non vi può essere alleanza tra Cristo e Belial, che è padre del peccato, insegna S. Paolo (2Cor 6,15); sarebbe illusione credere che Dio possa comunicarsi a noi se non abbiamo ancora detestata la colpa: illusione pericolosa, ma più frequente di quanto si creda. Dobbiamo desiderare ardentemente l’unione col Verbo divino; ma con desiderio efficace, che ci spinga a distruggere ciò che in noi è ostacolo a cotesta unione. Alcuni trovano ammirabile — com’è davvero — il contenuto positivo della vita spirituale, l’amore, l’orazione, la contemplazione, l’unione con Dio; ma dimenticano che coteste belle cose sono stabili soltanto nell’anima purificata dal peccato e da ogni abito vizioso; la quale tende incessantemente, con generosa vigilanza, a far morire le radici del peccato e dell’imperfezione; molto debole è invece la vita spirituale dell’anima se vi sussistono tendenze viziose non combattute; l’edificio ascetico è pericolante quando non posa sulla fuga costante del peccato, perchè è fabbricato sulla sabbia.

Quando si vedono gli esempi terribili di quelli che lasciano il sacerdozio, o dei religiosi, che «fanno piangere gli angeli» (Is 33,7), ci si domanda: Com’è possibile? Donde queste cadute, in cui rovinano anime privilegiate? È potuto succedere tutto ad un tratto? No; non sono catastrofi subitanee; spesso la causa è remota; i fondamenti dell’edifizio erano minati dall’orgoglio, dall’amor proprio, dalla presunzione, dalla mancanza di timor di Dio, e dalla sensualità; e ad un tratto soffiò un vento impetuoso di tentazione per cui l’edificio scosso violentemente, è rovinato in un attimo.

Per questo S. Benedetto ci raccomanda il lavoro di correzione, che deve precedere lo sviluppo, il rigoglio e la conservazione della vita divina nell’anima. Le radici del peccato ossia la concupiscenza degli occhi, della carne e la superbia, non sono mai interamente distrutte; quindi il lavoro di correzione non finisce mai; e benché l’anima quanto più progredisce tanto più acquista libertà spirituale e opera più agevolmente il bene, tuttavia non deve mai trascurare di vigilare attentamente.

Il santo Legislatore ci fa emettere la promessa di conversione, che ci impegna per la vita intera. È il secondo voto: «Promitto conversionem morum meorum» [2]: siamo quindi obbligati alla perfezione, cioè all’unione con Dio e alla conformità con la volontà sua per amore; ma ci sono ostacoli che ce lo impediscono, e dobbiamo levarceli dalla via, se vogliamo raggiungere lo scopo. S. Benedetto parla chiaro, e ci mette fra mano gli strumenti per sradicare i vizi: Non ceder alla collera; non riservare ad altro tempo la vendetta; avere cuore sincero; non dare false prove di affetto; non rendere male per male; guardarsi da ogni parola cattiva o pericolosa, ecc. (Reg. c. 4). Vuole pure che ogni giorno confessiamo a Dio con lagrime e pianto nell’orazione i mali passati, sforzandoci di emendarli: «De ipsis malis de cetero emendare» (Ivi). Altrove poi ci dice che solo quando l’anima sarà purificata da ogni vizio arriverà alla carità perfetta, per la quale farà ogni cosa con gioia, operando in lui lo Spirito Santo (c. 7).

Vedete dunque quanto sia necessario cotesto lavoro di distruzione del peccato e dell’affezione al peccato, se vogliamo rivolgerci a Dio unicamente: non è un lavoro da intraprendere, per il suo valore in sé; ma come condizione di vita, e come il solo mezzo di sviluppare e conservare in noi l’unione con Dio. Esaminiamo dunque partitamente in che modo vi dobbiamo attendere; e vedremo che uno dei migliori aiuti per riuscire è la compunzione del cuore. Studieremo ciò che pensano i Santi e la Chiesa circa questo sentimento; — i frutti preziosi che reca all’anima; — e le sorgenti da cui deriva.

 

I. La compunzione è mezzo efficacissimo per evitare il peccato.

Il peccato mortale è l’ostacolo essenziale alla unione divina; il peccato veniale deliberato impedisce il progresso spirituale; né possono accordarsi con la perfezione.

Col peccato mortale l’anima si distoglie radicalmente da Dio e mette il suo fine nella creatura; non può dunque più sussistere l’unione divina, e se la morte la sorprende in cotesto stato, per sempre è fissata in simile allontanamento da Dio; «Via da me, maledetti. — Discedite a me, maledicti» (Mt 25,41): il Padre celeste più non vede nel peccatore l’immagine del suo Figlio Gesù; e perciò eternamente lo esclude dall’eredità. Ma voi sapete che il peccato mortale si cancella con la contrizione perfetta e col sacramento di penitenza, che applica all’anima i meriti infiniti di Cristo, e la purifica dalle colpe. Per i peccati veniali non è necessario ricorrere al sacramento di penitenza; quantunque sia ottima cosa, poiché fu dal Salvatore istituito per la remissione di tutte le colpe; ma un atto di carità, una comunione fervente cancella le mancanze veniali, purché non ci sia l’affetto al peccato. Badiamo bene alla condizione, verità importantissima nella vita spirituale.

Quando si tende alla perfezione, bisogna accuratamente distinguere i peccati di fragilità da quelli deliberati: se pecchiamo per sorpresa, per debolezza, la colpa veniale non ci arresta nel cammino; anzi, risollevandoci umilmente, troveremo in essa un nuovo stimolo ad amar Dio ancora di più. Ma tutt’altro avviene nelle colpe abituali, o pienamente deliberate: se l’anima le commette abitualmente, e con freddezza, senza rimorso, si lascia andare a mancanze volute, continue alla Regola, sia pure in ciò che non obbliga sotto pena di peccato, essa non può fare veri e costanti progressi nella perfezione. Non sono le debolezze, le infermità del corpo e dello spirito che ostacolano la grazia: Dio conosce la nostra miseria e l’argilla di cui siamo fatti; invece, la disposizione che paralizza, per dir così, in noi l’azione sua, è l’attacco al nostro senso e all’amor proprio, sorgente più feconda d’infedeltà e di colpe deliberate. Pochi giorni prima della sua benedetta Passione, il Salvatore, osservando Gerusalemme, pianse sopra di lei: «Flevit super illam» (Lc 19,41).

«Quante volte io volli ricondurti a me, al Padre mie e tu non l’hai voluto. — Et noluisti» (Mt 23,37). Pesate cotesta parola: quando il Signore trova simile resistenza, sia pure in cose piccole, sente, per dir così, che non può fare l’opera sua nell’anima; perchè essa coltiva in sé abitudini contrarie all’unione divina.

Dio vorrebbe comunicarsi a lei, ma le barriere non gli permettono libertà di azione; l’anima non corrisponde alle sue prevenienze; e ogni volta risponde no all’ispirazione del Paraclito che le suggerisce atti di obbedienza, di carità, di umiltà, di dimenticanza di sé; come potrà dunque far progresso? Non può.

Quest’anima non sale a Dio; anzi, si può temere assai che finirà col cadere in colpe gravi; le veniali accennate dianzi preparano la sua separazione da Dio, perchè non ha vigore di resistere alle tentazioni; lo Spirito Santo, contristato, come dice S. Paolo (Ef 4,30), dalle resistenze volontarie, non parla più; e alla prima scossa l’anima cadrà in colpa mortale: l’esperienza lo ha ripetutamente provato.

Lo stato di tiepidezza è particolarmente dannoso quando proviene dai peccati dello Spirito; orgoglio e disobbedienza; fa sorgere allora come un muro tra Dio e noi; e poiché Dio è la principale sorgente della perfezione, l’anima che si sottrae all’azione divina non può far progresso. Per evitare cotesto stato pericoloso è ottimo mezzo la compunzione del cuore; e per noi, obbligati a tendere alla perfezione, è di grandissima importanza; se tante anime non progrediscono nell’amor di Dio e sembrano, per loro sventura, adagiarsi comodamente in una vita di venialità e d’infedeltà deliberate, ciò dipende dal non essere animate da spirito di compunzione. Ma che cos’è mai la compunzione?

È una disposizione dell’anima che la mantiene nello stato abituale di contrizione. Ecco una persona dedita alla pietà, che sventuratamente precipita in peccato mortale: ci sono pur troppo, abissi di debolezza e altezze di santità! La misericordia divina le concede la grazia di risollevarsi, e confessare il suo peccato con pentimento vero e profondo; non è possibile che ricada nella stessa colpa quando non sente in sé un così sincero dolore di averla commessa! Guardate il figliuol prodigo allorché ritorna alla casa paterna; non possiamo immaginare che, appena entrato, si dia l’aria disinvolta e sicura, come se fosse stato sempre fedele! Ma voi direte: Il padre gli ha perdonato! È vero, e l’ha ricevuto a braccia aperte; senza rimproverarlo, senza dirgli: Sei uno sciagurato; anzi, l’ha stretto al cuore; e con tanta gioia da far dare per lui un festino; ha perdonato tutto, dimenticato tutto, e cotesta condotta del buon padre simboleggia la divina misericordia. Ma lui, il figlio perdonato, quali sentimenti prova, in quale atteggiamento si tiene? Senza dubbio lo stesso atteggiamento di umiltà che aveva quando gli si gettò ai piedi: «Padre, ho peccato contro di te; non sono degno di essere chiamato tuo figlio: trattami come l’ultimo servo». Coteste disposizioni dovettero animarlo durante la festa del ritorno; e se anche col tempo la contrizione divenne meno intensa, mai quel sentimento gli si cancellò interamente dall’animo; nemmeno quando fu riammesso al posto che occupava prima in famiglia. Quante volte dovette dire al padre: «Mi hai perdonato ogni cosa, lo so; ma il mio cuore ha bisogno di ripetere con profonda riconoscenza che gli dispiace d’averti offeso, e che desidera rimediare al passato con una fedeltà maggiore».

Tali devono essere i sentimenti di un’anima che ha offeso Dio, disprezzate le sue perfezioni, e cagionato i patimenti di Cristo. Ma supponiamo ora in quest’anima, lo stato abituale di contrizione: è quasi impossibile che ricada nel peccato volontario; perchè si trova in una disposizione d’animo che per essenza le fa respingere la colpa; lo spirito di compunzione è appunto la contrizione abituale e stabile; per cui l’anima è costituita in uno stato di odio al peccato; coi movimenti interni che provoca, è efficacissimo contro le tentazioni: vi è irreducibile antitesi tra lo spirito di compunzione e il peccato; perchè rassoda l’anima nell’orrore del male e nell’amor dl Dio. Per San Bernardo la compunzione è l’equivalente della perfezione; perchè quando è sincera, preserva dall’offendere Dio.

 

II. Che cosa ne dicono i Santi e insegna la Chiesa.

La spiritualità antica rendeva la pietà molto stabile; ad onta delle inevitabili eccezioni, vediamo i monaci, venuti spesso da popolazioni molto più rozze delle nostre, raggiungere in breve un alto grado di vita interiore e perseverare; invece molte anime ai giorni nostri, anche religiose e consacrate a Dio, hanno una vita spirituale instabile: hanno continue fluttuazioni, per cui l’interiore ascesa è contrariata, sempre incerta. Dobbiamo ricercar la causa di cotesti vacillamenti nel difetto di compunzione; perchè il mezzo più sicuro di riaffermare la vita interna è lo spirito di compunzione che tutta la deve impregnare.

Generalmente gli autori moderni sono più sobri nel trattarne [3]; gli antichi scrittori ascetici insistevano molto sull’importanza della compunzione nella vita spirituale; e i più grandi santi sempre coltivano e raccomandano una simile disposizione. «Sapete, diceva San Paolo agli Efesini (At 20,18-19), che dal giorno in cui arrivai in Asia, ho sempre servito Dio fra voi, nell’umiltà e nel pianto». L’Apostolo si ricordava del tempo in cui era persecutore della Chiesa (Fil 3,6); e non esitava a scrivere nella lettera a Timoteo di esser stato bestemmiatore e persecutore; di aver insultato Dio, come primo fra i peccatori; tuttavia ha ottenuto misericordia appunto affinché il Cristo potesse manifestare anzitutto in lui la sua inesauribile longanimità, come esempio a quelli che creder dovevano in Cristo. E al ricordo della misericordia infinita a lui usata, l’Apostolo esce in un grido di riconoscenza: «al re dei secoli, immortale, invisibile, solo Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli» (1Tm 1,13 ss).

Un altro convertito, che trovò egli pure misericordia presso Dio, Agostino, scriveva (Ep. 130, c. 10): «Parlar molto pregando è far una cosa necessaria con parole superflue. Pregar molto significa bussare a lungo con un pio movimento del cuore alla porta di colui che preghiamo; e la preghiera consiste più in gemiti e pianto che in grandi discorsi e profuse parole. Dio accoglie le lagrime versate alla sua presenza; i nostri gemiti non sono ignorati da Colui che creò tutto col suo Verbo e che non ha bisogno delle nostre parole umane».

Il nostro B. Padre ci ridice la stessa cosa: «Nella preghiera dobbiamo soprattutto ritemprare l’anima nostra nelle lagrime» (Reg. c. 52), e altrove soggiunge: «Non presumiamo proporre ai potenti cosa alcuna se non con umiltà e riverenza; quanto maggiormente a Dio con umiltà e divozione pura è da pregare? Non con molte parole, ma in purità di cuore e compunzione dl lagrime sappiamo di essere esauditi. — Non in multiloquio, sed in puritate cordis et compunctione lacrymarum nos exaudiri sciamus» (c. 20). Il nostro Patriarca non avrebbe osato affermarlo senza convinzione profonda, cagionata dall’esperienza propria: considerate il ritratto del monaco perfetto, tracciato da lui nel XII grado d’umiltà, del monaco presso a raggiungere la perfezione della carità e l’unione divina: «Mox ad caritatem Dei perveniet illam, quae perfecta foras mittit timorem». In quale atteggiamento sta? «Si considera come indegno di restar davanti a Dio, per le proprie colpe» (c. 7).

Cotesto sentimento troviamo presso tutte le anime sante. Una signora di alta nascita, che si era convertita dopo aver vissuto nelle vanità e nel lusso, scriveva a S. Gregorio che sempre lo avrebbe importunato finché fosse assicurata da parte di Dio che i suoi peccati le erano perdonati. Il Santo Pontefice, informato allo spirito della Regola, le rispose «che essa chiedeva cosa difficile e svantaggiosa: difficile, perchè egli non era degno di avere rivelazioni; svantaggiosa anche per la di lei anima, perché era giovevole alla sua salute non esser certa del perdono — di certezza assoluta che esclude ogni dubbio — se non in fine di vita; perchè allora solo non avrebbe più potuto piangere i suoi peccati e affliggersene davanti a Dio. Fino a che fosse venuta per lei l’ultima ora, doveva vivere in compunzione e non lasciar passar giorno senza cancellare con le lagrime le macchie del passato» (Epist. 1. VII, ep. 25). La nostra S. Geltrude, vero giglio di purità, diceva al Signore, nel sentimento profondo della sua bassezza: «Il più grande miracolo, Signore, per me, è che la terra possa sopportare una così grande peccatrice come sono io» [4]. Santa Teresa, formata alla perfezione da Nostro Signore stesso, aveva scritte nel suo oratorio queste parole del Salmista: «Non intres, Domine, in judicium cum servo tuo» (Sal 142,2) e le ripeteva in ogni sua preghiera: la Serafina del Carmelo, che non commise mai peccato mortale, non esce in esclamazioni d’amore nè in lodi sublimi ma in un grido di compunzione: «Non entrar in giudizio, Signore, con la tua serva» [5]. S. Caterina da Siena continuamente implorava la divina misericordia e terminava ogni sua preghiera con questa invocazione: «Peccavi, Domine, miserere mei: Abbi pietà di me, Signore, perchè ho peccato» [6].

Non erano atti isolati, o slanci passeggeri; ma l’espressione di un sentimento interno permanente, che prorompeva irresistibile: e cotesto sentimento abituale di compunzione è così prezioso che, a quanto dice S. Teresa, le anime prevenute dai divini favori ne riboccano. Parlando di quelle che sono giunte alla «sesta dimora del Castello interiore», la Santa raccomanda loro di non dimenticare le colpe passate. «Più il nostro Dio si mostra prodigo, scrive essa, e più cresce il dolore dei peccati commessi; e sono persuasa che non scompaia se non in quel soggiorno, in cui nessuna cosa può rattristarci... L’anima considera solo la sua ingratitudine verso colui che l’ha colmata di tanti benefici e che meriterebbe di essere servito con tanta generosità. La munificenza che ha dimostrato verso di lei le fa sempre più conoscere la sua grandezza; rimane atterrita nel vedere l’audacia delle sue colpe; piange le irriverenze commesse, e sempre si duole dell’insensatezza con cui ha disprezzato una si augusta Maestà per vilissimi oggetti. Questo rimpianto la penetra più ancora della riconoscenza per le grazie che riceve; per quanto grandi esse siano, le arrivano come portate in certi momenti dalle ondate impetuose d’un fiume: i suoi peccati invece sono come un pantano che vede sempre; continuamente le tornano alla memoria, e formano per lei una gravissima croce» [7].

Anche la Chiesa ci dà esempi impressionanti di compunzione del cuore nella liturgia della Messa. Osservate che cosa fa il sacerdote al momento di offrire il santo sacrificio, che è il più sublime omaggio della creatura al Creatore; si suppone che egli debba essere in istato di grazia, e amico di Dio; altrimenti se celebrasse, commetterebbe un sacrilegio; e non vi pare che nel momento in cui compie il più nobile atto di culto, il sacerdote, chiamato da Dio e prescelto fra gli altri per così grande dignità, debba effondersi in sentimenti d’amore? Invece la Chiesa, sua tutrice infallibile, principia dal fargli confessare, davanti a tutti i fedeli, che è creatura, non solo, ma peccatore: «Confiteor Dei omnipotenti... et vobis, fratres, quia peccavi nimis». Nel corso dell’atto sacro, gli fa ripetere moltissime volte le formule che domandano perdono, come per penetrarne bene la mente e il cuore: «Aufer a nobis, quaesumus, Domine, iniquitates nostras. — Togli dal nostro animo, te ne preghiamo, o Signore, le nostre iniquità, afflnchè possiamo entrare con cuor puro nel tuo santuario»; e anche durante il «gloria in excelsis» il Sacerdote intreccia alle esclamazioni d’amore e di santa allegrezza gli accenti d’implorazione: «Pietà di noi, tu che cancelli i peccati del mondo». Offre a Dio l’ostia immacolata per «i suoi innumerevoli peccati e offese e negligenze»; prima della consacrazione chiede di essere salvato dalla dannazione eterna: «Ab aeterna damnatione nos eripi»; e quando dopo aver consacrato, si identifica col Cristo stesso, supplica Iddio di farlo partecipare alla società dei Santi ad onta delle sue colpe: «Nobis quoque peccatoribus... non aestimator meriti, sed veniae largitor admitte». Viene il momento in cui deve unirsi sacramentalmente alla vittima divina, e si batte il petto come un peccatore: «Agnello di Dio... non considerare i miei peccati... fa che l’unione della mia anima con te non mi sia causa di condanna o sorgente di perdizione».

Tanti sacerdoti e pontefici virtuosissimi, che noi veneriamo, pronunciarono queste parole: «Pro innumerabilibus peccatis meis... — ... Vi offro, o Padre santo, quest’ostia immacolata per gl’innumerevoli miei peccati»; e la Chiesa li ha obbligati a ripetere: «Signore non son degno»; perchè fa così? Perchè senza la compunzione non avremmo il vero spirito cristiano. Allorché il sacerdote chiede che il suo sacrificio venga unito a quello di Cristo, egli dice: «Accoglici, o Signore, umili di spirito e contriti di cuore». L’oblazione di Gesù è sempre accetta al Padre; ma, in quanto l’offriamo noi, è gradita soltanto se la nostra anima è profondamente compunta ed ha quel basso concetto di sé, che è frutto della compunzione.

Questo è lo spirito che anima la Chiesa, sposa di Cristo, mentre compie quaggiù l’azione più sublime e più santa. Anche quando l’anima s’identifica con Cristo, unendosi a Dio nella comunione, vuole che non dimentichi la sua condizione di peccatrice; vuole che sia tutta impregnata di compunzione: «In spiritu humilitatis et in animo contrito suscipiamur a te, Domine».

 

III. Invece di opporsi alla confidenza e al compiacimento in Dio, la compunzione li facilita.

Nessuno può dubitare che siffatti sentimenti di compunzione, prescritti dalla Chiesa per la Messa, non siano convenientissimi, ma si potrebbe crederli adatti solo al momento in cui si rinnova il sacrificio della croce, o quando si ricevono i Sacramenti; nel solito ritmo della vita interiore non sono essi una pia esagerazione, un’iperbole? No davvero!

Sentite ciò che scrive S. Giovanni, nella sua lettera divinamente ispirata: «Chi afferma di essere senza peccato, mente a se stesso e in lui non è la verità» (1Gv 1,8). Per le anime grandi, per i Santi, è cosa chiara e lampante; perchè quanto più si avvicinano a Dio, sole di giustizia e santità immacolata, tanto meglio scorgono le macchie che li deturpano. Lo splendore meraviglioso della luce divina in cui sono immersi, fa spiccare, per contrasto, le loro minime colpe e dà ad ogni mancanza un risalto impressionante; con lo sguardo interiore, purificato dalla fede e dall’amore, essi penetrano più profondamente nelle divine perfezioni, per cui scorgono anche più chiaramente il loro nulla e apprezzano meglio il grande abisso che le separa dall’infinito [8]. La più intima unione con Cristo dà ai Santi un più vivace e chiaro senso dei dolori sofferti da lui in espiazione dei peccati; e per la cognizione più elevata della vita di grazia, possono meglio comprendere l’orribile bruttezza dell’offesa al Padre celeste, del disprezzo della passione di Cristo, della resistenza interiore allo Spirito d’Amore. Si comprende, come per un solo peccato commesso provino una intima e immensa pena; il loro atteggiamento costante di pentimento e di detestazione della colpa, prova la soprannaturale delicatezza, che tanto piace a Dio e ne attira l’infinita misericordia.

Né cotesto stato di compunzione è incompatibile con la confidenza e la gioia spirituale, con le effusioni dell’amore che si compiace in Dio; tutt’altro! S. Agostino, S. Benedetto, S. Gregorio, S. Bernardo, S. Geltrude, S. Caterina da Siena, S. Teresa, traboccavano di compunzione, ma erano anche infiammati d’amor divino ed estasiati nella gioia immensa dello Spirito; erano arrivati a un sublime grado di unione con Dio. L’amore e la gioia non trovano ostacolo nel pentimento abituale che costituisce lo spirito di compunzione, ma solidissimo fondamento, da cui possono sicuramente slanciarsi verso Dio; è questo anzi il frutto prezioso di un simile atteggiamento del cuore. La compunzione, infatti, si alimenta principalmente nel ricordo delle offese fatte a Dio, bontà infinita; partecipa dunque, per natura, alla contrizione e ci spinge continuamente a riparare il passato con raddoppiato fervore, per sentimento di generosità e di amore; fa si che l’anima diffidi di sè, ma la rende anche perfetta, che è una forma d’amore specialissima e pura; ammirabilmente docile alla mano di Dio, attenta ai moti dello Spirito Santo. La compunzione impedisce la dissipazione volontaria e corregge la leggerezza, che sono ostacoli pericolosissimi alla vita soprannaturale e contrastano con lo stato religioso e cosi pure la negligenza nel trattare con Dio. Non c’è cosa più pericolosa all’anima quanto la familiarità indiscreta col Signore; ora la compunzione ce ne preserva. «Ci porta, dice il P. Faber (Progressi dell’anima), a ricavare maggior profitto dai Sacramenti, perchè ci spinge a riceverli con maggior dolore e umiltà, con più vivo sentimento dei nostri bisogni. La grazia, non bussa mai invano al cuore informato da questo pio rincrescimento... La tiepidezza non può coesistere con cotesto santo dolore: sono due sentimenti che non stanno insieme nella stessa persona».

La compunzione è a volte così viva e profonda da diventar principio di una vita nuova, infiammata d’amore e tutta consacrata al servizio di Dio; e allora, dice S. Gregorio, l’anima penitente diventa più cara a Dio dell’innocente che passa la vita in torpida sicurezza: «Et fiat plerumque Deo gratior amore ardens vita post culpam, quam securitate torpens innocentia» (Reg. past. III, c. 28, PL t. 77, col. 107).

La compunzione, fonte di umiltà e di generosità, induce l’anima ad accettare pienamente la volontà divina, sotto qualunque forma le si presenti, con le prove a cui ci sottomette; perchè l’anima le considera come mezzi per vendicare sopra di sé le perfezioni e i diritti di Dio, misconosciuti od oltraggiati dal peccato. Essa rimpiange tanto di aver offeso l’Amore, che quando alcunché la contraria e le riesce duro, penoso, l’accetta generosamente, trovandovi una sorgente infinita di meriti. Voi conoscete l’episodio della vita di Davide, quando sulla fine del suo regno, dovette andar via da Gerusalemme per la rivolta di Assalonne; mentre fuggiva incontrò un parente di Saul, chiamato Simei, che gettò pietre al vecchio re, proferendo parole di maledizione: «Vattene, vattene, uomo sanguinario; sei infelice come meriti!» Uno dei servi di Davide volle castigare l’insultatore; ma il re non glielo permise. «Lasciatelo fare, diss’egli, il figlio delle mie viscere attenta alla vita del padre; è forse strano che cotesto forestiero mi colmi d’ingiurie? Lasciate che mi maledica; è volere di Dio. Forse Egli terrà conto della mia afflizione [9] e in cambio di questa maledizione mi concederà il bene» (2Sam 16). Ricordando le sue colpe, e pieno il cuore di sentimenti di compunzione che gli ispirarono il Miserere, il santo re accettava gli oltraggi in espiazione dei suoi peccati.

Cotesto sentimento è anche principio di viva carità verso il prossimo. Se nei giudizi siete severi ed esigenti, se notate prontamente i difetti altrui, non avete in voi la compunzione, poiché l’anima investita da cotesto sentimento si vede piena di colpe e di sue debolezze, tale qual’è al cospetto di Dio; tanto basta ad estinguere in lei lo spirito di vanagloria, e a suscitare compassione e indulgenza per gli altri.

Ma non crediate che non possa per ciò stesso avere allegrezza; tutt’altro! La compunzione, eccitando l’amore, ravvivando la generosità, fomentando la carità, ci purifica sempre più, e ci rende meno indegni di unirci al Signor nostro Gesù Cristo; ci dà sicura fiducia nel perdono divino e conferma l’anima nella pace; per cui non diminuisce punto la gioia spirituale, né fa apparire meno amabile la virtù. Credete a S. Francesco di Sales che, meglio d’ogni altro, sapeva parlare dell’amor di Dio e della gioia che produce: «La tristezza della vera penitenza, scrive egli, non dovrebbe esser detta tristezza, ma dispiacere, o sentimento di detestazione del male; è una tristezza che non intorpidisce lo spirito, ma lo rende attivo, pronto, diligente; non opprime il cuore, ma lo solleva con la preghiera e la speranza, portandolo a slanci di fervore nella divozione; è una tristezza, che, nell’amarezza più profonda, produce sempre la dolcezza di una incomparabile consolazione». E citando un antico monaco, il quale è l’eco fedele della vita ascetica dei primi tempi, il grande Dottore soggiunge: «Dice Cassiano che la tristezza che ispira soda penitenza e il soave pentimento che mai non si rimpiange, è docile, umile, affabile, buona, soave, paziente, come quella che spunta dalla carità e ne proviene; per cui estendendosi a ogni dolore del corpo e contrizione dell’anima è in certo modo, lieta, animata e rinvigorita per la speranza del profitto» (Trattato dell’Amor di Dio, XI, c. 21, 3).

Ecco i frutti spontanei della contrizione. Invece di scoraggiare l’anima, la rende alacre al servizio di Dio; e non è questo un connotato della vera divozione? Ve lo ripeto, dunque: allorché l’anima, nel ricordare le sue colpe, (e ricorda di aver offeso Dio, anche senza l’e speciali circostanze del peccato commesso) si umilia, s’immerge nelle fiamme della contrizione per purificarsi dalla ruggine che in lei rimane, e con semplicità si riconosce indegna delle grazie divine: «Exi a me, quia homo peccator sum, Domine» (Lc 5,8), Dio si volge a lei con infinita bontà: «Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies» (Sal 50,19). Quando egli vede un’anima che tende incessantemente a purificarsi dalle proprie colpe e con buona volontà si sforza di riparare le infedeltà commesse, si china verso di lei, pieno di misericordia. «Dio ascolta più premurosamente le lagrime che il movimento delle labbra, dice S. Agostino. — Fletus citius audit quam voces» [10]. E S. Gregorio: «Dio non ci fa aspettare; col dono della gioia duratura asciuga le nostre lagrime. — Nec mora erit in fletibus; quia tergent citius transeuntes lacrymas mansura gaudia» [11].

Penetrato da simili pensieri, il N. B. Padre vuole che «ogni giorno» confessiamo a Dio, nella preghiera, con lagrime e pianto, il male commesso: «Mala sua praeterita cum lacrimis vel gemitu, cotidie in oratione Deo confiteri» (Reg. c. 4). Badate alla parola: cotidie; non dice San Benedetto di tanto in tanto; ma quotidianamente; e vuole che noi pure ne siamo persuasi, che saremo esauditi per l’umile atteggiamento del nostro cuore contrito: «In compunctione lacrymarum nos exaudiri sciamus» (Ivi, c. 20). Il Santo Patriarca, dettando cotesto assioma indiscutibile dell’ascesi monastica, aveva profonde ragioni [12].

 

IV. Ci fortifica contro le tentazioni.

Altro frutto, e non meno prezioso, dello spirito di compunzione, è darci forza nelle tentazioni; alimentando nelle anime l’odio al peccato, la contrizione le preserva dalle insidie che loro tende il nemico. Bisogna parlare della tentazione, perchè è frequente nella vita spirituale; ma vedremo come la compunzione sia una delle armi più necessarie ed efficaci per la resistenza.

S’immaginano alcuni che la vita interiore sia un’ascesa facile, comoda, senza scosse, per un sentiero ornato di fiori. Dio può attirarci a sé per qualunque via gli piaccia, perchè è padrone supremo dei suoi doni; ma nella Scrittura ha detto da gran tempo: «Fili, accedens ad servitutem Dei, praepara animam tuam ad tentationem» (Sir 2,1); e noi siamo venuti in monastero, perchè è la scuola in cui s’impara a servir Dio: «Schola Dominici servitii» (Prologo). Infatti, noi uomini decaduti, non possiamo trovar Dio con pienezza senza essere vagliati dalla tentazione; e spesso il demonio si accanisce contro quelli che lo cercano sinceramente, nei quali vede una più perfetta immagine di Gesù Cristo.

Ma, direte, la tentazione è pericolosa all’anima: non sarebbe molto meglio non subirla mai? Spontaneamente invidiamo colui che non è mai tentato; e beato lui! esclameremmo volentieri. È sapienza umana; invece Dio, verità infallibile, sorgente di santità e di beatitudine, ci dice proprio il contrario: «Beato l’uomo che patisce tentazione» (Gc 1,12). Perchè mai lo Spirito Santo lo proclama felice, mentre noi penseremmo altrimenti? L’angelo diceva a Tobia: «Perchè tu eri caro a Dio, ti bisognava esser provato dalla tentazione. — Quia acceptus eras Deo, necesse fuit ut tentatio probaret te» (Tb 12,13); non per la tentazione in se stessa, ma perchè Dio se ne serve a provare la nostra fedeltà; sostenuti dalla grazia, ci perfezioniamo nella lotta, e otteniamo con la vittoria la corona di vita. «Cum probatus fuerit accipiet coronam vitae» (Gc 1,12).

La tentazione pazientemente tollerata è sorgente di meriti all’anima, di gloria a Dio; perchè chi rimane costante nella prova, rende viva testimonianza alla potenza della grazia: «La mia grazia ti basta; la mia potenza si manifesta nella tua debolezza. — Sufficit tibi gratia mea; nam virtus in infirmitate perficitur» (2Cor 12,9). Dio aspetta da noi cotesto omaggio e cotesta gloria. Guardate Giobbe: la Scrittura ci dice che il Signore si gloriava quasi della di lui perfezione! Un giorno, narra il sacro testo drammatizzando la scena, il demonio si presentò a Dio, e Iddio gli chiese: «Donde vieni?» Rispose Satana: «Ho percorso il mondo». E il Signore: «Hai notato il mio servo Giobbe? Nessun altro è come lui sulla terra, integro, retto, timorato di Dio e alieno dal far male». E Satana sogghigna: «Gran merito ha nell’esser buono, quando tutto gli va prosperamente! Ma stendi la mano, e tocca i suoi possessi; vedrai se non ti dirà male in faccia» (Gb 1,7-11). Dio permette al demonio di colpire il suo servo nelle ricchezze, nella famiglia, nello stesso suo corpo; ed eccolo spogliato di tutto, coperto di lebbra, giacente sopra un letamaio; per di più costretto a subire gli scherni della moglie e degli amici, che lo eccitano a bestemmiare. Ma egli resta incrollabilmente fedele a Dio; non un accento di rivolta gli sale alle labbra, non una mormorazione; solo pronuncia parole di sottomissione ammirabile: Il Signore aveva dato, il Signore ha ritolto; sia benedetto il suo santo nome! Se riceveremo da Dio i beni, perchè non accoglieremo anche i mali dalla sua mano?» (Ivi, 2,10). Che eroica costanza! E che gloria rendeva a Dio benedicendone la mano, benché oppresso da un tal cumulo di mali! Sappiamo pure che Dio, dopo la prova, gli rese anche maggiori ricchezze; e la tentazione diede risalto alla di lui fedeltà.

In molte anime essa compie un lavoro speciale. Sono rette, ma altere; e non possono arrivare all’unione divina se non sono state prima stroncate, abbattute, in modo da riconoscere l’abisso del loro nulla, e sperimentare la totale dipendenza da Dio, per non affidarsi più a se stesse. La tentazione fa loro conoscere la propria debolezza; quando sono sballottate dalla tempesta, sentono il bisogno di umiliarsi, perchè si vedono sull’orlo dell’abisso, dal cuore esce verso Dio un grido di domanda; è l’ora della grazia. La tentazione che continua, mantiene in coteste anime la persuasione della loro impotenza, e le conserva in un costante spirito di dipendenza da Dio; è un’ottima scuola di umiltà.

Ad altre, la prova serve come preservazione contro la tiepidezza: libere da ogni tentazione, cadrebbero nell’indolenza spirituale: invece la lotta eccita in loro l’amore e dà il mezzo di provarlo con la fedeltà. Guardate gli Apostoli nel giardino degli olivi: ad onta dell’avvertimento dato dal Divin Maestro di vegliare e pregare, essi dormono; ma che diversa condotta tennero sul lago, quando lottavano contro la tempesta! Nel pericolo che li minacciava, corrono a Gesù, lo svegliano con grida angosciose: «Signore, salvaci, altrimenti affondiamo! — Domine, salva nos, perimus!» (Mt 8,25).

La tentazione ci dà modo di acquistare esperienza; frutto prezioso, che ci rende atti a soccorrere gli altri, quando vengono a chiedere luce e conforto da noi: come potremmo istruire ed aiutare efficacemente un’anima tentata se non avessimo provato noi stessi le tentazioni? San Paolo dice di Gesù che «volle sperimentare tutte le nostre infermità tranne il peccato, per compatirci delle debolezze. — Tentatum per omnia absque peccato; in eo enim in quo passus est ipse et tentatus, potens est et eis qui tentantur, auxiliari» (Eb 4,15; 2,18). Non ci spaventiamo, dunque, nella tentazione, per quanto frequente e violenta: è una prova, e Dio la permette solo per nostro bene; se anche ci assale insistente, non sarà mai un peccato, a meno che non la suscitiamo volontariamente o consentiamo alla suggestione. Sentiremo i suoi morsi, i suoi allettamenti; ma se l’intimo recesso dell’animo, la volontà, non cede, stiamo tranquilli, il Cristo Gesù è con noi, in noi; chi sarà di lui più forte?

 

V. Come dobbiamo resistere alla tentazione.

Ma da qualunque parte venga la tentazione, cioè dal demonio, dal mondo o dalle nostre cattive tendenze; e quale ne sia la natura, noi dobbiamo resistere coraggiosamente e con prontezza.

Il B. Padre ci ha dato un modello di generosa resistenza, allorché tentato dal ricordo di gioie mondane, si spogliò e si avvolse tra le spine, lacerandosi tutto il corpo (S. Gregorio Dial. II, c. 2); atto che ha pochi esempi nella storia della santità, e mostra una grande forza d’animo. Il santo Patriarca sapeva dunque per propria esperienza che cosa fosse la tentazione e come le si resiste; ora, quale consiglio ci dà? Nella sua ascesi, ci porge tre strumenti per combatterla: «Badar bene a ogni atto della propria vita; in ogni luogo tener per certo che Dio ci vede; interrompere i cattivi pensieri spezzandoli in Cristo» (Reg. c. 4).

La vigilanza ci è stata raccomandata insistentemente da Nostro Signore stesso: «Vigilate», e ad ottenerla, gioverà lo spirito di compunzione; perchè l’anima che lo possiede sta sempre in guardia: conoscendo per prova la sua debolezza, inorridisce di ciò che può esporla ad offendere ancora Iddio. Animata da timore filiale ed amante, sta attenta per fuggire ogni pericolo, e non si distoglie da quel Dio che notte e giorno ha lo sguardo a lei rivolto.

Diffidando di sé, ricorre a Cristo: «Et orate» (Mt 26,41). «Vero discepolo di Cristo, dice il N. B. Padre, è colui che tentato in alcuna cosa dallo spirito maligno, da lui rifugge col cuore e lo rifiuta, riducendolo a nulla» (Prologo). Come annulleremo il demonio e la sua malizia? «Afferrando il primo germoglio della suggestione diabolica per spezzarlo contro Cristo, subito, appena spunta»; S. Benedetto paragona i cattivi pensieri a germogli del diavolo, e ci dice di respingerli subito ricorrendo al Cristo; subito, appena li vediamo spuntare: «Mox ad Christum alludere» (Reg. c. 4). “Mox”, cioè subito: le tentazioni vanno rigettate appena ce ne accorgiamo; se ci balocchiamo con loro, le lasciamo crescere e acquistar forza, in noi diminuisce l’energia per resistere; è più facile vincerle quando cominciano, che non quando le abbiamo lasciate prender vigore; quando i germogli da spezzare sono deboli e appena nati, è cosa facile. Con l’espressione: ad Christum allidere, il B. Padre ricorda l’anatema del Salmista contro Babilonia, la città del peccato: Beato colui che afferrando la tua progenie, la spezzerà contro la pietra [13]. Ma Cristo, dice San Paolo, è la pietra angolare del nostro edificio spirituale: «Ipso summo angulari lapide Christo Jesu» (Ef 11,20).

Ricorrere a Gesù è il mezzo più sicuro di vincere la tentazione; il demonio ha paura di Cristo e trema quando vede la croce. Siamo tentati contro la fede? Subito diciamo: Quanto Gesù ci ha rivelato, l’ha avuto dal Padre; egli è l’Unigenito che, dal seno del Padre, è venuto a manifestarci i segreti divini da lui solo conosciuti; egli è la verità. Signore Gesù, credo in te; aumenta la mia fede! — Siamo tentati contro la speranza? Diamo uno sguardo a Gesù in croce, fattosi propiziazione per i peccati del mondo: è il Pontefice santo, che per noi è salito al cielo e sempre intercede in nostro favore: «Semper vivens ad interpellandum pro nobis» (Eb, 7,25). Egli ha detto: «Chi viene a me non lo respingerò. — Et eum qui venit ad me non eficiam foras» (Gv 6,37).

S’insinua nel nostro cuore un sentimento di diffidenza? Ma chi mai ci ha amato più di Dio, più di Cristo: «Dilexit me et tradidit semetipsum pro me» (Gal 2,20).

Se invece il demonio tenta di gonfiarci con l’orgoglio, osserviamo il nostro Gesù, che, Dio, si umiliò fino alla morte ignominiosa del Calvario; può il discepolo voler essere da più del maestro? (Lc 6,40). Quando l’amor proprio offeso ci suggerisce di vendicare le ingiurie, guardiamo ancora Gesù, nostro modello, nella Passione: «Non distolse la faccia da quelli che lo sputacchiavano e lo battevano. — Faciem meam non averti ab increpantibus et conspuentibus in me» (Is 6). Se il mondo, complice del demonio, ci mostra le sue gioie insensate, vane, passeggere, rifugiamoci presso Gesù, al quale Satana osò promettere la gloria e il mondo intero se consentiva ad adorarlo: «Signore Gesù, ho abbandonato tutto per te, per seguir te solo più da vicino; non permettere che mi allontani da te! — A te numquam separari permittas» (Ordinario della Messa). Non vi è tentazione che non si possa annientare se ci ricordiamo di Cristo: «Mox ad Christum allidere».

E se la prova continua, se è accompagnata da aridità e tenebre spirituali, non ci scoraggiamo: è segno che Dio vuol scavare nell’anima nostra e dilatarne la capacità per ricolmarla poi con la sua grazia: «Purgabit eam ut fructum plus afferat». (Gv 15,2), ma come i discepoli, gridiamo a Gesù: «Salvami, o Signore, perchè senza di te io perirò!» (Mt 8,25).

Se faremo così appena si desta la tentazione, “mox”, quando è ancora debole, e ci manterremo compunti nell’atteggiamento di contrizione, siamo certi che il demonio non avrà potere sopra di noi: la tentazione ci sarà stata eccitamento alla fede, rinvigorimento nell’amore; e ci avrà resi più cari al Padre celeste.

 

VI. Mezzi con cui si acquista la compunzione

Dove attingeremo lo spirito di compunzione? Come acquisteremo un bene sì grande?

Prima di tutto, col domandarlo a Dio; il dono delle lagrime è così prezioso, è grazia così alta che si può ottenere solo «implorandolo dal Padre dei lumi, dal quale scende a noi ogni dono perfetto» (Gc 1,17). Il Messale contiene una preghiera pro petitione lacrymarum; e gli antichi monaci la dicevano spesso. Ripetiamola noi pure: «Dio onnipotente e misericordioso, che per il popolo assetato facesti scaturire dalla pietra una fonte di acqua viva; fa sgorgare dal nostro cuore indurito lagrime di compunzione, affinché possiamo piangere i nostri peccati, e meritiamo di ottenerne la remissione per la tua misericordia».

Possiamo anche recitare alcune preghiere scritturali, adottate dalla Chiesa; come quella di Davide dopo il peccato. Sapete quanto il grande re fosse caro al cuore di Dio, e quanti benefici ne avesse ricevuti; ma eccolo precipitare in una colpa grave, e scandalizzare il popolo con l’omicidio e l’adulterio. Il Signore gli manda un Profeta per eccitarlo al pentimento, e Davide si umilia, si batte il petto ed esclama: «Ho peccato»; il pentimento sincero gli ottiene subito il perdono: «Dio ha cancellato il tuo peccato, dice il Profeta. — Transtulit peccatum tuum» (2Sam 12,13). Il re compose allora quel Salmo così bello, il “Miserere”, pieno di contrizione, di fiducia: «Abbi pietà di me, Signore, secondo la tua grande misericordia, lavami sempre più dalle mie iniquità; contro di te solo peccai, e la mia colpa mi sta sempre davanti. Non rigettarmi da te e non togliermi il tuo spirito santo». Ecco la contrizione; ma ecco pure la speranza, che le è inseparabilmente unita: «Rendimi il gaudio che nasce dal tuo influsso salutare... Apri tu le mie labbra, e pubblicherò le tue lodi... il sacrificio che tu gradisci è il cuore spezzato dal pentimento; perchè tu non rigetti il cuore contrito ed umiliato».

Tali accenti commuovono il cuore di Dio: «Tu hai riguardato alle mie lagrime. — Posuisti lacrymas meas in conspectu tuo» (Sal 55,9); e Gesù ha detto: beati quelli che piangono (Mt 5,5); ora, fra essi i più consolati saranno coloro che piangono i loro peccati.

Negli altri casi il dolore, invece di rimediare al male, lo aggrava; il peccato è il solo male che si guarisce piangendolo…, la remissione dei peccati è frutto di coteste pie lagrime [14].

Alla preghiera che domanda a Dio la compunzione, vanno uniti naturalmente i mezzi spirituali che possono suscitarla; e il più efficace è senza dubbio la contemplazione frequente della Passione di Gesù Salvatore: se pensate con fede, con pietà ai tormenti di Cristo, vi sarà rivelato l’amor di Dio e la sua giustizia; conoscerete, meglio che per qualsiasi ragionamento, la malizia del peccato. Cotesta contemplazione è come un sacramentale, che fa partecipare l’anima alla divina tristezza da cui fu inondata quella di Gesù nel giardino degli Olivi; ai di lui sentimenti di religione, di zelo, di abbandono alla volontà del Padre. Gesù era il Figlio vero di Dio, e in lui il Padre, che ha aspirazioni infinite, si compiace; eppure il di lui cuore è pieno di tristezza, e di tristezza mortale: «Tristis est anima mea usque ad mortem» (Mt 26,38). Ecco, lo dice San Paolo, dal suo petto erompono grida altissime e dai suoi occhi sgorgano lagrime: «cum clamore valido et lacrimis» (Eb 5,7), perchè si sente gravare addosso il peso dei peccati del mondo. «Posuit Dominus in eo iniquitatem omnium nostrum» (Is 53,6), è divenuto il capro espiatorio, carico di tutti i peccati. Ma egli non poteva propriamente essere un penitente; non poteva avere contrizione, compunzione quale l’abbiamo testé definita, perchè la sua anima era santa ed immacolata; e il debito che doveva pagare non era suo, ma nostro. «Attritus est propter scelera nostra» (Ivi, 5); nondimeno, per questa sostituzione, Gesù volle gustare la tristezza che deve provare l’anima per i propri peccati; ha subito i colpi della giustizia e dell’amore oltraggiato, e fu spezzato dall’immenso dolore: «Dominus voluit conterere eum in infirmitate» (Ivi, 10).

«Non ti ho amato per ischerzo; disse un giorno N. Signore alla beata Angela da Foligno. «Queste parole, scrisse la Santa, mi penetrarono nell’anima quasi colpo mortale; e non so come non morissi, perchè i miei occhi si aprirono e nel lume vidi quanto fossero vere. Vedevo gli atti, e le conseguenze efficaci di cotesto amore, e fin dove veramente aveva indotto il Figlio di Dio». La Santa indica con precisione ciò che vide: «Vidi tutto ciò che egli volle sopportare in vita e in morte per amor mio, per la reale virtù di cotesto indicibile amore che gli bruciava le viscere. No, no; non mi aveva amata per ischerzo; ma con amore spaventosamente serio, vero, profondo, perfetto, che risiedeva nelle sue viscere». Quale risultato produsse in Angela cotesta contemplazione? Un profondo sentimento di compunzione. Sentite come giudica se stessa alla luce di Dio: «E allora l’amor mio, quello che porto a lui, mi apparve come una cattiva burla, un’abominevole menzogna... Il mio amore, esclamai, sì che è stato uno scherzo, una menzogna, una affettazione. Non ho mai voluto avvicinarmi a te nella verità, per condividere i travagli che tu hai voluto tollerare per me! non ti ho mai servito in verità e perfezione, ma in negligenza e duplicità» [15].

Vedete come sono tocche le anime sante e come si abbassano nel considerare i patimenti di Cristo! La notte della Passione, Pietro, il principe degli Apostoli, al quale Gesù aveva rivelato la sua gloria sul Tabor, e che poco dianzi aveva ricevuto dalle sue mani la santa Comunione, Pietro, alla voce di una serva, rinnega il proprio Maestro; ma subito dopo il suo sguardo incontra quello di Gesù, che soffriva in balia dei suoi nemici: l’apostolo intende, esce dal cortile e versa lagrime amare: «Flevit amare» (Mt 26,75).

Lo stesso effetto si produce nell’anima che contempla le sofferenze di Gesù con fede: essa pure lo segue come Pietro, la notte della Passione; anch’essa incontra lo sguardo del Divin Crocifisso, ed è una grande grazia! Quando facciamo la Via Crucis seguiamo i passi di Gesù appassionato: «Vedi, ci dirà egli, che cosa ho patito per te: l’agonia di tre ore, l’abbandono dei discepoli, gli sputi sul viso, i falsi testimoni, la codardia di Pilato, le derisioni di Erode, il peso della Croce che mi faceva procombere, la nudità del patibolo, gli amari sarcasmi dei miei peggiori nemici, la sete saziata con aceto e fiele; e, più che tutto, l’abbandono del Padre. Ho sofferto ogni cosa per te, per espiare i tuoi peccati e le tue mancanze; ho saldato il debito col mio sangue, pagando io il terribile conto della giustizia affinché tu avessi misericordia». Potremo restar insensibili a coteste rievocazioni? Lo sguardo di Gesù in croce ci penetrerà sino in fondo all’anima muovendoci a pentimento; ci farà comprendere che il peccato è la causa di ogni suo tormento, e il nostro cuore si affliggerà d’aver veramente avuto parte nella sua passione. Quando Iddio tocca un’anima con la sua luce, le accorda una delle grazie più preziose.

Ma il pentimento sarà pieno d’amore, e di fiducia; perchè l’anima non si accascerà disperata sotto il peso delle colpe, ma sarà penetrata d’unzione e di conforto: il pensiero della Redenzione non ci farà scoraggiare per quanta vergogna e dolore ne possiamo provare! Gesù ha pagato il nostro debito con abbondanza: «Et copiosa apud eum redemptio» (Salmo 130, De profundis); e la meditazione dei suoi patimenti, mentre ci desta contrizione, ravviva in noi la speranza nel valore infinito della soddisfazione divina, ci dà una pace ineffabile: «Ecce in pace amaritudo mea amarissima» (Is 38,17).

Considerando il passato vi scorgiamo forse grandi miserie e lordure; e siamo tentati di dire al Cristo: Signore, come hai potuto compiacerti in me? Ricordiamoci allora che egli è venuto quaggiù per i peccatori (Mt 9. 3); e ch’egli ha detto: Gli angeli più si rallegrano per la conversione di un peccatore, che per la perseveranza di molti giusti (Lc 15,7-10). Ogni volta che un colpevole si pente e ottiene perdono, gli angeli del cielo glorificano Dio nella sua misericordia: «Quoniam in aeternum misericordia ejus» (Sal 135). Pensiamo anche alle parole del Dies irae: Tu che assolvesti Maddalena, che esaudisti il buon ladrone, hai dato anche a me speranza; e ci sentiremo pieni di consolazione. Gesù perdonò a Maddalena; più ancora, amò con predilezione colei che era il disonore del suo sesso; perciò è stata pareggiata alle vergini; quello che fece per lei, egli può rifare col più grande peccatore, riabilitandolo e facendolo santo: è l’opera dell’onnipotenza divina: «Quis potest facere mundum de immundo... nisi tu qui solus es?» (Gv 14, 4). Dio, Dio solo ha il potere di rinnovare nelle creature l’innocenza; è il trionfo del sangue di Gesù.

Ma codesto rinnovellamento ineffabile si compie solo a condizione d’imitare la peccatrice del Vangelo nel pentimento e nell’amore; perchè Maddalena è un modello perfetto di compunzione. Consideratela al banchetto di Simone prostrata ai piedi del Salvatore, a bagnarli di lagrime ed asciugarli coi capelli, già ornamento del suo viso, con cui aveva sedotte le anime; ora si umilia davanti a tutti i convitati, e col profumo spande intorno l’effusione del suo cuore contrito. Quindi seguirà generosamente Cristo fin sul Calvario, e l’amore le farà condividere i dolori e gli obbrobrii che lo amareggiano; la ricondurrà per prima alla tomba, fino a che il Cristo risuscitato, chiamandola per nome, ricompenserà il di lei zelo ardente e ne farà l’apostolo della Risurrezione presso i discepoli: «Remittuntur ei peccata multa quoniam dilexit multum» (Lc 7,47).

Restiamo con Maddalena ai piedi della croce; dopo il sacramento della penitenza che ci applica i meriti di Cristo e l’assistenza alla Messa che rinnova l’immolazione del Calvario, la compunzione è il più sicuro mezzo per distruggere il peccato e premunirsi contro le ricadute. Manteniamo dunque in noi cotesta disposizione che dà frutti infinitamente preziosi; conserviamola fedelmente; darà maggior sodezza alla nostra vita spirituale e assicurerà la perseveranza. «Se c’è cosa che possa durare quanto la nostra vita, scrive il P. Faber ammirabilmente, è il sentimento di compunzione. È stato causa attiva nel nostro ritorno a Dio; e non vi è cima di santità per quanto alta sulla quale non debba esso pure accompagnarci» (Prog. dell’anima).

 

NOTE

[1] I–II, q. 87, a. 4, e II-II, q. 162, a. 6.

[2] Reg. c. 58. Non pretendiamo definire la lezione conversio o conversatio; ma diamo all’espressione: conversio morum, conversione dei costumi, il senso tradizionale.

[3] Si veda tuttavia il Faber, nel Progresso dell’anima: cap. 19: Del dolore costante che il ricordo del peccato deve intrattenere in noi. Si leggano anche le belle pagine in cui Don Morin tratta della compunzione, nell’ideale monastico e la vita cristiana del primi tempi.

[4] L’araldo dell’amor divino; I, c. 11.

[5] Storia di S. Teresa, presso I Bollandisti, t. II, c. XI.

[6] Drane, Storia di S. Caterina da Siena, t. I, I parte, o. IV. S. Caterina nel suo Dialogo, ha un intero trattato sulle lagrime. Il B. Raimondo da Capua racconta che, stupito per le opere di lei, volle avere «un segno irrefutabile che fossero da Dio»; e gli venne in mente di chiedere alla Santa di ottenergli dal Signore straordinaria contrizione dei suoi peccati; «perchè, soggiunge egli, nessuno può avere questa contrizione se non dallo Spirito Santo, ed essa è un gran dono della grazia di Dio». S. Caterina ottenne al suo discepolo la bolla del perdono. Vita della stessa, scritta dal B. Raimondo: l Parte o. IX.

[7] Op. complete - Il castello interiore.

[8] Davanti a Dio e alle sue perfezioni, noi riconosciamo noi stessi e le nostre manchevolezze; nello splendore della sua immensa luce scorgiamo le nostre ombre. D. Festugière, La liturgie catholique, p. 102.

[9] Il testo Masoretico legge: delle mie lacrime.

[10] Sermone XLVII, nell’Appendice alle opere di S. Agostino, PL. 39, col. 1838.

[11] Hom. in Evang. II; hom. 31,8, PL. 16, col. 1232.

[12] S. Benedetto vuole «che le anime si mantengano abitualmente nei sentimenti del Miserere; come Davide penitente, ma fiducioso nella misericordia divina; Davide che nei Salmi, continuamente alterna la contrizione e l’amore». D. Festugière, 1, pp. 101-102.

[13] Salmo 136,9. S. Girolamo (Ep. 22,6). S. Ilario (Tract. in Ps. 136,14) e S. Agostino si servono della stessa allegoria: Qui sunt parvuli Babyloniae? Nascentes malae cupiditates... Cum parvula est... ad petram elide. Petra autem erat Christus. (Enarr. in Ps. 136, par. 21).

[14] Bossuet, Méditations sur l’Evangile: Sermon sur la montagne, 4e jour. Edit. Marbeau, p. 67.

[15] Il libro delle Visioni, tradotto in francese da Hello. (Il Fallacara tradusse in italiano l’opera dell’Hello, splendida per vigore e bellezza letteraria, ma non fedele. Coll. I libri della fede - Libr. Ed. Fiorentina - ndt).

 

 

 


 

Capitolo 9

LA RINUNCIA A SE STESSO

 

SOMMARIO: Alla compunzione sincera corrispondono gli atti della cristiana rinuncia. — I. L’espiazione del peccato incombe, per motivi differenti, a Cristo e ai membri del suo corpo mistico. — II. Come si esercita la rinuncia: mortificazioni imposte dalla Chiesa. — III. mortificazioni inerenti alla vita comune e alla pratica dei voti; — IV. mortificazioni suggerite dalla buona volontà; quale condizione essenziale vi appone S. Benedetto. — V. L’abnegazione e la rinuncia sono mezzi: traggono valore dall’unione con i patimenti di Cristo.

 

L’Eterno Padre vuole che andiamo a lui sulle orme del Figlio suo, il Cristo Gesù; è il piano divino a noi tracciato e Gesù ce lo riassume in questa verità fondamentale: io sono la via; nessuno viene ai Padre se non per me: «Nemo venit ad Patrem nisi per me» (Gv 14,6).

Abbiamo visto come la compunzione del cuore, nutrendo nell’anima un’abituale detestazione del peccato, operi efficacemente a distruggere gli ostacoli che ci impedirebbero di seguire il Divino Modello; ma è necessario tradurre coteste disposizioni interiori nella nostra condotta, affinché regolino e ispirino le nostre opere. Alla compunzione sincera corrisponderanno necessariamente in noi gli atti della cristiana rinuncia; Gesù Cristo stesso ha dato ai suoi discepoli questa massima: «Chi vuoi venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. — Si quis vult post me venire, abneget semetipsum, et tollat crucem suam et sequatur me» (Mt 16,24).

Cotesto programma, caratteristico — sotto un certo aspetto — dell’ascesi cristiana, penetrò naturalmente nella dottrina dei N. B. Padre, che è fedele specchio del Vangelo: tra gli strumenti delle buone opere, prima di particolareggiare le pratiche di rinuncia a se stesso, il S. patriarca ricorda la parola del Verbo Incarnato: «Rinnegare se stesso per poter seguire Cristo. — Abnegare semetipsum sibi ut sequatur Christum» (Reg. c. 4).

Studiamo ora la via nella quale camminò Gesù Cristo per seguirla noi pure; e se parrà ardua alla natura carnale, domandiamo a Gesù stesso che ci sostenga: egli è anche la vita; e ci darà, coll’unzione della sua grazia onnipotente, la forza di conoscerlo bene, e di seguirlo dovunque vada.

 

I. L’espiazione del peccato incombe, per motivi differenti, a Cristo e al suo corpo mistico.

Dopo la caduta di Adamo, l’espiazione è la sola via per ritornare a Dio; e S. Paolo parlando di Cristo, dice che è il Pontefice santo, innocente, puro, separato dai peccatori: «Pontifex sanctus, innocens, impollutus et segregatus a peccatoribus» (Eb 7,26): santo, infinitamente lontano dal peccato, il vero figlio di Dio, oggetto delle infinite compiacenze del Padre; eppure dovette subire i patimenti della croce prima di entrare nella gloria.

Conoscete l’episodio di Emmaus, narrato da S. Luca: il giorno della resurrezione, due discepoli di Gesù andavano verso una borgata presso Gerusalemme; e parlavano tra loro della delusione provata alla morte del Divino Maestro, per la quale erano rovinate le speranze che si ristabilisse il regno d’Israele. Ed ecco Gesù si avvicina in aspetto di forestiero e domanda di che cosa stanno parlando; i discepoli gli confidano la loro tristezza; e il Salvatore, che non si è ancora svelato, dice loro con aria di rimprovero: «O cuori insensati e tardi a credere; non era necessario che il Cristo soffrisse per entrare nella sua gloria? — Nonne haec oportuit pati Christum, et ita intrare in gloriam suam?» (Lc 24,26).

Perchè dunque era necessario che Cristo soffrisse? Dio non avrebbe potuto perdonare al mondo senza esigere espiazione? Certo; la sua potenza assoluta non ha limiti; ma la sua giustizia vuole che il peccato sia espiato, e, prima di ogni altro, dal Cristo. Prendendo la natura umana, il Verbo Incarnato si sostituì all’uomo peccatore, incapace di riscattare se stesso: e si fece vittima per il peccato; lo insegnava Gesù ai discepoli, col dire loro che i suoi patimenti erano stati necessari; e non solo nel loro complesso, ma anche nei minimi particolari; è vero che un sospiro del Cristo poteva ampiamente bastare a riscattar il mondo; ma nel libero decreto della Provvidenza, che disponeva tutte le circostanze della Passione, venivano accumulate espiazioni infinitamente sovrabbondanti.

Sappiamo con quanto amore e abbandono alla volontà del Padre accettò Gesù ciò che era determinato; e per compiere pienamente i voleri della sua volontà divina, da lui conosciuti, comincia a soffrire fin dal suo ingresso nel mondo: «Ecce venio» (Sal 39, 8; Eb 10,7); compirà tutto fino al minimo particolare, con fedeltà amorosa: «Jota unum aut unus apex non praeteribit a lege, donec omnia fiant» (Mt 5,18); e il Vangelo di S. Giovanni ci dà una speciale testimonianza dl cotesta puntualità divina quando ci narra che Gesù, affisso alla croce, assetato, morente, si ricordò di un passo delle Scritture non ancora avverato; e affinché questo pure si compisse, lasciò sfuggire un lamento: «Ho sete». Quindi egli pronunciò le ultime parole: «Consummatum est» (Gv 19,28-30). «Tutto è compiuto, Padre, ho adempito ogni cosa; dall’istante in cui ti ho detto: Eccomi pronto a fare la tua volontà, nulla ho omesso; il calice che mi desti da bere è vuotato, non mi resta più che rimettere l’anima mia nelle tue mani».

Ma il Divin Redentore non patì solo per riscattarci; ci meritò anche la grazia di unire la nostra espiazione alla sua e così renderla meritoria: «perchè, dice San Paolo, coloro che vogliono appartenere a Cristo hanno crocifissa la loro carne coi di lei vizi. — Qui sunt Christi carnem suam crucifixerunt cum vitiis suis» (Gal 5,24). L’espiazione che esige la divina giustizia non deve essere assolta soltanto da Cristo, ma da tutti i membri del suo mistico corpo: «Avremo parte alla gloria del capo solo se parteciperemo ai suoi patimenti, dice ancora S. Paolo. — Si tamen compatimur ut et conglorificemur» (Rm 8,17).

Solidali con Cristo nel patire, vi siamo però condannati per motivo assai diverso. Egli espia i peccati altrui: «Propter scelus populi mei percussi eum» (Is 53,8); noi invece siamo carichi anzitutto delle nostre proprie iniquità: «Digna factis recipimus; hic vero nihil mali gessit» (Lc 23,42). Chi ha offeso Dio, commetterebbe una soprannaturale indelicatezza nell’offrirsi all’unione divina prima di aver compiuta la propria parte di espiazione; come può l’anima pretendere intima familiarità con Dio, se non gli ha dimostrato con le opere la sincera sua conversione? Ogni peccato personale, benché perdonato, deve essere espiato, perché con esso si contrae un debito verso la giustizia divina; rimesso il delitto, rimane il debito da pagare, e ciò si fa con la soddisfazione.

Inoltre, lo spirito d’abnegazione assicura la perseveranza. Ogni peccato attuale inclina l’anima al male, e il perdono che lo cancella lascia tuttavia sussistere la tendenza; l’inclinazione è come assopita in quel momento, ma è viva; s’innesta sulla concupiscenza naturale e tende a manifestarsi, a dare frutti quando ne troverà l’occasione. È compito della mortificazione sradicare e contrariare le tendenze e abitudini viziose, annientare gli attacchi al peccato, perché è ostacolo tra l’anima e Dio; deve quindi durare finché le perverse tendenze naturali siano domate; se no esse invece ci spadroneggeranno, e diventeranno causa di numerose mancanze, le quali impediranno la unione con Dio e la vita di carità, o le ridurranno a dar pochi frutti.

Quando la mattina facciamo la Comunione con fervore, ci uniamo interamente a Dio; ma se poi nel corso della giornata, in mezzo alle occupazioni, l’uomo vecchio si ridesta e ci spinge all’orgoglio, all’iracondia, alla permalosità; se ci mostra il miraggio di falsi beni, dobbiamo subito reprimerlo, altrimenti precipiteremo nel consenso e sarà diminuita l’unione con Dio e la vita di carità. Ecco un’anima piena d’amor proprio, che in ogni azione ha di mira se stessa e tutto riferisce a sé; la vedremo spesso impermalire, offendersi per cose da nulla, imbronciarsi, mostrarsi di cattivo umore; e dall’amor proprio nasceranno istintivamente molti atti riprovevoli, che impediranno in lei l’opera di Cristo. Deve dunque affaticarsi a frenare e mortificare l’amore di sé, perchè Gesù possa regnar solo in lei; egli vuole che reprimiamo i moti sregolati che ci portano al male, all’imperfezione; non possiamo unirci a lui se ci lasciamo dirigere dalle tendenze cattive.

Vedete dunque come la rinuncia sia necessaria, non solo per soddisfazione dei peccati commessi, ma quale mezzo per impedire le ricadute, perché così si mortificano le inclinazioni naturali che ci spingono al male; per questo duplice motivo il B. Padre, pure cosi riboccante dello spirito Evangelico, esercita quelli che vengono al monastero nell’abnegazione di sé e nella mortificazione degli abiti viziosi, e impone cose che potrebbero apparire troppo rigide; ma bisogna pensare che le richiede l’equa ragione per l’emenda dei vizi e la conservazione della carità... «Si quid paululum restrictius, dictante aequitatis ratione, propter emendationem vitiorum vel conservationem caritatis processerit» (Prologo).

A quelli che hanno già fatto progresso nella fede e nell’osservanza; e che, per la grazia di Cristo, hanno già acquistato forza per svincolarsi dalle cattive tendenze, per correre nella via dei comandamenti, S. Benedetto dà un altro motivo, più alto e non meno efficace: la partecipazione ai patimenti di Cristo: «passionibus Christi per patientiam participemus» (Prologo). E davvero; per le anime fedeli e sante, le quali hanno espiato le loro colpe, e, unite a Dio intimamente, non temono più gli assalti del nemico, l’abnegazione diventa il mezzo dì provare l’amore e ottenere una più perfetta imitazione di N. Signore; abbracciano volontariamente la croce per aiutare Cristo nella Passione; il Calvario è il luogo di predilezione ove le conduce e le ritiene l’amore.

 

II. Come si esercita la rinuncia: mortificazioni imposte dalla Chiesa.

Riconosciuta la necessità della mortificazione, dobbiamo ora studiare come bisogna praticarla; e imparare dapprima a valutare questo o quell’atto di rinuncia che ci viene proposto. Stabiliamo la graduatoria: In primo luogo le mortificazioni imposte dalla Chiesa: poi quelle prescritte dalla Regola, o inerenti alla pratica quotidiana della vita monastica; e per ultimo quelle che scegliamo noi stessi, o che Dio ci manda.

S. Paolo scrive in una delle sue lettere queste parole che stupiscono a bella prima: «Completo nella mia carne ciò che manca alla Passione di Cristo, per il suo corpo, che è la Chiesa. — Adimpleo ea quae desunt passionum Christi in carne mea, pro corpore ejus, quod est Ecclesia» (Col 1,24). Che cosa vuol egli dire? Può mancar nulla ai patimenti di Cristo? Sappiamo che in se stessa la Passione è infinita nel merito; poiché le sofferenze inondarono l’anima di Cristo come un torrente che la sommerse, ed erano sofferenze di una Persona divina; inoltre egli è morto per tutti, è divenuto propiziazione per i peccati del mondo intero (1Gv 11,2). Che possono dunque significare le parole dell’Apostolo? Ce le spiega S. Agostino: per ben intendere il mistero di Cristo non bisogna separarlo dal suo mistico corpo, la Chiesa; ma considerarlo totalmente, unito a lei; perchè egli è il capo, la Chiesa il suo corpo mistico. Gesù ha espiato come capo; ma anche i membri debbono la loro parte: «Adimpletae fuerunt passiones in capite, restabant adhuc passiones in corpore» [1].

Come Dio ha stabilito per il Cristo una somma di patimenti e di espiazioni, che soddisfacesse alla giustizia e dimostrasse il suo eccesso d’amore, così ha determinato per la Chiesa, — che S. Paolo chiama ora il mistico corpo, ora la sposa di Cristo, — una misura di patimenti, da ripartire fra i membri di essa, affinché ciascuno cooperi all’espiazione di Gesù: soffrendo o per le proprie colpe, o per quelle degli altri, come sofferse per noi il Divin Maestro. Chi ama davvero Nostro Signore desidera offrirgli le proprie mortificazioni come prova d’amore; si comprendono a questa luce i desideri dei Santi, la sete di patire che è loro propria: vogliono compiere in se stessi ciò che manca alla Passione del Divin Maestro.

Doveva la Chiesa naturalmente intervenire come legislatrice in quest’opera di espiazione che incombe a tutti; e ha fissato per i suoi figli alcune mortificazioni che comprendono le astinenze e i digiuni: nella quaresima, nel Venerdì, nelle quattro tempora, nelle vigilie. Un’anima poco illuminata potrà preferire a queste le sue mortificazioni speciali; ma non c’è dubbio che le espiazioni imposte dalla Chiesa sono più gradite a Dio e più salutari; ed è chiara la ragione: le nostre sofferenze valgono solo in quanto sono unite, nella fede e nell’amore, ai patimenti e ai meriti di Gesù Cristo; senza di lui nulla possiamo fare; ma chi più unito a Cristo della Chiesa sua sposa? Le mortificazioni che c’impone le appartengono, ed essa le offre a Dio ufficialmente, come sposa di Cristo; così gli riescono molto più accette, perchè Dio vi trova la partecipazione intima e profonda alla passione del suo Figlio diletto: tutto ciò che viene dalla Chiesa, sposa di Gesù, torna gradito all’Eterno Padre.

Inoltre queste mortificazioni ci sono salutari. In principio della Quaresima, la Chiesa ci avverte che le ha Istituite per il bene, non solo delle anime, ma dei corpi: «Animabus corporibusque curandis salubriter institutum est» [2]. Non ci dimentichiamo che, durante la sacra Quarantena, la Chiesa prega ogni giorno per le anime che si sottomettono a queste espiazioni; e domanda a Dio che le loro opere siano accolte, accettate da lui; che le renda a noi benefiche; e ci dia la forza di compierle piamente, come si addice a un soldato di Cristo, con divozione costante: «Ut jeiuniorum veneranda sollemnia et congrua pietate suscipiant, et secura devotione percurrant» [3]. Cotesta incessante preghiera della Chiesa per noi è possente sul cuore di Dio, e diventa sorgente di benedizioni celesti che fecondano le nostre mortificazioni. Se dunque vogliamo appartenere a Cristo, come dice S. Paolo, accettiamo con grande fede e generosità queste mortificazioni ecclesiastiche; esse possiedono agli occhi di Dio un valore espiatorio maggiore delle altre pratiche afflittive.

Non ci stupiremo dunque che il nostro grande Patriarca, erede della pietà dei primi tempi, consacri un lungo capitolo della Regola all’osservanza della Quaresima: vuole che durante questo tempo, oltre al praticare il digiuno e l’astinenza, conduciamo vita pura, e che ripariamo alle negligenze commesse in altri giorni: «Omnes negligentias aliorum temporum his diebus sanctis diluire» (Reg. c. 49). «Lo faremo degnamente, continua egli, se daremo opera all’orazione con pianto; alla lezione; alla compunzione del cuore; all’astinenza; e ci asterremo da ogni vizio». Vedete come all’espiazione afflittiva del corpo San Benedetto premurosamente unisca la mortificazione interna, e quel senso di compunzione che è veramente l’ininterrotta volontà di penitenza.

 

III. mortificazioni inerenti alla vita comune e alla pratica dei voti

Dopo le afflizioni ordinate dalla Chiesa, vengono quelle inerenti allo stato monastico. In primo luogo, la vita comune: per quanto addolcita dalla carità fraterna, dalla mutua dilezione che regna nel monastero fervente, pure la vita comune porta seco molte sofferenze; ci amiamo vicendevolmente, e con affetto sincero; eppure senza volerlo ci diamo dispiaceri, per la povera natura umana. Dopo il peccato, osserva S. Agostino, siamo tutti uomini soggetti alla morte, infermi, fragili, come chi porta vasi d’argilla, e ci angustiamo gli uni gli altri: «Sumus homines mortales, fragiles, infirmi, vasa lutea portantes, quae faciunt invicem angustias» [4]. Anche nelle vite dei Santi troviamo molte volte discordanze, malintesi, dissensi che provengono dal temperamento, dal carattere, dalla mentalità di ciascuno, dall’educazione, dall’ideale diverso. Fossero anche tutti santi monaci, degni di essere canonizzati, soffrirebbero anch’essi per la vita comune; e questo patimento può essere tanto più acuto quanto più lo spirito è raffinato e l’anima squisitamente sensibile: non vi è comunità, per fervente che sia, e a qualunque ordine religioso appartenga, che possa sfuggire a questa legge; come non vi si poterono sottrarre i Santi.

Osservate gli Apostoli; non stavano essi alla migliore scuola di santità? Per tre anni poterono contemplare il Cristo Gesù, ascoltare la sua dottrina, ricevere l’influsso diretto della sua grazia, eppure che cosa ci narra il Vangelo? Due di essi chiedono posto speciale nel regno dei cieli, escludendo gli altri (Mt 20,26-28; Mc 10,35-55); avanti l’ultima cena contendevano tra loro chi sarebbe stato primo nel regno dei cieli; e Gesù li dovette riprendere (Lc 22,24-28). S Pietro e S. Paolo ebbero tra loro un dissenso; e S. Barnaba, dopo avere per parecchio tempo accompagnato S. Paolo nelle sue predicazioni, se ne dovette separare; non s’intendevano più; S. Girolamo e S. Agostino non sempre si compresero l’un l’altro; e nemmeno S. Carlo Borromeo e S. Filippo Neri. Sono miserie e manchevolezze dell’umana natura; si trovano anche in coloro che sinceramente cercano Dio e si amano con carità cristiana; per cui ognuno riesce agli altri causa di mortificazione, sotto qualunque clima o latitudine, in ogni comunità religiosa. Tollerare ogni giorno queste seccature, con pazienza e carità, senza mai lamentarsi, costituisce una vera mortificazione.

Il Santo Patriarca, che tanto bene conosceva il cuore umano, e sapeva come dappertutto la natura ha infermità e miserie, anche nei migliori, ci inculca il dovere di tollerare reciprocamente i difetti nostri, con grande pazienza: «Infirmitates suas sive corporum sive morum patientissime tolerent» (Reg. c. 72). Quando sorgono quei piccoli dissensi che egli chiama opportunamente spine scandalose, «scandalornm spinae» (Ivi, c. 13), vuole che non lasciamo tramontare il sole prima di riconciliarci affinché il risentimento non metta radice nel cuore: «Cum discordante ante solis occasum in pacem redire» (c. 4); e introdusse per questo una pratica liturgica, ispirata al Vangelo, prescrivendo all’abate di recitare ogni giorno pubblicamente alle Laudi e al Vespro, il Pater noster, in nome della famiglia monastica (c. 13; affinché, domandando al Padre celeste perdono per le nostre offese, non dimentichiamo di perdonare quelle che a noi sono state cagionate dai fratelli. Egli sapeva che la vita comune porta seco naturalmente dispiaceri reciproci; ma per le anime che servono Dio diventa un mezzo per esercitare la carità sempre e illimitatamente: «Si angustiantur vasa carnis, dilatentur spatia caritatis» (S. Agostino l. c.).

Alle mortificazioni cagionate dalla vita in comune, come società, si aggiungono quelle dei voti, col loro oggetto determinato e il loro carattere di contratto, e per essere costantemente fedeli a cotesti obblighi ci vuole una vera mortificazione;. noi siamo naturalmente così portati all’indipendenza, così amanti di libertà, così smaniosi di mutamento! Le anime fedeli li osservano con gioia, con fervore, con amore; ma l’osservanza è sempre per natura sua un’immolazione. Contempliamo di nuovo il Divin Salvatore nella Passione, da lui accettata per amore del Padre, e per immenso amore: «Affinché il mondo conosca che amo il Padre... — Ut cognoscat mundus quia diligo Patrem» (Gv 14,31). Ma egli ha sofferto ad onta di ciò; e dal suo cuore spezzato esce un grido: «Padre, a te tutto è possibile, allontana da me questo calice.., ma pure si faccia la tua volontà, non la mia» (Mt 26,39). L’amore del Padre vince la ripugnanza della natura sensibile; nondimeno Gesù soffre una spaventosa agonia, tra dolori ineffabili; l’anima sua, dice il Salmista, si è disciolta come acqua per l’intenso soffrire (Sal 21,15). Ma rimanendo affisso alla croce per amore, egli dava al Padre gloria infinita, degna delle sue perfezioni divine.

Anche noi ci siamo volontariamente messi in croce il giorno della professione, per amore, e restiamo fedeli all’immolazione per lo stesso motivo d’amore: ma la natura sente la crocifissione. Mi direte: Non è il monastero il vestibolo del cielo? Senza dubbio; ma a restar molto tempo in luogo d’attesa, monotono, e contrariante, si può soffrir molto e aver bisogno di grande resistenza [5].

Stiamo saldi nondimeno e pazientiamo fino all’ora di Dio: «Viriliter age et sustine Dominum» (Sal 26,14); egli ci è più vicino quando ci mette sulle spalle la croce del suo figlio Gesù: ed allora appunto diamo gloria al Padre celeste con la pazienza: «Afferunt fructum in patientia» (Lc 8,15).

Poiché i voti hanno per fine di farci praticare le virtù corrispondenti, non è da meravigliare che esigano austere rinunce. Ci sono anime che dopo un certo tempo, subiscono l’obbedienza, sopportano la stabilità; hanno come presa la piega; il voto forse sussiste intatto, ma la virtù non c’è, o è molto debole; ed esse vivono povere di amor di Dio. Sforziamoci invece di praticare le virtù dei voti per amore, in tutta la loro estensione e perfettamente; l’amore scioglierà ogni difficoltà della vita, e ci farà incontrare tutte le rinunce alle quali ci obbliga la professione.

Difficoltà, contraddizioni, cose contrarie troveremo sempre, in qualunque parte del mondo viviamo; sono inerenti alla condizione umana, più che dipendenti dalle circostanze, e non potremo fuggirle. Il N. B. Padre, che è il legislatore monastico più discreto, ce ne avverte; e per quanto si sia prefisso dl non imporre cosa che sia troppo grave o troppo aspra (Prologo), pure comanda al maestro dei novizi che esponga ai postulanti le cose dure e aspre (Reg. c. 58), che la natura decaduta troverà inevitabilmente sul cammino che conduce a Dio; ma, soggiunge con S. Paolo che l’amore fa tutto superare: «Quis nos separabit a caritate Christi?... Propter te mortificamur tota die» (Reg. c. 7 e Rm 8,36). Per te, o mio Dio, e per dimostrarti il mio amore, ogni giorno rinnego me stesso. E invero, se amiamo il Cristo Gesù, non tenteremo di sottrarci alle difficoltà e ai patimenti che incontriamo nella pratica fedele dei voti e delle osservanze monastiche; abbracceremo tutto come il nostro divin capo abbracciò la croce che gli venne offerta. Alcuni l’hanno più pesante degli altri, e l’amore li rende capaci di portarla, per grave che sia; l’unzione della divina grazia fa sì che vi si affezionino, e più non cercano di scaricarsene, considerandola come un mezzo per provare che amano davvero: <Aquae multae non potuerunt extinguere charitatem» (Ct 8,7).

Un monaco il quale per amor di Cristo a cui si è abbandonato nel giorno della professione, rimane costantemente fedele alle sue promesse, che vive nello spirito di povertà, che non cede ad affezioni troppo umane e naturali, e passa tutta la vita sempre obbedendo alla Regola e a coloro che per lui rappresentano Cristo, che tollera senza mormorare il peso del giorno, l’uniformità inerente alla vita regolare claustrale, cotesto monaco dà a N. Signore prove incessanti d’amore e trova Dio con perfezione, perchè ha superati gli ostacoli che si oppongono all’intima unione con lui. Ce lo additino cotesto religioso, affinché possiamo lodare in lui una virtù sublime: «Quis est hic et laudabimus eum? Fecit enim mirabiia in vita sua» (Sir 31,9).

 

IV. mortificazioni suggerite dalla buona volontà.

Dobbiamo dare il primo posto alle penitenze prescritte dalla Chiesa e dalla Regola; ma non per questo disprezzeremo e sconsiglieremo le mortificazioni liberamente scelte per buona volontà: non solo S. Benedetto le permette, ma le suggerisce; basta leggere il capitolo in cui parla della Quaresima, e raccomanda a ciascuno di aggiungere altra cosa al peso quotidiano delle osservanze: «Augeamus nobis aliquid solito penso servitutis nostrae» (c. 49): ossia preghiere speciali, maggiori astinenze nel vitto e nel sonno, silenzio e raccoglimento più rigorosi. Il santo Legislatore ci propone solo alcuni punti, perchè il campo è illimitato, e tutti possono liberamente percorrerlo: «unusquisque super mensuram sibi indictam aliquid propria voluntate... offerat».

Nè S. Benedetto si limita alla Quaresima; ma parla di tutta la vita del monaco; lo fa capire fin dal principio del suddetto capitolo. In nessun momento intende egli scoraggiare i deboli, ma sempre apre larga la via alle sante ambizioni dei valenti: «Ut sit quod fortes cupiant» (c. 64). Ci sono opere sopraerogative che essi solo possono intraprendere; e gli altri che non hanno forze bastevoli per compiere integralmente le comuni osservanze, se ne impongano spontaneamente alcune più leggere, affinché possano essere fedeli in parte allo spirito della legge, quantunque non possano seguirla letteralmente.

Ma qualunque sia il motivo che spinge alle penitenze di libera scelta, S. Benedetto vi appone una condizione essenziale: l’approvazione di coloro che per noi rappresentano Cristo (c. 49). Egli si propone in ciò uno scopo degno del direttore d’anime perspicace; non diminuire l’iniziativa e i virili propositi, ma dirigerli e renderli fruttuosi (6); e vuol garantirci contro la nostra propria volontà, allontanando il pericolo della vanagloria, che così agevolmente s’infiltra nel cuore di chi si dà alle penitenze di propria scelta. «Quello che si fa senza il permesso del Padre Spirituale è presunzione e vanagloria; non avrà ricompensa. — Quod sine permissione patris spiritualis fit, praesumptioni deputabitur et vanae gbriae, non mercedi» (c. 49). Il B. Padre ci esorta anche ad offrire queste opere a Dio, con la gioia che viene dallo Spirito Santo: «Offerat Deo cum gaudio sancti Spiritus» (Ivi). Rallegriamoci di aver occasione di offrire a Dio degli atti di penitenza, e accompagniamo il dono con fervore e gioia: all’obbedienza si addicono la magnanimità e la generosità: «Hilarem datorem diligit Deus» (1Cor 9,7; Reg. c. 5).

Ma prima di parlare delle penitenze eccezionali dobbiamo chiarir bene quale atteggiamento ci raccomanda S. Benedetto in modo generale riguardo ai beni creati, che Dio ci concede in questo esilio; e al godimento che ne deriva. il santo Patriarca ci dà un consiglio prezioso: non dobbiamo anelare ad essi. «Delicias non amplecti»: ciò che fa male all’anima è la smania eccessiva con cui li desideriamo e ce ne lasciamo trasportare. Anche Gesù si nutriva, contemplava le bellezze della natura e godeva l’incanto dell’amicizia; ma si abbandonava solo al Padre suo e alle anime; a noi pure l’abnegazione vieta di smarrirci nell’uso delle creature d’altronde permesse; se si obbedisce a quest’indirizzo tracciato da S. Benedetto, a poco a poco si acquista la santa libertà dell’anima e del cuore nell’uso delle creature: fu una delle virtù caratteristiche della grande Geltrude, e le valse da parte di Cristo preziosi favori.

Ritorniamo ora alle mortificazioni esteriori, alle penitenze afflittive, nelle quali pure dobbiamo usare discrezione: il grado di mortificazione volontaria deve proporzionarsi alla vita passata, agli ostacoli da allontanare; e deve essere stabilito dal direttore. Sarebbe temerarietà pericolosa abbracciare mortificazioni straordinarie senza esservi chiamato da Dio; perchè il poter sostenere costanti macerazioni che spezzino la carne è dono suo; quando l’accorda a un’anima, è segno che vuoi farla rapidamente progredire nelle vie spirituali, e prepararla a ricevere comunicazioni ineffabili della sua grazia divina, vuotandola completamente di sé per possederla tutta senza divisione; ma per entrare in questa via bisogna esser chiamati; sarebbe pericoloso mettercisi di propria iniziativa. Per sostenere così grandi mortificazioni, ci vuole una grazia speciale, e Dio la concede solo a quelli che chiama; senza di che il corpo si logora e saremo poi costretti a certi riguardi che conducono alla rilassatezza, con grande detrimento dell’anima; si diventa un aggravio per gli altri e per sè stessi. Molto saviamente quindi il Beato Padre ci prescrisse, come vedemmo dianzi, che in fatto di mortificazione esteriore si domandi prima il consenso del Padre spirituale perchè, osserva egli, ogni anima ha ricevuto da Dio il dono che le conviene: «Unusquisque habet donum ex Deo, alius sic, alius vero sic» (Reg. c. 40; 1Cor 7,7).

Ma nella mortificazione interiore, in cui sta la vera perfezione, non abbiamo limiti, perchè è quella che reprime i vizi dell’animo, che infrange l’amor proprio, il giudizio personale e la volontà; quella che frena le tendenze orgogliose, vane, permalose; la leggerezza, la curiosità, la dissipazione; soprattutto consiste nell’assoggettarsi alla vita comune, che è la mortificazione per eccellenza. Diamo uno sguardo all’orario della giornata; levarsi al primo tocco della campana; andar in coro, bene o mal disposti che ci troviamo essere, e lodare Iddio con attenzione e fervore; sottoporci alle mille piccole raccomandazioni della Regola, come sono particolareggiate per il lavoro, il refettorio, la ricreazione, il sonno; sottomettersi costantemente senza mormorare né rendersi singolari, ecco un’ottima penitenza, per cui l’anima è molto cara a Dio e diventa agilissima all’azione dello Spirito Santo. Prendiamo come esempio il silenzio: quante volte durante la giornata avremmo occasione di parlare senza motivo! Ma diciamo a noi stessi: «No: per amore di Cristo, e per serbare intatto nell’anima il profumo della sua divina presenza non parlerò». La giornata può così essere intessuta di atti di mortificazione, che sono altrettanti atti d’amore. Anche l’obbedienza immediata agli esercizi a cui Dio ci chiama è sorgente di virtù: «Mox exoccupatis manibus» (Reg. c. 5), dice S. Benedetto: queste parole sembrano dir poco, ma per praticare con costanza ciò che esigono, ci vuole virtù grande; mentre attendo a un lavoro, suona la campana, e sono spesso tentato di dire: Ancora dieci secondi e ho finito; ma se ascolto cotesta suggestione preferisco la volontà mia a quella di Dio; non rinuncio a me stesso, non faccio come vuole il B. Padre: «Quod agebant imperfectum relinquentes». Per se stesse sono inezie, cose piccole: ma grandi per la virtù che fanno praticare, per l’amore che le ispira, la santità che ci fanno acquistare. «Colui che intende per amor mio mortificare il corpo con molte penitenze, senza rinunciare alla propria volontà, sbaglia se crede di essere a me gradito»; così diceva l’Eterno Padre a S. Caterina da Siena (Dial. c. 10); perchè non possiamo piacere a Dio se non adempiamo in tutto il suo beneplacito.

Accettiamo volentieri anche le mortificazioni che ci manda la Provvidenza: fame, freddo, caldo; disposizioni incomode di luogo, di tempo, di persone, che ci riescono contrarie: son cose da niente, direte ancora, ma coteste inezie sono inserite nel piano divino che ci riguarda: per questo dunque accettiamole con amore; anche la malattia, quando il Signore ce la manda, o lo stato malaticcio, la infermità abituale, che è ancora più penosa; accettiamo le avversità, l’aridità spirituale, perché saranno mortificazioni dolorose alla natura. Ma se lo facciamo con sommessione amorosa, senza rallentarci nel servizio di Dio, benché il cielo rimanga oscuro e non risponda alle nostre preghiere, l’anima si aprirà ognor più all’azione divina; «perché, come dice S. Paolo, tutto coopera al bene dei predestinati alla santità — Omnia cooperantur in bonum iis qui secundum propositum vocati sunt sancti».

 

V. L’abnegazione e la rinuncia sono mezzi: traggono valore dall’unione con i patimenti di Cristo.

Ma le mortificazioni tutte, siano corporali o spirituali, affliggano il corpo o reprimano le tendenze sregolate dello spirito, per noi sono soltanto un mezzo.

In alcune Congregazioni, le penitenze e le espiazioni preponderano, e sono lo scopo dell’Istituto, il quale ha nella Chiesa una missione speciale, una sua funzione propria; anche gli Ordini religiosi rispondono ai fini diversi, come insegna S. Paolo per i cristiani. Le anime che vi appartengono s’immolano come vittime; e questa vita di continuo sacrificio dà loro una particolare caratteristica e uno splendore speciale; felici coloro che Dio chiama a vivere solo della croce nuda; diventa per loro sorgente inesauribile di grazie preziose.

Lo spirito benedettino tende invece a formare cristiani, che pratichino in alto grado tutte le virtù, senza coltivare una in modo speciale; e in questo il N. Patriarca non accetta alcune teorie comunemente accolte dai padri del deserto e dagli asceti orientali circa le pratiche afflittive. Benché non trascuri la mortificazione esteriore, nondimeno fa convergere lo sforzo dell’ascesi specialmente sull’umiltà e l’obbedienza; e da ciò fa dipendere principalmente la distruzione dell’uomo vecchio; solo mezzo che permette all’anima di espandersi nell’unione divina [8].

Per ultimo, dobbiamo persuaderci bene — soprattutto per quanto riguarda la mortificazione del corpo — che sebbene la rinuncia sia mezzo indispensabile, le diverse pratiche afflittive con cui si esercita, in se stesse, non hanno pregio assoluto, se le consideriamo nel complesso della vita cristiana; ma attingono valore solo dall’unione con i patimenti e con l’espiazione di Cristo, mediante la fede e l’amore. Il Divin Salvatore è venuto sulla terra per mostrarci come dobbiamo vivere per essere graditi al Padre; è il perfetto modello di ogni perfezione; e il Vangelo ci narra che egli mangiava ciò che gli era messo innanzi, senza distinzione, per cui i Farisei si scandalizzavano; ma disse loro: «Ciò che macchia l’uomo non è quello che entra per la bocca ma i cattivi pensieri e i desideri perversi che vengono dal cuore» (Mt 15,11). Non facciamo dunque consistere la perfezione nelle mortificazioni esteriori, anche straordinarie, prese in se stesse; ciò che importa è che noi le compiamo per amore di Gesù Cristo, per partecipare alla sua Passione.

«La perfezione vera e la vera santità — dice il V. Luigi Blosio, grande maestro di vita spirituale secondo le tradizioni benedettine, — «non consistono nelle spaventose macerazioni e nell’uso immoderato dl strumenti penitenziali; ma stanno nel mortificare la propria volontà e i vizi; e così pure nell’umiltà e vera carità» [9].

La vita molto austera è ottima quando si associa a coteste disposizioni fondamentali; ma non tutti possono sopportarla; tutti peraltro sono capaci di condurre vita veramente e santamente mortificata; offrendo a Dio Padre i digiuni, le veglie, le tribolazioni, e la crudelissima Passione di Cristo (Specchio.., c. 7,3); compiendo il poco che fanno in unione con le sofferenze di lui per onorarne il continuo e totale abbandono alla volontà del Padre. Chi sa dare pienamente a Dio la propria volontà, ad esempio del Salvatore, «possiede un’anima veramente spoglia e mortificata, succulenta e deliziosa come il grappolo maturo; ma chi non sa rinunciare a se stesso, è a Dio come frutto verde, duro e disgustoso» [10].

Questo pensiero è molto utile per sostenerci nella rinuncia costante durante il giorno; nella santa Messa della mattina, ci siamo uniti all’immolazione di Gesù, collocandoci sull’altare con la vittima divina; accettiamo dunque generosamente i dolori, le contrarietà, il peso del giorno e dell’ora, le difficoltà e le rinunce inerenti alla vita comune; e così praticamente vivremo nello spirito della Messa. Non è forse il nostro cuore come un altare, dal quale sempre deve salire a Dio l’incenso del sacrificio, della sottomissione ai Suoi adorabili voleri? Quale altare sarà più gradito a Dio del cuore ardente d’amore, che incessantemente si offre a lui? Così possiamo sempre immolarci e offrirci per la sua gloria e il bene delle anime, in unione col suo Figlio diletto.

Nostro Signore stesso lo insegnò a S. Metilde. Un giorno pensava di essere diventata inutile perchè malata, e riteneva che i suoi patimenti resterebbero infruttuosi; ma il Signore le disse: «Deponi nel mio cuore ogni tua pena; io le darò perfezione assoluta. Come la mia Divinità attirò a sé i patimenti dell’Umanità e li fece suoi, cosi io trasferirò le tue pene alla mia Divinità, le unirò alla mia Passione e le farò partecipi della gloria che Dio Padre conferì alla mia santa Umanità per i dolori sofferti. Affida all’amore ognuno dei tuoi dolori dicendo: O Amore, te li offro con la stessa intenzione che tu hai avuto quando me li portasti dal cuore di Dio; e ti chiedo di riportarli a lui perfezionati dalla riconoscenza più grande... La mia Passione, soggiungeva Cristo Gesù, ha dato frutti infiniti al cielo, alla terra, le tue pene e tribolazioni date a me e unite alla mia Passione, saranno così fruttifere da procurare agli eletti maggior gloria, ai giusti nuovi meriti, ai peccatori perdono, alle anime del Purgatorio sollievo. C’è forse cosa che il mio Cuore divino non possa rendere migliore, poiché dalla sua bontà viene ogni bene in cielo e in terra?» [11].

Ecco dunque la vera dottrina circa questo punto. Dio è il primo autore della nostra santità, la sorgente della perfezione; ma noi dobbiamo togliere gli ostacoli che possono inceppare la sua opera; dobbiamo rinunciare al peccato, e alle tendenze da cui deriva; dobbiamo svincolarci dalle creature in quanto c’impediscono di andare a Dio. Chi non vuol sottostare alla legge della mortificazione e invece vuol vivere comodamente; chi vuol sottrarsi per quanto è possibile alla croce e allontanare ogni sofferenza; chi non sa incomodarsi per custodire tutte le osservanze della vita comune, costui non otterrà mai l’unione intima con Gesù: è un bene tanto prezioso da valere fatiche, travagli, rinunce continue. Troveremo Dio pienamente quando avremo rimosso dalla via ogni ostacolo e avremo distrutto ciò che in noi gli dispiace; S. Gregorio, in un suo passo che è un chiaro commento alle prime parole del Prologo della Regola, dice: «Ci allontanammo da Dio per aderire a noi stessi e alle creature; per ritornare a lui — Ut ad Eum redeas — dobbiamo aderire a Cristo crocifisso; e portar con lui la croce per mezzo della compunzione, dell’umiltà, dell’obbedienza, della dimenticanza di sé» [12]. Arriveremo al trionfo della Risurrezione per le angosce del Calvario, e la nudità della croce: «Nonne oportuit Christum pati et ita mirare in gloriam suam?» (Lc 24,26).

Terminiamo il trattenimento con le parole del grande nostro Patriarca alla fine del Prologo: «Passionibus Christi per patientiam participemus, ut in regno eius mereamur esse consortes». Le mortificazioni e le rinuncie non dureranno sempre; ma la vita che esse difendono e mantengono in noi sarà eterna. È vero che quaggiù ora è nascosta: «Vita vestra abscondita est» (Col 3,3); ma nella luce del cielo, in cui non vi sono tenebre, risplenderà eternamente; lì non ci sarà più duolo né pianto e Dio asciugherà le lagrime dei suoi servi; li farà sedere al sacro banchetto ed inebrierà i suoi eletti con l’inesauribile torrente delle pure gioie: «Et torrente voluptatis tuae potabis eos» (Sal 35,9). Allora si verificherà pienamente il cantico dalla Chiesa sposa di Cristo, assegnato alla professione monastica; in quell’ora decisiva che consacrava la divina chiamata, l’Abate ci indicò la Regola e le rinuncie per le quali si può andare a Dio; noi scegliemmo questa via, accettando di lavorare il terreno dell’anima nostra, per farne germogliare virtù celesti fra le spine e i triboli. Ma coloro che seminano nelle lagrime mietono nella gioia; oggi scavano i solchi col sudore della fronte e innaffiano con le lagrime il seme gettato; verrà presto l’ora di gioia traboccante, in cui porteranno al Padre di famiglia la splendida messe. «Euntes ibant, et flebant, mittentes semina sua; venientes autem venient cum exultatione portantes manipulos suos» (Sal 125,5-6).

 

NOTE

[1] S. Agost. Enarr. in Ps. 86, 5.

[2] Colletta del Sabato dopo le ceneri.

[3] Colletta del mercoledì delle ceneri.

[4] Sermo 10 de Verbis Domini, PL. 38, Serm. 69.

[5] Vedi quanto si è detto sulla virtù della forza: «Gli strumenti delle buone opere».

[6] Commentario sulla regola di S. Benedetto, dell’Abate di Solesmes; p. 364.

[7] Lo insegnava Dio stesso a S. Caterina, vedi il Dialogo: Dono del discernimento; c. 7.

[8] Rm 6,6. Vedi D. Morin, L’idéal monastique; c. 3, Faire pénitence; in cui è chiaramente delucidato il metodo benedettino.

[9] Specchio dell’anima, c. 7, 3. S. Caterina nel suo dialogo dà lo stesso insegnamento ricevuto dall’Eterno Padre: Coloro che si nutrono alla tavola della penitenza sono buoni e perfetti, se la loro penitenza è in me fondata col discernimento che conviene.., con grande umiltà e costante applicazione a giudicare secondo la volontà mia, e non secondo quella degli uomini. Se non fossero così rivestiti della volontà mia con vera umiltà, sarebbe ostacolo molto spesso alla loro perfezione, facendosi giudici di quelli che non seguono la stessa via in cui essi vanno. E sai tu perché finirebbero col far così? Perchè avrebbero messo lo zelo e il desiderio molto più nel mortificare il corpo che a uccidere la volontà propria... (Nell’appendice del libro: Schiarimenti sul dono di discernimento c. 2; anche il c. 7, importantissimo, illuminato da luce divina).

[10] «L’institution spirituelle». Questo passo è tratto dall’articolo di D. Puniet; La place du Christ dans la doctrine spirituelle de Louis de Blois (La vie spirituelle, aoùt 1920; p. 393 e seguenti).

[11] Il libro della grazia speciale; II Parte, c. 36. Vedi anche la Parte III, c. 36.

[12] «Regio nostra paradisus est, ad quam, Jesu cognito, redire per viam qua venimus prohibemur. A regione enim nostra superbiendo, inobediendo, visibilia sequendo, cibum vetitum gustando dlscessimus; atque appetitum carnis refrenando redeamus» (Hom. 10 in Evang.). La Chiesa inserì questo passo nell’ottava dell’Epifania, come interpretazione accomodatizia del «per aliam viam reversi sunt» dei Magi.

 

 


 

Capitolo 10

LA POVERTÀ

 

SOMMARIO: L’anima che cerca Dio deve necessariamente rinunciare ad ogni creatura; e prima di tutto ai beni materiali. — I. Che cosa richiede S. Benedetto circa la povertà individuale. — II. Come dobbiamo sperare ogni cosa dall’Abate. — III. L’esercizio della povertà è sempre unito alla virtù della speranza. — IV. Cristo modello di povertà; come essa sia l’intimo carattere della sua vita. — V. Grandi benedizioni accordate da Dio alle anime povere in spirito.

 

Nella ricerca di Dio ci sono ostacoli che ci arrestano, in noi e fuori di noi; quindi per trovarlo con perfezione ci dobbiamo svincolare da ogni creatura che ci potesse far ostacolo nel cammino. Quando il giovane del Vangelo andò a Gesù e gli chiese che cosa dovesse fare per ottenere la vita eterna, si sentì rispondere: «Osserva i Comandamenti». «Li ho osservati fin dalla fanciullezza», diss’egli; e il Divin Salvatore soggiunse: «Se vuoi essere perfetto, va, vendi ciò che hai e dallo ai poveri; e vieni, seguimi». Ma il giovane se ne andò rattristato; perché, dice il Vangelo «possedeva molte ricchezze» (Mt 19,16-22); e ad esse teneva avvinto il cuore; perciò non poté seguire le orme di Gesù.

Nostro Signore ci accordò l’immensa grazia di ascoltare la sua voce divina che ci chiama alla perfezione, e di obbedirgli: «Venite post me» (Mc 1,17): con atto di fede nella sua parola e nella sua divinità, noi venimmo a lui e gli dicemmo come S. Pietro: «Ecco che noi tutto abbiamo abbandonato per seguirti. — Ecce nos reliquimus omnia et secuti sumus te». Ci siamo staccati dai beni materiali; e, poveri volontari, senza nulla che più ci trattenga, possiamo consacrarci pienamente alla ricerca del solo vero bene immutabile; se persevereremo in cotesto fervore, troveremo certamente il Bene infinito anche quaggiù. «Che cosa ci darai, Signore?» — chiedeva S. Pietro — «Quid ergo erit nobis?» E Cristo gli rispondeva: «Riceverete il centuplo e la vita eterna» (Mt 19,27). Dio è così magnifico verso di noi, che in ricambio dei beni per lui abbandonati ci dà se stesso, con incommensurabile abbondanza; «In verità, in verità vi dico, nessuno lascerà la sua casa…, per me... senza ricevere fin d’ora il centuplo. — Amen dico vobis: Nemo est qui reliquerit domum... propter me... qui non accipiat centies tantum nunc in tempore hoc...» (Mc 10,29-30). Non mette limiti alle sue divine effusioni e qui sta la sola sorgente della nostra vera beatitudine: «Beati i poveri in ispirito, perchè di essi è il regno dei cieli. — Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum coelorum» (Mt 5,3).

Ma bisogna rimaner fermi in questa disposizione di fede, di speranza e d’amore, per la quale tutto abbiamo lasciato, ponendo in Dio solo la nostra beatitudine; non dobbiamo riattaccarci a quello che abbandonammo per sempre; e qui sta la difficoltà maggiore perché, osserva S. Teresa, la nostra natura è così sottile che tenta di riprendere, in un modo o in un altro, ciò che ha dato. «Ci votiamo alla povertà, scrive la Santa, ed è atto assai meritorio; ma molto spesso noi ci lasciamo di nuovo afferrare dalle sollecitudini, e ci diamo attorno per procurarci non solo il necessario, ma anche il superfluo, o per trovare amici che ce lo procurino; e il timore che ci possa mancare, ci cagiona inquietudini più di quante ce ne dava il possesso dei beni». La Santa aggiunge queste parole che ho già citato altra volta, ma che è bene rileggere: «Bel modo di cercare l’amor di Dio! Lo vogliamo subito, a piene mani; ma a patto di serbare anche le altre affezioni... Non si può aver tutto; a mio modo di vedere sono due cose incompatibili» (Vita, c. 11).

Dunque, se la povertà volontaria è indispensabile condizione per trovar Dio pienamente, per essere perfetti discepoli di Gesù Cristo, bisogna badar bene, nel corso della vita monastica, di non riattaccarci ai beni esteriori; vedremo che cosa ciò importi: a che cosa si estenda, e a quale virtù si deve rannodare il distacco per poterlo praticare perfettamente. Il N. B. Padre insiste molto su questo punto; la pratica della rinuncia, mediante la povertà volontaria, è un atto nobilissimo della speranza, virtù teologale.

 

I. Che cosa richiede S. Benedetto circa la povertà individuale.

Quantunque S. Benedetto non abbia inserito la parola povertà nella formula dei voti, egli tuttavia prescrive che, all’atto della professione, il monaco dia i suoi beni ai poveri o ne faccia cessione al monastero; per sé non deve serbare nulla: «Nihil sibi reservans ex omnibus» (Reg. c. 58». Se i genitori offrono il figlio al monastero, devono promettere che mai, da sé stessi o per mezzo di altra persona daranno alcunché al figlio monaco, per timore che sia a lui occasione di violare la povertà, con danno dell’anima sua (c. 59). D’altronde, la pratica della povertà è compresa nella conversio morum (c. 58) che giuriamo alla professione: perchè con questo voto siamo obbligati a tendere alla perfezione propria del nostro stato, e la povertà è necessaria al perfetto discepolo di Cristo; perciò il B. Padre ne tratta in un importante capitolo della Regola; chiama la «proprietà», per il monaco, un vizio: «vitium proprietatis»; e vizio abbominevole: «vitium nequissimum» (c. 33), da togliere ad ogni costo.

È diritto naturale dell’uomo di poter possedere: il fedele, che vive nel mondo, può usare pienamente di questa facoltà senza mettere in pericolo la salvezza eterna e la propria perfezione; perchè non è precetto, ma consiglio dato da N. Signore, il quale impone di lasciar tutto solo a chi vuoi essere suo «perfetto discepolo». Per il fedele che vive in condizioni comuni, l’azione della grazia è inceppata soltanto dall’affetto sregolato, che vincola l’anima ai beni esteriori; ma noi, per amore di Cristo e per più liberamente seguirlo, abbiamo volontariamente rinunciato a questo diritto; e non possiamo più farlo valere senza colpa.

Il nostro santo Legislatore vuol preservarci in ogni modo da cotesto vizio; e voi conoscete le parole del cap. 33. Il monaco non può nulla dare né ricevere senza l’ordine dell’abate, e nulla può avere come suo: «Ne quis praesumat aliquid dare aut accipere sine jussione abbatis, neque aliquid habere proprium, nullam omnino rem». Altri particolari contenuti nella Regola ci provano quanto importasse a S. Benedetto garantire questa divina virtù della povertà; così per esempio, accennando agli oggetti necessari a coloro che trascrivono i manoscritti, egli raccomanda che non abbiano nulla di proprio, né libri, né tavolette, né stilo per scrivere «Neque codicem, neque tabulam, neque graphium sed nihil omnino». Ma il più importante è la ragione suprema che egli dà di questo totale spogliamento nello stesso capitolo: «Poiché il monaco non è padrone nemmeno del suo corpo e della sua volontà: - Quippe quibus nec corpora sua nec voluntates licet habere in propria potestate». È davvero l’applicazione della parola: «Ecce nos reliquimus omnia»; il B. Padre, mettendo la scure alla radice, non permette che ci appropriamo nulla, nemmeno nel modo di parlare: «Nec quisquam suum esse aliquid dicat». Il religioso non può ricevere nè lettere, nè eulogie [1], né doni, per minimi che siano, senza l’ordine dell’abate; e quelli che lecitamente fossero dati a uno dei monaci, potrà l’abate destinare a chi vuole: «Quod si jusserit suscipi, in abbatis sit potestate cui illud jubeat dari» (c. 54); e S. Benedetto preammonisce il monaco al quale il dono era state fatto, di non contristarsi in queste occasioni, per non esporsi alla tentazione del demonio.

Il S. Patriarca, di solito così largo, fa ora precetti così minuziosi, perchè si tratta di un principio fondamentale; e in questi casi egli è rigorosissimo; vuol mantenere intatta la dipendenza dall’autorità e il distacco del cuore; perchè dare e ricevere senza permesso dell’abate è fare atto d’indipendenza e di proprietà; e ciò è contrario all’assoluto distacco che abbiamo promesso.

Non dobbiamo quindi aver nulla di nostro; se potete dir a voi stessi: — Su questo punto sono tranquillo, — ringraziate il Signore; perchè essere pienamente staccati è una grande grazia. Ma esaminiamo le cose più minutamente, perchè si può possedere in molti modi. Non intendo parlare di peculio; dovremmo temere di comparire davanti a Dio, all’ora della morte, se avessimo posseduta la minima somma; ma possiamo impadronirci di un oggetto in vario modo; possiamo far sì che i libri e le altre cose che adoperiamo siano così gelosamente riservate a noi, che nessuno possa o ardisca domandarcele; in teoria sono per uso comune, ma di fatto sono divenuti proprietà del singolo religioso. Piccolezze in sé; ma ne deriva un attacco pericoloso, non c’è più la libertà dell’anima, e la perfezione è menomata: «tutto deve essere comune a tutti dice il B. Padre; ed è uno dei caratteri della povertà monastica com’è da lui intesa: «Omnia omnibus sint communia» (c. 33), ricordando con queste parole la comunità dei beni nella Chiesa primitiva. Prescrive che venga punito chi adopera con negligenza e poca pulizia gli utensili del monastero (c. 32); perchè è la casa di Dio ed ogni oggetto vi deve essere considerato come sacro: «Omnia vasa monasterii cunctamque substantiam, ac si altaris vasa sacrata conspiciat» (c. 31). Ancor una volta traspare lo spirito profondamente soprannaturale e il carattere religioso del santo Legislatore, voluto imprimere a tutta l’esistenza del monastero, anche nei minimi particolari.

 

II. Come dobbiamo sperare ogni cosa dall’Abate.

La custodia di questi beni sacri è affidata all’abate; tocca a lui provvedere a tutti i bisogni dei monaci, perchè è il pastore del gregge, il padre della famiglia, e da lui il monaco deve ricevere ogni cosa: «Omnia a patre monasterii sperare» (c. 33) parola profonda, che contiene una caratteristica della nostra povertà; il monaco deve tutto avere dall’abate, poiché all’atto della professione, ci siamo spogliati di tutto, rimettendoci nelle sue mani, e per mezzo suo Dio ci darà il necessario.

Il B. Padre, dopo il capitolo sulla povertà ne aggiunge un altro intitolato: «Se tutti egualmente devono avere le cose necessarie»; e, citando gli Atti degli Apostoli, dice che si deve dare ad ognuno secondo il bisogno. Non che l’abate — soggiunge egli - deva fare eccezione di persone; ma deve considerare le infermità. Le necessità non sono aritmeticamente uguali: chi ha bisogno di più, chi di meno; e siccome l’abate non possiede la scienza infusa, così dobbiamo con semplicità esporgli che cosa ci occorre, perchè egli è padre della famiglia monastica. Ma ciò che non viene dall’abate, non viene da Dio; non cerchiamo dunque mai di ottenere una cosa, per piccola che sia, con raggiri; e non facciamo i diplomatici, procurandoci, come dice S. Teresa, amici che ce la regalino.

Nella vita di S. Margherita Maria leggiamo un fatto, che ci mostra quanto sia gradito a Dio questo modo di tutto aspettare dal superiore. La Santa aveva spesso rivelazioni dal Salvatore, circa quello che doveva fare il suo direttore, P. de la Colombière; un giorno gli fece rimettere alcuni avvisi, mentre stava per recarsi in Inghilterra; tra cui vi era anche questo: «Badi di non trarre il bene direttamente dalla sorgente». È parola breve, ma che dice molto; e Dio gliene darà l’intelligenza secondo l’applicazione che ne farà».

Il P. de la Colombière lesse e rilesse la frase senza capire; ma pochi giorni dopo, nell’orazione Iddio gli diede lume. Dovendo vivere in paese di persecuzioni e in circostanze difficili, egli riceveva una modica pensione dalla famiglia; ne aveva il permesso, ma la somma non passava più per le mani del superiore e Gesù gli dava a conoscere che la cosa non gli piaceva. «Capii allora, scrive il P. de la Colombière, che quelle parole contenevano molto, perchè portavano alla perfezione della povertà.., sorgente di una grande pace esterna ed interna [2].

Così è anche per noi; dobbiamo tutto ricevere dal padre del monastero: «Omnia a patre monasterii sperare» per ciò che riguarda la salute, il vestito, il nutrimento, le giuste eccezioni e ogni altra cosa, esponiamo fiduciosi i nostri bisogni all’abate, o a quelli che ha incaricato di sopraintendere nell’ufficio; e meditiamo le parole del Santo Legislatore, sempre giuste e discrete: «Chi può contentarsi di meno, ne ringrazi Iddio e non se ne contristi; chi ha bisogno di più, si umili per la sua debolezza e non s’inorgoglisca perchè è trattato meglio» [3]. E come conclusione aggiunge una sentenza in cui vibra tutta l’anima sua: «Et ita omnia membra erunt in pace» (c. 34) così tutti i membri della famiglia vivranno in pace; effetto proprio del distacco, perchè l’anima più non, si turba ed è tutta di Dio.

Per conformarci praticamente a questo programma, ci vuole, è vero una grande fede; ma è certo che se lo pratichiamo sempre e puntualmente, Dio non ci mancherà mai, e l’anima nostra gusterà pace profonda, perchè ogni cosa attenderà da colui che è la beatitudine dei Santi.

Quanto all’abate, egli deve provvedere a tutto; e affinché possa farlo, S. Benedetto permette al monastero di avere possedimenti; in ciò il grande Patriarca traccia un ideale di povertà diverso da quello attuato poi da S. Francesco d’Assisi [4]: perché, come dice S. Paolo, un «solo spirito governa e dirige la Chiesa di Gesù, ma con ispirazioni molteplici» (1Cor 12, 4 e segg.). Sono varie anche le vie della perfezione suggerite dallo Spirito per il bene del mistico corpo di Cristo: «in aedificationem corporis Christi» (Ef 4,12); all’ ammirabile Poverello d’Assisi ispirò la povertà radicale, che spoglia non solo l’individuo ma il convento stesso, ed è sorgente inesauribile di grazia per i figli suoi; al nostro santo Legislatore diede altro indirizzo, ma non meno soprannaturale e fecondo: nell’Ordine benedettino, il distacco individuale non ha limite, ma il monastero può avere beni propri.

Al postulante, che viene per professare, il B. Padre suggerisce due modi di fare, a sua scelta; o distribuire il suo ai poveri, o cederlo al monastero; e allora la cessione deve essere fatta solennemente, secondo la forma del diritto: «Res si quas habet aut eroget prius pauperibus, aut facta solemniter donatione, conferat monasterio» (c. 58); dunque il monastero può avere possessi; e la tradizione monastica lo ha confermato, con la sanzione della Chiesa. Sappiamo il vantaggio che ne derivò nelle badie per lo splendore del culto divino; e come hanno così potuto largheggiare coi poveri, membri di Cristo; anzi, quest’uso dei beni terreni era stato chiaramente preveduto dal N. B. Padre, che sempre si mostrò generoso nella carità verso il prossimo. In tempo di carestia comandò che si distribuisse ai poveri la modica provvista di olio che restava; e fece gettar dalla finestra il vaso pieno, che il Cellerario disobbedendo aveva voluto serbare; ma Dio ricompensò la sua carità operando miracoli [5].

Sappiamo anche dalla vita del santo Patriarca, che a Montecassino si avevano provviste [6]; perchè il Santo, animato dallo spirito del Vangelo, voleva soccorrere l’indigenza anche materiale; e ci comandò di accogliere nella badia gli ospiti, i pellegrini, i poveri (c. 53).

Fra gli strumenti delle buone opere vi è quello di ristorare i poveri: «pauperes ricreare» (c. 4); e il Santo ordina al monaco che ha l’amministrazione dei beni, di aver cura speciale di loro: «Pauperum cum omni solicitudine curam gerat» (c. 31). Non potremmo obbedire, se la società monastica non possedesse beni materiali.

 

III. L’esercizio della povertà è sempre unito alla virtù della speranza.

Ma torniamo alla povertà individuale, che dev’essere praticata rigorosamente dal monaco, per sempre meglio penetrare lo spirito. Non la intenderemmo bene, se la limitassimo allo spogliamento materiale; ci sono ricchi staccati dai loro tesori, che secondo la parola di S. Paolo, «si servono dei beni del mondo, come se non li avessero» (1Cor 7,31); sono i poveri nello spirito, ai quali il Cristo ha promesso il suo regno. Ma ci sono invece dei poveri che agognano le ricchezze, e ritengono tenacemente il poco che hanno; la loro povertà è solo materiale; non hanno la virtù del loro stato; perchè il regno di Dio è nel cuore: «Regnum Dei intra vos est» (Lc 17,21); quindi la povertà si perfeziona e fiorisce sopratutto nel cuore; può esser povero anche portando abiti regali, chi cerca Dio solo; ed ecco lo scopo a cui tende il N. S. Padre: vuole che cerchiamo Dio nella sincerità del cuore, cioè, Dio solo: «Si revera Deum quaerit» (c. 58).

Ora, la virtù della povertà è praticamente inseparabile dalla speranza, nella sua forma più nobile; perchè essa è l’abito soprannaturale che inclina l’anima a considerar Dio come suo unico tesoro, e a sperare da lui tutte le grazie necessarie per poterlo possedere, come bene supremo. «Tu sei, o Signore, la mia eredità — Dominus pars haereditatis meae» (Sal 15,5). Quando l’anima ha fede viva, comprende che Dio supera infinitamente ogni bene terreno; e come dice S. Gregorio parlando di S. Benedetto: «ogni creatura sembra meschina a chi contempla il Creatore. — Videnti Creatorem, angusta est omnis creatura» [7]. La fede ci dimostra, che il perfetto possesso di Dio è la perla preziosa di cui parla il Vangelo (Mt 13,46); per acquistarla, noi tutto vendiamo; lasciamo tutto, in omaggio alla bontà e alla bellezza divina, perchè l’anima è così innamorata di Dio, che non vuol altro bene che lui, e non si turba al vedersi priva di tutto il resto: «Deus meus et omnia» (S. Francesco d’Assisi). Mio Dio, tu per me sei tutto, e io non ho bisogno d’altro: voglio te solo, e mi sarebbe un peso l’aver altra cosa fuori di te; mi basti; perchè, vi è forse qualcosa in cielo o sulla terra che io possa desiderare oltre a te? «Quid est in coelo, et a te quid volui super terram?» Tu sei il Dio del mio cuore e la mia porzione in eterno: «Deus in aeternum» (Sal 72,25.26). Come S. Paolo, consideriamo i beni della terra “ut stercora”, come spazzatura, per poter unirci a Cristo: «Ut Christum lucrifaciam» (Fil 3,8); non ci attacchiamo nemmeno ai doni di Dio, benché sia lecito domandarli come aiuto a progredire, non per se stessi; e neppure alle consolazioni celesti. È vero che Dio non ricusa mai assolutamente una certa soavità del suo servizio, ma l’anima desidera lui solo.

Per ottenerlo, si spoglia, si svincola e vuoi essere libera; ma se Dio si nasconde, si fa aspettare lasciandola nell’aridità e nell’abbandono, o si dà a lei nella sua divina nudità per staccarla, non solo dalla terra, ma da se stessa, l’anima deve fedelmente cercare lui solo e solo in lui porre la sua felicità; allora lo troverà alla fine, e non lo perderà più, anzi godrà nella pace quel Dio che supera ogni bene: «Vade, quaecumque habes vende... et habebis thesaurum in coelo» (Mc 10,21).

La speranza produce un altro effetto; ci inclina ad aspettare da Dio tutto ciò che è necessario alla nostra santificazione. La professione monastica, come dicevo, è un contratto; se dopo aver tutto lasciato per il Cristo Gesù, manteniamo fedelmente le promesse fatte, il Cristo ha obbligo — se così posso esprimermi — di condurci alla perfezione; si è impegnato lui stesso: «Vuoi essere perfetto?» — diss’egli — «Va, spogliati del tuoi beni e vieni». Dio è Padre, ci dice N. Signore; se un figlio domanda pane a suo padre, costui gli dà forse un serpente? E se voi che siete cattivi, soggiunge egli, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli vi darà i beni necessari! (Mt 7,9-11). Quanto è vero! S. Paolo dice che la tenerezza e l’autorità dei padri terreni derivano dal cuore di Dio» (Ef 3,15). «Ogni dono perfetto, scrive anche S. Giacomo, viene a noi dal Padre dei lumi» (1, 17), che ci ama, lo dice N. Signore stesso, perchè vogliamo bene a lui: «Pater amat vos, quia vos me amastis» (Gv 16,27). E se il Padre dei cieli ci ama, che cosa potrà negarci? «Quando eravamo suoi nemici, per mezzo della morte del Figlio ci riconciliò con lui; ce lo diede perchè fosse la nostra salvezza»; e, conclude S. Paolo, «come in lui non ci avrebbe dato tutto? Quomodo cum illo non omnia nobis donavit?» (Rm 8,32). Tutto ciò che possiamo desiderare per la nostra perfezione e santità, tutto troviamo nel Cristo Gesù: «in lui sono i tesori della divinità. — Omnes thesauri sapientiae et scientiae» (Col 2,3).

È volontà indubitabile dell’Eterno Padre che il suo Figlio diletto sia la nostra redenzione, la nostra giustizia, la nostra santificazione (1Cor 1,30); che tutti i suoi meriti, tutte le sue soddisfazioni, e hanno valore infinito, siano nostre. «Siete divenuti così ricchi nel Cristo», esclama S. Paolo, «che nessuna grazia più vi manca. «Ita ut nihil vobis desit in ulla gratia» (Ivi, 7).

Oh se conoscessimo il dono di Dio: «Si scires donum Dei!» (Gv 4,10). Se sapessimo quali inesauribili ricchezze possiamo avere nel Cristo Gesù, non solo non andremmo mendicando la felicità dai beni perituri, ma ce ne spoglieremmo più presto possibile, per dilatare nell’anima nostra la capacità dei veri tesori; e baderemmo molto a non attaccarci alla minima cosa che possa trattenerci lungi da Dio. Questo è ciò che assicura e rende invincibile la nostra speranza; e quando il cuore è così veramente disaffezionato da ogni cosa, da mettere ogni sua felicità in Dio solo; quando per amor suo ci stacchiamo da ogni creatura e da lui aspettiamo le grazie necessarie, allora Dio diventa magnifico con noi, e ci colma di sé: «Ego merces tua magna nimis» (Gn 15,1). Io, che sono la Divinità, non lascerò ad altri la cura di dissetarti con la felicità!

 

IV. Cristo modello di povertà; come essa sia l’intimo carattere della sua vita.

Per raggiungere cotesto supremo grado di unione con Dio, dovremmo lasciare il mondo e rinunciare a ogni possesso; bisogna ora rimaner costanti nel fervore che ci fece abbandonar tutto per amor di Dio. Badiamo di osservare integralmente il voto di povertà; facciamo spesso, per esempio, l’inventario, per esaminarci se c’è in noi affetto sregolato per gli oggetti di cui ci serviamo, se non abbiamo questa o quella cosa senza permesso; e se ciò fosse, rimettiamola subito in uso comune; liberiamocene: «proiice abs te» (Mt 5,29-30); perchè potrebbe diventare ostacolo all’acquisto della perfezione. Ci vorrà uno sforzo generoso ma se abbiamo fede viva in Cristo, speranza sincera, amore ardente, troveremo forza e generosità nella preghiera; abbiamo fatto tanti sacrifici per darci a Dio con la professione monastica; non ci lasciamo ora avvincere da inezie, che impedirebbero lo slancio dell’anima verso di lui.

Contempliamo Gesù, nostro modello in tutto, e poiché vogliamo seguirlo per amore, vediamo che cosa ci ha insegnato. In tutta la sua vita egli ha, per dir così, sposata la povertà.

Era Dio: «non rapinam arbitratus est esse se aequalem Deo» (Fil 2,6); le legioni degli angeli sono pronte ai suoi cenni, e con una sola parola ha tratto dal nulla il cielo e la terra, ornandoli con ricchezze e beltà, che sono il pallido riflesso delle sue infinite perfezioni: «Domine, quam admirabile est nomen tuum in universa terra» (Sal 8,2). È così potente e magnifico, che — dice il Salmista — gli basta aprir la mano per colmar di benedizioni ogni essere vivente (Sal 144,16). «Aperis tu manum tuam, et imples omne animal benedictione». Ed ecco che Dio s’incarna per ricondurci a lui, scegliendo la via della povertà.

Quando il Verbo, re del cielo e della terra, discese fra noi, volle nella sua divina sapienza, stabilire i particolari della sua nascita, vita e morte, in modo che vi spiccasse soprattutto l’amore alla povertà e il disprezzo per i beni del mondo. I più poveri nascono almeno in una casa; egli viene al mondo in una stalla, sulla paglia: «in praesepio», perchè non c’era posto per sua madre all’albergo. A Nazareth conduce la vita oscura del povero artigiano: «Nonne hic est fabri fllius?» (Mt 13,55). Nella vita pubblica non ha luogo per riposare il capo, mentre perfino le volpi hanno le loro tane (Lc 9,58); e all’ora della morte volle essere spogliato delle sue vesti e affisso nudo alla croce, — la tunica tessuta dalla sua santa Madre fu presa dai carnefici; — è abbandonato dagli amici e S. Giovanni solo gli sta accanto; gli resta ancora la madre; ma egli la cede al discepolo: «Ecce mater tua» (Gv 19,27). Lo spogliamento è assoluto, eppure egli va più oltre: rinuncia alle gioie celesti con cui il Padre inonda la sua Umanità, e nello straziante abbandono esclama: «Deus meus, ut quid dereliquisti me?» (Mt 27,46). È solo, sospeso tra il cielo e la terra.

Ecco l’esempio che fece sorgere nel mondo i monasteri e li popolò di anime anelanti alla povertà.

Quando si contempla Gesù povero nel presepio, a Nazaret, sulla Croce, che ci stende le braccia e dice: — Lo faccio per te, — si comprende la divina follia degli amanti della croce. Teniamo dunque gli occhi fissi al divin povero di Betlemme, di Nazaret, del Golgota; e se proviamo le angustie delle privazioni, accettiamole generosamente; non le consideriamo come una calamità mondiale. Non dimentichiamo mai che la nostra povertà dev’essere effettiva, come abbiamo promesso a Cristo nel lasciar tutto, e non una semplice convenzione; solo a questo patto troveremo in lui ogni ricchezza; perchè egli si è voluto addossare le nostre manchevolezze, per arricchirci con la sua perfezione, come insegna S. Paolo; e la povertà della sua Umanità santa è il mezzo col quale si avvicina a noi, per inondare le nostre anime con le ricchezze della Divinità: «Scitis enim gratiam Domini nostri Jesu Christi quoniam propter vos egenus factus est, cum esset dives, ut illius inopia vos divites essetis» (2Cor 8,9).

Ecco lo scambio ammirabile avvenuto tra noi e il Verbo divino: egli porta ricchezze infinite, ma, solo a quelli che sono poveri: «Esaurientes implevit bonis» (Lc 1,53); e i più spogli vi possono attingere più largamente.

Non potremo mai far troppo in cotesto spogliamento volontario. C’è nella vita interiore di Cristo un aspetto messo in luce da S. Giovanni, la cui imitazione costituisce un esercizio di profonda povertà; per comprenderlo, innalziamoci a meditare il mistero dell’adorabile Trinità; ma con fede e riverenza, perchè coteste verità si comprendono bene solo nell’orazione.

Voi sapete che Dio Padre ha un attributo suo proprio, che ne distingue la Persona; egli è il principio che non procede da altri: «Principium sine principio». Anche il Figlio è principio; lo disse egli stesso ai Giudei; «Ego principium qui et loquor vobis» (Gv 8,25); ma solo per riguardo a noi, poiché è sorgente di vita al creato, in unione col Padre e con lo Spirito Santo. Se invece ci riferiamo alle tre persone divine, il Padre solo è principio che non procede da altri; il Figlio procede da lui; e dal Padre e dal Figlio è spirato il Paradiso. Anche come Dio, il Figlio ha tutto dal Padre: «Omnia quae dedisti mihi abs te sunt» (Gv 17,7); ed egli, guardando al Padre, può dire che tutto quanto è, possiede o conosce, viene da lui, perchè ne procede; senza che per questo — e qui sta uno degli aspetti del mistero — ci sia ineguaglianza tra la prima e la seconda persona, né inferiorità, né successione di tempo.

Cotesta sublime verità ci è stata rivelata specialmente nel Vangelo di S. Giovanni (cc. 5, 7, 8, 14), nel quale leggiamo molto spesso che N. Signore tutto ha dal Padre; ma nell’ Incarnazione assume modalità speciali. Contempliamo per alcuni istanti l’Umanità santissima di Gesù Cristo: è perfetta, integra; non le manca nulla di ciò che costituisce e adorna la natura umana. «Perfectus homo» (Simbolo attribuito a S. Atanasio); e nondimeno essa non costituisce una persona, perchè il Cristo non ha persona umana; il Verbo che è in lui, è l’ipostasi, e la natura umana di Cristo sussiste nel Verbo. Dunque, per quanto perfetta in se stessa, e con attività autenticamente umana, pure la divina Umanità non ha padronanza di sé, fuori della Persona del Verbo alla quale è unita; ne dipende completamente, è a lui subordinata in modo totale e assoluto; è il mistero ineffabile della natura umana sussistente nel Verbo divino.

Troviamo nelle parole di Gesù alcune allusioni a questo mistero. Egli — Verbo Incarnato — ci dice che la dottrina che insegna non è sua, ma del Padre: «Mea doctrina non est mea, sed ejus qui misit me» (Gv 7, 16); che il Figlio non fa nulla da se stesso, ma parla solo come il Padre gli insegna: «A me ipso facio nihil, sed sicut docuit me Pater, haec loquar» (Gv 8,28; 14,10); e potrà con tutta verità soggiungere che non cerca la gloria sua, ma di colui che l’ha mandato: «Non quaero gloriam meam sed ejus qui misit me Patris» (17,4); gloria che consiste nel riportare tutto a Dio, da cui è generato; il Padre gli ha dato ogni cosa, ed egli riconduce tutto a lui, come al principio donde procede: «Pater, mea omnia tua sunt, et tua mea sunt» (17,10). Ciò è vero dell’Umanità, e in un certo senso, anche della Divinità di Gesù; poiché come Verbo tutto ebbe dal Padre; procede interamente da lui; quando il Padre guarda nel Figlio, nulla vede che non sia suo; per cui nel Figlio tutto è divino e perfetto come oggetto della sua compiacenza: «Filius dilectionis suae» (Col 1,13).

Quest’aspetto, che è uno dei più profondi ed essenziali nella vita di Cristo, deve fornire alla nostra povertà un esempio da imitare; e ci riusciremo se non saremo poveri solo materialmente, ma nello spirito, se ci spoglieremo dl quanto ci appartiene, di quanto viene dalla nostra natura: il giudizio, l’amor di sé, la volontà, che costituiscono le tre radici del vizio di proprietà; coltivando solo in noi i pensieri, i desideri e la volontà di Dio, agendo solo per motivi che egli ci ispira. Allora tutto in noi, per dir così, procederà da Dio; egli vedrà compiuta l’idea che ebbe creandoci. Se invece nei pensieri o nelle azioni c’è qualcosa che non è da lui, cioè il peccato, l’imperfezione, noi deformiamo l’immagine divina; e Dio vede in noi il nostro proprio, che da lui non proviene e non può a lui ritornare. Grande ostacolo alla grazia e alle compiacenze divine è cotesto vizio della proprietà; e per noi comprende non solo il possedere e disporre dei beni materiali, l’attacco disordinato ad essi, ma anche l’affezione sregolata a ciò che costituisce l’intimo della nostra persona. Vedremo più particolarmente nelle due conferenze seguenti, come ci sia possibile arrivare a spogliarci completamente dell’amor proprio e della propria stima e volontà per mezzo dell’umiltà e dell’obbedienza; ma era opportuno considerare fin d’ora il vizio della proprietà, sotto tutti i suoi aspetti, perchè esso è l’ostacolo radicale alle comunicazioni divine, e produce numerosi frutti di peccato e di morte. «L’orgoglio, diceva N. Signore alla B. Angela da Foligno, può trovar posto soltanto in coloro che possiedono o credono possedere; l’uomo e l’angelo caddero per orgoglio, perchè credevano di aver qualcosa di loro. Ma essi non hanno nulla; tutto è di Dio) [8].

Si capisce allora perché S. Benedetto, così illuminato nelle vie divine, vuole che si tagli fino alla radice lo spirito di proprietà: «Radicitus amputetur» (Reg. c. 33).

 

V. Grandi benedizioni accordate da Dio alle anime povere in spirito.

Operata cotesta santa distruzione, il Signore non mette limiti alle sue grazie; perchè il regno di Dio è stato promesso da Gesù ai poveri in ispirito; si stabilisce in noi in proporzione del nostro spogliarci delle creature e di noi stessi; poiché la nostra vita spirituale consiste nell’imitare Gesù, il Verbo, Figlio di Dio, che procede dal Padre e vive in lui e per lui: «Ego vivo propter Patrem» (Gv 6,58); in ciò si riassume la sua vita. Proporzionatamente, accadrà lo stesso nella nostra vita, se in Dio attingeremo ogni movente e ogni ispirazione all’attività; la innalzeremo sempre più e la trasformeremo in vita soprannaturale. Ci vorrà grande abnegazione, perchè l’istinto naturale spinge l’uomo a farsi centro e cercare se stesso in ciò che gli è personale, proprio, principio di vita; mentre invece dovremo trovar in Dio solo ogni motivo d’azione; e l’anima nostra dovrà pienamente sottomettersi al beneplacito divino, affinché ogni suo moto venga dallo Spirito Santo.

Domandiamo appunto questa grazia ogni mattina, a Prima, cominciando la giornata: «Signore, del cielo e della terra, degnati oggi di dirigere e santificare, di reggere e governare i nostri cuori e i nostri corpi; i sentimenti, le parole e le azioni nostre, nella tua legge, o Salvatore del mondo, che vivi e regni nei secoli. — Dirigere et sanctificare, regere et gubernare dignare, Domine Deus, Rex coeli et terrae, hodie corda et corpora nostra, sensus, sermones et actus nostros, in lege tua, et in operibus mandatorum tuorum». Chiediamo sinceramente al Verbo Incarnato di dirigere e dominare tutto quanto è in noi: pensieri, sentimenti, azioni; tutto ciò che siamo, che abbiamo, che potremo fare; allora ogni cosa nostra verrà da Dio per Gesù Cristo nel suo Spirito, e ritornerà a lui. Sottomettiamo al Cristo Gesù la nostra persona e tutto ciò che abbiamo, per distruggere in noi il male e far convergere il bene al compimento della sua divina volontà; allora ciò che faremo, pur rimanendo nostro, sarà effetto della grazia, e dello Spirito Santo; non attingeremo più i pensieri, le parole e le opere nella volontà, nell’amor proprio, nella stima di noi stessi, ma nell’amore alla volontà di Cristo, nell’affezione alla sua legge: «In lege tua et in operibus mandatorum tuorurn». Ci saremo spogliati di noi per rivestirci dl Gesù Cristo: «Christum induistis» (Gal 3,27); in quest’unione di noi col Verbo sussisteranno certo le due persone distinte, perchè si tratta di unione morale; ma potremo arrivar a sottomettergli così completamente ogni nostra attività personale, da lasciare a lui tutta l’iniziativa della nostra vita.

Nella stessa preghiera troviamo il principio che la giustifica: il Verbo è Re del cielo e della terra; egli vive e regna come Dio: «Vivit et regnat Deus». Il Cristo vive dove regna, perchè è re per essenza; e vive in noi a seconda del grado di dominio, che può esercitare sulle nostre facoltà, comandando all’attività nostra. Quando tutto viene da lui, cioè, noi pensiamo secondo i suoi giudizi, vogliamo ciò che egli vuole, e operiamo seguendo il suo beneplacito, allora tutto gli abbiamo sottomesso ed egli regna sovrano; ogni principio nostro personale è distrutto e solo dominano le intenzioni, i voleri del Verbo divino. Cotesto dominio dev’essere totale; perciò ripetiamo spesso durante la giornata: «Adveniat regnum tuum!», Venga, o Signore, il giorno in cui tu regnerai totalmente in me; in cui nessun movente proprio incepperà la tua azione; in cui io sarò pienamente abbandonato al Padre; e più nessun impulso personale contristerà in me l’azione del tuo Spirito.

In quel giorno noi ci saremo, per quanto è possibile, spogliati di noi stessi, sottomettendo la nostra persona al regno di Cristo; ed egli sarà in noi tutto: «Omnia in omnibus» (1Cor 15,28); moralmente, non avremo più nulla di nostro, tutto apparterrà a lui, gli sarà sottomesso e consacrato: saremo veramente poveri in ispirito. Chi sono quelli che Nostro Signore chiama pauperes spiritu? Coloro che non posseggono nulla, né con la mente, né col cuore, né con la volontà; ma vogliono tutto avere da Dio. Ogni giorno essi depongono ai piedi di Cristo il loro giudizio e modo di pensare; la loro volontà e quanto hanno di proprio; e gli dicono: «Non voglio aver nulla di mio, ma soltanto ciò che mi viene da te; non voglio far altro se non ciò che tu, come Verbo, hai per me stabilito da tutta l’eternità, affinché si compia il tuo divino ideale». Allora potranno dire come l’Apostolo S. Paolo: «Vivo autem, jam non ego; vivit vero in me Christus». (Gal 2,20). Io vivo, ma non più io, perché in me vive Cristo; ma perchè sia vero, bisognerà adoperare gli stessi mezzi di S. Paolo, al quale convengono letteralmente queste parole; egli non ottenne in un sol giorno questa unione perfetta, perché aveva una personalità straordinariamente possente; e per far morire in sé ciò che era contrario alla vita di Cristo e dare allo Spirito Santo libero impulso nell’anima sua, dovette accettare una lunga sequela d’immolazioni.

Ecco la perfezione compiuta; alla professione, noi rinunciammo ai moventi principali che fanno agire gli uomini: il danaro, l’amore, l’indipendenza; ci siamo dunque posti in ottime condizioni e la vita divina può inondarci pienamente; sforziamoci ora di spogliarci sempre più intimamente, rinunciando non solo alle cose create, ma anche all’attività propria, al nostro io; sforziamoci, con la preghiera e tenendo lo sguardo sempre fisso al divino modello, di agire solo per motivi soprannaturali, affinché il nome del Padre sia santificato, venga in noi il suo regno, si compia la sua volontà; allora la nostra vita sarà divinizzata; e ricondotta a Dio, si trasformerà in lode incessante, molto gradita al Padre celeste. Saremo illuminati, ispirati, uniti nel Verbo e nello Spirito: «Spiritu Dei aguntur» (Rm 8,14); e potremo dire: Il Signore mi governa: «Dominus regit me»; perchè il Padre non ci abbandonerà mai; e subito soggiungeremo col Salmista: Nulla mi potrà mancare. — «Nihil mihi deerit» (Sal 22,1). Il Padre, scorgendo in noi soltanto ciò che viene da lui, dalla grazia del Figlio suo, dai suggerimenti dello Spirito; vedendoci uniti in tutto al Figlio, come egli desidera, ci abbraccia con la compiacenza stessa con cui lo ama, e ci colma con le inesauribili ricchezze del regno celeste. Il Cristo Gesù allora ci trasporta presso il Padre: «in sinu Patris» (Gv 1,18); perché è essenziale al Figlio appartenere al Padre: e tutto quello che è suo è anche del Padre: «Mea omnia tua sunt».

Ma noi siamo a parte di tutte le benedizioni che ricolmano il Figlio, come nostra porzione ed eredità: «Tu es qui restitues hereditatem meam mihi» [9]. Dio abbandona all’inanità delle loro pretese ricchezze coloro che, credendosi possessori, confidano in se stessi; ma nella sua infinita misericordia colma coi beni celesti l’indigente che spera in lui: «Esurientes implevit bonis, et divites dimisit inanes» (Lc 1,53).

 

NOTE

[1] L’eulogia veramente era il pezzo di pane benedetto distribuito ai fedeli durante la Messa solenne; simbolo dell’unione di carità tra i cristiani. Ma il nome venne dato anche ai frutti, alle immagini, medaglie, reliquie.

[2] Vita della santa, scritta dall’Hamon; c. 7, Journal des retraites, del R. P. de la Colombière. Edizione Desclèe, 1896: p. 164. 169.

[3] «Qui minus indiget, agat Deo gratias, et non contristetur; qui vero plus indiget. humilietur pro infirmitate, non extollatur pro misericordia».

[4] Vedi ciò che dice D. Morin nell’Idéal monastique, p. 124ss della III Ediz.

[5] S. Greg., Dial. II, cc. 28 e 29.

[6] Ivi c. 29.

[7] Ivi, c. 35.

[8] Il libro della mirabile Visione, c. 55 (già cit.).

[9] Pontificale romano, Ordo ad Clericum faciendum.

 

 


 

Capitolo 11

L’UMILTÀ

 

SOMMARIO: L’orgoglio, è uno dei maggiori ostacoli alle effusioni divine è levato via dall’umiltà. — I. L’umiltà è necessaria. — II. Come la considera S. Benedetto e quale posto principale le assegna nella vita interiore; Natura di cotesta virtù. — III. La radice dell’umiltà secondo S. Tommaso e S. Benedetto, è la riverenza verso Dio; unite, dice il santo Patriarca, alle più completa fiducia. — IV. Gradi dell’umiltà stabiliti da S. Benedetto; i due primi si riferiscono anche ai semplici cristiani. — V. Gli altri gradi sono strettamente monastici. — VI Umiltà esteriore; come sia necessaria; suoi gradi. — VII. Come si concilia con la verità e si associa alla fiducia. — VIII. Il più prezioso frutto di cotesta virtù è disporre principalmente l’anima alle effusioni abbondanti della carità perfetta. — IX. Mezzi con cui si perviene all’umiltà: preghiera, contemplazione delle perfezioni divine, meditazione delle umiliazioni di Gesù Cristo. — X. Egli associa l’anima umile alla sua celeste esaltazione.

 

Una delle maggiori rivelazioni che N. Signore fece nell’Incarnazione, è il suo ardente desiderio di comunicarsi a noi per renderci felici: Dio avrebbe potuto restar sempre nella feconda solitudine della divinità una e trina; non ha bisogno delle creature, perchè nulla manca a lui; che è la pienezza dell’essere e causa prima di tutto: «Bonorum meorum non eges» (Sal 15,2); ma siccome ha decretato, nella libertà assoluta e immutevole della sua sovrana volontà, dl darsi a noi, così desidera infinitamente dl farlo. A volte saremmo quasi tentati di creder che Dio possa essere indifferente circa la nostra salvezza, o che abbia solo un vago e inefficace desiderio; ma sono concetti umani, che ritraggono la debolezza della nostra natura, così instabile e impotente; Dio è atto puro; e ciò che nel nostro povero linguaggio diciamo: desiderio divino, è un atto che realmente non si distingue dalla sua essenza, ed è quindi infinito.

Non dobbiamo lasciarci guidare dall’immaginazione, ma seguire la Rivelazione divina: ascoltiamo Dio stesso se vogliamo conoscere la sua vita; rivolgiamoci al Cristo, il Figlio diletto, che è nel seno del Padre: «In sinu Patris» (Gv 1,18), e ci rivelò i divini segreti: «Ipse enarravit».

Ci ha rivelato che Dio ha tanto amato gli uomini da dar loro l’unico suo figlio; «Sic Deus dilexit mundum ut Filium suum unigenitum daret» (Ivi, 3,16); affinché divenisse la nostra giustizia, la nostra redenzione, la nostra santità. Il Cristo Gesù, per obbedire al Padre: «Sicut mandatum dedit mihi Pater» (Ivi, 14,31), accettò la morte di croce, si fece ostia per noi e nostro cibo: «in finem». Avrebbe Dio spinto l’amore a questi eccessi se non desiderasse infinitamente comunicarsi a noi? Insegna S. Tommaso che l’amor di Dio non è passivo; come causa prima di tutto non può nulla ricevere da altri, ed è amore efficace, efficiente per essenza [1]; e poichè Dio ci ama, desidera con illimitato amore e volontà efficace di comunicarsi a noi.

Ma — chiederete voi — e perchè allora non si dà sempre, ma ci sono anime alle quali non si comunica? Perchè in alcuni è così scarsa l’effusione dei doni di Dio; e chi dovrebbe sovrabbondare di grazia, è invece povero di beni celesti? Se studiamo l’opera della grazia nei cuori, saremo infatti stupiti di vedere effetti cosl differenti: in alcuni, la grazia si espande con lumi e doni abbondanti, e progrediscono rapidamente, come inondati di unzione divina e benefica, che si manifesta a tutti quelli che vivono con loro; in altri, invece, sterilità grande: i Sacramenti, le Messe, le pie letture, l’osservanza della Regola, tutti i mezzi che trasmettono la grazia divina, producono in loro scarsissimo frutto; e se poi esaminiamo davvicino coteste anime, non troveremo, a prima vista almeno, ragione alcuna per spiegare simile differenza. Perchè mai persone esteriormente regolari non godono la unione abituale con Dio e non fanno progressi?

Potremmo facilmente rispondere a questa domanda, se rileggessimo alcune pagine della conferenza precedente. Ci sono i ricchi nello spirito: «divites spiritu»; e i poveri nello spirito (Mt 5,3); solo a questi è dato il regno di Dio con beni sovrabbondanti: «Esurientes implevit bonis»; a quelli invece la nudità del loro nulla: «Divites dimisit inanes» (Lc 1,53).

Tutti abbiamo in noi ostacoli che c’impediscono l’unione con Dio; il peccato e le sue radici, con le perverse tendenze non combattute; e non c’è alleanza possibile, dice N. Signore, tra la luce e le tenebre. Le anime che rinunciano a tutto — a se stesse e alle creature — tolgono gli ostacoli, e aumentano la loro divina capacità; staccandosi da ciò che non è Dio, aspettano da lui il necessario; e abbassando se stesse, si affidano a Dio solo. Questi veri «pauperes spiritu» sono colmati di ogni bene; ma gli altri portano in sè una spaventosa tendenza che si oppone a Dio, l’orgoglio; tendenza radicalmente opposta alle comunicazioni divine; perchè Dio non può dar nulla a cotesti «divites spiritu» contenti di se medesimi. E ciò accade spesso.

Conosceremo quanto sia importante l’umiltà per la vita dell’anima, studiandola In modo più profondo; e vedremo con quanta ragione il B. Padre l’abbia messa a fondamento della vita monastica; poi ne preciseremo la natura e i caratteri. Esamineremo quindi i gradi di umiltà Indicati da 8. Benedetto, seguendo così i vari modi con cui la virtù si manifesta, e segnaleremo I mezzi efficaci per suscitarla nell’anima.

Domandiamo al Cristo Gesù, che ci proponiamo di seguire più davvicino, dopo aver abbandonato tutto per amor suo, di insegnarci l’umiltà. Nel Vangelo egli dice: «Imparate da me. — Discite a me» (Mt 11, 9).

Ma che cosa dobbiamo imparare così specialmente da lui? Forse che Egli è Dio, l’Essere supremo, onnipotente, sapientissimo? «Ciò che dobbiamo imparare da lui, dice S. Agostino, non è fare il mondo nè creare le cose visibili ed invisibili, non a far miracoli e risuscitare i morti - Discite a me non mundum fabricare, non cuncta visibilia et invisibilia creare, non in ipso mundo miracula facere et mortuos suscitare» [2]. Vuole bensì che impariamo da lui le virtù eroiche, che esercita obbedendo fino alla morte, e abbandonandosi pienamente al beneplacito del Padre e ardendo di bruciante zelo per la gloria di lui e la nostra salvezza; ce ne ha dato esempio in tutto di ammirabile perfezione; ma ciò che vuole che Impariamo prima di ogni altra cosa è la mitezza e l’umiltà del cuore; sono le sue virtù nascoste e silenziose, non vedute o disdegnate dagli uomini [3], ma che egli raccomanda così caldamente: «Discite a me quia mitis sum et humffls corde». Domandiamogli dunque la grazia di aver un cuore simile al suo; poichè la perfezione consiste nell’imitazione costante, per amore, del divino modello: «Hoc enim sentite in vobis quod et in Christo Jesu» (Fil 2,5).

 

I. L’umiltà è necessaria

La S. Scrittura, parlando degli orgogliosi nella loro relazione con Dio, adopera una singolare espressione: «Dio resiste ai superbi. — Deus superbis resistit» (1Pt 5,5 - Gc 4,6). È cosa terribile per la creatura essere da Dio abbandonata; che sarà dunque quando egli è contrario? Non si può pensarci senza spavento: Dio è l’unica sorgente della nostra santità, perchè autore di ogni grazia; ma che cosa potremo sperare da lui se non solo non si comunica alle anime nostre, ma ci è nemico e ci respinge?

Vediamo che cosa ci sia di così cattivo e contrario a Dio nell’orgoglioso, poichè egli lo ributta lontano da sè con tanto vigore. La ragione di cotesta opposizione proviene dalla stessa sua natura divina: Egli è il principio e la fine, l’alfa e l’omega (Ap 22,13) di ogni cosa; è causa prima di tutte le creature e sorgente di perfezione; ogni essere viene da lui, ogni bene da lui deriva; ma deve anche ritornare a lui, rendendogli gloria; perchè Dio opera solo per questo fine: «Universa propter semetipsum operatus est Dominus» (Prv 16,4). Per noi sarebbe egoismo e sregolatezza; ma in Dio è necessità che si fonda nella sua natura medesima; perché la santità di lui ha per essenza di far tutto per la propria gloria, altrimenti più non sarebbe l’Essere supremo, che ha per fine se stesso. Sentite ciò che scrive Isaia; come gli angeli cantano la santità di Dio, perchè la sua gloria riempie il cielo e la terra: «Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaot; plena est omnis terra gloria ejus (6,3)»; e anche S. Giovanni a Patmos vide gli eletti prostrarsi davanti al trono di Dio, e cantare: «Tu sei degno, o Signore, di ricever gloria, onore, «potenza, perchè ogni cosa ebbe da te l’essere e la vita» (Ap 4,11): Per questo Iddio dice per bocca di Isaia: «Non darò ad altri la mia gloria» (42,8); poichè nell’eterna contemplazione di se stesso, egli si vede degno di onore infinito, come pienezza di essere e oceano di perfezione; e non potrebbe senza cessare di essere Dio, santità per essenza, permettere che si attribuisca ad altri la gloria che gli è dovuta. Ci dà molte grazie, e persino lo stesso suo Figlio diletto: «Sic Deus dilexit mundum ut Filium suum unigenitum daret» (Gv 3,16) ce lo dà pienamente e per sempre, se vogliamo; e in lui e per lui ci dà ogni bene: «Cum illo omnia nobis donavit» (Rm 8,32); ci dà la felicità eterna e senza fine, bene massimo per noi; e ci apre l’adito all’intima vita della Trinità beata; ma c’è una cosa sola che non vuole e non può comunicare ad altri: la sua gloria: «Ego Dominus; gloriam meam alteri non dabo».

Che fa invece l’orgoglioso? Vuol togliere a Dio la gloria che gli è dovuta e di cui è geloso, per attribuirla a sè; innalza se stesso e si fa centro, glorificando la propria persona, esaltando le proprie perfezioni ed opere; ne vede il principio in sè e crede di non essere debitore ad altri, nemmeno a Dio; negandogli così l’attributo di primo principio ed ultimo fine. In teoria penserà che ha avuto ogni cosa da Dio; ma nella vita pratica fa come se avesse tutto da sè.

Dato quest’antagonismo tra l’uomo e Dio [4], è necessario che il Signore resista al superbo; lo deve respingere come un ingiusto aggressore: «Superbis resistit»; è grande il Signore, dice la Scrittura; si piega verso gli umili, ma guarda i superbi dall’alto. «Excelsus Dominus et humilia respicit, et alta a longe conosci» (Sal 137,7); e un antico dottore, commentando queste parole, scrive: «Dio guarda i superbi da lontano per abbassarli con maggiore vigore. — Alta, id est superba, de longe cognoscit ut deprimat» [5]. Ci può essere minaccia più spaventosa?

Il Divin Salvatore, così misericordioso e compassionevole, c’insegna la stessa verità nella parabola del Fariseo e del Pubblicano, e in modo da scuoterci fortemente. Guardate il Fariseo; come pieno di sè e sicuro, si mette in mostra con le parole e l’atteggiamento: eccolo là ritto e disinvolto, come chi conosce il proprio valore e le proprie perfezioni; come chi non deve niente a nessuno e non ha bisogno di nulla; racconta a Dio con compiacenza tutto i]. bene che fa; lo ringrazia, è vero; ma, osserva S. Bernardo, questo falso omaggio aggiunge la menzogna all’orgoglio; il Fariseo ha il cuore doppio, di cui parla il Salmista, e col disprezzare il Pubblicano, mostra di tenersi per dappiù di lui, dando a se stesso in realtà la gloria apparentemente tributata a Dio [6]. Non gli domanda nulla, perchè non crede di averne bisogno, egli basta a se stesso; invece chiede a Dio l’approvazione della sua condotta, e pare di sentirgli dire: «Mio Dio, come devi esser contento di me che sono irreprensibile? Non come gli altri uomini, nè come questo Pubblicano». È persuaso che ogni perfezione è cosa sua, e per questo leggiamo nel Vangelo, che N. Signore propose la parabola ad alcuni giudei, che confidavano nella loro propria giustizia.

Che fa invece l’altro attore della scena, il Pubblicano? Se ne sta in fondo, senza nemmeno osare di alzar gli occhi, perchè sa di essere miserabile. Non crede di aver titoli da far valere davanti a Dio; è persuaso di aver solo peccati: «... Mio Dio, pietà di me che sono peccatore...». Si affida solo alla misericordia divina, tutto sperando e attendendo da lei, ponendo in Dio ogni fiducia, ogni speranza. E come agisce Dio con loro? «In verità vi dico, dichiara Gesù, il pubblicano partì giustificato (Lc 18,14); ma non l’altro, il Fariseo; eppure quello era peccatore, e questi esteriormente almeno, un rigido osservante della legge, ma pieno di sè, che sprezzava il Pubblicano innalzandosi nel proprio cuore per le buone opere che compiva, e si metteva al posto di Dio; il Signore lo respinse: «Dispersit superbos mente cordis sui» (Magnificat). Al povero pubblicano che si umilia dà invece grazie abbondanti. «Humilibus autem dat gratiam» (Gc 4,6 – 1Pt 5,5). Terminando la parabola, Gesù ribadisce la legge fondamentale della nostra relazione con Dio, e mette in luce l’insegnamento che ne dobbiamo ricavare principalmente: «Chi si eleva sarà abbassato, e chi si umilia sarà esaltato. — Omnis qui se exaltat humiliabitur et qui se humiliat exaltabitur».

L’orgoglio impedisce l’unione dell’anima con Dio; non c’è in noi, scrive S. Tommaso, tendenza che maggiormente si opponga alle comunicazioni divine: «Per superbiam homines maxime a Deo avertuntur» (II - II, q. 47, a 6, concl.). Siccome Dio è principio di ogni grazia, la superbia è il pericolo più spaventoso per l’anima; e invece la via più sicura alla santità e all’unione con Dio è l’umiltà. La superbia impedisce a Dio di darsi a noi; se non fossimo orgogliosi, si comunicherebbe a noi con maggior abbondanza; e l’umiltà è davvero la virtù fondamentale, senza della quale le altre rovinano, dice l’abbate di Clairvaux: «Virtutum siquidem bonum quoddam ac stabile fundamentum humilitas. Nempe si mutet illa, vlrtutum aggregatio nonnisi ruina est» [7].

La nostra natura decaduta ha in sè ostacoli allo sviluppo della vita interiore; se non li togliamo, impediranno l’acquisto delle virtù; ma il più grande tra essi è la superbia, poichè si oppone radicalmente all’unione divina e alla grazia, di cui Dio solo è la sorgente e senza della quale non possiamo nulla. L’umiltà, dice ancora S. Bernardo, accoglie le altre virtù, le custodisce, le perfeziona: «Humilitas virtutes alias accipit, servat acceptas... servata consummat» [8]. Quindi, l’anima umile è capace di accogliere tutti i doni di Dio, perchè è vuota di sè, e aspetta da Dio tutto ciò che è necessario al suo perfezionamento, sentendosi povera e miserabile. Gli angeli, che non hanno miserie, cantano la santità di Dio; noi lodiamo la sua misericordia: «Misericordias Domini in aeternum cantabo» (Sal 88,2); perchè tutto ciò che Dio fece per noi dopo la caduta che ci travolse, è effetto della sua misericordia. Egli vide l’uomo degradato e impotente, soggetto alle tentazioni ed in balia di pericolose inclinazioni che variano secondo il tempo, la stagione, la salute, l’educazione, e il luogo in cui vive; e fu tocco da tanta miseria, come se fosse una debolezza sua; cotesto movimento divino che lo inclina verso di noi per soccorrerci, è la misericordia: «Quomodo miseretur Pater flliorum, misertus est Dominus timentibus se, quoniam ipse cognovit figmentum nostrum» (Sal 102,13-14).

La nostra miseria è così profonda da poter esser paragonata a un abisso che, a sua volta, richiama quello della divina misericordia: «Abyssus abyssum invocat» (Sal 41,8); ma l’attira soltanto allorchè è da noi ammessa e confessata; l’umiltà ci fa gettare il grido che implora: «Domine, miserere mei»; la confessione pratica e continua della nostra miseria attira lo sguardo di Dio. I cenci e le piaghe dei poveri chiedono per loro; essi non li nascondono davvero, anzi li scoprono per commuovere; e noi pure non dobbiamo farci valere presso Dio vantando i nostri meriti, ma attirarne la misericordia con confessare le nostre debolezze; perchè ognuno di noi ne ha un cumulo sufficiente ad attirare i suoi sguardi pietosi. Siamo come il povero viandante che giaceva sulla via di Gerico, nudo e coperto di ferite; il peccato originale ci ha spogliati della vita di grazia, e i peccati personali hanno piagato le anime nostre; ma Gesù è il buon Samaritano, venuto a guarirci, che versa sulle ferite il balsamo del suo prezioso sangue; ci raccoglie tra le sue braccia e ci confida alla Chiesa, che è tenera madre nostra e ci ama come lui.

Che ottima preghiera è mai il mostrare a Nostro Signore le miserie, le turpitudini che ci sfigurano: «Dio mio, guarda quest’anima che tu hai creata, riscattata; vedi com’è deforme, piena d’inclinazioni che ti dispiacciono; abbi pietà di lei!». È una preghiera che va dritto al cuore di Dio come quella del lebbroso di cui parla il Vangelo: «Jesu, praeceptor, miserere nostri» (Lc 17,13); egli ci guarisce.

Quando siamo persuasi di essere, da noi stessi deboli, poveri, miserabili, infermi, implicitamente esaltiamo la potenza, la sapienza, la santità, la bontà di Dio; e rendiamo alla sua divina pienezza un omaggio così gradito, che egli s’inchina verso l’anima umile per ricolmarla di beni. «Esurlentes implevit bonis». Lo diceva pur San Benedetto [9]: «Il nostro cuore è un vaso destinato a ricevere la grazia; ma perchè se ne possa riempire abbondantemente, deve prima vuotarsi dell’amor proprio e della vanagloria» [10]. Quando l’umiltà vi ha scavato un grande vuoto, la grazia vi irrompe, perchè c’è strettissima affinità tra l’umiltà e la grazia: «Semper solet esse gratiae divinae familiaris virtus humilitatis» [11]. Questa virtù è dunque la più efficace a meritare la grazia, a conservarla, o a ricuperarla se l’abbiamo perduta [12].

C’è un’altra ragione che spiega la liberalità dl Dio verso gli umili: Egli sa che costoro non trarranno mai compiacimento di vanagloria dai suoi doni; non li f aranno propri, come i superbi, ma ne ridaranno a lui tutta la gloria e l’onore; e perciò, — se ci è lecito così esprimerci — Dio non teme di versar in essi l’abbondanza del suoi favori, perchè sa che non ne abuseranno mai, e non li distrarranno dallo scopo a cui egli li destina; più dunque ci vogliamo accostare a Dio e più dobbiamo radicarci profondamente nell’umiltà; ben ce lo dimostra S. Agostino con una immagine familiare: «Vogliamo ottenere uno scopo grandissimo, perchè cerchiamo Dio, vogliamo arrivare a lui nel quale si trova ogni nostra beatitudine eterna; ma non vi possiamo giungere se non per mezzo dell’umiltà. Vuoi essere grande? comincia col rimpicciolirti. Vuoi costruire un edificio che salga al cielo? Fondalo sopra la umiltà. — Magnus esse vis? a minimo incipe. Cogitas magnam fabricam construere celsitudinis? de fundamento prius cogita humilitatis». Più la costruzione deve esser alta, continua il santo Dottore, più devono essere profondi i fondamenti; perché la povera nostra natura è terreno instabile, che slitta continuamente: «Ergo et fabrica ante celsitudinem humiliatur, et fastigium post humiliationem erigitur». Fino a quale altezza vuoi tu portare l’edificio spirituale? Fino alla visione di Dio: «Quo perventurum est cacumen aedificii? Cito dico; usque ad conspectum Dei». Vedete dunque, esclama egli, come deve esser sublime l’edificio, e quale eccelso scopo dovete raggiungere; ma non vi dimenticate che vi potrete arrivare solo per mezzo dell’umiltà. «Videtis quam excelsum est, quanta res conspicere Deum; non elatione sed humilitate attingitur» [13].

 

II. Natura di cotesta virtù

Si comprende allora facilmente perchè San Benedetto, che ci assegna come scopo di trovare Iddio, fondi la nostra vita spirituale sull’umiltà; si era troppo avvicinato a Dio, per ignorare che la umiltà sola ne attira la grazia, senza la quale nulla possiamo. L’ascesi di S. Benedetto si riduce a render l’anima umile, e quindi a farla vivere nell’obbedienza, che è la pratica espressione dell’umiltà; quindi sta per lei il segreto dell’unione intima con Dio [14]. Per il santo Patriarca, il capitolo sull’umiltà è come un sommario della vita spirituale tutta quanta; nel quale egli segna le tappe del cammino dell’anima a Dio, dalla rinuncia al peccato fino alla pienezza della carità; ed egli considera il cammino progressivo della perfezione come esercizio d’umiltà, in modo che cotesta virtù venga a comprendere nel suo sviluppo tutte le altre. Ma non è forse vero che la scala a Dio è fatta con gradi di pazienza, o da un seguito di grazie d’orazione: la discorsiva prima, l’orazione più semplice dopo, e in ultimo quella che unisce misticamente l’anima a Dio? Meglio ancora, non poteva egli darci una scala in cui si succedessero gradi di carità sempre più perfetti? Il Santo patriarca preferì invece questo suo concetto, perchè egli era predisposto, per naturale inclinazione e dono dl grazia, ad intendere le ascensioni dell’anima come una sottomissione sempre più profonda dell’uomo a Dio; in ciò traspare la sua anima essenzialmente religiosa e contemplativa [15].

Il Santo Legislatore tratta questo punto fondamentale in un lungo capitolo, e con un concetto sicuro e largo; non considera l’umiltà solo come una virtù speciale, che si rannoda alla temperanza [16]; ma come l’atteggiamento dell’anima davanti a Dio, in cui si raccolgono i sentimenti diversi che ci devono animare come creature e come figli adottivi; atteggiamento che deve durare per tutta la vita ed essere fondamento della spiritualità. Lo spiegheremo meglio andando avanti.

S. Benedetto comincia col ricordare la legge stabilita da Cristo come conclusione alla parabola del Fariseo e del Pubblicano; chi s’innalza sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato; perché, l’intimo sentimento della padronanza di Dio sulla vita umana fa si che l’uomo si abbassi e si sottometta; per cui anche si eleva e si stabilisce in Dio mediante la stessa sommessione. Quindi il senso profondo del pensiero di S. Benedetto è la proclamazione della verità evangelica che, più ci avanziamo nell’umiltà vera, e più siamo attirati da Dio, salendo verso le cime dell’unione [17] e la teoria dell’umiltà è per lui correlativa a quella della grazia; per cui i progressi dell’anima nella santità sono costituiti dai progressi di Dio in lei stessa. All’anima non resta da fare altro, con l’aiuto della grazia, che aprirsi all’azione divina, a Dio; quindi, ad ogni grado di ascensione, di progresso soprannaturale corrisponde un grado analogo di umiltà, che la schiude a Dio, distruggendo sempre più l’orgoglio; ed ecco come la scala negativa dell’umiltà, diventa in senso positivo quello della perfezione e della carità. Vi possiamo trovare, è vero, una certa parte convenzionale e ingegnosa; ma la base di cotesta scala ascendente è utilissima per ogni progresso nella vita soprannaturale.

Con l’immagine espressiva tolta dal Salmista, S. Benedetto paragona il superbo respinto da Dio al bambino troppo presto divezzato dal latte materno (Sal 130,2); lungi dalla fonte di vita, il bimbo è condannato a morire; ed ecco il pericolo più grave dell’anima: essere separata da Dio, unica sorgente di grazia. Dunque, continua il B. Padre, «se vogliamo raggiungere le cime della somma umiltà, e ottenere l’esaltazione celeste alla quale si perviene con l’umiltà della vita presente, bisogna drizzare questa scala, che apparve a Giacobbe, per la quale vedeva gli Angeli scendere e salire [18]. Il santo Legislatore paragona quindi i due lati di essa all’anima e al corpo; perchè questo pure deve aver parte alla virtù interiore; e la grazia divina tra questi due lati ha disposto i diversi gradi che dobbiamo salire.

Prima di percorrerli tutti, sotto la guida, diciamo in che consista l’umiltà. S. Benedetto non la definisce, ma ne espone le varie manifestazioni; noi prenderemo invece la definizione che ne dà S. Tommaso, il quale nella Somma Teologica commenta il capitolo di S. Benedetto e giustifica i gradi di umiltà da lui indicati [19]. Accade a volte che il Signore conceda a un’anima di primo acchito un alto grado di umiltà, come ad altri dà invece il dono d’orazione; ma solitamente vuole che noi vi cooperiamo, e poichè per noi la stima e il desiderio seguono la conoscenza, badiamo di capir bene che cosa sia cotesta virtù.

Si può definire l’umiltà una virtù morale che ci inclina, per riverenza a Dio, ad abbassarci, rimanendo nel posto che vediamo esser a noi dovuto. È una virtù; ossia una disposizione abituale; non dunque un atto particolare; perchè si potrebbe compierne parecchi anche senz’avere la virtù; questa è costituita dalla disposizione dell’animo, prontamente e facilmente manifestata; è il focolare da cui erompono gli atti, come le scintille sprizzano appena un soffio ne avviva la fiamma.

Come virtù morale, l’umiltà comincia dalla intelligenza, dal giudizio; ma non vi esiste formalmente, benchè ci siano autori che l’insegnano; con S. Tommaso noi diciamo che essenzialmente risiede nella volontà: «In ipso appetitu consistit humilitas essentialiter [20]; existit circa appetitum magis quam circa aestimationem [21]; e come il suo opposto, la superbia, presuppone e contiene il giudizio di sregolata stima di sè, ma consiste formalmente nella compiacenza (atteggiamento dell’animo) che segue il giudizio, anche nell’umiltà la volontà buona aiutata dalla grazia, s’inchina, si abbassa, per riverenza a Dio, spingendo l’intelligenza e tutto l’uomo a contentarsi del posto che gli è dovuto [22].

E qual’è questo posto? Consideriamo la cosa non cogli occhi del mondo, che stima solo ciò che appare e si lascia sedurre dalle false apparenze; ma con gli occhi della fede, come vede Dio, verità per essenza, che non ci inganna mai. Nell’ordine naturale, da me stesso, debbo confessare senza esagerazioni che non ho nulla, né vita, né santità, né forze fisiche, né ingegno: le tue mani, Signore, mi hanno plasmato interamente; «Manus tuae, Domine, fecerunt me totum in circuitu» (Gb 10,18); il mio essere esiste in te: «In Dio viviamo, operiamo, esistiamo. — In ipso vivlmus, movemur et sumus» (At 17,18).

La conservazione attiva delle cose è da parte di Dio una creazione continua; e se Egli ritirasse da me la sua mano, all’istante mi troverei senza vigore, senza volontà, senza ragione, senza vita: «Omnis caro foenum; exsiccatum est foenum et cecidit flos (Is 40,7). Possiedo, è vero, la sostanza della mia anima e del mio corpo, le loro facoltà ed energie; ma le ho avute da Dio. «Che cosa mai ti distingue? dice S. Paolo. Che cos’hai che tu non abbia ricevuto? E se l’hai avuto da altri, perchè te ne glorii come se venisse da te?» (1Cor 4,7).

Nell’ordine soprannaturale, per la grazia siamo figli di Dio, fratelli di Gesù, chiamati dal Padre ad assomigliargli: «Ego dixi: dii estis» (Sal 81,6) è ammirabile condizione, fine sublime, ma Dio vi ci ha chiamati gratuitamente: «Non ex operibus justitiae quae fecimus nos sed secundum suam misericordiam salvos nos fecit» (Tt 3,5-6). Non solo è dono divino e misericordioso, ma non possiamo servircene senza l’aiuto di Dio; è di fede, de fide, che da noi stessi, nell’ordine della grazia, non possiamo avere nemmeno un buon pensiero, meritorio per la vita eterna. Ce lo disse Gesù in termini generali: «Sine me nihil potestis facere» (Gv 15,5). Senza di me, della mia grazia, non potete far nulla; e S. Paolo aggiunge: «Non siamo da noi capaci di far qualcosa di buono, ma la nostra attitudine è da Dio — Non quod sufficientes simus cogitare aliquid a nobis quasi ex nobis, sed sufficientia nostra ex Deo est» (2Cor 3,5). Altrove ci dice pure che non possiamo invocare il nome di Gesù in modo soprannaturale, se non per la grazia dello Spirito Santo (1Cor 12,3); vedete dunque come ogni bene ci vien da Dio; e il merito delle buone opere è veramente nostro, solo perchè Dio ci concede di acquistarlo [23].

Perciò il B. Padre ci dice di considerare il bene che vediamo in noi come opera di Dio, e non attribuircelo: «Bonum aliquid in se cum viderit, Deo applicet, non sibi» (Reg. c. 4); a noi invece imputiamo tutto il male che facciamo, sapendo che è da noi cagionato: «Malum vero semper a se factum sciat et sibi reputet». Il peccato solo non viene da Dio, ma è esclusivamente nostro; e se anche una volta sola avessimo offeso Dio mortalmente, avremmo giustamente meritato di diventare oggetto di ripugnanza e di odio agli occhi di lui, che è maestà e bontà essenziale; se allora la morte non ci colse per precipitarci nell’eterna dannazione, e invece Dio ci perdonò e ci ridonò la sua grazia e la sua amicizia, è stato un altro effetto della sua bontà: «Misericordia Domini quia non sumus consumpti» (Lam 3,22).

Questa è la condizione nostra, quale ce la dimostra il lume ineffabile della fede, allorchè osserviamo le cose secondo la verità divina. L’umiltà ci mantiene nell’atteggiamento che ne deve risultare per noi; e la volontà nostra, eccitata dalla grazia, ci fa rimanere nel posto che veramente possiamo dire a noi dovuto.

 

III. La radice dell’umiltà

La principale ragione di cotesto abbassamento è, secondo S. Tommaso, la riverenza verso Dio; «Ratio praecipua humilitatis sumitur ex reverentia divina, ex qua contigit ut homo non plus sibi attribuat quam sibi competat secundum gradum quem est a Deo sortitus» [24]. Il gran Dottore ricorda che S. Agostino rannoda l’umiltà al dono del timor di Dio, come fa per la virtù di religione: «Et propter hoc Augustinus humilitatem attribuit dono timoris, quo homo Deum reveretur». Qui sta il punto più profondo, la radice stessa della virtù; ed è importantissimo intenderlo bene.

Quando nell’operazione contempliamo le perfezioni e le opere di Dio; quando un raggio della sua luce ci illumina, il primo impulso dell’anima tocca dalla grazia è quello di abbassarsi, inabissandosi nell’adorazione, perchè è il solo atteggiamento che convenga alla creatura, come tale, in presenza di Dio. L’adorazione consiste nel riconoscere l’inferiorità nostra in confronto colle perfezioni di Dio e la nostra assoluta dipendenza da colui che solo è per se stesso pienezza di vita; consiste nell’omaggio sottomesso all’infinita sovranità. Se una creatura non si mantiene in coteste disposizioni, non è più nella verità; in cielo i beati sono uniti a Dio in un abbraccio che supera ogni sogno di amore più ardente; Dio li possiede ed essi lo possiedono nell’essenza dell’animo loro, perchè è tutto in essi; eppure continuano a sprofondarsi nella più intima riverenza, espressa dall’adorazione: «Timor Domini sanctus permanens in saeculum saeculi». Potremmo noi quaggiù avere altra legge? La fede, che è preludio alla visione beatifica, ci fa conoscere alcunchè delle inscrutabii perfezioni divine, e noi ci prostriamo subito adorando; l’anima, per una forte luce interna, si sente alla presenza di Dio, davanti a lui; e intuisce l’infinito contrasto dei due termini, che si respingono l’un l’altro; maestà e grandezza da un lato, piccolezza e bassezza dall’altro. Può anche l’anima fermarsi a considerare maggiormente uno; e se si porta verso Dio, tende all’adorazione; se invece considera se stessa, tende ad umiliarsi; nell’istante in cui ci annientiamo davanti alla maestà divina nasce in noi l’umiltà. La riverenza che inonda l’anima ne è la sorgente: «Humilitas causatur ex reverentia divina» [25]; se manca la causa, non può esistere l’effetto. Quindi l’umiltà è virtù profondamente religiosa, tutta compenetrata di religione, come è stato detto [26]; essenziaimente propria alla nostra condizione.

Per ottenerla importa dunque contemplare le perfezioni divine. Dio è onnipotente; con una parola fece l’universo, traendo dal nulla il creato; ma quest’opera stupenda, con le legioni di angeli, e tutte le nazioni umane così potenti, per quanto innumerevoli, sono davanti a lui come un atomo; anzi, come se non fossero: «Omnes gentes quasi non sint, sic sunt coram eo» (Is 40,17). Dio è eterno; ogni creatura passa o si trasforma, ma egli non muta nel pieno e sommo possesso dei suoi attributi; perfettissimo, non ha bisogno di nessun altro: «chi mai potè dargli consiglio?» (Ivi, 14). La sua infinita sapienza compie tutto ciò che si propone, con soavità e con forza; la sua giustizia adorabile è equità essenziale; la sua bontà e la sua potenza superano ogni nostro concetto: «Apre la mano e colma di benedizione ogni vivente» (Sal 144,16).

Ma con quali accenti loderemo le opere di Dio nell’ordine soprannaturale? Spesse volte abbiamo parlato del magnifico disegno col quale ci fa suoi figli, partecipandoci la figliolanza del suo Unigenito Gesù (Ef 1,5); e ci rende capaci di attingere la beatitudine perpetua alla sorgente stessa della sua divinità. Il capolavoro dell’eterna idea che è Cristo, negli ammirabii misteri dell’Incarnazione, della Passione e della Risurrezione; l’istituzione della Chiesa coi Sacramenti, la grazia, le virtù, i doni dello Spirito Santo; tutto il meraviglioso complesso che costituisce l’ordine soprannaturale, è conseguenza dell’impulso che muove il Cuore divino a farci figli suoi: «Ut adoptionem filiorum reciperemus» (Gal 4,5). Quest’ordine ammirabile è opera di potenza, di sapienza e d’amore; nel contemplarlo S. Paolo era rapito d’ammirazione, e quando noi pure lo consideriamo, non come potrebbe fare astrattamente un filosofo, con freddo e arido studio, ma nell’orazione, Iddio ci riscalda con la sua luce, ogni grandezza terrena scompare, ogni perfezione creata è come nulla e svanisce quasi fumo. Pensando all’onniscienza divina, alla sovrana sapienza, alla potenza assoluta, alla santità augusta, alla giustizia che non ammette il più lieve impulso di passione, alla bontà illimitata, alla tenerezza e misericordia che non si esauriscono mai, — l’anima nostra esclama: «Chi è come te, Signore? — Quis sicut Dominus Deus noster, qui in altis habitat?» (Sal 112,5). Come sono eccelsi i tuoi pensieri! Ci sentiamo allora compresi da intima e profonda riverenza, inabissandoci nel nostro nulla: che cosa sono io, che cosa sono gli spiriti celesti, e gli uomini tutti in presenza di tanta sapienza e santità, di tanta illimitata potenza, di una eternità incommensurabile? «Omnes gentes quasi non sint, sic sunt coram eo».

Ma questo sentimento di riverenza, per quanto vivo e reale, non si separa mai dalla confidenza e dall’amore [27] perchè l’umiltà non li distrugge; dobbiamo contemplare Iddio in tutte le sue perfezioni e le sue opere, perchè è Signore e Padre e noi siamo le sue cerature, ma siamo anche i suoi figli adottivi; per cui contemplando l’onnipotenza del Supremo Signore unita alla bontà del Padre tenerissimo, sentiamo nascere in noi la riverenza, che è radice dell’umiltà.

Son io riuscito a farvi comprendere bene ed esattamente che cos’è umiltà, secondo l’idea che ne dà S. Benedetto? È molto più ampia di quella che si è venuta precisando dai moralisti, ma non li contraddice; l’umiltà è per lui e per tutti la virtù che frena la sregolata tendenza al sentire altamente di sè; ma egli la considera, specialmente nel Prologo della Regola, nella sua affinità con la virtù di religione, e la completa con l’amore e la confidenza dei figli. La riverenza verso Dio sprofonda l’anima nel proprio abbassamento, ma per ciò stesso la rende capace di adempiere totalmente e amorosamente i desideri del Padre celeste; e l’umiltà è più specialmente, nel pensiero del N. B. Padre, un atteggiamento abituale dell’anima per cui il monaco si tiene davanti a Dio nella verità, riconoscendosi per quello che è, creatura peccatrice e figlio adottivo [28]: e se, dimentichi del vostro nulla, vi presentate a Dio fiduciosi, ma poco riverenti; o se al contrario siete penetrati di timore ma con poca fiducia, voi non fate come dovreste fare. L’abbassamento della creatura non deve nuocere alla fiducia del figlio; nè la qualità di figlio ci deve far dimenticare la nostra condizione di creature e di peccatori; così intesa, l’umiltà penetra tutto il nostro essere; e si capisce come S. Benedetto si sia indotto a caratterizzare la vita spirituale con quest’atteggiamento dell’anima, preciso e comprensivo. Non possiamo intender bene la dottrina del santo Patriarca, se prima non abbiamo capito che radice dell’umiltà è la profonda riverenza di Dio, quale nasce dalla contemplazione di ciò che egli ha fatto per noi, come Signore e come Padre; riverenza che mantiene l’anima nell’abbassamento che le conviene, come creatura macchiata dal peccato; ma in pari tempo la schiude fiduciosa e riconoscente ai voleri del Padre celeste.

Ne consegue che dobbiamo provare la stessa riverenza per tutto ciò che è di Dio, che lo rappresenta o lo annuncia: l’umanità di Cristo e tutti i membri del suo mistico corpo. «Dobbiamo, dice S. Tommaso, non solo aver «rispetto a Dio in lui stesso, ma anche in ogni uomo riverire ciò che è di Dio, benchè con altro rispetto; e quindi dobbiamo per umiltà sottostare a tutti i nostri simili per Iddio. — Non debemus solum Deum revereri in seipso, sed etiam id quod est ejus, debemus revereri in quolibet; non tamen eo modo reverentiae quo reveremur Deum. Et ideo per humilitatem debemus nos subiicere omnibus proximis propter Deum» [29]. Compresi di profonda riverenza verso Dio, rispetteremo anche ciò che è suo nelle creature; e non potendo annientarci completamente davanti a lui, per amor suo ci prostreremo ai piedi delle creature: prima di tutto avremo profondo rispetto alla santa Umanità di Cristo, che merita il culto di adorazione che si deve a Dio, perchè unita personalmente al Verbo; e vedendo Gesù in croce, coperto di sangue, fatto ludibrio della moltitudine (Is 53,3), ci inginocchieremo ad adorarlo, perchè è Dio. Con le debite proporzioni, onoreremo nello stesso modo i membri del suo mistico corpo; perchè mediante l’umanità di Cristo, Iddio si è unito alla natura umana; se profondamente riveriamo il Creatore, ne vedremo l’immagine in ogni uomo; e ci consacreremo a servirlo; perchè, o in un modo o nell’altro, in essa considereremo Iddio. Questo è il concetto del B. Padre quando ci comanda di chinare il capo o di presentarci davanti agli ospiti, quando arrivano o partono, per adorare in essi il Cristo adombrato dalle loro persone «Omnibus venientibus vel discedentibus hospitibus inclinato capite vel prostrato omni corpore in terra, Christus in eis adoretur qui et suscipitur» (Reg. c. 53). È l’atteggiamento dell’umiltà: ci prostriamo davanti agli altri e li serviamo sottomessi, perché riveriamo in loro questo o quell’attributo divino; come la potenza in coloro che hanno l’autorità; il vero motivo dell’obbedienza ad ogni autorità creata sta nella riverenza ai pieni diritti di Dio (D. Lottin, op. cit.).

Concludiamo: l’umiltà, della quale S. Benedetto parla con tanto compiacimento, è un’abituale disposizione dell’anima in presenza di Dio; che nasce dalla luce con cui egli la illumina, e suscita in lei grande riverenza, temperata da una fiducia non meno illimitata; essa dà alla pietà monastica il suo aspetto caratteristico di grandezza, e il suo particolare splendore. Lo Spirito Santo armonizza il sentimento del timore con la pietà filiale, per cui l’anima che si annienta davanti a Dio e al prossimo, è nondimeno sicura della grazia divina in Cristo, e in lui trova tutto ciò che le manca: quest’invincibile sicurezza le comunica la potenza stessa di Dio, e rende feconda la sua vita. Sa che senza il Cristo essa non può nulla: «Sine me nihil potestis facere (Gv 15,5); ma ripete con la stessa certezza che può tutto se si appoggia a lui: «Omnia possum in eo qui me confortat» (Fil 4,13); nell’umiltà è il segreto della forza e della vitalità.

 

IV. Gradi dell’umiltà stabiliti da S. Benedetto: i primi due anche per i semplici cristiani

Dobbiamo ora percorrere, guidati dal Santo Patriarca, i gradi di cotesta virtù; poi ne indicheremo i benefici effetti e i mezzi con cui stabiirla in noi.

Il Dottor Angelico [30] ha approvato l’ordine generale dei gradi d’umiltà come li ha disposti S. Benedetto; prima egli tratta della virtù interiore, mettendo a fondamento la riverenza verso Dio; e con molta ragione; poichè dice S. Tommaso, egli ha considerato la virtù secondo la sua stessa natura; «secundum ipsam naturam rei» [31]. «Gli atti esteriori devono derivare dalla disposizione interna; ma nella stessa umiltà interna bisogna stabilir bene il principio, la radice, ossia la riverenza verso Dio. — Ex interiori autem dispositione humilitatis procedunt quaedam exteriora signa [32]. Principium et radix humiitatis est reverentia quam quis habet ad Deum» [33]. Il timor di Dio ne è dunque il primo grado; senza dl esso l’umiltà non può nascere né durare; e dal timor filiale rampolleranno gli altri gradi della virtù interna, la quale produrrà gli atti esteriori.

Punto di partenza è dunque il rispetto che dobbiamo a Dio. «Il primo grado di umiltà consiste nell’aver sempre davanti agli occhi il timor di Dio, e non dimenticarsene mai. — Si timorem Dei sibi ante oculos semper ponens, oblivionem omnino fugiat» [34]. Di quale timore vuol parlare il santo Patriarca? Non di timor servile, che ha paura del castigo, ed è proprio dello schiavo, perchè impedisce l’amore e la fiducia, ma di quel timore imperfetto che contiene l’amore e si perfeziona poi nel timore reverenziale; anche N. Signore ci raccomanda di temere colui che può condannarci anima e corpo all’inferno: «in gehennam»; è un timore che ci spinge continuamente ad evitare il peccato, per non dispiacere a Dio che punisce il male: «Custodiens se omni hora a peccatis et vitiis»; e questo timore è buono. La Scrittura c’insegna questa preghiera: «Trafiggi o Signore, col tuo timore le mie ossa e la mia carne. — Confige timore tuo carnes meas» (Sal 118,120); e il Salvatore lo intima a coloro che si è degnato di chiamare amici: «Dico autem vobis amicis meis» (Lc 12,4) per questo il B. Padre, che ci insegna un fine spirituale così elevato e vuol condurci a così sublime perfezione, incomincia coll’ispirarci il timor di Dio, come insegna il Vangelo.

Col progredire dell’anima nelle vie spirituali, al timore succede, come movente abituale, l’amore; ma non dobbiamo mai lasciarlo estinguere totalmente, perchè è un’arma da tener in serbo per le ore di combattimento, quando l’amor di Dio sta per essere sopraffatto dalla passione. Sarebbe una pietà sentimentale quella che non volesse altro fondamento che l’amore; una pietà presuntuosa ed esposta a molti pericoli; il Concilio di Trento insegna ripetutamente, che non siamo certi mai di avere la perseveranza finale; e siccome la vita presente è una continua prova di fede, non dobbiamo mai gettare l’arma difensiva, il timor di Dio; ma trasformare abitualmente il sentimento imperfetto nel timore reverenziale, che ha per termine ultimo l’adorazione amante. Dice il Salmista: «Timor Domini sanctus, permanens in saeculum saeculi» (Sal 18,10); il timore del Signore è santo e dura in eterno; perchè è la riverenza che penetra ogni creatura che scorge la pienezza delle perfezioni divine, anche se è diventata figlia di Dio e ammessa al regno dei cieli; gli stessi Angeli, spiriti purissimi, si velano la faccia davanti allo splendore della divina Maestà: «Adorant dominationes, tremunt potestates» (Prefazio della Messa); riverenza che inonda persino l’Umanità di Cristo: «Et replebit eum spiritus timoris Domini» (Is 11,3).

Quando il nostro grande Patriarca nel Prologo ci chiama alla sua scuola, si propone d’insegnarci, come a figli, il timor di Dio: «Venite, filii, ... timorem Domini docebo vos» (Sal 33,12). Dio è un Padre benevolo, e ne dobbiamo ascoltare gli insegnamenti con l’orecchio del cuore, ossia con una disposizione d’amore; perchè ci ha preparato un’eredità di gloria immortale e di eterna beatitudine; ma S. Benedetto ci raccomanda di non stancare con le nostre colpe (Prologo) la bontà di lui che ci aspetta: «quia pius est»; e che, nel suo grande amore, predestina coloro che lo temono all’ineffabile partecipazione della sua stessa vita: «Et vita aeterna quae timentibus Deum praeparata est». Il timore riverenziale verso Dio, Padre di immensa maestà, «Patrem immensae maiestatis» (Te Deum), dev’essere abituale e costante, perchè è una virtù, una disposizione abituale; non basta un singolo atto: «Animo suo semper evolvat»; e da esso, come da vivo ceppo, il B. Padre fa derivare tutti gli altri gradi di umiltà; ciascuno dei quali è un passo all’adorazione profonda di Dio, che è il termine finale della nostra riverenza. Se abbiamo davvero questo rispetto, gli sottometteremo anche la volontà; e ciò costituisce il secondo grado; il vero timor di Dio fa sì che l’uomo voglia conoscere ciò che egli comanda, perchè il trascurar di saper quello che ci prescrive è mancanza di rispetto; la volontà di Dio s’immedesima con lui stesso; se lo temiamo, compiremo ogni suo precetto: «Beatus vir qui timet Dominum, in mandatis ejus volet nimis» (Sal 111,1). Se avremo verso Dio grande riverenza preferiremo sempre la volontà sua alla nostra; e gli immoleremo quel proprio volere che in molti casi è per noi un idolo interno, al quale offriamo incenso continuamente; l’anima umile che conosce i supremi diritti di Dio, quali a lui provengono dalla pienezza del suo essere e dalle infinite sue perfezioni, conosce anche il suo nulla e la sua dipendenza; quindi cerca nella volontà di Dio, e non in sè, la ragione della propria attività; sacrifica il suo volere a quello di Dio; accetta le disposizioni della Provvidenza a suo riguardo; e non si eleva in sé, perchè Dio solo, santo e onnipotente, merita l’adorazione e la sottomissione: «Humilitas proprie respicit reverentiam qua homo Deo subjicitur... [35]. Per hoc quod Deum reveremur et honoramus, mens nostra ei subijcitur».

 

V. Gli altri gradi sono strettamente monastici

Questi due primi gradi non sono propri dei monaci, obbligando anche i semplici fedeli; ma S. Benedetto ce li ricorda perchè la perfezione monastica è per lui il Cristianesimo pienamente vissuto. Il terzo grado invece è più alto, e propriamente monastico: «Ognuno si sottometta in tutto al superiore — Omni oboedientia se subdat majori». Quando l’anima è piena di riverenza verso Dio e la sua volontà, poco importa che egli le manifesti i suoi voleri per la voce di un uomo: «pro Dei amore», obbedirà, come dice S. Benedetto. Il secondo grado, sottomettersi a Dio, è relativamente facile ma obbedire a un uomo in tutto e per la vita intera, è molto più difficile; richiede maggior spirito di fede e una più profonda riverenza a Dio per riconoscerlo nell’uomo che ne fa le veci. Dio vuole che dopo averlo adorato in se stesso, gli rendiamo omaggio di sottomissione in colui che egli ha destinato a dirigerci; costui, per quanto imperfetto in sè, fa le veci di Dio, e partecipa mediante l’autorità all’attributo divino della potenza; per questo motivo l’anima che crede si abbandona a colui, al quale Dio ha comunicato la sua sovranità. Come dice la B. Angela da Foligno, l’anima legge sull’uomo il nome di Dio, perchè lo rappresenta [36]; e risponde a Dio: Sei così grande, ed io tanto poca cosa davanti a te, che per tuo amore e riverenza, accetto di obbedire per tutta la vita a un uomo debole come son io, ma che ti rappresenta: «Humilitas secundum quod est specialis virtus, praecipue respicit subjectionem hominis ad Deum, propter quem etiam aliis humiliando se subjicit» [37].

Col quarto grado aumentano l’abbassamento e l’adorazione dell’anima a Dio: il monaco umile non solo accetta di essere guidato da un suo simile, debole e imperfetto; ma si conserva fedele in questa sottomissione, per quante difficoltà provi; per quante ingiurie, disprezzi e affronti debba tollerare nell’esercizio dell’obbedienza; e tutto ciò senza mormorare, neppure internamente: «Tacita conscientia». L’umiltà si perfeziona qui nell’eroica pazienza; e quale contrasto coll’uomo superbo, che, persuaso di essere perfetto e sicuro della sua importanza, non ammette rimproveri né osservazioni; ma subito irresistibilmente prorompe in parole di giustificazione!

Quando facemmo professione della Regola benedettina, giurammo di praticare questo grado di umiltà; e se ora ci sembra difficile perseverare in così ammirabile pazienza, guardiamo il divino modello nella Passione. È Dio onnipotente, possiede ogni perfezione: eppure gli sputano addosso, ed egli non distoglie il viso: «Faciem meam non averti ab increpantibus et conspuentibus in me» (Is 50,6); tace davanti ad Erode che lo tratta da stolto; «At ipse nihil illi respondebat» (Lc 23,9); si sottomette a Pilato che lo condanna a morte disonorevole, perchè in lui, pagano, ma governatore della Giudea, egli riconosce l’autorità che deriva da Dio: «Non haberes potestatem adversum me ullam, nisi tibi datum esset desuper» (Gv 19,31). Gesù sofferse senza lamento tutti questi oltraggi per riverenza ed amore al Padre suo, che aveva preordinate le circostanze della Passione; «Sicut mandatum dedit mihi Pater (Gv 14,31).

Altrettanto fa, in minori proporzioni, l’umile monaco: accetta ogni abbassamento per la riverenza che porta a Dio; là dove vede il riflesso della maestà divina, egli dà onore; e quando Dio si presenta a lui, qualunque sia la forma con cui si vela, egli si sottomette. E per mostrare che il fedele servitore deve sopportare per amor di Dio ogni cosa contraria, la Scrittura fa dire a quelli che soffrono: «Per te, Signore, siamo dati a morte ogni «giorno... — Et ostendens fidelem pro Domino universa etiam contraria sustinere debere, dicit: Propter te morte adficimur tota die».

Ma in queste circostanze così penose alla natura, l’animo del religioso è sostenuto anche dall’amore e dalla confidenza; se resiste, e non cede nè indietreggia: «Sustinens, non lassescat vel discedat», lo fa per ferma speranza, piena d’amore e di gioia spirituale, che ne inonda l’animo e gli fa dire: «È per lui che mi ha amato, che mi rende vittorioso in ogni incontro. — Et securi de spe retributionis divinae subsequuntur gaudentes et dicentes: sed in his omnibus superamus propter eum qui dilexit nos». Ecco: il B. Padre dall’umiltà mai non disgiunge la fiducia filiale; per la grazia di Cristo speriamo invincibilmente nella bontà del Padre, ma proviamo la riverenza della creatura per il Creatore.

La sottomissione monastica arriva persino a farci svelare al superiore lo stato dell’anima nostra: è il quinto grado d’umiltà. La superbia ci spinge ad innalzarci e a voler la stima altrui; è dunque un grande atto di umiltà scoprire volontariamente a un altro uomo il vero stato dell’anima propria [38] e lo possiamo fare perchè in lui rivedremo Iddio: «Revela Domino viam tuam, et spera in eo» (Sal 36,5). Badate al testo scelto da S. Benedetto: sveliamo l’anima nostra al Signore, Domino, come la fede ce lo fa riconoscere nel superiore; certi che se noi ci comportiamo come figli, Dio sarà per noi Padre amoroso: «Et spera in eo». Qui sta il frutto di cotesto grado di umiltà: Dio ci conduce per una via sicura, nella quale non possiamo errare.

Ma per raggiungerlo davvero, bisogna essere molto sinceri con noi stessi, davanti a Dio ed a colui che ce lo rappresenta; badiamo bene ai moti dell’anima nostra, afflnché non ci sfugga una menzogna, anche nell’atteggiamento o nel modo di fare; si deve poter dire di noi: «Qui loquitur veritatem in corde suo» (Sal 14,3); dobbiamo essere veraci nell’intimo santuario di noi stessi davanti a Dio, e anche con colui al quale apriamo il cuore per amore di Dio: «Veritatem ex corde et ore proferre» (Reg. c. 6), dice il B. Padre. È un grave dovere; né mai ci dobbiamo lasciar sfuggire la minima falsità con noi stessi, perché sarebbe mettere un intonaco sulla coscienza; e se lo facciamo spesso finiremo col confonderla e accecarla. Allora N. Signore non potrà più dimorare nelle anime nostre come in un giardino prediletto, perchè noi non gli mostriamo il cuore come è davvero; ci mancherà quel lume dell’umiltà che ci dimostra il poco che siamo davanti a Dio.

Gli ultimi gradi dell’umiltà interna sono elevatissimi. Consci di aver offeso un Dio così grande e pieno di maestà, e di aver meritato per le nostre colpe di star sotto i piedi dei demoni, ci contentiamo del posto più vile; e in questo pure ci stimiamo «servi inutili e indegni», secondo lo spirito del Vangelo (Lc 17,10).

Siamo così poca cosa davanti a Dio, le nostre azioni per se stesse, son così difettose, che noi non siamo atti a nulla di buono, senza la grazia di Gesù Cristo, la quale avvalora le nostre azioni; se invece siamo persuasi di far molto da noi stessi, e che ci debbano stimare per aver compiuto questo o quello, non siamo arrivati a questo grado di umiltà; e S. Benedetto, che conosce le anime, ha severe minacce contro coloro che persistono nell’orgoglio. «Se, dice egli, fra coloro che esercitano qualche arte nel monastero ci fosse alcuno che s’insuperbisse per la scienza dell’arte sua e perchè gli paia di essere utile, questi sia levato da quell’arte» (Reg. c. 57), per non esporre le anime al pericolo.

Il settimo grado costituisce il fastigio della virtù: credersi sinceramente, nell’intimo del cuore, l’ultimo di tutti: «Si omnlbus se inferiorem et viliorem intimo cordis credat affectu». Ce lo consiglia anche S. Paolo: «In humiitate superiores sibi invicem arbitrantes» (Fil 2,3). Pochi arrivano a questa cima e vi possono dimorare stabilmente; è davvero un dono di Dio e richiede un lume dello Spirito Santo che dia all’anima un intenso sguardo sulle perfezioni divine, per cui si annienta nel più profondo di sé; riconoscendo in se stessa il proprio nulla; e considerando negli altri i doni di Dio, si prostra interiormente ai piedi di tutti [39]; quelli che tendono a questo grado, badino bene di non stimarsi migliori degli altri in nessun caso, e di non giudicarli severamente; perchè se Dio fosse stato rigoroso con noi e ci avesse trattati con stretta giustizia, che cosa ci sarebbe accaduto? Colui che oggi sembra meritare il nostro disprezzo forse sarà presto migliore di noi; e noi domani saremo di lui peggiori; siamo sicuri appena del momento presente, perchè c’è in noi, povere creature, un principio d’instabilità e di deficenza da combattere sempre con l’aiuto della grazia e coll’esercizio dell’umiltà.

Si degni Iddio di permetterci un pò di riposo, almeno col desiderio e col pensiero, sull’eccelsa vetta di cui S. Benedetto ci indicò il sentiero e le tappe: durante questa sosta, nello splendore dell’ideale, ci convinceremo che siamo nulla, e che abbiamo bisogno costante, essenziale, del divino aiuto.

 

VI. Umiltà esteriore; come sia necessaria; suoi gradi

Dell’umiltà interiore, esposta da S. Benedetto nei suoi gradi ascendenti, derivano gli atti esterni; ma la virtù risiede principalmente nell’anima: «Humiltas praecipue interius in anima consistit» [40]; e perciò il S. Patriarca insiste prima sull’umiltà dell’animo. Chi vuol apparire esteriormente umile quando non è, o non si sforza di acquistare la virtù interna, è simulatore farisaico; e S. Benedetto ci comanda di non farlo [41], perchè sarebbe grande orgoglio, insegnano S. Tommaso e S. Agostino [42]. Prima attendiamo ad acquistare la virtù interiore; e quando l’avremo davvero, sincera, viva, radicata nell’intimo di noi stessi, la manifesteremo spontaneamente, con facilità e senza pretese; perché quando c’è l’umiltà di cuore, anche il corpo, per l’unità sostanziale del nostro essere, si atteggia come richiede la riverenza da cui è penetrata l’anima davanti a Dio. L’umiltà esteriore vale solo quand’è verace espressione del sentimento interno, o è mezzo per suscitarlo; l’uomo deve acquistare ed esprimere l’umiltà con tutti gli atteggiamenti dell’anima e del corpo. Esercitiamoci dunque negli atti esterni, quantunque non siamo ancora giunti all’alto grado della virtù interiore; perché ogni atto ripetuto spesso, come battersi il petto, tenere gli occhi bassi, inginocchiarsi per compiere le soddisfazioni o penitenze, ha effetto anche sull’anima e influisce necessariamente sulla vita interna. «Quando, dice S. Agostino, ci prostriamo ai piedi dei fratelli, anche nel cuore si suscita o si rinsalda un movimento di umiltà» [43]. Il corpo dunque si abbassa per promuovere l’acquisto o il rinsaldamento della virtù; altrimenti sarebbe il farisaismo di chi vuoi parere umile agli occhi degli umili, mentre nel cuore cova la superbia. Bisogna però usare un po’ di discrezione su questo punto, e specialmente agli inizi della vita religiosa: l’umiltà non si può acquistar in un giorno, e i novizi non possono pretendere di passar subito dal modo di fare spigliato del collegiale a quello del monaco estatico; badiamo all’umiltà interiore, che è la più importante; ed esercitiamoci con discrezione e fedeltà nei gradi esteriori.

Per un’altra ragione è necessaria la pratica esterna dell’umiltà, perchè fa conoscere se la virtù interna è sincera, o se invece siamo animati da segreto orgoglio; e se ci sarà dato di scoprire il nemico nascosto, faremo un gran passo verso la virtù sincera, col persuaderci che non la possediamo ancora.

Chiediamo a un superbo se pensa altamente di sè; risponderà spesso negativamente; peraltro in pratica lo lascia capire senza nemmeno accorgersene, perchè dalla segreta superbia sgorgano, come istintivamente, certi atti che la manifestano: perché si crede uomo di vaglia, si metterà avanti, comanderà, farà diverso dagli altri [44] e vorrà distinguersi da loro, se pure non li disprezza, anche nelle cose piccole; tiene in gran conto se stesso, le sue idee, i suoi modi di fare; e come i Farisei dice: Io faccio questo, io faccio quello; io non sono come gli altri. «Non sum sicut caeteri hominum» (Lc 18,12). Appena si comincia una discussione egli vi mette bocca; alza la voce, non sa resistere al prurito di parlare e di parlar sempre, senza tollerare contraddizioni; anzi impone silenzio agli altri in tono perentorio: sono manifestazioni d’orgoglio, perchè la parola è lo specchio dell’animo.

Anche il modo di ridere manifesta le disposizioni interne. Ma come mai il riso, caratteristico dell’uomo, può essere opposto all’umiltà? Il B. Padre non lo condanna per sé; un monaco sempre triste e burbero dimostrerebbe «di non correre nella via dei comandamenti col cuore dilatato per dolcezza d’amore» (Prologo), come dice S. Benedetto dei monaci fedeli; ma egli proscrive, — ed è naturale — il riso volgare che sgorga dal fondo grossolano della nostra natura; il riso beffardo, che malignamente accenna ai difetti e alle ridicolaggini altrui: è contrario allo spirito cristiano, e non è degno delle anime che cercano Dio e vogliono essere tempio dello Spirito Santo. S. Benedetto poi condanna anche la tendenza a rider subito, rumorosamente, per la minima cagione e sempre; cioè l’abituale tendenza alla burla; se abbiamo capito bene come l’umiltà ha radice nella riverenza a Dio, sempre a noi presente, comprenderemo anche perchè il santo Patriarca escluda la burla, che fa svaporare il raccoglimento interno (Reg. c. 6).

Ma cotesto difetto non si trova nel monaco umile, che ha l’animo pieno di riverenza per la maestà divina a lui sempre presente; non ci tiene punto a mostrarsi singolare; e considerando nella Regola l’espressione della volontà divina, non se ne scosta mai; non parla ad ogni momento, sa custodire il silenzio, che è l’atmosfera propria al raccoglimento, e non parla se non è interrogato; se ride, non alza la voce, come lo stolto [45]; perchè la riverenza a Dio si oppone, non alla gioia, ma alla leggerezza, alla dissipazione, al tono burlesco. L’uomo umile parla con la gravità e la sobrietà del savio; nel suo contegno, nel suo camminare, da tutto il suo modo di fare irradia senza affettazione l’umiltà interna, e l’azione di Dio che dimora in lui; per rispetto dell’ospite divino egli tiene la testa china e gli occhi bassi [46].

Ma perchè mai S. Benedetto vuole che il monaco, ormai giunto per vari gradi alla soda umiltà, si mantenga nell’atteggiamento di un colpevole; perchè il Santo, sempre così ponderato nel prescrivere, gli pone costantemente, «semper», nel cuore e sulle labbra le parole del Pubblicano: «Mio Dio, non son degno di alzare gli occhi al cielo?...». Ecco la ragione: Dio ha concesso al monaco nell’orazione una vivida luce nella quale ha conosciuto le divine perfezioni e il suo nulla, le sue minime colpe che gli appaiono come macchie intollerabili; il raggio divino l’ha sfolgorato, e in qualunque luogo si trovi, o coi suoi fratelli, o solo, o in orazione, nella cella, o in giardino, sempre è certo che lo sguardo del supremo Signore lo penetra fin nelle intime pieghe del cuore; vive adorando, il suo atteggiamento lo manifesta. «Il sentimento profondo di Dio nell’anima, ispira umiltà e confusione, e fa ricordare di esser peccatore. Con la conzolazione e la gioia divina, l’anima riceve anche la sapienza e la gravità» [47]; e basta veder un monaco veramente umile per comprendere che l’abituale presenza divina gli ispira riverenza, e che ha un profondo sentimento della gravità conveniente all’unione divina.

Questi particolari ritraggono veramente il nostro B. Padre; il suo primo biografo S. Gregorio Magno dice che nella sua vita egli praticò fedelmente la Regola: «Lo spirito di giustizia ne inondava l’anima»; ma ci sono virtù che più specialmente lo caratterizzano, tra cui lo straordinario spirito d’adorazione e di riverenza a Dio [48]. Leggete la santa Regola; è tutta impregnata di sentimento religioso: sia che tratti dell’ufficio Divino, della lettura del Vangelo, del Gloria che segue a ogni Salmo, sempre S. Benedetto inculca la riverenza a Dio; e così pure allorchè parla delle relazioni coi fratelli, cogli ospiti; fino nell’uso degli arnesi del monastero, casa di Dio; per il nostro B. Padre, la vita monastica è penetrata di rispetto soprannaturale.

Ciò che vuole dai figli, egli per il primo eseguì: e basta leggere il ritratto del monaco umile, da lui tracciato nel c. 7, per riconoscerlo. La sua santa anima, unita a Dio, così cara a lui da ottenerne tanti splendidi miracoli e la visione del mondo come tutto raccolto in un raggio della sua luce, era inondata di celeste chiarezza; e in questo lume soprannaturale conosceva il nulla delle creature: «Videnti Creatorem angusta est creatura» [49]; vedeva Dio come sola fonte di ogni bene, solo degno di gloria; e sapendo che tutto vien da Dio, a lui fedeimente ogni gloria rimandava.

 

VII. Come si concilia con la verità e si associa alla fiducia

Arriviamo ora ad un punto capitale: l’umiltà è la verità.

Ci sono alcuni che credono di dover negare in sè i doni di Dio o le grazie che ci accorda, per fare atto di umiltà; ma lo attesta anche S. Teresa che non è dare onore a Dio: «Intendiamolo bene, — continua la Santa, e dice la verità schietta — Dio ci accorda cotesti doni senza che noi li meritiamo». Che cosa dunque dobbiamo fare? Riconoscere che Dio solo ne è autore e principio: «Omne donum perfectum desursum est, descendens a Patre luminum» (Gc 1,17); e poi ringraziarlo. «Se il dono ricevuto non ci fosse noto, come potrebbe suscitarci amore? Senza dubbio, più ci vedremo ricchi, sapendo d’altronde che per noi stessi siamo poveri, e più profitteremo nella virtù e nell’umiltà vera... Ma bisogna che siamo sinceri con Dio, desiderando di piacere a lui e non agli uomini» [50].

La vera umiltà non si inganna: non nega i doni di Dio; li adopera, e ne rende gloria a lui solo, che glieli ha dati; come fece la Vergine Maria, scelta fra tutte le donne per essere la madre del Verbo incarnato. Nessuna creatura — dopo l’umanità di Cristo — ebbe tante grazie quanto lei: «Ave, gratia plena»; è certo che ella lo sapeva; ma quando Elisabetta si congratulò con lei per la divina maternità, la Madonna non negò l’immenso dono ricevuto: lo riconobbe anzi come privilegio unico, come «una cosa grande», e così meravigliosa che tutte le genti la chiamerebbero beata; non nasconde le grazie ricevute, ma non se ne gloria; tutto l’onore tributa a Dio, all’onnipotente che le ha fatte in lei. «Magnificat anima mea Dominum». Così fa l’anima veramente umile.

Così ci insegna il B. Padre: «Il bene che ognuno vede in sé deve far risalire a Dio, senza che ce lo attribuiamo. — Bonum aliquod in se cum viderit Deo applicet, non sibi» (Reg. c. 4); possiamo riconoscere di aver avuto doni divini; egli non ci consiglia di dissimularli, anzi ammette che li vediamo: «cum viderit»; così ci sentiremo spinti ad impiegarli, quando se ne presenta l’occasione, in servizio di colui che li ha dati: «Ei [Domino] omni tempore de bonis suis in nobis parendum est» (Prologo).

Non dobbiamo credere di averci diritto ma ringraziare Iddio; e più esplicitamente il S. Patriarca ci dice ancora: «Coloro che cercano Dio, temono il Signore (qui è la radice dell’umiltà); non si levano in superbia per la loro osservanza; i beni che vedono in sè, non credono da sé poter esser fatti, ma venire da Dio, e magnificano in sé la sua opera dicendo col Profeta: Non a noi, Signore, non a noi, ma al nome tuo dà gloria: — Operantem in se Dominum magnificans. Così pure l’Apostolo S. Paolo non attribuì a sè il buono successo della sua predicazione, perchè diceva: Per la grazia di Dio sono quello che sono (1Cor 15,10); e altrove: Chi si vuol dar gloria, si glorii nel Signore (2Cor 10,17)».

L’esempio di S. Paolo, citato da S. Benedetto, è scelto molto bene, perchè il grande Apostolo ha spiegato la dottrina dell’umiltà in modo ammirabile. Era stato convertito ed istruito da Gesù medesimo come un vaso di elezione da lui scelto per evangelizzare gli infedeli; era stato rapito al terzo cielo e poteva attestare che nulla mai lo separerebbe da Cristo; leggete la stupenda apologia che fa di sè nella lettera ai Corinti; egli si difende dai falsi apostoli, suoi avversari; più di tutti è ministro di Cristo, più di tutti ha sofferto per lui; traccia un quadro vivacissimo delle sue sofferenze e del suoi travagli.

Parla anche delle visioni avute, nelle quali intese «parole ineffabili che non è dato rivelare», ma dopo aver esposto questi suoi titoli d’onore, l’Apostolo rintuzza il pungolo della vanagloria, che umanamente poteva stimolarlo: «Potrei gloriarmi di ciò, esclama egli; ma preferisco invece gloriarmi della mia bassezza, affinchè sia in me la forza di Cristo» (Ivi, 11,12). Ecco la parola dell’umiltà: l’Apostolo non si glorifica nelle molteplici opere, nei patimenti sofferti, nei lavori compiuti, nei doni ricevuti; ma nelle infermità e debolezze; non nega le buone opere, anzi ne delinea il quadro con mano maestra, ma ne dà a Dio tutta la gloria: «La grazia di Dio ha lavorato in me, e non invano; ma senza di essa nulla avrei potuto fare. — Gratia Dei sum id quod sum» (1Cor 15,10). Non si cura forse dei doni di Dio? Oh no! «Quanto a noi, dice egli, abbiamo ricevuto lo Spirito che viene da Dio, afflnchè possiamo apprezzare i doni che egli ci ha fatto, per grazia sua: Ut sciamus quae a Deo donata sunt nobis» (Ivi, 11,12); li conosce questi doni, ma ne rende grazie a Dio e a suo Figlio Gesù; dal Cristo egli tutto aspetta; nella di lui grazia fa consistere ogni sua gloria, sperandone la forza, l’appoggio di cui ha bisogno: «Affinché la virtù di Cristo abiti in me. — Ut inhabitet in me virtus Christi» (2Cor 12,9). La sua stessa debolezza gli è motivo per commuovere il cuore di Dio; e più la sente in sé, più confida nella potenza della grazia; è l’atteggiamento dell’uomo veramente umile: «Cum infirmor tunc potens sum» (Ivi, 10).

Nutriamo noi pure gli stessi sentimenti: glorifichiamoci nelle nostre infermità, perchè ci danno diritto alla misericordia di Dio. Questa è umiltà: far valere davanti a Dio la nostra miseria e debolezza, e perciò riconoscerla, svelarla a lui; avremo così diritto alle divine elargizioni. Se potessimo, con la grazia di Cristo, ottenere questo lume all’intelligenza, vedremmo allora come ci dobbiamo contenere davanti a Dio perfettissimo; e se in pari tempo, animati da grande fiducia nella sua misericordia, ci getteremo fra le sue braccia, egli dimenticherà la nostra indegnità, si unirà a noi perchè non troverà più ostacolo nell’anima vuota di sé; e la doterà di ogni dono, la farà ricca, con le infinite ricchezze del Figlio suo. L’umiltà dilata l’abisso della nostra debolezza, affinché possa accogliere la grazia di Cristo.

Vedete dunque che la dottrina dell’umiltà non porta allo scoraggiamento, ma ravviva la fiducia. «È contrario all’umiltà, osserva S. Tommaso, tendere a cose troppo elevate per baldanza nelle proprie forze; ma allorché mettiamo la nostra fiducia in Dio, si possono intraprendere grandi cose e difficili senza superbia; specialmente se consideriamo che tanto più c’innalzeremo a lui, quanto più ci sottometteremo profondamente con l’umiliarci» [51].

Anche stavolta il Dottor angelico è l’eco fedele di S. Benedetto; quando il B. Padre accenna alle cose impossibili che l’obbedienza ci potrebbe imporre, comanda di ricevere l’ingiunzione con sommessione e mitezza; e se, dopo aver ponderato le cose, le vedessimo eccedere le nostre forze, lo diremo al prelato, pazientemente, rispettosamente, senza resistere né contraddire; se poi il superiore tien fermo il comando, sappia l’inferiore obbedire confidando in Dio: persuaso che così gli conviene e gli è utile: «Et ex cantate confidens de adjutorio Dei obediat» (Reg. c. 68).

Altrettanto si dica delle cariche e degli uffici a cui fossimo designati dall’autorità; il presuntuoso, anche senza le attitudini necessarie, pretende ai posti più alti e più cospicui; chi ha falsa umiltà ricusa tutti gli uffici, anche quelli che è capace di disimpegnare. Sono i due eccessi; raccomanda invece il B. Padre di accettare le cariche per riverenza e amor di Dio; di aver fiducia in lui solo, senza nulla omettere tuttavia di ciò che richiede da parte nostra l’impegno assunto; perché Dio respinge colui che si leva in alto da sé: «qui se exaltat humiliabitur» (Lc 14, 2) ma è largo dl aiuto a colui che conosce la propria miseria, e confida in lui.

«Altro è, dice S. Agostino, elevarsi a Dio, e altro elevarsi contro Dio; egli solleva colui che si prostra a lui avanti; ma abbatte chi gli si drizza contro» [52].

 

VIII. Il più prezioso frutto di cotesta virtù

Il frutto principale dell’umiltà consiste nel renderci così cari a Dio, che la sua grazia, non incontrando più ostacoli, sovrabbonda in noi, e ci fa sicuri di essergli uniti per l’amore; è lo stato di perfetta carità.

Spiegati i diversi gradi di umiltà, S. Benedetto conchiude con una breve frase che sembra poco notevole, ma che è molto profonda e merita riflessione. «Il monaco, dopo aver percorso cotesti gradi perverrà immantinente — notatelo bene, mox — alla perfetta Carità di Dio, la quale esclude il timore —. Ergo his omnibus humilitatis gradibus ascensis, monachus mox ad caritatem Dei perveniet illam quae perfecta foris mittit timorem». Gli autori spirituali a volte hanno contraddizioni o titubanze quando devono stabilire la gerarchia delle virtù; ma è sicuro per tutti che la carità è la regina; ora essa non può sussistere in un’anima senza l’umiltà, che ne costituisce l’indispensabile condizione, per il nostro stato di natura decaduta. La perfezione, consiste nell’amor di carità, che ci mantiene uniti a Dio e alla sua volontà per Gesù Cristo; l’umiltà — come insegna S. Tommaso, — è una disposizione che facilita all’anima l’acquisto dei beni spirituali e divini —. Est quaedam dispositio ad liberum accessum hominis in spiritualia et divina bona» [53]. La carità è virtù più alta, perchè è una perfezione dello stato, sempre superiore a ciò che vi dispone; ma l’umiltà che allontana gli ostacoli all’unione divina, è principale sotto questo aspetto e come tale, dice S. Tommaso, «è il fondamento dell’edificio spirituale; è la disposizione che immediatamente precede la carità perfetta; e senza di lei e dell’opera sua, non può sussistere lo stato di carità, d’unione perfetta con Dio, meno ancora può permanere» [54].

Quantunque l’umiltà sia in un certo senso disposizione negativa, pure è così necessaria e così infallibilmente conduce alla carità perfetta, che, l’edificio spirituale, se vi mancasse, sarebbe sempre esposto a rovina; mentre colui che la possiede arriverà sicuramente all’unione con Dio. Così diceva il Blosio, versatissimo nella scienza dei Santi: «Quanto più uno è umile, tanto più è vicino a Dio ed esimio nella perfezione evangelica. — Quanto quis humilior existit, tanto Deo vicinior, et in perfectione evangelica excellentior est» [55]. La sublime ricompensa dell’umiltà sta appunto nel preparar l’anima, più d’ogni altra virtù, alle divine effusioni che assicurano l’unione perfetta con Dio «mox ad caritatem Dei illam quae perfecta est perveniet». «Non c’è eccellenza maggiore della via unitiva, dice S. Agostino, ma solo gli umili vi possono camminare. — Nihil excelsius via caritatis, et non in illa ambulant nisi humiles» [56]; non si arriva a Dio innalzandosi, ma umiliandosi: «Non elatione sed humilitate attingitur».

Diamo ora uno sguardo indietro, per giudicare quanto sia semplice, sicura e ben fondata la via che indica il Santo Patriarca per arrivare a Dio. Per mezzo dell’umiltà, che proviene dal rispetto, il monaco finisce di distruggere gli ostacoli che gli impedivano l’unione con Dio; e quando essa domina in noi, l’azione dello Spirito Santo non trova più impedimenti nel peccato, nell’affezione al peccato e alla creatura; per cui può mostrarsi potente e feconda. È da notare come, dopo averci fatto salire questi gradi d’umiltà, lo scopo è raggiunto, per S. Benedetto; egli non dà altri ammonimenti ai suoi figli; abbandonando per dir così il discepolo al soffio dello Spirito Santo; perché, una volta radicato nel timor di Dio, nell’umile attesa di ogni aiuto dall’alto, è sicuramente aperto alle effusioni divine. Felice, tre volte felice l’anima che è giunta a questo stato! Dio liberamente opera in lei, e la conduce come per mano alle cime della più alta perfezione e della contemplazione; perchè egli ci vuole santi, e per natura tende a diffondersi, a patto di non trovare ostacoli ai suoi doni e al suo operare; ora è l’umiltà che così ci dispone. Si degni il Signore per opera dello Spirito Santo di condurci a questo felice stato della carità perfetta, dopo che, ascesi i vari gradi d’umiltà, avremo purificato l’anima nostra da ogni vizio e peccato: «Quae Dominus jam in operarium suum mundum a peccatis et vitiis Spiritu Sancto dignabitur demonstrare».

È la conclusione giusta e profonda dell’ammirabile capitolo che tratta dell’umiltà.

 

IX. Mezzi con cui si perviene all’umiltà

Non resta ormai altro che indicare alcuni mezzi per ottenere questa virtù indispensabile.

Primo di tutti, è la preghiera: «Primo quidem et principaliter per gratiae donum» [57]; perchè un elevato grado di umiltà è dono di Dio, come quello d’adorazione. «Nostro Signore stesso, scrive S. Teresa, lo mette in noi, e le nostre povere riflessioni non riuscirebbero a nulla; che paragone si può fare tra queste riflessioni e l’umiltà vera, luminosa che Dio stesso insegna all’anima e per cui questa si abbassa nel suo nulla?» [58]. Dio, che desidera infinitamente comunicarsi a noi, non respingerà la preghiera, con cui gli domandiamo di rimuovere da noi il principale ostacolo delle sue divine effusioni; quindi, chiediamo spesso a Dio lo spirito di riverenza, che è la radice dell’umiltà e una delle più cospicue note dello spirito benedettino: «Confige timore tuo carnes meas» [59]. Supplichiamolo di farci conoscere, col lume della sua grazia, come egli sia tutto, e noi siamo nulla; un raggio di luce divina sarà più efficace di ogni ragionamento; l’umiltà potrebbe essere chiamata il pratico effetto dei nostri trattenimenti con Dio; e chi non si avvicina spesso a lui nell’orazione, non può averla in alto grado. Se per una volta sola Dio si degnasse di farci scorgere, al lume della sua ineffabile presenza, qualcosa almeno delle sue grandezze, ci sentiremmo ripieni di profonda riverenza verso di lui; avremmo acquistato il principio dell’umiltà e basterebbe custodirlo fedelmente, perchè la virtù si possa sviluppare in noi e rimanga duratura.

Contempliamo dunque spesso le divine perfezioni; non come il filosofo che cerca soddisfazione allo spirito, ma pregando e meditando: «Credete a me, dice S. Teresa, avremo una virtù molto migliore (la santa parla dell’umiltà) se meditiamo la grandezza di Dio invece di impegolarci solo nel nostro fango. Contemplando le sue perfezioni scopriremo la nostra bassezza; guardando la purezza sua infinita discerneremo le nostre macchie» [60]. È tanto vero! A considerare la nostra miseria possiamo provare un movimento passeggero dell’umiltà; ma non avremo la virtù, che è disposizione abituale, la quale nasce solo dalla riverenza a Dio; qui sta la vera causa che può generarla in noi e renderla costante [61].

Noi monaci abbiamo nella liturgia un prezioso mezzo di conoscere le divine perfezioni; sono enunciate dallo Spirito Santo nei Salmi, che formano la parte principale dell’Ufficio divino; e sono dispiegate agli occhi dell’anima con incomparabile splendore di espressioni. Ad ogni istante, ci invitano ad ammirare la grandezza e la pienezza di Dio; e se recitiamo bene l’ufficio, l’anima a poco a poco si assimila le parole del Divino Spirito sulle perfezioni dell’Essere infinito; per cui nasce in lei e vi cresce continuamente, alla luce suprema, la riverenza verso la sovrana maestà, dalla quale sgorgherà poi l’umiltà.

Ma uno dei mezzi più importanti è la contemplazione dell’umanità di Cristo, e l’unione per la fede alle disposizioni del suo Cuore sacratissimo: non ci dice egli d’imparare da lui, che è mite e umile di cuore?

Il venerabile Blosio scrive che «cotesta contemplazione è il mezzo più efficace per guarire le piaghe della superbia» [62]. «Quando vidi lo stato a cui fu ridotto Gesù nella sua Umanità — esclamava la Beata Angela da Foligno — cominciai per la prima volta ad intravvedere l’enormità del mio orgoglio» [63]. Più volte, nel capitolo sull’umiltà, S. Benedetto richiama gli esempi di Cristo; e ci raccomanda di osservarlo per trovare un perfetto modello della virtù. Contempliamo anche noi il Salvatore: in lui l’umiltà nasceva dalla riverenza verso il Padre; perchè la sua anima, immersa nella luce celeste vedeva pienamente le divine perfezioni, e da ciò ne proveniva riverenza intensa e perfetta. Isaia disse che lo Spirito del Signore si riposerebbe nel Cristo (Is 11,2-3) e N. Signore applicò a se stesso questo passo del Profeta: «Et requiescet super eum Spiritus Domini»; ma parlando del timor di Dio, il profeta adopera parole anche più espressive: «Et replebit eum Spiritus timoris Domini. — Lo spirito di timore lo riempirà». Quale timore poteva così inondare l’anima di Cristo? Non il terrore, perchè sapeva di non dover paventare i castighi; e, nemmeno l’incertezza di poter offendere Iddio, perchè, godendo la visione beatifica, era impeccabile; non poteva esser altro che il timore riverenziale, l’adorazione della Maestà divina; e anche ora, benchè regnante in gloria Patris, l’Umanità di Gesù rimane inabissata nella più profonda riverenza; egli è ancora il grande e il solo perfetto adoratore della Trinità. Qui stava per lui la sorgente dell’umiltà; perchè, badate bene, egli non aveva difetti morali o imperfezioni da cui trarre motivo di abbassarsi; tutt’altro!

Era unito a Dio: «Non rapinam arbitratus est esse se aequalem Deo» (Fil 2,6); nella sua Umanità sono raccolti tutti i tesori della sapienza e della scienza, perchè la Divinità corporalmente vi inabita; è ammirabilmente perfetto, e non solo non si potè mai convincere Gesù di peccato alcuno, ma egli attesta con verità di aver sempre fatto ciò che era gradito al Padre. Ci potrà mai essere altra perfezione umana che si avvicini alla sua? È il pontefice santo, immacolato, più alto del cielo nella santità; e in lui non si trova nessuna debolezza morale.

Ma era pure un’umanità creata; e in quanto creatura si annientava davanti a Dio con infinita riverenza; per riconoscere i sovrani diritti del Padre si offriva a lui con sommissione così perfetta da accettare anche la morte: «Exinanivit semetipsum factus oboediens usque ad mortem» (Ivi, 7). Subì per noi tutte le umiliazioni; i giudei lo dissero indemoniato (Gv 8,48ss); fu accusato di far miracoli per potere di Beelzebub, principe delle tenebre (Lc 11,15); tentarono di lapidarlo; e giunto il momento della Passione, egli che è l’Eterno, Dio da Dio, Onnipotenza e Sapienza infinita, fu saziato di obbrobri: «Saturabitur opprobriis» (Lam 3,30). Legato come un malfattore, accusato da falsi testimoni, schiaffeggiato da un servo del tribunale e coperto di sputi, fu condotto ad Erode, venne rivestito con un abito da burla, e dato in mano alla soldatesca grossolana e brutale, mentre il re lo disprezzava: «Sprevit illum» (Lc 23,11); chi avrebbe potuto immaginare tanta umiliazione? Il Dio che governa il cielo e la terra con la sua potenza e sapienza, è trattato da pazzo, da re da burla, e tutti se ne beffano! Se a noi toccasse la minima dl queste umiliazioni, che cosa diremmo? Avremmo l’animo grande tanto — come vuole S. Benedetto — da tollerare con pazienza e in silenzio? «Tacita conscientia patientiam amplectatur»? Nello scrivere queste parole il S. Patriarca pensava certo a Gesù, abbeverato di insulti durante la Passione: «Jesus autem tacebat»; egli esteriormente non parlava; ma col cuore ripeteva le parole profetiche del Salmista: «Non son più uomo, ma un verme della terra: l’obbrobrio del popolo e il rifiuto della plebe. — Ego autem sum vermis et non homo; opprobrium hominum et abjectio plebis» (Sal 21,7).

Perchè tutte queste umiliazioni? perchè scendere in tale abisso? Per espiare la nostra superbia e il nostro amor proprio; per darci esempio di umiltà: «Gesù non dice: Imparate l’umiltà dagli apostoli, dagli angeli; no: imparatela da me: è così alta la mia maestà che l’umiltà mia può discendere in fondo all’abisso» [64].

 

X. Gesù associa l’anima umile alla sua celeste esaltazione

Se contempliamo spesso Gesù Cristo appassionato, e ci uniamo a lui con la fede, egli ci farà partecipare ai suoi sentimenti di umiltà, di riverenza al Padre, di abbandono alle sue volontà.

Non dimentichiamo nemmeno ciò che già è stato detto: l’umanità santa non poteva agire se non nel Verbo, al quale era unita; nessun impulso traeva mai da sè, ma sempre lo riceveva dalla divinità; e benchè le azioni derivassero veramente da lei, come natura umana perfetta, avevano valore solo per l’unione col Verbo; e alla di lui persona divina l’umanità di Cristo rimandava tutta la gloria delle sue azioni, ammirabilmente sante. Così dev’essere per noi, nell’attività spirituale; poichè non possiamo nulla da noi stessi, abbassiamoci con grande riverenza davanti alle perfezioni divine; e poi confidiamo nella nostra unione con Gesù nella fede e nell’amore. In lui, con lui, per lui siamo figli del Padre celeste; qui sta la sorgente della nostra fiducia, che viene a controbilanciare l’abbassamento, affinchè non si degradi in umiltà imperfetta e sia causa di scoraggiamento. Se pensassimo che, anche uniti al Cristo, siamo incapaci di far del bene, disconosceremmo i suoi meriti infiniti, e apriremmo la via alla diffidenza e alla disperazione, che son frutti infernali: l’umiltà vera non ci ispirerà fiducia in noi, come da noi: «Non quod sufficientes simus cogitare aliquid a nobis quasi ex nobis»; la nostra capacità viene da Dio, che nell’ordine naturale e soprannaturale, ci dà l’essere, la vita, il moto: «Sed sufficientia nostra ex Deo est» (2Cor 3,5). «In ipso enim vivimus, movemur et sumus» (At 17,28). Cotesta potenza si estende a tutto, perciò anche la nostra fiducia è immensa e illimitata nei meriti del nostro capo divino Cristo Gesù; «omnia possum». San Paolo non nega di sentirsi forte, possente; ma confessa che il suo vigore gli viene da Cristo: «In eo qui me confortat» (Fil 4,13). Qui sta appunto la gloria di Cristo, nel cambiare in potenza la nostra fragilità, a onor suo: «Sufficit tibi gratia mea; nam virtus in infirmitate perficitur» (2Cor 12,9). Più ci sentiamo miseri, e più la grazia può agevolmente fare e manifestarsi in noi; perchè essa è tanto più possente, quanto più l’uomo è convinto di non esser capace di nulla da solo; e per questo S. Paolo, che voleva soprattutto esaltare il Cristo, si gloriava delle sue infermità e debolezze, affinchè la grazia di Dio apparisse più cospicua, maggiormente splendesse il suo trionfo, e l’onore fosse reso tutto a colui che è il nostro Dio: «In laudem gloriae gratiae suae» (Ef 1,6).

Gli orgogliosi, che vogliono trovare in se stessi la loro capacità, commettono il peccato di Lucifero, che diceva: «Mi innalzerò e porrò il mio trono nei cieli, sarò simile all’Altissimo»; e come Lucifero saranno atterrati e precipitati nell’abisso: «Qui se exaltat humiliabitur». Che diremo noi dunque? Confesseremo di non esser buoni a nulla senza il Cristo, com’egli stesso dichiarò: «Sine me nihil potestis facere»; ma, dichiareremo che per Gesù, con Gesù possiamo diventar santi ed entrare in cielo. Gli diremo: «Maestro, sono povero, miserabile, nudo, infermo, me ne convinco sempre più ogni giorno; e se a certi momenti tu mi avessi trattato come meritavo, sarei ora sotto i piedi dei demoni; ma so che tu sei ineffabilmente potente, grande e buono; so che in te stanno tutti i tesori di santità che gli uomini possono desiderare; so anche che tu non respingi quelli che vengono a te. Perciò, mentre ti adoro dal più profondo dell’anima, ho fiducia nei tuoi meriti e nelle tue soddisfazioni; e sono certo che per quanto miserabile sia, tu puoi con la tua grazia arricchirmi, innalzarmi fino a Dio, per rendermi somigliante a te e farmi partecipe della tua divina beatitudine!».

Cotesti sentimenti ravvivano l’anima annientata, la spingono a darsi tutta, con amore, fervore e gioia, al Cristo, per fare ciò che vuole; e quando vengono dall’intimo del cuore, glorificano Dio, perché per essi si riconosce e si proclama la pienezza di potenza, che il Padre ha dato al Figlio diletto, Gesù Cristo: «Omnia dedit in manu ejus» (Gv 3,35). Non ce ne dimentichiamo: è massimo desiderio del Padre che il Figlio sia glorificato: «Clarificavi et iterum clarificabo» (Ivi, 12,28); ma il miglior mezzo di glorificare N. Signore consiste nel riconoscere con tutto il nostro potere, che egli è l’unico fonte della grazia, il solo santo, il solo Salvatore, il solo mediatore, al quale va data la gloria e l’onore col Padre e lo Spirito Santo.

La vera umiltà sola può dare a Dio e a Gesù questo omaggio, perchè soltanto le anime umili sentono il bisogno dei meriti di Cristo e vi credono; mentre la superbia e la falsa umiltà non possono nutrire tali sentimenti; il superbo, che tutto aspetta da sè, non sente bisogno di ricorrere a Cristo; e la falsa umiltà che si dice incapace di tutto anche aiutata dalla grazia, fa ingiuria ai meriti di Gesù; indebolisce l’anima e non dà gloria a Dio.

Gesù Cristo disse: «Ego si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum» (Gv 12,32): Quando sarò elevato da terra, in croce, trarrò a me tutti quelli che in me hanno fede. Chi guardava il serpente di bronzo nel deserto, era guarito; e così quelli che mi guarderanno con fede e amore, io li attirerò a me, ad onta delle loro colpe, delle loro ferite e indegnità; e li innalzerò fino al cielo. Io, che sono Dio, consentii per amor vostro ad essere sospeso in croce come un maledetto; e in compenso di tanta umiliazione, ho il potere di sollevare con me i credenti fino agli splendori del cielo, da cui sono disceso. Venni dal cielo e vi ritorno; ma condurrò meco tutti coloro che sperano in me; e la mia grazia è potente così da unirmeli indissolubiimente; in modo che nessuno mai possa strapparmi di mano quelli che il Padre mi ha dato e che io, per pura misericordia, ho riscattato col mio prezioso sangue (Gv 10,29).

Che consolazione per l’anima umile la sicurezza di aver parte un giorno all’esaltazione dl Gesù, per effetto dei meriti di lui! S. Paolo ci parla in termini sublimi della suprema elevazione di Gesù, contrapposta ai suoi abbassamenti: «Il Cristo si annientò... e perciò Iddio lo innalzò sopra tutto, dandogli un nome superiore ad ogni altro, afflnchè tutte le ginocchia si flettano davanti a Gesù, sulla terra, nel cielo e nell’inferno; ed ogni lingua confessi ch’egli è ora nella gloria del Padre. — «Semetipsum exinanivit... propter quod et Deus exaltavit illum» (Fil 2,7-9). Badiamo a queste parole: propter quod; Gesù è stato esaltato perchè si umiliò, si abbassò fino ad accettar l’ignominia di una morte maledetta; e Dio ne esaltò il nome nel più alto del cieli. D’ora in poi non ci sarà altro nome di salvezza per gli uomini (At 4,12); è un nome unico; l’uomo-Dio, che siede alla destra del Padre negli splendori della gloria, ha potenza sublime e onori sovrani. Gli eletti si prostrano davanti a lui nell’adorazione più profonda, e cantano incessantemente: «Tu ci hai riscattati da ogni popolo, nazione e tribù: a te onore e gloria, lode e potenza, o Cristo Gesù» (Ap 5,9; 7,12) questo incomparabile trionfo è il frutto della di lui immensa umiltà.

Ritroviamo qui il complesso della dottrina di S. Benedetto: egli pure ci insegna che per giungere a codesta exaltatio coelestis nella quale l’anima si perde in Dio, ci dobbiamo abbassare nella umiltà. Quaggiù essa ci guida dalla rinuncia al peccato, fino alla pienezza della carità; «mox ad caritatem perfectam perveniet»; via via che l’anima progredisce nell’umile sottomissione, si innalza all’unione divina, e anche verso la gloria celeste. La legge ricordata da S. Benedetto al principio del capitolo, è stata emanata dal Cristo medesimo, nostro modello, e ammirabilmente si è in lui verificata; ma essa vale anche per tutti i membri di cui è il capo. Gesù prepara il posto nel suo regno soltanto a quelli che sulla terra hanno partecipato ai suoi divini abbassamenti: «Qui se humiliat exaltabitur».

 

NOTE

[1] I-II, q. CX, a. 1.

[2] S. Agostino, Sermo 10 de Verbis Domini. P. L. Sermo 69, N. 2.

[3] Vedi l’Enciclica Testeirs benevolentlae (22 gennaio 1899) sull’Americanismo, di Leone xm.

[4] Vedi S. Tommaso II-II q. CLXII a. 6. Utrum superbia sit gravissimum peccatorum.

[5] Sermo 2. de Ascens. Domini. 177 de tempore. N. 2 (Appendice alle opere di S. Agostino).

[6] «Quia gratias agendo probas te tibi nihil tribuere, sed Dei esse dona tua merita prudenter agnoscere, certe caeteros aspernendo, prodis te, quod in corde et corde locutus sis, altero commodans linguam mendacio, altero veritatis usurpans gloriam. Non enim judicares publicanum contemnendum prae te, si non prae illo te honorandum censeres». S. Bernardo, Sermo 13 in cantica, P. P. CLXXXII, 1302.

[7] De consideratione, lib. V. c. XIV, 32.

[8] Tractatus de moribus et officio episcop. c. V, 17.

[9] P. Pourrat: La spiritualité chrétienne; II. Le Moyen Age, p. 43.

[10] In annunt. B. V. M. Sermo III. 9 - Conf. Epist. CCCXIII, 23.

[11] Super Missus est, homil. IV, 9 - Vedi anche: in cantica, Sermo XXXIV.

[12] In Cantica, Sermo LIV, 9 - Vedi: Epist. CCLXXII, Sermo XLVI, de diversis.

(13) Sermo 10, de Verbis Domini.

[14] Humilitas... praebet hominem subditum et patulum ad suscipiendum influxum divinae gratiae. Vedi S. Tommaso II-II, q. CLXI, a 5, ad 2.

[15] D. I. Ryelandt, Essai sur le caractère ou la physionomie morale de S. Benoit, d’après sa Règle, in: Revue liturgique et monastique, 1921, pp. 207-208.

[16] Vedi S. Tommaso II-XI, p. CLVI, a. 4.

[17] D. I. Ryelandt, 1. c.

[18] Regola c. 7. Il pensiero viene forse da S. Girolamo; ma il S. Dottore parla dell’ascensione interna nell’esercizio di tutte le virtù. Scalam... per quam diversis virtutum gradibus ad superna conscenditur (Epist. 58, 3); e S. Benedetto si restringe alla pratica dell’umiltà. Si aggiunga che nel VI secolo S. Giovanni Climaco scriveva la celebre scala paradisi, la scala che conduce al cielo, di 30 gradi, per ricordare i trent’anni di vita nascosta del Salvatore.

[19] XI-IX, q. CLXI a. 6; e q. CLXXI, art, 4, ad 4. Ma San Tommaso segue l’ordine inverso, cominciando dall’ultimo grado. Nel corso dell’articolo invece, ricomincia l’esposizione del 1° grado: la riverenza che dobbiamo a Dio. È noto che S. Tommaso fu oblato benedettino a Montecassino per nove anni; ma dovette lasciar la badia per torbidi politici, suscitati da Federico II; il quale, dopo la scomunica di Gregorio IX, cacciò via i monaci. Durante il soggiorno a Montecassino, il giovinetto studiò il testo della Regola benedettina. «Gli scritti del futuro dottore - scrive il più recente dei biografi, P. Mandonnet O. P. - mostrano che conosce bene la grande opera legislativa di S. Benedetto». E nel termine del suo studio su S. Tommaso, oblato benedettino, il Mandonnet conclude: «Tommaso d’Aquino dovette abbandonare l’asilo de’ suoi giovani anni con doloroso rimpianto: e la sua anima profondamente religiosa dovette soffrire come se vedesse disseccarsi per lui la più profonda sorgente di vita. E invece, per avvenimenti che gli sembravano disastrosi, egli portava seco nell’esilio le ricche spoglie: non solo aveva passato l’infanzi al sicuro nel più illustre monastero dell’antichità, ma si era informato ad un modello che gli impresse un’incacellabile tipo; il che fu per lui un grande beneficio. Dovrà alla religione e alla pietà benedettina la robustezza e la sincerità dell’anima; la vita monastica col suo calmo succedersi di giorni uguali, assicurò l’equilibrio mirabile del suo temperamento e delle sue facoltà; l’isolamento della vita d’oblato, nella grandiosa natura che lo circondava, svegliarono e forse maturarono in lui la profonda potenza di raccoglimento. Revue des jeunes; 25 mai 1919, pp. 241-42; anche il 10 maggio a p. 145 e seg.

[20] II-II, p. CLXI, a. 2, c.

[21] Ivi.

[22] Il S. Dottore aggiunge, naturalmente, che l’unità si fonda, sul conoscere come su norma direttiva; per la quale noi non ci stimiamo da più di quello che siamo davvero (Ivi, a. 2 e 6): Applicazione, ad un caso particolare, del mutuo scambio di causalità, che tutti i psicologi e moralisti conoscono e che avviene tra la ragione e la volontà.

[23] Àbsit ut christianus homo in se ipso vel confidat vel glorietur et non in Domino; cujus tanta est erga omnes homines bonitas ut eorum velit esse merita quae sunt ipsius dona. (Conc. di Trento, Sess. VI, o. 16).

[24] II-II, q. CLXI, a. 2, ad. 3. Vedi a. 1, ad 5: Humilitas praecipue respicit subjiectionem hominis ad Deum. Humilitas proprie respicit reverentiam qua homo Deo subjicitur.

[25] II-II, q. CLXI, a. 4, ad 1.

[26] D. O. Lottin, nell’opera L’âme du culte, la vertu de religion (Lovanio 1920, p. 40 e seg.). In quest’opuscoletto, denso di dottrina, l’autore che è un teologo acuto, dimostra come dopo aver rannodata l’umiltà alla temperanza, e l’obbedienza all’osservanza, S. Tommaso fu indotto dall’evidenza della cosa a riportarle entrambe alla virtù di religione. C’è tra loro relazione innegabile e fu avvertita dagli antichi asceti: la regola di S. Benedetto, non contiene mai la parola religione, ma è imbevuta profondamente di cotesto spirito; si leggano i Cap. 5-7 sull’obbedienza, lo spirito di silenzio e d’umiltà (p. 49).

[27] Vedi D. Destrée: La mère Deleloë, moniale bénédictine, p. 57.

[28] «I dodici gradi di umiltà esposti da S. Benedetto formano un complesso mirabilmente penetrante e armonico: in cui è chiaramente mostrata la compenetrazione di timore e di fiducia, di obbedienza e di fortezza, di raccoglimento e di carità che deve costituire l’atteggiamento del monaco, il quale progredisce nella vita spirituale». D. Ryelandt 1. c.

[29] II-II, q. CLXI, ar. 3, ad. 1. S. Tommaso aggiunge con molta opportunità: Humilitas proprie respicit reverentiam qua homo subjicitur, et ideo quilibet homo secundum id quod suum est, debet se cuilibet proximo subjicere quantum ad quod est Dei in ipso (art. 3 in corpore). Vedi anche a. 1, art 5.

[30] II -, q. CLXI, a. 6.

[31] Ivi, a. 6., ad. 5.

[32] Ivi, a. 6.

[33] Ivi.

[34] Regola, c. 7: dallo stesso capitolo sono presi tutti gli altri testi citati in questa Conferenza.

[35] II -, q. CLXI, a. 4; e anche: q. LXXXI, a. 7; II-II, q. XIX, a. 2

[36] Il libro della Mirabile Visione; c. 63; ed. cit.

[37] XI-II, q. CLXI, a. 1, ad. 5.

[38] La legislazione ecclesiastica attuale proibisce ai Superiori religiosi di spingere i sudditi a svelar loro la propria coscienza; ma non vieta a questi di farlo liberamente; anzi, dice il Codice di Diritto Canonico, sarà molto utile al religioso andar dal Superiore con filiale confidenza; e se egli fosse anche Sacerdote, esporgli i dubbi e le angoscie della propria coscienza, Can. 530.

[39] S. Tommaso, XI - II, q. CLXI, a. 3, ad 2.

[40] Ivi, a. 3, ad 3. Vedi a. 1, ad 2: e a. 6. S. Tommaso ne deduce che un superiore può avere in grado prefetto la virtù dell’umiltà, senza compiere esternamente quegli atti che non si addicono alla sua dignità.

[41] «Non velle dici sanctum antequam sit, sed prius esse quo verius dicatur», Regola, c. 4.

[42] II-II, q. CLXI, a. 1, ad. 2.

[43] «Cum enim ad pedes fratris inclinatur corpus, etiam in corde ipso vel excitatur, ud si iam inerat, confirmatur humilitatis affectus». V. Tract. In loan. 58.

[44] Vedi P. I. C. IV: La società cenobitica; s’è parlato della singolarità, che si oppone alla vita cenobitica.

[45] «Ubi timor et tremor est, ibi non vocis elatio sed animus flebilis, et lacrymosa dejectio» (S. Girolamo, Ep. 13, Virginitatis laus. P. L. XXX, col. 175).

[46] «Extollentia oculorum est quoddam signum superbiae in quantum excludit reverentiam et timorem» (S. Tommaso, op. cit., art. 2 ad. 1).

[47] B. Angela da Foligno: Il libro della mirabile visione, c. 27: L’ineffabile.

[48] La gravità di S. Benedetto è essenzialmente religiosa; perché risulta dall’abituale e profondo sentimento della divina presenza e della responsabilità della vita presente che arrischia l’eternità. L’amore di Cristo, il divino giudizio, gli stanno sempre dinanzi e la sua vita interiore tende a un grave raccoglimento dell’animo, che riluce nell’atteggiamento esterno e nella condotta; per lui, lo sguardo rivolto a Dio e il senso dell’intimo rapporto con lui, impediscono la leggerezza della vita, e cosi pure il dilettantismo; producono invece gravità mite ed umile. D. L. Ryelandt. 1. c.

[49] S. Greg., Dial. l. II, c. XXXV.

[50] Vita scritta da lei stessa, c. 10. - Vedi anche S. Francesco di Sales, Introduzione alla vita divota; 3. part. c. 5.

[51] II., q. CLXI, a. 2, ad. 2.

[52] «Aliud est se levare ad Deum, aliud est se levare contra Deum. Qui ante illum se projicit ab illo erigitur; qui adversus illum se erigit ab illo projicitur». - Sermo 361, De utilitate poenitentiae.

[53] II – II, q. CLXI, a. 5, ad. 4.

[54] «Primum. in aquisitione virtutum potest accipi dupliciter; uno modo per modum removentis prohibens, et sic humilitas primum locum tenet, in quantum scilicet expellit superbiam, cui Deus resistit, et praebet hominem subditum et patulum ad suscipiendum influxum divinae gratiae, in quantum evacuat inflationem superbiae. Et secundum hoc, humilitas dicitur spiritualis aedificii fundamentum» (a. 5, ad. 2). Il S. Dottore dimostra poi in qual senso la fede può esser detta la prima delle virtù. Vedi nell’opera: Cristo vita dell’anima, il capitolo che tratta della fede come fondamento della vita cristiana; e in questo volume la Conferenza V. Vedi anche nel I. paragrafo di questa Conferenza la dottrina di S. Bernardo sull’umiltà; egli dice press’a poco le stesse cose di S. Benedetto: Oh quanto è grande la virtù dell’umiltà, alla quale la maestà di Dio così facilmente s’inclina. Come presto sa trasformare il rispetto in amicizia, e far sì che Dio, lontano da noi ci sia d’appresso: Cito reverentiae nomen in vocabulum amicitiae mutatum est; et qui longe erat, in brevi factus est prope (In Cantica, XLITX, n. 1). Come S. Benedetto scrive mox, tosto: così S. Bernardo in brevi et cito: presto.

[55] Canon vitae spiritualis, c. 7.

[56] Enarr. in Psalm. CXLI, c. 7.

[57] S. Tomm. Ivi, a. 6, ad 2.

[58] Vita scritta da lei stessa, c. XV.

[59] Vedi quanto si è detto più sopra, sul carattere religioso della spiritualità benedettina.

[60] Castello interiore, prime dimore c. 2, Opere complete della Santa.

[61] Per mantenere l’anima nell’abbassamento dell’umiltà è certo utile considerare che cosa siamo: vedendo la nostra miseria, e le tante deficienze e colpe, siamo condotti a comprendere la subordinazione e la verità. Ma la considerazione di Dio e delle sue perfezioni è fonte più limpida e copiosa per alimentare l’umiltà (D. Lottin: L’âme du culte; la vertu de religion, p. 43).

[62] «Nullo alio efficaciori remedio ulceribus superbiae medeberis quam si humilitatem Salvatoris tibi ob oculos animi ponas; neque enim ipse sine causa dixit: “Discite a me quia mitis sum et humilis corde”». (Canon vitae spiritualis, c. 7). S. Teresa diceva altrettanto considerando la sua umiltà, conosceremo quanto poco noi siamo umili (1. c.). V. anche S. Bernardo. In Epiphania, Sermo I. 7.

[63] Il libro della mirabile visione, l. I, c. 30, Gesù Cristo.

[64] B. Angela da Foligno, al cap. 63; interessantissimo tutto quanto.

 

 

                                                                                                                                                                     Segue...

 

 


 

 

 

 

 

 

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