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COMMENTI ALLA PAROLA

ANNO LITURGICO 2009-2010  CICLO C

 

 

 

I DOMENICA DI AVVENTO – ANNO C

(29 NOVEMBRE 2009)

 

Vangelo: Lc 21,25-28,34-36

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.

Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.

State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all'improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra.

Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell'uomo».

 

 

La venuta gloriosa di Cristo

Apriamo oggi il nuovo anno liturgico con il tempo dell’Avvento, preparazione alle celebrazioni del Natale del Signore. Avvento per noi significa attesa, venuta, preparazione: "preparate la via del Signore".

L'Avvento, ci prepara ad accogliere la grazia di Gesù nel ricordo e nella celebrazione della sua nascita.

Il Natale è segno di grazia, di salvezza, di misericordia, di perdono, di fervore, di amore appassionato e convinto a Cristo Gesù che è venuto e ha offerto tutto se stesso per amore nostro.

"Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Suo Figlio per noi".

Dio sempre ama di amore infinito il mondo, ama la sua Chiesa, ama ciascuno di noi. Dio è amore sempre, Dio non può essere che amore e misericordia. Questo è l'annuncio e la verità che dà luce, serenità, forza alla nostra vita, in qualunque situazione ci troviamo.

L'avvento è la nostra preparazione al Natale, è la nostra invocazione che il Signore venga ad aiutarci e a salvarci, è il nostro impegno cristiano di andare incontro al Signore e di volergli bene.

Ci si può chiedere: perché questo vangelo, che fa un forte riferimento alla fine dei tempi, e quasi sembra turbare il clima e i sentimenti natalizi di questo periodo.

L'Avvento è questo sguardo e questo cammino verso il Natale, cioè verso Cristo. Ma sempre noi siamo in cammino verso Cristo, Colui che incontreremo Re glorioso e nostro Salvatore alla fine del tempi, alla fine della nostra vita; Colui che incontriamo ogni giorno.

C'è allora una attesa e una preparazione di fronte al Dio che viene a noi, ogni giorno, al Dio che passa, che ci salva. "State bene attenti... vegliate e pregate... la vostra liberazione è vicina".

Questo fa parte anche della più autentica tradizione dei primi cristiani, i quali non avevano la celebrazione del Natale (verrà successivamente), ma sempre aspettavano la venuta gloriosa di Cristo, la sua ultima venuta ("nell'attesa della sua venuta!").

Nei testi biblici di oggi abbiamo il germoglio e il Re della gloria: il profeta Geremia annuncia la venuta di un discendente di Davide, che nascerà come "un germoglio di giustizia" e sarà gioia e speranza, sarà il salvatore.

Nel vangelo Gesù ci vuole preparare al suo ritorno glorioso e sottolinea alcuni aspetti particolari: la vigilanza, la preghiera e, come dice la seconda lettura, l'amore vicendevole e verso tutti.

La vigilanza può essere la riflessione sulle ultime cose, sul mio incontro col Signore, sulla necessità di avere un rapporto equilibrato con tutte le cose che ho. Tutto è precario. Le cose sono di breve durata. Anche le difficoltà non hanno carattere assoluto.

La saggezza è sapere che siamo in questo mondo, ma non di questo mondo; siamo fatti per l'eternità. Scrutare il cuore perché non si appesantisca in dissipazioni, affanni della vita. Avere un impegno di equilibrio: sapere quanto è importante il tempo per la preghiera e la fraternità.

La preghiera: sappiamo quanto è importante dare tempo e spazio alla preghiera nella propria giornata.

Poi "l'amore vicendevole e verso tutti": le opere della carità, la vita nell'amore come autentica vigilanza a Cristo che incontro, a Cristo che viene, a Cristo Gesù che posso amare ed aiutare in ogni persona, specialmente nei più bisognosi.

L'apostolo Paolo ci insegna a pregare perché il Signore ci faccia crescere e abbondare nell'amore vicendevole e verso tutti, per rendere saldi e irreprensibili i nostri cuori nella santità e comportarci in maniera da piacere al Signore. Questo è il modo più bello per vivere la vita di ogni giorno e per prepararci all'incontro col Signore.

Possiamo fare anche un'applicazione concreta alla nostra vita: molte volte incontriamo difficoltà, preoccupazioni, sofferenze. Dobbiamo farci coraggio: il Signore non ci abbandona mai, il Signore è vicino, il Signore viene sempre per aiutarci e per salvarci. Vorremmo poter affermare con certezza di fede, anche in ogni momento difficile: "Alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina". Sperimenteremo che il Signore non si smentisce, ma sempre porta a compimento ciò che ha promesso.

Ci facciamo anche alcune domande:

- Come posso pregare di più e con fede, in questo tempo di avvento?

- Come posso amare di più il mio prossimo, in casa, nel lavoro, nelle relazioni con gli altri, nella vita della parrocchia?

- Come posso preparare in concreto l'incontro profondo e personale con Gesù, mio Dio e mio salvatore?

Camminiamo così nella strada del Signore!

 

Non viviamo tempi facili, lo scoraggiamento è alle stelle, la violenza pure. Tra finanziarie, lavori saltuari e una dilagante povertà, tra affetti frantumati e paure di amare rischiamo di crollare e di arrenderci. La paura e l'apatia a volte inquinano le nostre vite e le nostre comunità: sembra prevalere il forte e l'arrogante, ci sentiamo come pesci fuor d'acqua.

E Gesù ci dice: quando accade tutto questo, alzate lo sguardo.

Le fatiche e le prove della vita, sembra dirci il Signore, sono lì apposta per farci crescere, possono diventare un trampolino di lancio, devono aiutarci a conoscere il senso segreto delle cose, il mistero nascosto nei secoli.

Come il grano caduto in terra feconda la terra, così l'Avvento feconda la nostra vita per sbocciare a Natale in una festa di luce.

Ma occorre vigilare, ammonisce Gesù nel Vangelo di oggi. Le dissipazioni, le ubriachezze e gli affanni della vita possono impedirci di vedere, impedirci di vivere.

Le dissipazioni: in un mondo in cui siamo costretti alla frenesia, ritrovare un ritmo di interiorità richiede una forza di carattere notevole. Perché non approfittare di questi giorni per riprendere un quotidiano ritmo di preghiera?

Le ubriachezze: il nostro mondo ci invita a fare esperienza di tutto, a osare, a sperimentare. E alla fine ci ritroviamo a pezzi. Attenti, amici, a non cadere nell'inganno che le sirene del nichilismo ci propongono: abbiamo bisogno di unità, non di frantumazione. E questa scelta compiamola non in rispetto ad una ipotetica scelta morale, ma nella consapevolezza che Dio solo conosce la verità dell'essere.

Gli affanni della vita che esistono e non possiamo eliminare ma solo controllare mettendo al centro la ricerca di Dio e del mio vero io.

Possiamo farcela, fratelli e sorelle, Dio ci sostiene: buon percorso di conversione al Natale.

 

Avvento è anche attesa della grande Gioia

Ma a ben guardare, c’è proprio da stare allegri? Cosa c'è da festeggiare?

La luce viene ma le tenebre non l'hanno ancora accolta.

Natale è sempre un dramma: il dramma di un Dio presente, e dell’uomo assente.

Il Natale vero ribalta i ruoli, distribuisce le responsabilità. All'uomo arrogante, eterno adolescente che si lamenta dell'assenza di Dio, Dio risponde venendo, e lamentando l'assenza dell'uomo.

Quel bambino nella culla non solo fa tenerezza come tutti i neonati: ci scuote, ci provoca, ci inquieta. Se egli davvero è l'Altissimo, se egli – sul serio – è l'Infinito, la nostra idea di Dio tracolla e ci tocca cambiare vita.

Meglio far finta di niente, allora, tirare fuori la tradizione, i presepi viventi, i canti natalizi, la neve, i regali piuttosto che accettare la nuda verità di un Dio che viene sulla terra e non è accolto.

Sono tutte cose belle e sacrosante quelle nate per festeggiare la notizia di questo Dio che viene per i poveri, nate per dare importanza alla follia di un Dio che prende il posto dei perdenti.

Solo che, oggi, la festa è esplosa, uscita dai margini, enorme, e ci si dimenticata di invitare il festeggiato.

Dio è il grande assente del nostro natale tarocco.

In questi ultimi anni ho scoperto, costernato, che Natale è il peggior giorno dell'anno per molta gente. Sono gli sconfitti della storia, di solito, a patire così tanto il Natale, per quell'aura di famiglia, di felicità, di nostalgia che cola dagli schermi televisivi. Chi non ha famiglia, o ne ha una terribile, chi è perdente, chi è solo, vive il Natale con un unico desiderio: che finisca prima possibile.

C’è di che pensare seriamente.

Se Dio è venuto proprio per gli ultimi e abbiamo ridotto il Natale al punto che proprio loro lo vivono con tristezza, come minimo, fratelli, ci troviamo di fronte ad un problema di comunicazione.

A noi, allora. abbiamo voglia di prepararci al Natale? Vogliamo, sul serio, svegliarci da quest'immenso sonno della coscienza che tutti ci intorpidisce? Non siamo qui a far finta che poi Gesù bambino nasca. Dio è già nato, nella storia e tornerà nella gloria, nel cuore della notte, come uno strampalato sposo ritardatario. In mezzo ci siamo noi, ci sono io, ci sei tu che leggi. Siamo qui per darci un mese di sveglia interiore, per far nascere (ancora e ancora) Dio in noi.

Dio è già nato, ovvio, altrimenti non stareste qui a leggere queste parole dette in libertà.

Dio è già nato, ovvio, se avete deciso di ribellarvi ad una fede esteriore e tiepida.

Dio è già nato, ovvio, se avete deciso di mettervi a cercare Dio.

Quello che possiamo fare è stare svegli, non lasciarci travolgere dalla follia quotidiana della vita, ribellarci al pensiero dominante del mondo (anche quello pseudo-cattolico) per vivere la nostra interiorità come dei veri cercatori di Dio. Allora facciamolo bene questa volta! Seguiamo sul serio la provocazione della Parola. Aspettiamo Dio. Amen.

 

 


 

 

II DOMENICA DI AVVENTO – ANNO C

(06 DICEMBRE 2009)

 

Vangelo: Lc 3,1-6

Nell'anno quindicesimo dell'impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell'Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell'Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto.

Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com'è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!».

 

 

 

Giovanni il Battista

L’Avvento non aggiunge altri impegni alla nostra vita spesso in affanno, ma ci sollecita a sostare, a fermarci un momento, per meglio preparare la strada a Colui che viene.

Possiamo celebrare cento natali, senza che mai Dio nasca nei nostri cuori. Ecco perché abbiamo bisogno di un tempo di interiorità, per poter accogliere infine la luce del Signore. Proprio perché il giorno della venuta del Signore non ci piombi addosso all'improvviso trovandoci impreparati. Sarebbe tragicomico passare la vita ad invocare la venuta del Signore, e nel momento della sua venuta interiore non esserci!

Certo, non è facile, tutto ci rema contro: il clima dolciastro, lo stravolgimento natalizio perpetrato dal mercato che fa leva sui buoni sentimenti, le difficoltà della vita di tutti i giorni.

Non è facile, ma è possibile: Cristo ci chiede di alzare lo sguardo, invece di lamentarci, di guardare oltre, altrove, al di là. L'importante è arrivare al Natale, a quello vero, con il cuore: un cuore leggero, che non sia appesantito dalla dissipazione, dallo stordimento, dalle preoccupazioni della vita.

Dio viene, lui prende l'iniziativa, è suo il primo passo.

La Scrittura ci rivela il volto di un Dio che intesse relazioni, che cerca l'uomo, che lo corteggia. La storia, splendida e drammatica, fra Israele e il suo Dio non è sempre stata fortunata e feconda.

Ora Dio viene per spiegarsi, per raccontarsi, per dirsi. Dio viene a rivelarsi.

L'aulico e solenne incipit della predicazione del Battista conferma l'intento di Luca di raccontare eventi storici, non edificanti racconti da pie devote. Luca, discepolo di Paolo, non ha mai visto Gesù in vita sua. Come noi è stato affascinato e sedotto dalla predicazione di Paolo e dal fuoco della sua parola. Luca, antiocheno, greco, colto e raffinato, ha scritto il suo vangelo dopo Marco, in contemporanea con Matteo. Ci tiene, Luca, a dimostrare (già allora!) che non è corso dietro a delle favole ma che l'annuncio si fonda su solide basi.

La descrizione della situazione geo-politica del tempo della predicazione del Battista ci lascia stupiti – noi estimatori di un Dan Brown – e ci dice ancora e ancora che non corriamo dietro a delle favole (anche se certi cristiani si comportano come personaggi da operetta!) ma che la nostra fede appoggia su solide basi.
Volesse Dio che Luca ci facesse vergognare almeno un poco della nostra impressionante ignoranza evangelica!

Luca, però, vuole dire anche altre cose. Tutti i personaggi elencati, chi più, chi meno, detengono in mano il potere assoluto, sanno di poter decidere i destini dei popoli; sono e si sentono grandi. La Parola di Dio dribbla elegantemente tutti i signori dell'epoca e si posa su un macerato trentenne consumato dal vento del deserto e dal digiuno, un folle di Dio scontroso e rabbioso che si consuma sulle rive del Giordano, Giovanni il battezzatore.

Già Baruc, segretario di Geremia, nella prima lettura si rivolge al popolo disperso e vede un ritorno in grande stile. Parla a degli straccioni senza speranza, a dei deportati che si trascinano come schiavi in attesa di morire. E sogna.

Così è, amici, fratelli: la Storia di Dio si sovrappone alla piccola e violenta storia degli uomini e la trasfigura.

Nessuno di noi conoscerebbe Erode se non avesse ucciso il Battista. Il procuratore Pilato viene nominato ogni domenica nella professione di fede non per la sua audacia politica e militare, ma per aver ucciso un falegname esaltato che si faceva passare per Dio. E che lo era veramente!.

E noi, a che storia vogliamo appartenere? Le energie, i sogni, l'audacia che mettiamo, per chi o cosa la mettiamo? Per la fragile storia degli uomini? O per quella di Dio?

Entrare nella storia “altra” significa, anzitutto, aprirsi allo stupore di Dio, attenderlo ed accoglierlo per ciò che egli è, non per ciò che vorremmo che fosse.

L'avvento non aggiunge degli impegni alla nostra scarsa fede e alla nostra poca disponibilità alla preghiera: ma un tempo in cui ci è chiesto di accorgerci di Lui, di preparare la strada, di spalancare il cuore.

Citando Isaia, Giovanni è molto preciso sulle cose da fare: raddrizzare i sentieri, riempire i burroni, spianare le montagne.

Raddrizzare i sentieri, cioè avere un pensiero semplice, lineare, senza troppi giri di testa. La fede è esperienza personale che nasce nella fiducia, che diventa abbandono. La fede va interrogata, nutrita, è intelligibile, ragionevole. Ma ad un certo punto diventa salto, ragionevole salto tra le braccia di questo Dio. Abbiamo bisogno di pensieri veri nella nostra vita, di pensieri positivi e buoni per poter accogliere la luce.

Riempire i burroni delle nostre fragilità. Tutti noi portiamo nel cuore dei crateri più o meno grandi, più o meno insidiosi, delle fatiche più o meno superate. Ebbene: occorre stare attenti a non lasciarci travolgere dalle nostre fragilità o, peggio, mascherarle. Ognuno di noi porta delle tenebre nel cuore: l'importante è che non ci parlino, l'importante è non dar loro retta.

Spianare le montagne. In un mondo basato sull'immagine conta più l'apparenza della sostanza. Bene il fitness, ottimo il body-building, encomiabile lo jogging per stare in forma. È bene curare il proprio corpo, il proprio modo di vestire. Ma occorre aprirsi anche a qualche palestra di “spirit-building”, a qualche estetista del cuore e dell'anima!

Essenzialità, verità, desiderio: questi gli strumenti per trovare un sentiero verso Dio.

E questo già ci procura gioia, l'attesa già ci scuote dentro, ci apre lo stupore… gioia come quella che san Paolo prova per la sua comunità greca di Filippi, come quella che il salmista descrive per il ritorno dei prigionieri da Babilonia a Gerusalemme.

Allora voi, discepoli del Rabbì, voi, amici e fratelli resistenti, voi “carbonari” dello spirito, fermatevi tutti e ascoltate: perché su di voi, piccoli e fragili e dispersi, Dio fa scendere la sua Parola. Alzate lo sguardo, ve ne prego.

Animo, mano ai badili spirituali e ai picconi interiori: c'è molto da fare in questa settimana… Amen

 

 


 

III DOMENICA DI AVVENTO – ANNO C

(013 DICEMBRE 2009)

 

Vangelo: Lc 3,10-18

In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo:

«Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».

Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?».

Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.

 

L'insegnamento di Giovanni

Affinché il giorno di Natale non ci piombi addosso come una disgrazia, siamo chiamati ad alzare lo sguardo, a non permettere che il nostro cuore si appesantisca a causa delle troppe preoccupazioni, delle dissipazioni, delle ubriachezze.

Dio, stanco di essere male interpretato, scende a raccontarsi e lo fa', al solito, con un percorso nuovo, inatteso, lontano dai nostri schemi mentali.

Non sceglie la disponibilità della moglie dell'Imperatore, ma l'ingenua e solida accoglienza di un'adolescente di Nazareth; la sua Parola non scende sui potenti dell'epoca, ma su Giovanni il Battezzatore che ci invita a preparare il Natale. Non siamo qui a far finta che poi Gesù nasce, siamo qui a spalancare il cuore affinché egli trovi accoglienza, a liberare il nostro pensiero contorto, a colmare i crateri delle nostre ferite, ad abbassare il delirio di onnipotenza che ci impedisce di incontrare Dio perché egli, da ridere, non sta in alto, ma si abbassa…

La gente che da Gerusalemme è scesa nei pressi di Gerico per vedere Giovanni il Battezzatore, profeta ardente di passione, resta turbata, scossa. E se avesse ragione lui? Se, sul serio, la vita non fosse quel caos inestricabile che ci dona più fatica che gioia?

Qualcuno, timidamente si avvicina al profeta e chiede: "Che cosa dobbiamo fare?".

"Che cosa dobbiamo fare?" è anche la domanda che sorge nel nostro cuore quando ci guardiamo dentro, quando lasciamo che il silenzio evidenzi, smascheri la nostra sete di felicità e di bene, quando una tragedia ci ridesta alla durezza e alla verità della vita, quando vogliamo prepararci ad un Natale che non resti solleticamento emotivo ma diventi conversione e luce e pace.

"Che cosa dobbiamo fare?" e il mondo ci risponde: "Sistemati, lavora, guadagna, riposati, curati, regalati emozioni, lasciati andare, sballa…". Conosco molte persone, non voi, gli altri, che sono convinte che basterebbe essere più alti, più snelli, più ricchi, avere accanto persone diverse, per essere felici.

Ma queste cose saranno davvero capaci di riempire il cuore? E se investissimo tutte le nostre energie nel posto sbagliato? Se - buon Dio - ci accorgessimo alla fine della vita che la strada da imboccare era un'altra? E se il mondo non sapesse - sul serio - darci risposte? E per mascherare questo vuoto lo riempisse di parole?

Giovanni risponde in maniera dolce e sorprendente: consigli spiccioli, all'apparenza banali, ben diversi dai proclami che ci aspetteremmo, dalle scelte radicali che dovrebbe proferire: "condividete, non rubate, non siate violenti…" Tutto lì? Restiamo stupiti, un po' delusi.

Giovanni ha ragione: dalle cose piccole nasce l'accoglienza. Perché forse anche a voi, come a me, succede di immaginarmi, anche nella fede, capace di improbabili eroismi: partirò in Africa volontario - e intanto non vedo la mia dirimpettaia anziana sola - andrò una settimana in monastero nel silenzio - e intanto non trovo neppure cinque minuti di preghiera al giorno - dedicherò del tempo alla riflessione - e non ho neppure il coraggio di depennare qualche riunione dall'agenda al collasso…

Enormi piccolezze. Giovanni ha ragione, fai bene ciò che sei chiamato a fare, fallo con gioia, fallo con semplicità e diventa profezia, strada pronta per accogliere il Messia.

Era normale per i pubblicani rubare, normale per i soldati essere prepotenti, normale per la gente accumulare quel poco che aveva.

Giovanni mostra una storia "altra": sii onesto, non essere prepotente, condividi.

Diventa eroico, anche oggi, essere integerrimi nell'onestà sul lavoro, profetico essere persone miti in un mondo di squali, sconcertante porre gesti di gratuità.

Dio si fa piccolo. Nei piccoli atteggiamenti ne rintracciamo la scia luminosa.

La gente è turbata: Giovanni è un uomo buono, mostra loro una strada semplice, dà loro retta… che sia lui il Messia? Ed ecco la notizia: arriva uno più forte che battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Arriva il Cristo, è lui la risposta a cosa dovete fare, è lui colui che brucia dentro, che dà forza. Giovanni ancora non lo conosce eppure il suo cuore pulsa di gioia. Gesù è fuoco, non pia devozione, non bella abitudine, non saggezza da seguire.

Fuoco, fuoco, fuoco che brucia, che inquieta, che scalda, che illumina, che turba nel profondo, che scardina, che riempie. Giovanni già ne assapora la presenza, già ne coglie la statura immensa, inattesa, sconcertante. Eppure lui, il più grande tra i nati da donna, verrà ucciso per il ballo sensuale di un'adolescente, ucciso da un re fantoccio suddito dei propri desideri e del giudizio della gente. Ma è felice, comunque, sin d'ora.

Giovanni ha già il cuore colmo di gioia anche se ancora aspetta, anche se ancora non vede.

Ma già gioisce. L'annuncio che vi faccio, la "buona novella" in mezzo a tante orribili notizie che ci raggiunge è proprio questa: Dio ti ama e te lo dimostra in Gesù Cristo.

Accogliere Gesù è avere il cuore pieno di gioia. La fede cristiana è anzitutto gioia.

Non gioia semplice, sciocca, ingenua. Mediteremo a lungo, fra qualche mese, di come la gioia cristiana sia una tristezza superata, di come sia una gioia conquistata a caro prezzo…

Nel frattempo Paolo dice ai Filippesi e a noi: "rallegratevi nel Signore sempre!"; aggiunge che la nostra gioia deve essere nota a tutti, cioè che la gente deve pensare ai cristiani come gente serena e piena di luce! Per Paolo, che pure di cose tristi ne subisce e ne vede, la pace che viene da Dio custodisce i nostri cuori.

E se la mia vita è un calvario? Se proprio la sofferenza è la nota dominante della mia vita? Se la depressione o la solitudine hanno minato alla radice il mio buonumore? Perché mai devo essere felice?

La risposta di Sofonia, profeta vissuto nel 640 a.C., è bruciante: "Il Signore tuo Dio … esulterà di gioia per te, ti rinnoverà con il suo amore". Sii felice: tu sei la gioia di Dio! Sii felice: Dio ti ama teneramente con il suo amore ed è il suo amore che ti rinnova, ti cambia. Tutta la Bibbia, tutta l'esperienza di Israele prima e della Chiesa poi dice questo: sei amato, il vero volto di Dio è uno sguardo di bene e di amore che ti ricostruisce.

Non è una splendida notizia?

Signore, l'unico tempo che io ho è il presente. Il passato può solo tormentare o essere rimpianto e fuga. Il futuro non c'è, posso solo sperarlo, attenderlo e prepararlo. Il presente è la realtà, l'unica occasione che ho per dare risposta alla chiamata di Dio. Il compito che Tu mi hai assegnato dall’eternità è concreto e semplice: e mi colloca proprio oggi al punto giusto (qui) e al momento favorevole (ora). E mentre aspetto la tua venuta, la cosa giusta da fare è pormi seriamente la domanda: che devo fare?

Signore, il desiderio della Tua luce mi attiri verso il chiarore del Natale, perché io veda e viva la Tua salvezza. Solo tu, Signore, puoi dissipare ciò che in me è tenebra e restituirmi intatto il buono e il bello che hai effuso, per amore, nella mia vita. Ti prego allora che la mia vita sia condivisione: si, perché anch’io, come Giovanni voglio essere una voce, un riflesso; anch’io voglio essere il "precursore", “l’annuncio” che Tu vieni; e poiché Tu vuoi raggiungere tutti, ogni uomo, anche attraverso la mia voce fa', o Signore, che io possa diventare una persona nuova, una persona che sappia condividere tutto con i fratelli e vivere per accoglierti e donarti al mondo. Amen.

 

 


 

IV DOMENICA DI AVVENTO – ANNO C

(20 DICEMBRE 2009)

 

 

 

Vangelo: Lc 1,39-48

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.

Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce:

«Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo.

E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

 

 

 

La visita di Maria a Elisabetta

Poche ore, ancora poche ore, e celebreremo l'inaudito di Dio.

No, non facciamo finta che sia Gesù a rinascere... Dio è già nato, è morto ed è risorto e vive glorioso. Siamo noi invece, in questo poco o tanto tempo che ancora ci è donato, in questa vita più o meno soddisfacente, che dobbiamo far nascere Dio nei nostri cuori. Meglio: farlo nascere in me non come ero un anno fa', e neppure come stavo tre anni fa.

Ma come sto ora. Oggi.

L'idea (falsa) che coltiviamo è quella di doverci preparare con devozione e buone maniere alla festa della venuta di Dio. E non capiamo che Dio viene per come siamo, immersi nel fango delle nostre debolezze, nei dolori delle perdite, nell’angoscia di un presente senza prospettive.

Se avessimo il coraggio di vedere davvero cosa sta per accadere!

Un Dio che viene nel nostro mondo. Un Dio che si fa spazio in mezzo al letame e sceglie di nascere nell'aria acre di una piccola stalla.

Vedere che la gioia è una tristezza superata, che Dio si schiera dalle parti degli ultimi, davvero, per sempre.

La piccola Maria sente il grembo crescere, in quella poesia e magia che solo le donne, somiglianti a Dio, possono vivere. Il Verbo cresce dentro di lei e con la Parola fatta carne crescono anche i tentennamenti. Maria sale da Elisabetta: forse lei saprà darle una risposta definitiva, forse lei saprà dirle che sì, è tutto vero.

E accade. Elisabetta si asciuga le mani nel grembiule e riconosce la piccola Maria (ormai si è fatta donna) e capisce. La pagina di Luca è un capolavoro: l'incontro fra le due donne nel Vangelo è tutto un sussulto, un complimento, Giovanni Battista che riconosce il Messia dal grembo e scalcia; Elisabetta, anziana donna che vede imprevedibilmente realizzato il suo agognato sogno di maternità fa i complimenti alla piccola Maria.

Maria, ancora scossa da quanto le è successo, comincia a ballare e a fare i complimenti a Dio che salva lei e noi. Nelle loro parole avvertiamo la tensione, lo stupore, l'inaudito che si realizza.

È vero, allora: Dio ha scelto di venire, Dio si rende presente, Dio – il Dio d'Israele – è qui.

Non sono solo stanche promesse ascoltate dalla bocca del vecchio rabbino di Nazareth che sospirava, allo Shabbat, seguendo con il dito la pergamena consunta del rotolo di Isaia.

È vero, è tutto vero, Dio viene, infine. E le due donne urlano e cantano e danzano e piangono nell'assolato cortile di casa della vecchia Elisabetta. Lo splendido pancione col bimbo che scalcia è la presenza del profeta che indica il Messia. E tutto accade, accade, come il più inatteso e improbabile dei sogni che si realizza, come se la storia e la vita e l'universo danzassero nel vedere queste donne cantare l'assoluta follia di Dio.

E questo scatena la gioia, contagia, stupisce...

Ecco, Dio viene. Questa sì che è una buona notizia: puoi essere felice anche se povero e sfortunato, puoi realizzare la tua vita anche se abiti in un paese arido e senza poesia, puoi essere ricolmo più di un re perché ascolti la Parola che Dio ti vuole dare.

Dio viene per colmare il tuo cuore: e questa è un’ottima notizia.

Buon Dio! Se vi dicessi: hai una vita riuscita, un lavoro che ti realizza e che ti da vagonate di soldi, una casa da sogno, una splendida moglie, figli educati e sensibili, il salone di casa con un grande albero e le luci e il clima di festa giusto perciò sii felice, cosa dico di straordinario? Che buona notizia è? Un Dio che dona pace alle persone già felici?

L'inaudito è proprio il contrario: la felicità è altrove, è la salvezza di un Dio che ti ama talmente da consegnarsi come un neonato, è una felicità accessibile anche al povero, anzi forse più ancora al povero perché più disposto, più accogliente.

La buona notizia è che Dio è accessibile, è semplice, è diverso.

Diverso dalle nostre paure, diverso dai fantasmi che ci perseguitano.

Diverso.

E Maria e Elisabetta ora lo sanno e cantano, dicono, raccontano.

Raccontano dell'opera di Dio, la leggono scolpita nella storia degli uomini, la rintracciano nelle pieghe della fedeltà di un popolo di salvati – Israele – cui noi e l'umanità deve moltissimo. La loro gioia dilaga perché ora vedono chiaro, luminoso, evidente, mozzafiato il pensiero di Dio disegnarsi nella loro piccola storia, usarle, coinvolgerle.

La gioia è la dimensione essenziale del Natale. La gioia di sentirsi ed essere veramente salvati da Dio. Siamo veramente nel cuore e nel desiderio di Dio!

Un piccolo suggerimento, fratelli: in questo Natale, regalatevi, solo per voi, dieci minuti di orologio per fermarvi e aprire lo sguardo – finalmente! – su ciò che Dio sta compiendo nella storia, nella vostra storia. E vedrete quanto Lui vi ha amato e vi ama.

Animo, dunque: perché questa è la migliore delle notizie!

 

Maria sa che tutto è dono di Dio, che tutto viene da Lui, che a Lui va data ogni lode e benedizione. Così proclama e canta, nel profondo della sua umiltà, il grande cantico di lode: "L'anima mia magnifica il Signore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva, perché ha fatto e fa cose grandi, Lui che è l'Onnipotente".

Di fronte al suo amore infinito, di fronte alla disponibilità di Maria (Eccomi!), noi dobbiamo non solo ammirarla estatici, ma imparare da lei la generosità della risposta, di fronte alla nostra vocazione e missione personale. Questo lo potremo fare nella fede, gustando e vivendo la sua stessa beatitudine: “Beata te che hai creduto”.

Per Lei il Natale non era quello facile e ormai scontato degli addobbi e delle vetrine a festa.

Si trattava di un Natale vero, ossia della nascita di un bambino che le stava cambiando tutta la vita e tutte le decisioni che pure aveva già preso.

Maria viene ad annunciarci questo Natale; viene ad annunciarlo in mezzo a noi con lo stesso amore con cui andò ad annunciarlo all'anziana cugina Elisabetta.

Ella viene in mezzo a noi. Non parte più da Nazareth ma dal cielo e scende giù accanto ad ognuno di noi. Sì, attraversa i cieli per starci vicino.

È venuta qui. Ma le resta da fare ancora un altro pezzo di strada, che è forse più arduo e più difficile di quello di traversare i cieli. È quel tratto di cammino che le serve per raggiungere e toccare il nostro cuore. Le lasceremo superare le montagne di indifferenza e di egoismo che si ergono dentro di noi? Le permetteremo di oltrepassare le voragini di odio e di inimicizia che abbiamo scavato nel nostro animo? Le lasceremo aprirsi un varco tra le erbe velenose e amare che rendono insensibili i nostri cuori, cattivi i nostri pensieri e violenti i comportamenti? E riusciremo a sentire il suo saluto? Riusciremo ad ascoltare il Vangelo che ci viene annunciato? Beati noi se, visitati da Maria, ascoltiamo il suo saluto: perché allora, smettendo di pensare sempre a noi stessi, sentiremo il nostro cuore allargarsi; avvicinandoci a chi ha bisogno di aiuto, i nostri pensieri saranno più teneri; e rimanendo vicini ai poveri, ai deboli, ai malati, impareremo ad amarli.

La carità è una grande scuola di vita. Così Maria si è preparata al Natale: con il Vangelo ascoltato, custodito e messo in pratica. E così mi auguro sia anche il nostro Natale. Amen.

 

 


 

NATALE DI NOSTRO SIGNORE – ANNO C

(25 DICEMBRE 2009)

 

Vangelo: Lc 2,1-14

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio. C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».

 

La nascita di Gesù

Dopo le spese, i regali, gli affanni dell’occasione, ora è il tempo di stare zitti, di mettersi in un angolo col vangelo in mano, di lasciare che sia il festeggiato a parlare. È il tempo di abbassare il volume dell’emozione e di alzare quello della teologia.

Ciò che stiamo per celebrare, il punto di partenza della nostra fede è qui, è un neonato in braccio ad una adolescente.

Ora è il tempo per salire a Betlemme.

Perché possiamo anche celebrare mille natali, senza che Cristo nasca nei nostri cuori.

Eccolo: Dio si racconta, si narra, si relaziona, si svela.

Lo avevano detto, i Profeti: Dio era stanco. La voce roca del Battezzatore aveva gridato a tutti di prepararsi: Dio, questa volta, non avrebbe mandato più nessuno. Lui sarebbe venuto.

Troppe incomprensioni con l'umanità, anche con l'amata sposa, Israele.

Dio non dona più la sua Parola ai profeti, viene a parlare di persona.

Dio nasce, cosa è più folle, inatteso, sconcertante, incredibile, drammatico, magnifico?

Dio nasce, diventa uomo. Dio si spoglia della sua divinità perché tutti noi possiamo essere avvolti dalla sua divinità. Dio viene a raccontarsi perché nessuno più vacilli: ecco il suo vero volto.

Allora essere uomini non dev'essere così male se Dio accetta di diventare uomo!

Allora esiste un modo di essere uomini che ci rende vicini a Dio e l'umanità, vissuta con intensità, può riservarci grandi sorprese.

Ti chiedo un favore, Gesù, un dono, in questo Natale: aiuta noi cristiani ad essere più uomini.

Lungo tutta la storia dell’umanità Dio entra in contatto con i cuori degli uomini che non si accontentano di esistere ma che vogliono essere. E, per farlo meglio, si affida all’esperienza di un minuscolo popolo nomade del medio oriente e con esso stabilisce una tormentata alleanza, fatta di fedeltà e di tradimenti, di grandi slanci e di incomprensioni. Ma, nonostante tutto, l’uomo è fragile, incostante e tende a sostituire alla vera immagine di Dio, la proiezione delle proprie paure o dei propri bisogni.

Stanco di non essere capito, Dio decide di diventare uomo, di incarnarsi, per poter condividere, per poter dire, per potersi dare.

Dio diventa uomo per salvare l’uomo.

Dio diventa uomo perché l’uomo diventi Dio.

Dio diventa uomo perché l’uomo, infine, impari ad essere uomo.

Dio è così innamorato della vita da decidere di incarnarsi.

Dev’essere splendida la vita, se Dio accetta di incarnarsi, di diventare uno di noi.

Ecco Dio, fratelli: è un neonato con i pugni chiusi e la pelle arrossata, gli occhi che mal sopportano la luce e la piccola bocca che cerca l’acerbo seno della madre.

Ecco Dio, fratelli: è un bambino impotente, fragile, che va lavato e scaldato, cambiato e baciato, ed è tenuto a contatto della pelle ruvida del padre, Giuseppe, che lascia l’emozione inumidirgli gli occhi per poi tornare alla concretezza di una situazione problematica.

Ecco Dio, fratelli: non dona, chiede, non ha deliri di onnipotenza, ha svestito i panni della regalità, li ha deposti ai piedi della nostra inquieta umanità.

Non gli angeli, ma una ragazza inesperta e generosa si occupa di lui.

Ecco Dio, fratelli: è un neonato tra decine di migliaia di neonati del terzo mondo destinati alla dissenteria e alla morte, un neonato figlio di poveri, che non finisce sulle pagine dei rotocalchi, figlio del vip di turno.

Ecco Dio, fratelli, Dio è così, semplicemente.

Buffo: vorrei un Dio che mi risolvesse i problemi, non un Dio che me li crea.

Vorrei un Dio potente e forte, non un neonato bisognoso di tutto.

Vorrei un Dio più efficiente, non perdente. Schierato con i forti, non difensore dei deboli.

E invece.

Dio è così: prendere o lasciare, accogliere o rifiutare. O, peggio, mistificare, ingannare, intorbidire.

Addolcendo troppo l’amarezza del Natale, la disarmante fragilità di Dio, la sua follia d’amore, riducendo la Notizia a cronaca, sostituendo il luminoso e splendido volto della gloria di Dio con l’antipatico volto del Dio delle nostre piccinerie, lasciandoci travolgere dall’onda di emozioni (sempre più usurate, sempre meno autentiche) scordando la fede.

Buon Natale, fratelli.

Vi voglio bene di quel bene che Dio mi vuole.

Che Dio nasca ancora in ciascuno di noi e in chi amiamo!

 

 


 

EPIFANIA DEL SIGNORE - ANNO C

(06 GENNAIO 2010)

 

Vangelo: Mt 2,1-12

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo».

All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”».

Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Udito il re, essi partirono.

Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.

 

I Magi vennero da lontano per adorare Gesù

Non ci sono cioccolatini per i buoni e carbone per i cattivi. Alla faccia della vecchietta punitrice, oggi è festa per tutti: per i buoni e per i cattivi, per chi se lo merita e per chi non se lo merita, per i vicini e per i lontani. Se fosse solo per i prescelti che Vangelo sarebbe? Che novità porteremmo se cavalcassimo pure noi la logica del merito? Che bellezza ci sarebbe in un annuncio di salvezza che guarda al codice fiscale per stabilire se sei dentro o fuori?

Oggi la Chiesa ci invita a celebrare l’Epifania, cioè la “manifestazione”. Una festa straordinaria che annuncia che il Messia nato nella grotta di Betlemme non è un tesoro privato di Israele - popolo della promessa - ma è per tutti.

Epifania: la festa di Dio che si manifesta a tutti i popoli, che spezza il vincolo con il popolo di Israele per allargarlo a tutte le nazioni. Una festa straordinaria, seconda solo alla Pasqua e alla Pentecoste; oggi nelle chiese sorelle ortodosse si festeggia il Natale.

Festa brutalmente paganizzata con l'intrusa vecchietta, la befana, che poco ha a che vedere con la splendida pagina del vangelo di oggi.

Sicuramente, quella che più assomiglia ad una pia favoletta è proprio questa: la stella, i magi, i doni... i ricordi dell'infanzia e del presepe ci emozionano, ma niente di più.

I Magi sono l'immagine dell'uomo che cerca, che indaga, che si muove e segue la stella.

La scienza e la fede non si oppongono; cercando un senso alla loro ricerca intellettuale, i Magi si trovano di fronte all'assoluto di Dio, tanto più sconcertante quanto inatteso.

Non come Erode e i sacerdoti del Tempio che, pur "sapendo", restano ai loro posti.

Per riconoscere Gesù occorre smuoversi, indagare, seguire, lasciarsi provocare, cercare. Dio si lascia trovare, certo. ma da chi lo desidera, non da chi lo ignora.

La fede non è solo "sapere" (i dottori della elegge conoscono la profezia di Michea!) ma smuoversi. Gerusalemme e Betlemme distano qualche chilometro: dai palazzi del potere religioso e politico, nessuno si prende la briga di andare a verificare.

I Magi sono l'immagine di tutti quegli uomini che, spinti dal desiderio e dalla sete della verità, hanno finito con l'incontrare un "segno", la stella, della presenza di Dio: una testimonianza, un avvenimento, una parola di un cristiano e, seguendolo, hanno scoperto il volto di Dio.

Seduti alla poltrona delle nostre incrollabili supposizioni finiremo col lasciare la fede dietro di noi, col "conoscere" il luogo dove Gesù è nato, come i sacerdoti del Tempio, ma non piegheremo mai le ginocchia, esterrefatti, davanti al prodigio di un bambino che è Dio.

Nel bambino i Magi riconoscono il Re, il Dio, il Crocifisso.

Non suscita tenerezza questo bambino, ma conversione e contraddizione.

Com’è diverso dall'idea di Dio che noi ci siamo fatti!

I Magi, dunque, giungono da oriente proprio per indicare questa direzione universale della salvezza donata da Cristo. Lui è per tutti e non basta essere vicini per incontrarlo.

Proprio per esplicitare l’assenza di questo automatismo della fede, Matteo crea un contrasto stupendo fra la luce che i Magi accolgono di seguire e le tenebre in cui rimane immerso l’ansioso Erode con gli scribi e i farisei.

Questo è un avvertimento anche per tutti noi!

Non basta essere nati in una nazione culturalmente cristiana o “fare delle pratiche religiose” per essere cristiani.

Non basta appiccicare rosari e crocifissi in tutti gli angoli delle nostre case e nemmeno andare a Messa tutte le domeniche per dirci uomini e donne di fede.

Una cosa è fare i cristiani, altra è essere cristiani! L’accoglienza di Gesù nella nostra vita esige un sì, una partenza, un desiderio, una ricerca…

Ecco, questo deve essere quello che portiamo alla grotta, alla fine di questo tempo di Natale.

Questo il nostro dono che siamo, se pur poveri, disposti a offrirgli.

Coraggio, fratelli e sorelle! Alziamo lo sguardo a Cristo nostra stella e lasciamoci riempire il cuore di quella gioia che solo Lui sa donare e che nessuno può rapirci!

 

 


 

II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

(17 GENNAIO 2010)

 

Vangelo: Gv 2,1-11

In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino».

E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri.

E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.

Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

 

Miracolo alle nozze di Cana di Galilea

Siamo bene-amati, il Signore è proprio contento di noi, è contento di me.

È difficile amare bene, lasciando liberi, aiutando a crescere, valorizzando l'altro, amare senza possedere, amare donando le ali, amare senza ricatti.

Iniziamo il nuovo anno ripetendoci che incontrare Dio è come partecipare ad una splendida festa di nozze.

Il racconto di Cana rischia di essere letto in superficialità, notando solo il miracolo inconsueto e gradito e la colossale sbronza collettiva conseguente, e la conclusione, nota a molti, è che Gesù è un uomo prodigioso che trasforma l'acqua in vino: ce ne fossero!

Dobbiamo, però, andare oltre la lettera.

Leggiamo bene: questo matrimonio è piuttosto strano. Manca del tutto la sposa, lo sposo è coinvolto solo per ricevere i complimenti per una cosa che, in teoria, non lo riguarda e per cui non ha fatto assolutamente nulla! Che strano matrimonio!

A margine notiamo la scortesia di Gesù verso sua madre e, ciliegina sulla torta, l'assurda presenza di giare di pietra per la purificazione da cento litri (e che se ne facevano?) nella casa in cui si festeggia.

Le giare in pietra c'erano, ma nel cortile del Tempio a Gerusalemme!  Certamente, non a Cana. Insomma: sono tante le cose che non tornano; cerchiamo di capire meglio.

Il matrimonio fra Israele e il suo Dio langue, è come quelle giare: impietrito e imperfetto (sono sei le giare: sette - numero della perfezione - meno una): la religiosità di Israele è stanca e annacquata, non dona più gioia, non è più festa. Il popolo vive una fede molto simile alla nostra religiosità contemporanea, stanca e distratta, travolta dalle contraddizioni e dalla quotidianità.

Maria, la prima tra i discepoli, se ne accorge, e invita Gesù a intervenire.

I servi fedeli, figura centrale del racconto, sono coloro che tengono in piedi il matrimonio fra Israele e Dio, coloro che - con fatica e senza capire - obbediscono, che perseverano, che non mollano. Ancora non lo sanno, ma il loro gesto fedele porterà frutto e rianimerà la festa.

È Gesù, lo sposo dell'umanità, che trasforma l'acqua dell'abitudine nel vino della passione, è lui che riceve i complimenti da noi sommeliers, discepoli ubriacati dall'ebbrezza della Parola.

È Maria che si accorge della mancanza del vino. È sempre lei che, discretamente, vede che non c'è più gioia nella nostra vita. E interviene.

Gesù ascolta la sua richiesta e le risponde malamente (all'apparenza): «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Che rispostaccia! Che maleducato!

No, Maria ha capito benissimo cosa sta dicendo suo figlio.

Gesù sta dicendo alla madre: «Io sono un perfetto sconosciuto, il falegname di Nazareth, tuo figlio. Se intervengo ora, madre, mi allontanerò per sempre da te, tu per me sarai una delle tante donne che incontrerò». E Maria accetta.

E dice ai servi, e a noi: «Fate quello che vi dirà».

Quanto è difficile tagliare il cordone ombelicale che ci lega ai figli!

Quanto più duro dev'essere stato, per Maria, rinunciare ad avere Dio per casa per donarlo (davvero!) al mondo. Maria bene-ama suo figlio e lo lascia andare.

Scomparirà, Maria, nel vangelo di Giovanni, per riapparire, ancora e solo donna sotto la croce.

Per tornare a diventare madre, ma di tutti i discepoli, questa volta.

E l'ultima sua parola è un invito a seguire il figlio.

Così è la fede, fratelli: un matrimonio in cui il vino non viene mai a mancare, un incontro che, sempre, suscita gioia e passione.

Se, invece, la fede, per noi, è noiosa e siamo cristiani solo per dovere, piacevole come andare dal dentista, delle due cose l'una: o stiamo vivendo un faticosissimo momento, e allora chiediamo al Signore di trasformare l'acqua in vino e dimorate nella fedeltà, come i servi, o proprio non siamo presenti al banchetto nuziale.

Così inizia l'anno nuovo, con semplicità e stupore.

Qualunque cosa accadrà, quest'anno è l'anno in cui vogliamo dare al Signore la nostra fedeltà imperfetta, la nostra vita pietrificata, per vederla trasformare nel vino nuovo del Regno.

 

Il vangelo ci presenta l'episodio delle nozze di Cana. Il motivo per cui tale brano è collocato nella Messa di questa domenica – la seconda dopo l'epifania – è indicato nella frase conclusiva: Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in Lui. A Cana si ebbe una nuova epifania di Gesù: egli si manifestò per quello che era in realtà. Non era semplicemente il falegname di Nazareth, ma il Figlio di Dio, il Messia, il Salvatore; e lo rivela coi miracoli che compie. Anche questa volta, a Cana di Galilea, il frutto della sua manifestazione è la fede: Gesù manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in Lui. Anche noi ascoltando questa Parola, celebrando questa Eucarestia, contempliamo la bontà e la potenza di Gesù e intensifichiamo la nostra fede in Lui. Questa è la cosa più importante.

Ma in questo racconto troviamo anche vari altri elementi significativi.

Possiamo contemplare l'amore di Gesù verso questa coppia di sposi, il che egli dà alla famiglia, realtà molto importante nel progetto di Dio, la presenza salvifica di Gesù in ogni famiglia che "lo invita" e si affida a Lui.

Gesù compie il primo miracolo per la serenità e la gioia di due sposi. Non l'ha compiuto per guarire i malati, per sfamare le folle, per risuscitare un morto... farà anche tutto questo, ma per primo incoraggia due giovani che iniziano la vita insieme e che incontrano subito delle difficoltà. Il vangelo ci fa capire che Gesù dà risalto all'importanza della famiglia, si rende presente con la sua benedizione e il suo aiuto; addirittura la sua presenza salva e santifica gli sposi con la grazia di un sacramento: il matrimonio.

Possiamo pensare come è importante accogliere Gesù anche nelle nostre famiglie, sentirlo presente, affidarsi a lui nelle difficoltà, trovare in Lui luce e forza per i propri impegni. E se ci si affida a Lui con fede, sappiamo che è disposto a darci tutto il suo aiuto per salvare le nostre famiglie, perché ci sia l'amore, la fedeltà, l'accoglienza e il servizio alla vita. Se c'è Gesù nelle nostre famiglie, c'è la ricchezza più grande, la vera ricchezza. Maria Ss. ha ottenuto il primo miracolo a Cana. Siamo certi che Maria Ss., lei che è stata ragazza, fidanzata, sposa, madre..., capisce le nostre difficoltà e ci vuole aiutare nell'incontro con Gesù, il Salvatore di tutto, il Salvatore anche delle famiglie.

Ci potremmo chiedere: cosa significa "Invitare Gesù, coi suoi discepoli" in casa nostra?

Cioè come viviamo la fede, la preghiera, l'amore al prossimo, la presenza di Gesù nella nostra vita? Come invitiamo gli amici, i vicini, per realizzare l'amore del prossimo, per realizzare la presenza di Gesù?

In questo racconto ci vengono ricordate le "nozze" di Dio con l'umanità, la sua alleanza di amore, di fedeltà, di tenerezza, di misericordia, che hanno la loro pienezza in Gesù che è arrivato e si manifesta come Messia. Spesso nella Bibbia Dio sceglie l'immagine del matrimonio per parlare di se stesso, di ciò che sente verso l'umanità, di ciò che vuole dall'umanità. Dio si paragona a un padre, a una madre, a uno sposo, a un fidanzato. È la storia della salvezza, ma è anche il modello a cui guardare per imparare a costruire la vita.

Non è guardando un matrimonio che noi comprendiamo i sentimenti di Dio verso l'umanità, ma è guardando Dio che noi impariamo a costruire le nostre famiglie. Dio, come ama, come rinnova la sua fedeltà, come perdona, come incoraggia, come vive la tenerezza del cuore verso ogni creatura? Guardando a Lui possiamo imparare l'amore vero nella famiglia, nella Chiesa, nella società.

"Ci sono diversità di carismi e di ministeri – ci ha ricordato S. Paolo nella lettura – Ma uno solo è il Signore che opera tutto in tutti". C'è il ministero dello Spirito al quale siamo chiamati noi sacerdoti e religiosi e c'è il ministero o servizio alla vita, al quale sono chiamati gli sposi cristiani... Per questo il matrimonio è un sacramento come lo è l'Ordine sacro: tutti abbiamo da Dio una vocazione e una missione grande e così la nostra vita trova il suo significato pieno.

C'è un altro aspetto che possiamo sottolineare: a Cana c'è la gioia.

Cito quanto afferma uno scrittore: «Se tu bevi quel vino che Dio stesso ti offre, sei nella gioia. Non è detto che tale gioia sia sempre facile, libera dal dolore e dalle lacrime, ma è gioia. Ti può capitare di bere quel vino della volontà di Dio nelle contraddizioni e nelle amarezze della vita, ma senti la gioia. Dio è gioia anche se sei crocifisso. Dio è gioia sempre. Dio è gioia perché sa trasformare l'acqua della nostra povertà nel vino della risurrezione. E la gioia è la nostra riconoscente risposta. Sì, il discepolo di Gesù deve vivere nella gioia, deve diffondere la gioia, deve "ubriacarsi" di gioia. E questo sarà sempre il suo vero apostolato» (C. Carretto)

Dare gioia agli altri è come dare la vita.

 

 


 

III DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

(24 GENNAIO 2010)

 

Vangelo: Lc 1,1-4; 4,14-21

Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.

In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode. Venne a Nazareth, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere.

Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore». Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette.

Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

 

Gesù spiega Isaia nel Tempio

Per non affrontare ad occhi chiusi la giornata che ho davanti, sfoglio il giornale, ed eccoli li pronti, l'oroscopo e i consigli dell'ultimo psicologo...; per aver tutte le news sugli amori del cantante e dell'attrice, eccola sul tavolo la rivista di gossip che sa tutto di tutti... ancor prima degli interessati...;. per preparare qualcosa di buono e veloce per gli amici che stanno per venire mi basta prendere la scheda giusta dal ricettario, comodo vicino al fornello...; per sapere che cosa danno adesso alla televisione ecco pronta la guida Tv sul divano, proprio sotto il telecomando...; per sapere come esser felice in questa mia frenetica giornata... ehm... dove ho messo il Vangelo?....

Già, il Vangelo: questo è l’anno di Luca. Ma perché Luca ha scritto il suo Vangelo? Luca ha un amico, Teofilo: amico importante, questo Teofilo, illustre; e per lui e per gli altri suoi amici cristiani Luca scrive le pagine che ancora oggi ci raccontano di Gesù e della sua vita.

Luca scrive perché non vuole che le parole e i gesti del Signore vadano pian piano dimenticati.

Ora Teofilo è morto da un pezzo, ma lo scritto di Luca rimane, per me... perché il ricordo di Gesù non sbiadisca nella mia mente e nel mio cuore.

Ma dove ho messo il Vangelo? È sepolto in qualche scaffale? O in fondo ad un cassetto? Dove mai l'ho messo? Devo proprio tenerlo a portata di mano, più vicino della guida Tv, dell'oroscopo, della rivista o del giornale sportivo...!

 

Dicevo dunque di Luca.

Luca ci assomiglia: come noi proviene e vive in un ambiente lontano dalla spiritualità, come noi è sollecitato da mille stimoli, da novità religiose "alla moda", come noi non ha mai visto Gesù in vita sua, come noi (spero!) è rimasto profondamente coinvolto dalla predicazione di un ebreo di nome Paolo, giunto ad Antiochia per parlare di un tale Gesù morto e risorto, come noi è cresciuto nella consapevolezza che Dio è tenerezza infinita.

Leggendo Luca ne rintracciamo l'evoluzione interiore, il percorso, il carattere, così come riusciamo a conoscere le persone quando iniziamo con esse un'intensa corrispondenza.

Luca è stato educato nella religione dei padri, zeppa di divinità capricciose e strane, umorali e biliose, che imitano, nel loro Pantheon, i difetti e i limiti degli uomini.

Divinità lontane, incomprensibili, scostanti, messe in ridicolo dall'annuncio di Paolo.

Dio è diverso, dice l'ebreo di Tarso, è un padre pieno di tenerezza, che cerca e ama ciascuno dei suoi figli. E Luca ne fa esperienza.

Spinto da Paolo, dopo alcuni anni di discepolato, Luca accetta di scrivere un resoconto ordinato delle cose accadute tra le prime comunità.

Storico puntiglioso e appassionato, Luca dedica molto tempo ad ascoltare i testimoni diretti e a redigere uno splendido vangelo, il vangelo della mansuetudine di Cristo.

Luca ha a cuore la sua serietà di storico, ci tiene a confermare la fede in cui è rimasto coinvolto: non sono favole quelle in cui ha creduto, né pie elucubrazioni.

Ha dato del tempo, Luca, a questa ricerca e ci tiene a precisarlo.

Grande Luca! Fa bene a dirlo: neanche lui avrebbe immaginato che, a duemila anni di distanza, siamo ancora qui a giocare a fare gli intellettuali smaliziati, a guardare con sufficienza le pretese di storicità dei vangeli, a scrutare con arroganza il cristianesimo, a lasciarci turbare (!) dalle affascinanti teorie di un romanziere furbetto. Siamo convinti che la religione sia qualcosa di utile sì, male non ne fa', insegna il bene, ma che in fondo in fondo tutto si risolva in una pia esortazione che non può certo passare al vaglio della storia o della scienza.

Il vangelo è e resta uno splendido esempio di libro religioso, Gesù è una figura ammirevole, ma tutto si confonde: morale, favola, dottrina...

Luca scuoterebbe la testa, invitandoci a prendere più sul serio la nostra fede, a dedicare del tempo alla nostra preparazione, a renderci conto che la fede va nutrita, informata, capita, indagata. E invece no: le quattro nozioni imparate di malavoglia al catechismo sono, spesso, l'unico approccio al cristianesimo che abbiamo conosciuto.

Salvo poi essere convinti di sapere molto sulla fede: più di una volta mi sono trovato durante una cena a disquisire di fede con fior di professionisti che si impantanavano miseramente nell'ignoranza nell'affrontare temi come l'etica, la storicità dei vangeli e amenità del genere!

Siamo seri: il problema è la nostra pigrizia, il problema è la dimenticanza: non ci importa della nostra interiorità, non investiamo perché in fondo non ci crediamo. Smettiamola di giocare a fare gli atei, non nascondiamo la nostra mediocrità dietro una pretesa culturale poco seria e documentata, portiamo rispetto per coloro che, davvero, hanno cercato e studiato e indagato.

Mondo impigrito, il nostro, che affida ad altri l'analisi per poi mandare a memoria un riassunto delle conclusioni masticate dai tuttologi di turno.

Vuoi veramente cercare la fede? Indaga. Cerchi davvero Dio? Informati. Vuoi davvero dare senso alla tua vita? Fidati. Sì perché – ci ricorda Luca – la fede nasce dalla testimonianza di chi ha visto e creduto.

Così Gesù, a casa sua, a Nazareth, commentando la Parola durante l'incontro in sinagoga dello shabbat annuncia il suo programma. Gesù sceglie il brano di Isaia in cui si annuncia il ritorno dall'esilio in Babilonia del popolo di Israele, brano di liberazione, di salvezza, di ritorno, di gioia restituita. Gesù fa suo il sogno di Israele e dell'umanità di un mondo diverso, redento, armonioso, senza tenebre né fragilità, senza increspature né sbagli. Gesù s'iscrive alla grande schiera degli utopisti di tutti i tempi, di coloro che desiderano davvero cambiare. Per poi concludere: "oggi si è compiuta questa scrittura". Oggi: Lui realizza questa armonia. Oggi: Cristo raggiunge la storia, Dio irrompe nel quotidiano e lo salva. Oggi: oggi di Luca, oggi mio, adesso, qui Dio mi raggiunge. Questo è il programma di Gesù: realizzare il sogno, renderlo concreto attraverso la sua presenza, presenza divina, presenza travolgente di Dio.

 

L’importanza della Parola.

Ma soffermiamoci un istante anche su un altro messaggio importantissimo che la Liturgia di oggi ci propone.

Nella prima lettura si racconta di Esdra che legge la Parola di Dio al popolo tornato dalla schiavitù e ne spiega il senso. Il popolo si commuove e piange i suoi errori e si apre alla fiducia del perdono e alla gioia di Dio che diventa la sua forza. Vogliamo sottolineare, sia nel vangelo sia nel racconto dell'Antico Testamento, l'importanza della Parola di Dio letta nell'assemblea e commentata perché diventi luce e forza, verità e vita per i cuori che l'accolgono.

La liturgia di oggi mette dunque in luce l'identità profonda della Chiesa: noi siamo un popolo radunato attorno dalla Parola di Dio e costituito in unità dalla Parola di Dio; siamo un popolo salvato dalla presenza vera di Cristo che "oggi" (come in ogni Eucarestia) è in mezzo a noi come Messia e Salvatore.

Riprendendo il racconto dell'A.T. ritroviamo in quel radunarsi di popolo alcuni atteggiamenti propri delle nostre liturgie: leggere la Parola, alzarsi, inginocchiarsi, adorare, ascoltare coloro che spiegano la parola letta, gridare al Signore la nostra fede (Amen, Amen!)

Anche nel vangelo è la Parola che convoca la comunità, che è proclamata solennemente all'assemblea in attento ascolto, è spiegata, interpretata come messaggio di speranza, di gioia, di liberazione. Ma solo con Gesù essa è attualizzata e realizzata pienamente: in Lui si compie la Parola... "oggi". Gesù fa il suo commento, molto breve; ma in esso si rivela, si presenta, si fa conoscere apertamente come il Messia Salvatore. La gente non è pronta, non è attenta al passaggio di Dio; a Nazareth succede il più grande scompiglio. I "suoi" non l'hanno accolto, non si sono aperti alla fede, hanno creduto che fosse un matto, lo hanno cacciato come un bestemmiatore.

Ma Gesù è stato chiaro: "Oggi si è adempiuta questa Scrittura, che voi avete udita".

Qual'era la Scrittura letta e ascoltata? Abbiamo detto che è il testo profetico di Isaia: "Lo Spirito del Signore è su di me, per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato ad annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore".

Cristo Gesù è il Messia, il consacrato di Dio (sono i vari termini usati nell'A.T.). Gesù porta la buona notizia dell'amore infinito di Dio a tutti.

La parola "poveri" significa: i poveri di spirito, i poveri materialmente, gli umili, coloro aspettano e confidano nella Provvidenza del Padre; ma "povero" è ogni uomo, perché non è per nulla padrone della sua vita, perché è debole, fragile, peccatore. Gesù è vangelo, buona notizia, gioia e speranza per tutti. Gesù porta la liberazione vera da ogni schiavitù, dà la luce della verità e porta il senso della vita e delle cose ("dà la vista ai ciechi"). Gesù porta la vera liberazione di fronte a ogni oppressione morale, materiale, di fronte agli sfruttamenti, alle ingiustizie, alle manipolazioni; di fronte all'oppressione del proprio limite e del proprio peccato. Gesù porta ogni grazia e ogni misericordia, ogni rinnovamento, con la possibilità di ricominciare come da capo (anno di grazia è il giubileo di Dio), di rinnovare tutte le cose, di credere, e vivere l'impossibile ("Nulla è impossibile a Dio").

E questo Gesù lo compie, lo realizza "oggi". Lo compie anche per noi in ogni momento e in maniera particolare in questo momento dell'Eucarestia. Per noi suo popolo, per ciascuno di noi membro del suo Corpo (v. II lettura) Gesù compie la sua opera di Messia, di Salvatore.

Vale la pena credere con tutto il cuore, accogliere Gesù, lasciarci salvare da Lui, costruire la nostra vita con Lui e per la sua stessa missione di amore. Amen

 

 


 

IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

(31 GENNAIO 2010)

 

Vangelo: Lc 4,21-30

In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».  Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?».

Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».  All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

 

Nessun profeta è accetto in patria

Gesù inizia il ministero a casa sua, nella sinagoga di Nazareth.

Domenica scorsa abbiamo ascoltato nel racconto di Luca della lettura durante il culto dello shabbat, da parte di Gesù, del profeta Isaia, lettura dei tempi messianici. Isaia profetizza speranza, consolazione, ritorno dall'esilio, conversione, pace, luce, una benedizione infinita sul popolo di Israele.

Gesù conclude dicendo: "Oggi se è adempiuta questa Scrittura".

È lui a portare quella buona notizia. È lui la buona notizia.

Fantastico, no? A questo punto una buona sceneggiatura prevede musica intensa, il primissimo piano su Gesù che si allarga sulla folla esterrefatta che gioisce e piange e abbraccia Gesù.

Ma la vita non è (quasi) mai un film. Gesù arrotola il profeta Isaia e la gente inizia a mormorare a voce sempre più alta.

Ma non è il figlio di Giuseppe? Il falegname? Sì, è lui! Ho anche un bel comò che mi ha fatto suo padre! Ma che gli prende? Si è montato la testa?

Gesù interagisce, cita la Scrittura, spiega come sia difficile fare i profeti in casa propria, che solo degli stranieri, come la vedova di Zarepta e Naaman il Siro, hanno saputo riconoscere profeti grandi quali Elia ed Eliseo. E si scatena il putiferio.

All'iniziale sconcerto subentra l'offesa e la permalosità.

Ma come si permette? Ma chi si crede di essere questo giovane presuntuoso? Noi sapremmo riconoscere Elia o Eliseo! Sapremmo accogliere il Messia, se Adonai lo inviasse!

Ieri come oggi. E oggi vogliamo parlare di profeti inascoltati.

Oggi parliamo di come Dio sia venuto a parlare di sé e noi, che buffo!, ci siamo rifiutati di ascoltarlo.

Le ragioni del rifiuto sono evidenti: Gesù è un Messia banale, poco spettacolare, non corrisponde ai criteri minimi di serietà del profeta standard.

Accade così anche al nostro mondo disincantato e cinico: siamo talmente impregnati di ciò che pensiamo essere il cristianesimo da non riconoscere il vero volto di Dio.

Cosa c'entra la Chiesa con Dio? E le tante questioni aperte in ambito etico col vangelo? E la mia parrocchia con Gesù?

Molti fratelli e sorelle sono scandalizzati dal fatto che la parola grande di Dio è consegnata alle fragili mani di discepoli spesso incoerenti. Ci fermiamo al messaggero ignorando il messaggio.

Come vorrei gridare forte ai fratelli che non credono: andate al Gesù del vangelo! Non al Gesù del catechismo o delle nostre noiose prediche!

Andate alla sorgente, non lasciatevi fermare dalla nostra incoerenza! Il tesoro è custodito in fragili vasi di creta, la fontana è arrugginita ma l'acqua che vi sgorga è pura e fresca.

Dio (che mistero!) accetta il rischio di affidare alle nostre balbettanti parole la sua Parola.

Attenti, però, discepoli del Nazareno. Questa pagina non è rivolta anzitutto a chi non crede, ai lontani, ai sé dicenti atei. È anzitutto rivolta a noi discepoli del Risorto, a noi che frequentiamo la sinagoga, che ci sentiamo figli di Abramo.

Il mondo non è diviso in chi crede e in chi no, ma in chi ha il coraggio di accogliere e chi è sclerotizzato sulle proprie convinzioni, anche su quelle belle e sante.

Se perdiamo il senso della Profezia, se non ci lasciamo scuotere dal Geremia di turno, se non abbiamo il coraggio di ricordarci che, pur discepoli, siamo in continua conversione, rischiamo di allontanare Gesù dalla nostra vita e dalla Chiesa o, peggio, di buttarlo giù dal precipizio perché non la pensa come noi.

La Chiesa necessita di profezia e di profeti, di posizioni scomode e all'apparenza irriguardose per mantenere vivo il carisma fecondo del vangelo. È bello che ancora oggi ci siano dei cristiani che, sentendo di appartenere alla Chiesa, compiono scelte di pace e di giustizia a volte estreme che richiamano tutti, cristiani in primis, alla coerenza. Guai a spegnere lo spirito della profezia!

Però bisogna anche distinguere i profeti dai rompiscatole.

In ogni comunità c'è il polemico che si sente un piccolo profeta; in ogni presbiterio c’è un prete che assume posizioni forti, da infallibile. Gesù invita a mitigare la severità e la polemica mettendo al centro di ogni relazione, sempre, il bene maggiore dell'amore.

 

Anche i profeti, insomma, devono stare attenti a non porsi fuori dalla norma assoluta del vangelo come ci ricorda con forza san Paolo. Amore che esige franchezza e richiamo, certo, ma pur sempre amore.

Ma non sempre è così liscio, così tranquillo; noi, per esempio: noi oggi, ora, come ci poniamo di fronte al Vangelo?

C’è un dato di fatto, un fenomeno largamente diffuso, con cui fare i conti: oggi assistiamo molto spesso ad una contrapposizione dura e convinta, a volte feroce, una lotta sorda al Vangelo, anche se con moventi molto confusi, poco espliciti, superficiali e qualunquistici. Un conflitto che il più delle volte si riduce ad essere una inconsapevole guerra di difesa piuttosto che di attacco.

Si, ci difendiamo dal Vangelo e dai suoi testimoni per non essere disturbati nella nostra tranquillità, dal nostro egoismo, come gli abitanti di Nazareth.

Vogliamo una chiesa a nostro uso e consumo; una chiesa in cui il Vangelo non parli, stia zitto. Sempre. Noi preferiamo il silenzio tombale perché non sopportiamo che vengano rivelate, neppure a noi stessi, le nostre debolezze, i nostri peccati, le nostre vergogne, le nostre malattie.

L'incredulità, come pure il presunto “ateismo” di tanti più o meno convinti, sono in definitiva una congiura del silenzio: non si tollera che il Vangelo parli e cambi il nostro cuore.

E non basta: quel che è peggio, è che una simile congiura molto spesso non è di chi non ha mai conosciuto o ascoltato il Signore. Al contrario, è la congiura di chi lo conosce bene, di chi anzi si professa suo “amico”.

È il peccato dei credenti. È come una paura paralizzante di un Dio vivo, vicino, umano.

Un Dio così ci fa paura perché sta accanto a noi. Ci piacerebbe di più un Vangelo alto, lontano; così lontano da non dirci nulla. Oppure un Vangelo svuotato della sua forza, venuto a patti con la mentalità di questo mondo, tanto da non chiederci nulla.

Invece, come abbiamo detto, il Vangelo è chiaro, semplice; si racchiude in una sola parola: l'amore di Dio.

Un amore che è appunto il cuore del Vangelo.

Un amore che deve essere assolutamente anche il cuore della nostra vita!

Chiediamolo umilmente al Signore. Amen.

 

 


 

V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

(07 FEBBRAIO 2010)

 

Vangelo: Lc 5,1-11

In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti.

Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti».

Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare.

Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

 

La pesca miracolosa

"Eccomi, manda me!" (Is 6,8b): il grido di Isaia sintetizza bene il tema della Parola di Dio di oggi. Isaia viene chiamato durante la sua preghiera nel tempio e assiste nel suo cuore alla manifestazione della gloria di Dio (quanti dopo lui hanno parlato di questa gloria!) e sente il desiderio profondo di andare dal popolo a richiamare l'alleanza. E davanti a questo volto luminoso di Dio Isaia sente la propria fragilità, la stessa di Pietro che si butta in ginocchio davanti a Gesù, dopo il miracolo della pesca inattesa e la stessa di Paolo che si considera "come un aborto" rileggendo la sua chiamata.

Grandioso: il tema della chiamata, della vocazione, è qualcosa che ci riguarda tutti da vicino, che ci rende solidali e simili. Non pensate subito, per favore, alla vocazione del prete o del religioso, no, attenzione: qui parliamo della vocazione iniziale, di Dio che ti chiama a conoscerlo, di Dio che ti vuole tra i suoi figli. E qui subito troviamo il primo salto da fare: è Dio che ti chiama, non sei tu che lo trovi. E' paradossale ma è così: noi cerchiamo colui che ci cerca. E' una specie di gioco che coinvolge la nostra libertà e ci spinge al vero dentro di noi. Dio desidera incontrarci, ma noi fatichiamo, scappiamo, siamo indifferenti e indaffarati. La storia dell'umanità si gioca tutta dietro questa cifra di doppia ricerca: Dio da una parte e l'uomo dall'altra. Diverse sono le strade attraverso cui lasciarci raggiungere da Dio: per Isaia è il silenzio e la preghiera del tempio. Dimensione trascurata, il silenzio manca alle nostre giornate piene di rumore. Attenti, però, qui non parliamo del silenzio angosciante e vuoto della solitudine, ma di quello gravido e teso della preghiera. Paolo, invece, è chiamato da Dio attraverso la testimonianza della comunità. Notate: la stessa comunità che Paolo perseguita, la stessa. Non è così anche per noi? Parlare di Chiesa ci fa rabbrividire, ci scoccia, ognuno è disposto a dire ogni male della Chiesa, là dove per "Chiesa" intendiamo una specie di struttura rigida e ostile fatta di privilegi e astrusità (già: ma esiste questa "Chiesa"? Gesù parla di una comunità di fratelli che realizzano il Regno...). Così Paolo; anzi, lui passa dalle parole ai fatti: questa "Chiesa" va eliminata. Ma, sulla strada di Damasco... Paolo dovrà cambiare giudizio, sarà atterrato e accecato e dovrà fidarsi per vederci chiaro. Dopo molti anni Paolo il grande riguarda la sua esperienza e vede luce, vede che Dio l'ha raggiunto proprio attraverso la testimonianza di quei fratelli che Paolo voleva distruggere...

Infine Pietro, il pescatore. Pietro trova Dio nel caos della sua vita, nel tran-tran del quotidiano, alla fine di una giornata andata storta. Dio lo cerca e lo raggiunge proprio là dove meno Pietro se lo aspetta e lo convince attraverso un gesto che Pietro riconosce benissimo: una pesca inattesa e improbabile. Pietro reagisce un po' scocciato all'ingerenza di questo falegname che gli vuole insegnare il suo mestiere. Ma si fida. Ecco: questo è l'essenziale. Esiste un momento nella vita in cui intuiamo che Dio bussa alla mia porta, lo vediamo che ci tallona, percepiamo il rischio della sequela. Tutto ci dice che è illogico, nessuno pesca a mattino inoltrato. E ci resta la scelta. Pietro si fida, sulla sua Parola si fida e torna al lago, e la sua vita cambia.

La presenza di Dio luce rivela la nostra tenebra, ci manifesta la nostra piccolezza. Non piccolezza morale, di chi non si sente in regola, non diciamo stupidaggini! Pietro, Paolo, Isaia, vedono l'infinito e sentono la loro piccolezza, sono abbagliati dalla luce e vedono riflessa l'ombra. Si dicono "com'è possibile tanta meraviglia?" e sentono il peso della loro incredulità.

Ecco: a questo siamo chiamati. Nel silenzio della preghiera, nel quotidiano deludente, nella testimonianza di altri cristiani, Dio mi chiama ad essere figlio, ad essere me, finalmente.

Paolo, Isaia, Pietro, accettano e la loro vita è trasfigurata. Diventeranno testimoni, racconteranno Dio, lo porteranno nel loro contesto di vita, saranno missionari. Senza sforzo, badate: la candela non pensa al fatto di illuminare, è accesa e fa luce di suo...

Dio ha bisogno, oggi, di tali testimoni. Non fanatici, badate, ma testimoni dell'incontro. L'uomo non crede che Dio esista né che sia buono, né che sia accessibile. Forse a noi chiede di diventare trasparenza per manifestarlo. Potremmo forse un giorno dire come André Frossard, editorialista de "Le Figaro", ateo incallito, convertito improvvisamente, che in un libro ormai famoso dice: "Dio esiste: io l'ho incontrato".

Perché no?

Ma veniamo in particolare al Vangelo di oggi.

Pietro e Andrea stanno lavando le reti, stanchi dopo una notte infruttuosa. Sulla riva c'è il Nazareno che sta parlando ad una piccola folla che si è radunata per ascoltare le sue parole. Un giovane infervorato che parla di Dio, che vende fumo, al solito. L'umore di Pietro e Andrea è nerissimo: pesca infruttuosa. Mi immagino gli sguardi giudicanti dei due pescatori che vedono in Gesù un perdigiorno buono a nulla.

Poi, improvvisamente, Gesù avanza la richiesta della barca e Pietro – colto di sorpresa – accetta.

Lo fa per cortesia, perché ha paura di apparire scortese e maleducato. Lo fa perché in fondo, Pietro, è un pezzo di pane.

E Pietro ora ascolta. È un uomo rude, concreto, abituato ad annusare il lago per capire come cambierà il tempo, con le mani callose e ruvide, rovinate dalle corde e dal legno della piccola barca di famiglia.

Ascolta e sorride, dentro di sé.

Sono le solite storie dei rabbini devoti e dei credenti esaltati, parole belle e inutili, fiori alle catene della quotidianità. Le solite prediche da sorbire per non essere tacciato dagli altri di essere una bestia. Fumo negli occhi, come sempre.

Poi accade l'imprevisto: Gesù si gira e gli suggerisce di riprendere il largo.

«Questo è davvero troppo!», pensa Pietro. Ha ragione in fondo: che ne sa un falegname di pesca? Che faccia il suo mestiere senza rompere agli altri! Ma accetta e prende il largo. Quasi lo sfida, quell'arrogante falegname: vedrà che oggi i pesci sono andati in vacanza!

Dio ci raggiunge sempre alla fine di una notte infruttuosa, nel momento meno mistico che possiamo immaginare. Ci raggiunge alla fine delle nostre notti e dei nostri incubi, ci raggiunge quando siamo stanchi e depressi. Ci chiede un gesto di fiducia, all'apparenza inutile, ci chiede di gettare le reti dalla parte debole della nostra vita, di non contare sulle nostre forze, sulle nostre capacità, ma di avere fiducia in lui.

Pietro lo fa e accade l'inaudito.

Le reti si riempiono, il pesce abbonda, la barca quasi affonda.

Non è possibile, non è possibile, non è possibile.

Un miracolo: il miracolo è sempre un evento ambiguo, interpretabile in modi molto diversi, talora contrastanti. Simone avrebbe potuto dire, a quella vista: «Ma guarda un po' la fortuna del principiante!», oppure: «Questi pesci moderni! Io gettavo la rete a destra della barca mentre questi correvano a sinistra!» o qualunque altro pensiero logico e assennato. Il miracolo consiste nel fatto che Pietro vede in quella pesca un segno straordinario. Il miracolo è sempre nel nostro sguardo, Dio continua a riempire di miracoli la nostra vita. E noi non li vediamo.

È turbato, ora, il pescatore. Che sta succedendo?

Si butta in ginocchio, prima di arrendersi: «Non sono capace, non sono degno».

È la scusa principale tirata fuori da tutti quelli che, per un istante, sfiorano Dio: non sono all'altezza, sono un peccatore. Siamo sempre lì, inchiodati al nostro becero e rancido moralismo: lascia fare a Dio!

Pensiamo che Dio voglia farci superare un esame, che ponga delle condizioni. No, sbagliato: siamo noi a porre delle condizioni, non Dio. Mai.

Gesù sorride: è un problema tuo, Pietro, a me stai bene così.

Io sono venuto per i malati, non per i sani.

Anche a me succede così: più mi scontro con i miei limiti e le mie fatiche, più avanzo scuse nei confronti del Signore. La buona notizia del vangelo è che Dio non ha bisogno di bella gente, di primi della classe, di giganti della fede: ha bisogno di me.

Non avere paura, Simone, il Signore ti fa diventare pescatore di umanità. Sei chiamato a tirar fuori da te stesso e da chi incontrerai tutta l'umanità che li abita. Lascia le reti, quello che ti lega, le paure, i limiti, i giri di testa, lasciali, non rassettarli tutti i giorni, non aggiustarli, diventa libero per seguirmi.

Sogno una Chiesa che non ponga limiti, che dia fiducia ai peccatori, che tiri fuori, maestra in umanità, tutta l'umanità che abita nel cuore di ognuno con franchezza e misericordia. Pietro sarà in grande pescatore proprio perché autentico, proprio perché lascerà fare a Dio, dopo avere sperimentato il suo fallimento.

E noi? Ciascuno di noi deve pensare come vive la propria vocazione, nella famiglia, nel lavoro o nello studio, nella sofferenza, nelle varie situazioni in cui si trova.

 

«Duc in altum, prendi il largo…»

È un prendere il largo che è anche un andare più addentro alle cose, in profondità, lasciare la superficie per immergersi negli abissi dell'esistenza. Gesù è sceso fino agli "inferi", e lì ha ripescato l'umanità.

«Prendi il largo e getta le reti per la pesca…». Signore, ho provato tante volte, ma sono sempre tornato a mani vuote: ma se mi dai il coraggio di ritentare, dammi almeno un pesce, un piccolo pesce; Signore, almeno uno e la mia pesca sarà miracolosa; fallo adesso, Signore, perché tra un minuto potrebbe essere troppo tardi.

«Prendi il largo e getta le reti per la pesca...». Signore, solo ora mi accorgo che non c'è una promessa nelle tue parole, non ci prometti una pesca abbondante, non ci dici che avremo successo, non ci dici che ce la faremo, non ci dici, Signore, che ci riuscirò, solo ci dici di prendere il largo, di gettare la rete, ci dici di gettare l'amo, sempre, continuamente... Forse non abboccherà anche questa volta nemmeno un piccolo pesce, e forse non ce n'è bisogno che abbocchi, non importa, non è questo l'importante: perché capisco che il miracolo della pesca fruttuosa sta nella forza di continuare a gettare la rete, di ritentare ancora una volta, di non arrenderci.

Grazie, Signore, perché non sei un venditore di false promesse, non ci dici che tutto è facile, che tutto andrà bene, che finalmente abbiamo finito di faticare nella notte buia della nostra vita. No, ci chiedi di faticare ancora una volta, sempre ancora una volta e proprio in questo ritentare incontriamo la fecondità della tua Parola. Ci fidiamo di te, Signore, ci fidiamo della tua Parola.

«Prendi il largo e getta le reti per la pesca...». Signore, comprendo che l'iniziare a fidarmi, che il ritentare è una scelta personale, nessuno può farlo al posto mio, che una volta iniziato non sono più solo a gettare le reti per la pesca; mi ritrovo tra altri fratelli con i quali condivido la stessa fiducia nella tua Parola. E qui forse, Signore, comprendo il segreto del miracolo: non sono solo, ma assieme ad altri, in questa avventura.

Perché tutti possiamo vivere la vita come vocazione, la vocazione a continuare l'opera e la missione di Gesù, con la generosità del cuore.

Ho capito tutto questo, Signore: ho capito cosa tu vuoi esattamente da me, e ti dichiaro la mia disponibilità. «Ecco, manda me!». Amen.

 

 


 

VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

(14 FEBBRAIO 2010)

 

Vangelo: Lc 6,17.20-26

In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne.

Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio.

Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete.

Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo.

Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.

Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione.

Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame.

Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».

 

Le beatitudini

Pietro e Andrea hanno lasciato tutto per diventare pescatori di umanità, hanno lasciato ciò che li legava, le reti, invece di riassettarle come facciamo noi tutti i giorni. Hanno creduto che – sul serio – Dio chiede in prestito la barca della nostra vita per raccontare il Regno. Non è sufficiente la nostra fragilità, non ferma Dio il nostro limite: proprio di noi egli ha bisogno.

Pietro e Andrea hanno conosciuto altri come loro: pescatori del lago, uno zelota, un pubblicano. Gente diversa, particolare: nulla sarebbe mai riuscito a metterli insieme se non la curiosità nel seguire quel Nazareno pieno di Dio.

Poi, dopo qualche mese di vagabondaggio in Galilea, proprio lì, sulle sponde del lago, Gesù racconta a loro e a noi il segreto della felicità.

«Beati» dice il Signore. Cioè: "siete felici se", "avete il cuore colmo se", "sprizzate di gioia se": una vera rivelazione. Che Gesù sappia il benedetto segreto per essere contenti della vita? Che finalmente Dio si decida a sbottonarsi e a darci la soluzione dell'enigma? Che, infine, possiamo smettere di cercare inutilmente di fuggire il dolore come fanno le mosche chiuse in un barattolo?

Ma, subito, l'entusiasmo si smorza: beati i poveri, beati quelli che piangono, quelli che sono perseguitati e insultati.

Ma come? Gesù dichiara felice chi soffre? Chi è bastonato dalla vita? Gesù conferma l'opinione, comune anche a tanti cattolici, che la vita è solo dolore e forse – ma, chissà, speriamo, – un giorno riceveremo un premio? No, ovvio. Gesù non loda la condizione di fatica, dice che quella condizione può spalancare ad un'altra verità.

I perdenti, i fessi, quelli che scelgono di essere semplici, cioè poveri in spirito, quelli che scelgono di essere miti in un mondo di squali, quelli che non si arrendono all'ingiustizia cronica, quelli che giudicano tenendo conto del cuore di Dio e non della miseria degli uomini, quelli che fuggono la doppiezza, quelli che, pacificati, costruiscono la pace a costo di pagare di persona, quelli che, incontrato Dio, non mollano: ecco, sono questi che fanno esperienza di Dio.

Proprio perché il Dio di Gesù è mite, e pacificatore e misericordioso e paga di persona e sa piangere; proprio per questo, coloro che gli assomigliano ne fanno esperienza.

Follia, vero? Sì, è troppo anche per un folle come me.

Eppure Gesù l'ha detto.

Non cerchiamo la povertà o le lacrime o la miseria, ma poniamo la nostra fiducia in Dio; allora sperimenteremo la felicità che è riempita di emozione e la supera. La beatitudine è fare esperienza dell'Assoluto di Dio, del Dio di Gesù, e con lui condividere il sogno di una vita vera, ad ogni costo.

Diversamente dalla versione di Matteo, Luca sintetizza le beatitudini ed aggiunge – inattese – quattro durissime ammonizioni.

Inattese proprio perché le scrive Luca, lo scriba della mansuetudine di Cristo.

Inattese proprio perché provengono dalla penna di colui che sempre attenua i toni, stempera la durezza della sequela, ammorbidisce i tratti più aspri della predicazione di Gesù.

Se Matteo dice: "Beati i poveri...", Luca aggiunge: "Beati voi poveri...".

Luca ha di fronte a sé i poveri, i perseguitati. E sa, dalle informazioni che ha ricevuto da chi c'era, che Gesù, ad un certo punto, alza lo sguardo oltre l'orizzonte, oltre le colline di Samaria, verso Gerusalemme e ammonisce i ricchi, i sazi, i gaudenti.

Ma chi vive in prima linea lo sa, e apprezza.

Dio crede nella conversione di ogni uomo, certo. Ma sa anche quanto sia forte l'ostinazione e la chiusura. Per chi vive nel degrado e nell'illegalità, per chi, come ai tempi di Amos, calpesta i diritti del povero, il giudizio sarà senza misericordia, poiché egli stesso non ha avuto misericordia.

Beati. Noi lo sappiamo: è difficile, ma – come scrive Geremia, profeta inascoltato e perseguitato nella sua Gerusalemme – l'unica possibilità è quella di alzare lo sguardo, di non confidare solo nell'uomo.

La nostra speranza, ci ricorda Paolo, è posta nel Signore risorto, in qualcuno che è vivo e si rende presente attraverso il nostro sguardo, non in un progetto umano.

Beati noi, allora. Beati noi che non ci arrendiamo, perché questo è lo stile di Dio.

Accogliamo con fede le Sue parole, fratelli e sorelle. Assaporiamo la verità profonda che esse contengono: «Benedetto l'uomo che confida nel Signore... egli è come un albero piantato lungo l'acqua, non teme pericoli, non smette di produrre frutti». «Beato l'uomo che pone la speranza nel Signore...». «Rallegratevi, perché la vostra ricompensa è grande nei cieli».

Sento che parli proprio a me, Signore, e vuoi far suonare la sveglia al mio sonno spirituale.

Ho capito finalmente che se cerco la mia felicità nelle cose che consumo, è così che mi metto nei guai, sbaglio strada, e non arriverò mai alla felicità, quella vera: perché se – assorbito dalle cose che mi usano – non mi accorgo dei miei fratelli che sono poveri, affamati e tristi, io divento povero dentro e infelice...

Ho capito che devo farmi povero concretamente, che devo smettere di saziarmi di ogni bene materiale e di vivere di falsa allegria.

Ho capito che non devo metter al centro della mia attenzione soltanto le mie piccole povertà e le mie piccole lamentele. Sono ricco di beni, ma rischio di impoverirmi di fratelli..

Al contrario devo diventare ricco di fratelli e ricco di Dio... perché è questa la ricchezza che mi assicura gioia grande fin d’ora, e poi beatitudine vera, senza fine...

 

“O Dio che respingi i superbi e doni la tua grazia agli umili, ascolta il grido dei poveri e degli oppressi; spezza il giogo della violenza e dell'egoismo che ci rende estranei gli uni agli altri, e fa' che accogliendoci come fratelli diventiamo segno dell'umanità rinnovata nel tuo amore”. Amen.

 

 


 

I DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C

(21 FEBBRAIO 2010)

 

Vangelo: Lc 4,1-13

In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame.

Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”».

Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo».

Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».

Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”».

Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».

Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.

 

 

Le tentazioni

Eccoci, dunque. Siamo in Quaresima: quaranta giorni, poco più del 10% del tempo che vivremo in un anno;

quaranta giorni, come quaranta furono gli anni che servirono ad un popolo di schiavi per scoprirsi figli. E quaranta furono i giorni che il Nazareno volle vivere prima di iniziare la sua missione e decidere quale Messia diventare.

Solidale con l'uomo Egli vuole ripercorrere il sentiero di Israele: sperimenta la fame, si lascia avvolgere dal silenzio stordente del deserto, si lascia invadere dalla luce accecante del sole che riflette i colori delle scarne rocce del deserto di Giuda.

Gesù vuole scegliere come annunciare la Parola, come svelare il mistero di Dio. La conoscenza che Gesù ha di Dio è assoluta: egli è il Verbo di Dio. Ma, in quanto uomo, egli vuole poter scegliere, elabora un piano pastorale, cerca nel silenzio una risposta.

Dio, fattosi uomo, ora conosce l'odore della resina e la stanchezza di una giornata di lavoro. Ora egli sa. Come sa che l'uomo è fragile, ondivago, buffone, scostante: come aiutarlo a superare la brutta immagine di Dio che si è fatto?

Ecco: Gesù entra nel silenzio del deserto per decidere quale Messia essere.

Ha davanti a sé una strada maestra, consolidata, preparata dai profeti, lievitata nel cuore di un popolo servo e oppresso da secoli da potenze straniere: il Messia vittorioso. Un Messia muscoloso, politico, deciso, condottiero. La gente (e ti pareva!) si aspetta qualcuno che magicamente risolva i problemi, che punisca i malvagi (sempre gli altri, ovvio) e che ristabilisca un bel governo come quello del re Davide, magari esentasse.

Il demonio arriva. Più suadente e affascinante di tutte le rappresentazioni grottesche che ne abbiamo fatto. La sua proposta è semplice, ragionevole, scontata. Vuoi fare il Messia? Magnifico! Non esagerare, però: riguardati, affidati a un personal trainer, cura l'immagine, se non fai lo splendido nessuno ti noterà.

Vuoi fare il Messia? Geniale! Ti toccherà contattare politici e sacerdoti, ragionare con loro, qualche compromesso sarà necessario.

Vuoi fare il Messia? Notevole! Qualche bel miracolo, Gesù, qualche statua della Madonna che lacrima sangue, qualche segno prodigioso e vedrai che le folle si strapperanno i capelli per te!

Ha ragione, il demonio. Cita pure la Parola di Dio. Non basta conoscere la Bibbia per fare la volontà di Dio.

Gesù replica: no, non farò così.

La vita è essenza, non immagine, foss'anche immagine religiosa. Andrò al cuore delle persone, sarà il mio amore, attinto dal Padre, a scavare i solchi nelle anime.

Il potere è ambiguo: se da, pretende. Io voglio essere libero di parlare del vero volto di Dio.

Il miracolo è pericoloso: voglio che la gente ami Dio per ciò che Dio è, non per ciò che dà.

Ecco, Dio ha deciso.

In queste parole l'essenza del suo ministero. E del suo fallimento. Temporaneo.

Gesù sarà un Messia di basso profilo, Gesù, non userà nessun altro strumento se non l'amore per convincere, per annunciare, per convertire. È un rischio enorme, il suo.

Capirà, il popolo? Si accontenterà? Spalancherà il proprio cuore allo stupore di incontrare un Dio dimesso e fragile, un Dio vissuto e adulto?

La sfida è lanciata, il demonio lo lascia. Tornerà al momento giusto, nel Getsemani, per dire a Gesù che è stato un illuso, che si è sbagliato, per convincerlo ad abbandonare l'inutile gesto di morire per amore.

E tu amico, che uomo vuoi essere? Che donna? Che marito, figlio, collega, prete, suora?

Chi vuoi essere? Vuoi finalmente entrare anche tu nel deserto del tuo io, per chiederti se veramente sei chi avresti voluto diventare e, soprattutto, se assomigli a quell'immagine magnifica che Dio porta nel cuore?

Certo, davanti a te hai molte scelte, immensi consigli, suadenti tentazioni, che ti raggiungono ininterrottamente: “appari, cambia, sgomita, imponiti, urla, combatti...”

Ma tu, dentro di te, cosa vuoi veramente essere?

Meditiamo e agiamo di conseguenza, fratelli e sorelle!

Non trastulliamoci, non perdiamo tempo, caliamo giù le maschere, una buona volta!

Non tanto le maschere del Carnevale, ovvio, ma quelle tante maschere che indossiamo ogni mattina prima di uscire di casa per affrontare il nuovo giorno.

Giù dunque quelle maschere: mercoledì la Chiesa ci ha proposto una giornata di digiuno e un gesto inquietante e profetico: prima di iniziare la giornata lavorativa, o alla fine di essa, un prete ci ha cosparso il capo di cenere, ricordandoci che siamo polvere, una nullità (ce ne ricordassimo quando ci sbraniamo e digrigniamo i denti per ottenere ciò che ci fa comodo!).

Giù le maschere: la Quaresima, tempo di Dio, tempo dell’autenticità, tempo di fermarci per guardarci dentro, per correggere il tiro, tempo per rimediare, è già cominciata.

Giù le maschere: non è forse bello poter avere quaranta giorni davanti a noi per guardarci dentro? Quaranta giorni per vivere le Beatitudini e riflettere sull'esigenza del Vangelo, sul nostro essere discepoli oggi.

La chiesa, guida premurosa, da duemila anni, in questo periodo, ci propone tre strade: la preghiera, il digiuno, l'elemosina.

La preghiera: cinque minuti di silenzio al giorno con il Vangelo della domenica davanti agli occhi, cinque minuti per iniziare la giornata entrando nel grande mare della pace interiore che viene da Dio.

Il digiuno: rinunciare a qualcosa (che so? La TV? Una sigaretta? Un dolce? Una telefonata?) per rimettere ordine nella nostra volontà (chi guida la mia vita? Le mie passioni?), per “dedicare” del tempo allo spirito: rinuncia a un'ora di TV per giocare con tuo figlio, spegni una sigaretta e fatti un giro nel parco, tieniti leggero e pensa alla tua salute.

Infine l'elemosina: rinuncia a qualcosa per un gesto di solidarietà. E soprattutto: non barricarti dietro un paravento: "chissà dove finiranno quei soldi? Tanto è tutto inutile!". Se avessimo il coraggio di informarci!

Se, almeno un poco, uscissimo dalle nostre ottuse convinzioni, dal nostro limitato orizzonte, per guardare in faccia la realtà: una gran parte dell’umanità che cammina nella miseria e nella fatica, fratelli e sorelle cristiani che aspettano un segno di aiuto. Un segno anche piccolo ma che può diventare sostegno, aiuto; un segno non come elemosina data, bontà nostra, frugando nel superfluo: ma come dignitoso gesto di amicizia.

Giù le maschere dunque, fratelli miei: perché la Quaresima è già qui e anche noi, singolarmente, siamo chiamati a seguire il Maestro Gesù nel deserto, per ritrovarlo e ritrovarci nella luce strepitosa della Pasqua.

Pensiamoci: guardiamo l'orologio: abbiamo quaranta giorni da ora per scoprire che il mondo che ci circonda è un “deserto” e che questo deserto lo possiamo, lo dobbiamo assolutamente attraversare.

Lo ha fatto Dio. Lo possiamo fare anche noi. Amen.

 

 


 

II DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C

(28 FEBBRAIO 2010)

 

Vangelo: Lc 9,28b-36

In quel tempo, Gesù, prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. E, mentre pregava, il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli non sapeva quel che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all'entrare in quella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo». Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

 

 

La trasfigurazione sul Tabor

Siamo entrati nel deserto della quaresima per arrivare fino a lì, su quella piccola collina di Galilea, arsa dal sole, disseminata di alberi frondosi e battuta dal vento del mare. Vogliamo riscoprire e scegliere che uomini essere, come Gesù ha scelto che Messia diventare, per potere salire, come gli apostoli, quel piccolo monte che ad ogni credente dice la bellezza di Dio.

Sì, perché di bellezza, si tratta.

Tabor evoca il momento in cui Gesù, grande Rabbì, carismatico profeta, svela la sua vera identità, supera il limite e si dona alla vista sconcertata e stupita degli apostoli. Tabor dice l'assoluta diversità di Dio, la sua immensa gloria, la sua indescrivibile bellezza.

La Trasfigurazione: momento in cui Gesù svela il suo mistero, momento in cui Gesù vuole accanto a sé i suoi amici per mostrare loro il suo vero volto; ed è luce, bagliore, gioia pura e accecante al punto che gli apostoli stessi faticano a descriverla...

Il Rabbì Gesù svela la gloria, la santità che ogni uomo cerca nel suo rapporto con Dio: non più grande uomo, ma svelamento di una realtà incredibile e inattesa.

Tabor segna, incide il cuore degli apostoli, ed il nostro.

La Trasfigurazione è la méta a cui siamo chiamati in questo cammino di Quaresima: è là che siamo diretti.

Il deserto che abbiamo iniziato a percorrere per ritrovare lucidità mentale e verità, i gesti (preghiera, digiuno, elemosina) che stiamo compiendo per rafforzare la nostra interiorità, arrivano lì, al Tabor.

Guai se non fosse così!

Troppi pensano al cristianesimo come alla religione della penitenza e della mortificazione! Troppi si avvicinano a Dio nella sofferenza e fermano il loro sguardo alla croce. No: non c'è salvezza nella croce se non dopo la Resurrezione.

Il cristianesimo è anzitutto la religione del Tabor che ci permette di salire sul Golgota: perché la sofferenza nella vita c'è, e lo sappiamo. Vorremmo ignorarla o toglierla.

Dio invece fa di più: la trasfigura, la feconda, la vivifica.

In questa seconda tappa del cammino ci viene ricordato semplicemente che siamo fatti per il Tabor, che lì arriveremo la notte di Pasqua. Gioiamo sin d'ora per ciò che vivremo, assaporiamo da ora la gioia che ci attende.

 

Ma noi, siamo già saliti sul Tabor, nella vostra esperienza di fede?

Sicuramente: perché anche a noi Dio permette - a volte - di assistere alla sua gloria. In che modo?

"Raptim", come diceva il grande Agostino. Fugacemente. Un momento di preghiera che ci ha coinvolto, una messa in cui siamo stati toccati dentro, una giornata in quota in mezzo alla neve con la bellezza della natura che diventa sinfonia e ci mozza il fiato. Attimi, barlumi, flash infinitesimali in cui sentiamo, percepiamo, l'Immenso che ci abita.

Momenti in cui ciò che proviamo diventa improvvisamente trascendente, indefinibile: un qualcosa di talmente grande da averne paura, talmente infinito da sentircene schiacciati, talmente immenso da restarne travolti.

È quella stessa paura che prende Pietro e compagni, è il terrore che sconvolge Abramo prima di incontrare il suo Dio. Il sentimento della bellezza di Dio, la percezione della sua maestà ci opprimono e nello stesso tempo ci esaltano. Pietro lo sa: "Domine, bonum est nos hic esse...; Signore, è bello per noi restare qui".

Finché non giungeremo a credere completamente, senza calcoli, senza distinguo, grazie alla divina trasfigurazione che ci avvolge, saremo incompleti, mancherà sempre un tassello alla nostra vita cristiana.

Ecco perché dobbiamo recuperare questo aspetto nella nostra vita: dobbiamo infatti ripartire dalla bellezza.

Guardiamoci intorno: da cosa siamo circondati? Le nostre periferie sono orrende, orrende le città, orribili le finte-vacanze che ci vengono proposte in mezzo a finti paesaggi immacolati. Orribile il linguaggio e le persone che ci raggiungono attraverso i media dal mondo della politica e dello spettacolo. Orribile la vita caotica e tesa che siamo costretti a vivere, sempre spronati alla concorrenza, alla lotta, alla sfida. Orribile il dolore che nasce quando l'amore esplode, quando il dolore che ci creiamo e alimentiamo, ci travolge.

Abbiamo pertanto urgente bisogno di bellezza, della bellezza di Dio che è verità e bene e bontà.

Non è forse questa la fragilità della nostra fede contemporanea?

Non è forse questa la ragione di tanta tiepidezza della nostra comunità?

Non abbiamo forse smarrito la bellezza nel raccontare la fede? Nel celebrare il Risorto?

Per l’uomo moderno è noioso credere. È giusto, doveroso, ma immensamente noioso.

Il Vangelo di oggi ci dice, al contrario, che credere può essere splendido.

Varrebbe la pena di recuperare il senso dello stupore e della bellezza, l'ascolto dell'interiorità che ci porta in alto, sul monte, a fissare lo sguardo su Cristo.

Facciamo allora delle nostre Eucaristie dei luoghi di bellezza: il silenzio, il canto, la fede, il luogo stesso in cui preghiamo, possono riportare un briciolo di bellezza nella nostra quotidianità.

Facciamo delle nostre vite delle profezie di bene e di armonia, pronti a donare, a sorridere, a perdonare con matura e sofferta consapevolezza.

Fratelli, non rimandiamo oltre: tiriamo fuori tutto il bello che c'è in noi.

E… un’altra cosa importante.

Gesù sul monte si mette a pregare: e mentre prega si trasforma, si illumina tutto, diventa splendente.

Che fenomeno strano! Difficile da capirsi, tanto che neppure gli apostoli arrivano a capirlo molto!

La potenza della preghiera! Una trasformazione paradisiaca, raggiungibile attraverso la preghiera. Capite l'importanza?

Certo per noi sarà difficile, sarà veramente problematico! Noi che, ahimè, sistematicamente trascuriamo la preghiera; noi, che non ne capiamo l'importanza. Noi che troppo spesso, stupidamente, mettiamo in dubbio la sua importanza: «a cosa serve la preghiera?» Sempre noi, che nel nostro delirio, continuiamo a sragionare: «Con tutto quello che ho da fare, con tutti i problemi concreti che devo affrontare, le scadenze, le urgenze, mettermi a pregare è davvero una perdita di tempo. Io so bene quanto sia prezioso il mio tempo: meglio un'ora di lavoro in più per pagare il mutuo e la retta del corso di musica di mio figlio, perché i soldi oggigiorno non bastano mai. Meglio un'ora di palestra o bicicletta per guadagnare un po' di salute e tenermi in forma. Meglio un'ora di lettura di un buon libro o di navigazione in internet per aumentare un po' le mie conoscenze e allargare i miei orizzonti. Meglio un'ora spesa per cercare quel negozio in cui praticano i prezzi più scontati, così posso risparmiare; altrimenti come si arriva a fine mese?» Meglio, meglio, meglio…

Qualunque altra cosa è migliore della preghiera! E poi non serve! «Non so neppure come si faccia a pregare, non ci riesco...; come faccio a capire che sto pregando?».

Quante scuse fratelli miei! Invece pregare è di una facilità disarmante. Non ci credete?

Fermatevi un attimo e pensate... Vi è mai capitato di sentire nel nostro intimo un particolare sollievo, di sentirvi più felici, più distesi?

Bene: quei momenti, quelle sensazioni tanto appaganti, sono la conseguenza del nostro abbandonarci nelle mani di Dio; un semplice e umile riconoscere che senza di Lui siamo nulla, che gli siamo grati per la sua costante presenza al nostra fianco…

Ecco, proprio questo è il senso della preghiera: constatazione, amore, riconoscenza, ringraziamento. E questo sarebbe difficile?

Certo abbiamo tante cose altrettanto importanti da fare: ma attenzione, perché senza preghiera la nostra vita diventa esanime, sbiadita, atona, senza entusiasmo; il nostro cuore si spegne; tutto improvvisamente ci appare più lontano, più difficile e insuperabile...

A questo punto, fratelli e sorelle, a cosa mai ci serve fare tutto, arrivare a tutto, avere tutto, se poi abbiamo il cuore spento, l’anima asfittica? A nulla; non serve a nulla!

È così: allora lottiamo, fratelli cari; lottiamo per quel Gesù che sogniamo! Lottiamo per il nostro Bene assoluto, lottiamo per la gioia, la vita: lottiamo con entusiasmo e determinazione. Lottiamo perché la Sua bellezza, il Suo amore, rivoluzionino senza sosta la nostra vita; comportiamoci da veri innamorati di questo bellissimo Dio che stiamo cercando.

E preghiamo. Preghiamo tanto, preghiamo sempre.

Vedrete che Dio, trasfigurato, renderà trasfigurati anche noi: basta avere il coraggio di lasciarlo fare. Amen.

 

 


 

III DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C

(7 MARZO 2010)

 

Vangelo: Lc 13,1-9

In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».

Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

 

Il fico infruttuoso

Quello che stiamo vivendo in questi giorni di quaresima è il tempo dell'essenzialità, il tempo per seguire Gesù e imitare il suo bisogno di silenzio e preghiera, di verità e di scelta.

Le tentazioni che colpiscono lui e noi, ci impediscono di leggere nelle pieghe della nostra storia l'intervento di Dio.

Ecco perché dobbiamo guardarci dentro, alla luce della Parola, per scoprire se siamo contenti di ciò che siamo diventati e se la nostra fede in Dio corrisponde a come Gesù ce l’ha insegnata. Ecco perché dobbiamo anche noi riscoprire la bellezza del volto di Dio, come Pietro e compagni sul Tabor; dobbiamo uscire dalle nostre mediocri visioni di fede, non possiamo addormentarci; ammiriamo, almeno per un po', il meraviglioso sorriso di Dio. Obiettivo della nostra fede in questo cammino di essenzialità è esattamente l'incontro con Dio, nient’altro. Siamo chiamati, a convertire il nostro cuore, a rivedere la nostra fede, a calibrare il nostro cammino.

Il primo passo da fare quindi è di convertirci dall'idea troppo spesso ricorrente di un Dio che ci è ostile, che ci è nemico, che è causa del nostro male: il male, se guardiamo bene, nessuno ce lo impone, ce lo cerchiamo da soli, grazie alla nostra libertà, alle nostre libere scelte: possibile? Si, fratelli: basti pensare a tutte quelle stupidaggini che abbiamo combinato in questi anni della nostra vita, a tutte quelle visioni distorte o parziali di Dio che ci siamo liberamente e volutamente costruite.

Ecco allora la quaresima: un tempo fatto apposta per la nostra conversione, un tempo espressamente finalizzato per abbandonare la brutta idea di Dio che ci siamo fatti, e poter abbracciare, finalmente, il vero volto del Dio di Gesù. Un Dio il cui volto è l'essenza della bontà, della misericordia, della tolleranza, dell'amore materno e paterno.

Eppure noi caparbiamente insistiamo: Dio è crudele! «Cosa ho fatto mai di male per meritarmi tutto questo! Che croce enorme mi ha mandato Dio!»: quante volte abbiamo espresso noi direttamente, o udito da chi ci circonda, simili lamentele, simili imprecazioni verso Dio. È vero: il dolore è purtroppo un tema molto delicato e straziante; e tutti entriamo in crisi quando ci colpisce.

Purtroppo noi vorremmo delle risposte immediate, (ma è proprio di risposte che abbiamo bisogno? No! Noi non vogliamo soffrire... per nessuna ragione) ma Dio tace e la Bibbia veterotestamentaria a questo proposito non ci aiuta poi molto.

La pagina del Vangelo di oggi, però, è straordinaria, limpida, e ci pone di fronte ad una riflessione importante.

Gesù, citando due noti fatti di cronaca dei suoi tempi, smonta decisamente una convinzione popolare molto diffusa allora (e oggi): l’uomo pio, il devoto medio, pensava infatti che le disgrazie (come appunto i morti per il crollo della torre di Siloe e l'uccisione dei cittadini per mano dei romani), fossero la giusta punizione per quelle persone che si erano macchiate di orribili crimini. Come pure le malattie, gli handicap, le disavventure economiche e ogni altro genere di avversità, erano letti come un intervento corrucciato di Dio che, dall'alto della sua somma giustizia, inflessibile, scatenava la sua ira divina.

E se un bambino nasceva malato? Orribile ma coerente era la risposta: i colpevoli erano i suoi genitori, i suoi parenti.

Oggi non siamo più così crudeli e diretti, anche se la sostanza non cambia: molte persone, infatti, nei momenti di dolore e di sofferenza, se la prendono con Dio e lo bestemmiano: perché Dio, secondo loro, non saprebbe fare il suo mestiere, sarebbe illogico, incoerente. Dice, dice, ma poi non guarda per nulla i nostri meriti personali, e ci tratta allo stesso modo dei peggiori delinquenti!

E invece, ciò che Gesù qui ci dice, è sorprendente, sconcertante: dobbiamo metterci in testa che ciò che succede è solo perché la vita ha una sua logica, una sua libertà; la causa del crollo della torre di Siloe non è da imputarsi a Dio ma al calcolo errato delle strutture, o al guadagno illecito dell'impresa che ha usato materiali scadenti; l'intervento crudele dei romani è causa della loro politica di espansione che usa la violenza come strumento di oppressione. Non esiste un intervento diretto e puntuale di Dio; le cose, la vita, gli avvenimenti, le catastrofi hanno tutte una loro autonomia, rispondono tutte a leggi naturali o umane.

Gesù chiarisce senza ombra di dubbio di chi è la responsabilità la male: gran parte del dolore che viviamo, infatti, ce lo siamo creato da noi. Siamo noi la causa principale: diretta o indiretta, dando una spiegazione contorta a quella che è la realtà del mondo; la croce o ce la danno gli altri o ce la diamo noi stessi. Questa è la verità.

Dio fa quel che può; ci suggerisce, ci parla, ci manda continui segnali, ma alla fine anche lui è costretto a fermarsi di fronte alla nostra ostinazione, alla nostra durezza di cuore.

Dio è limitato, quindi? Assolutamente no, ma la sua mano misericordiosa è costretta a fermarsi per rispettare la nostra libertà, nostro bene supremo. E ci lascia liberi, proprio perché vuole che noi siamo figli, non sudditi.

Noi che crediamo in lui, che ci professiamo suoi discepoli, dovremmo capirle queste cose; dovremmo capire e spiegare il significato di questi eventi disastrosi: dovremmo capire e far capire che sono avvertimenti che non vengono da Dio, ma dalla vita stessa: anzi dovremmo capire a far capire che nei vari terremoti, nei crolli, nei vari tsunami, nelle varie tragedie, o nei milioni di incidenti che ogni minuto succedono nel mondo, ciascuno di noi, suo malgrado, potrebbe essere coinvolto e vittima.

E qui s'innesta un’altra considerazione: il tempo che pensiamo di avere davanti a noi, è veramente fuggevole, tragicamente breve. Da qui la necessità di approfittare di questi giorni, di farne tesoro, di viverli come giorni di salvezza, di conversione: non aspettiamo oltre, fratelli miei, non perdiamo altro tempo prezioso.

Oggi il Signore passa e ci salva, oggi siamo chiamati a usare bene la nostra libertà, oggi siamo invitati a raggiungere il grande prodigio del nostro roveto ardente, l’incontro con un Dio che conosce perfettamente il nostro nome, la nostra condizione personale.

Di più: è in questo incontro che avremo modo di conoscere meglio, come già Mosè, la sollecitudine di un Dio che si racconta, che dice il suo nome, che si svela a noi e, come profondo conoscitore delle nostre sofferenze, si dimostra sollecito guaritore.

Dobbiamo tranquillizzarci: se anche la nostra vita attraversa momenti di fatica, di dolore, di sofferenza, Dio non è mai lontano da noi: egli interviene sempre, o direttamente o attraverso qualcuno che agisce in nome suo.

Dio non è indifferente alle tragedie del mondo, dell'umanità: egli corre in aiuto e chiede a noi, proprio a noi che abbiamo deciso di seguirlo, di essere le Sue mani, il Suo cuore, i Suoi occhi, per renderLo attivo, presente, al fianco di chi soffre.

Ecco perché quando chiediamo a Dio di liberaci dal dolore, il Signore a sua volta ci invita a non fermarci a noi stessi, a non crogiolarci nel nostro dolore, a non renderci passivi e insensibili, ma di diventare noi stessi, per i nostri fratelli che soffrono come e forse più di noi, il volto solidale e sorridente di Dio. Da convinti seguaci di Cristo, dobbiamo farci prossimi là dove c'è dolore e ingiustizia. Dobbiamo essere noi il sorriso di Dio, il balsamo che Dio dona all'umanità per superare ogni dolore e crescere in una umanità più vera, basata sulla giustizia e sul perdono.

Di questo progetto noi dobbiamo essere convinti testimoni. È questo il “frutto” che Dio vuol cogliere da noi, dal nostro albero: non rispondiamo a questa suo misericordioso e paziente invito, continuando a presentargli soltanto rigogliose ma infruttuose apparenze.

È questo, fratelli, l’insegnamento che dobbiamo trarre – in estrema sintesi – dalla Parola di oggi: è questo insegnamento che dobbiamo fare nostro e tradurlo in pratica: la vita che viviamo non ci appartiene, è un'opportunità che Dio ci ha concesso per scoprire chi sia Lui  e chi siamo noi. Non esiste una vita più o meno semplice, più o meno bella; ogni vita, calata nelle singole realtà, è un dono, un breve soffio, una limitata opportunità che tutti, indistintamente, siamo chiamati a vivere con dignità, in una intensa e gioiosa ricerca del vero volto di Dio.

Perché è a questo volto santo del Dio-Amore - amore gratuito, fedele, misericordioso – che noi siamo chiamati a prestare i nostri lineamenti. Altrimenti finiamo per velare il volto di questo Dio fedele e affidabile, per deformare il volto del suo Amore gratuito: e lo facciamo col non fidarci di lui, col mettere, sopra tutti e tutto, i nostri interessi meschini e il nostro effimero successo. Nascondiamo il volto del Dio misericordioso dietro una maschera repellente quando, con il pretesto del “perdonare si deve ma dimenticare non si può”, dimentichiamo il bene ricevuto e coltiviamo rancore e rabbia per il male subito.

Guai a noi se gli altri ci dovessero dire: «Dov'è il tuo Dio? Se tu che ti dichiari suo discepolo non ce lo fai vedere vivo in te, come potremmo noi crederti? Non ti crediamo e non ti crederemo mai!».

Ecco dunque perché chi in questa vita ha ottenuto di più, di più dovrà rispondere; maggiore dovrà essere la sua conversione, maggiori dovranno essere i suoi frutti. E se, come succede, ci capita di continuare a vendere molto spesso del fumo, non abbattiamoci: Gesù oggi ci svela un Dio paziente, un Dio che concede ancora una volta fiducia, un Dio che per l'ennesima volta insiste ancora perché questo nostro albero vanesio produca finalmente almeno un frutto.

Ecco, fratelli e sorelle: è questo il nostro lavoro quaresimale, è questo il nostro fermo proposito di conversione; dobbiamo cambiare atteggiamento, dobbiamo ri-orientare la nostra vita, dobbiamo cambiare decisamente mentalità; sì, è questo il piccolo frutto che Gesù si aspetta da noi. Non deludiamolo ancora una volta.

Al lavoro, dunque. E il Signore e la sua dolcissima Madre ci aiutino a mantenere questi nostri propositi. Amen.

 

 


 

IV DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C

(14 MARZO 2010)

 

Vangelo: Lc 15,1-3.11-32

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».

Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

 

Il padre misericordioso

È solo nel deserto della Quaresima che potremo accogliere l’assoluta novità del vangelo di oggi, la novità del volto di un Dio, così come ci viene rivelato da Gesù: un Dio premuroso, un Dio  Padre affettuoso, un Dio che ci ama e ci rispetta.

Quella del Vangelo di oggi è una pagina veramente sublime: una pagina struggente e inquietante che dobbiamo meditare nel profondo del nostro cuore, nella solitudine e nel silenzio, nel pieno deserto della nostra conversione; perché solo se spogliati (e tanto) dai nostri pregiudizi e moralismi, riusciremo a comprenderne il messaggio; solo con il cuore aperto e puro riusciremo ad assaporare a pieni polmoni la vera portata, il significato pieno di quell’amore che Dio nostro Padre nutre per noi, per ciascuno di noi: un amore che, solo a volerlo immaginare, ci lascia senza respiro, ci risucchia in una spirale di sensazioni indescrivibili, vertiginose.

Luca costruisce tutto il suo vangelo intorno a tre parabole che hanno appunto come tema l’amore misericordioso di Dio. Egli concentra in questi tre capolavori la sintesi del suo annuncio, la logica stringente della vita.

Egli tesse questa sua tela raffinata partendo dalle due parabole, quella della pecora perduta e della moneta smarrita, per giungere, lui soltanto tra gli evangelisti, a ricamare questa terza, quella di oggi, erroneamente chiamata del "figliol prodigo"; un testo, ripeto, stupefacente e soprattutto inquietante: poiché anche se il “figlio prodigo” è il personaggio principale nella trama del racconto, il vero protagonista, chi regge e domina la scena qui è il padre; un padre quasi impazzito prima dal dolore dell’abbandono e poi dalla gioia del ritrovamento; un amore irrazionale il suo, istintivo, immediato, totale: un amore che meriterebbe il titolo stesso del racconto: "parabola del padre innamorato e misericordioso".

La ricordate questa parabola? Sì, quella imparata fin da piccini nei noiosi anni del catechismo, quella del figlio scapestrato che sperpera tutti i soldi dell'eredità e che poi torna, pentito, con la coda tra le gambe e si converte... sì, l’avete presente, no? Quella con cui, da adulti, ci siamo più frequentemente misurati nelle nostre “confessioni” di figli ingrati e incostanti, visto che sistematicamente ci ritroviamo a mani vuote, sempre al punto di partenza…  ricordate? Bene, ci siamo capiti.

Dunque: i due figli (toh! come mai il secondo ce lo scordiamo sempre? Non sarà che ci assomiglia troppo?), i coprotagonisti della parabola, fanno qui una figura veramente meschina, dimostrano di non aver capito assolutamente nulla del loro Padre, in altre parole dimostrano di essersi fatti di Dio una pessima idea. Entrambi.

Il primo figlio, il più piccolo, scapestrato, pensa che Dio sia un concorrente, un avversario: "lui presente, io non posso realizzarmi: Dio è un giudice insensibile, un preside severo, uno che esige soltanto e non aiuta. Che faccio? gli chiedo quello che è mio, quello che Lui mi deve (e da quando un padre "deve" l'eredità?), quello che mi spetta": ahi, un comportamento gravissimo questo, poiché chiedere in anticipo l'eredità al padre, esigerla, nella mentalità semitica equivaleva ad augurargli a brutto muso la morte.

Improponibile, vero? Eppure con quante situazioni simili dobbiamo fare i conti anche noi oggi: un Dio “frustrazione” dell'uomo, “castrazione” della libertà, un Dio a cui siamo sempre costretti a rendere conto di tutto: ci lasciasse un po' in pace! ecco l’immagine di Dio che in troppi (anche cristiani!) portiamo nel nostro cuore intristito! E, peggio, come ne usciamo? Semplice: facciamoci Dio di noi stessi; basta con regole, costrizioni, sacrifici: convinciamoci che la vita è da sballo, che va goduta al limite. Carpe diem, divertiamoci. Bello, vero, giusto. Un dato di fatto. Non importa se sotto sotto non ne siamo completamente convinti. Solo idee, possibilità: invece la gaia realtà del piacere è immediata, ci circonda, ci sommerge, che vogliamo di più?

Pupazzo assurdo il figlio e pupazzi anche tutti noi che lo imitiamo! Irrazionali.

Leggiamo infatti il resto: il figlio se ne va e conosce finalmente la vita “libera”: la vita bella, quella piena di donne, di divertimenti, di eccessi, di amici crapuloni par suo; si diverte, sperpera tutto il patrimonio. In pochi mesi ha già conosciuto tutto, bruciato tutto.

Ma poi la vita, quella vera, presenta il conto, la verità viene a galla e il figlio smarrisce nel fango dei maiali il suo delirio di onnipotenza. Si ritrova a pascolare i porci, animali impuri per eccellenza. E patisce la fame.

E pensa, riflette, si arrovella. Pian piano i morsi della fame si confondono con i morsi della coscienza.

Che deve fare? Si pente? Nossignori! Leggete bene tra le righe, quante volte è successo anche a noi! È la fame che ci fa tornare, non il rimorso; lo “stomaco” ci guida, non il cuore. E, astutamente, ci prepariamo la scusa: "Sai, hai ragione, che stupido, non merito...".

No, fratelli, un figlio come questo continua a non capire nulla del Padre. È un figlio che non è per nulla pentito, un figlio che cerca, nonostante tutto, il proprio tornaconto: è affamato, al limite dell'abbrutimento, ma insiste ancora a pensare che il padre sia un tontolone manipolabile. E va... mette in scena la sua commedia: ma il Padre, pur sapendolo, si butta tutto alle spalle, non gli interessa nulla: il figlio, "suo" figlio è qui! Il resto non conta.

A questo punto entra in scena l'altro figlio, il maggiore; torna dal lavoro stanco, come tutti i sacrosanti giorni, e s’infuria non poco per la festa che il padre sta facendo in onore del fratello disgraziato; un fratello che si riaffaccia dopo aver sperperato la metà del patrimonio paterno e che forse pensa di mettere le mani anche sull'altra metà. Come dargli torto?

Il suo cuore è piccolo, non capisce, ma pretende giustizia immediata: perché sì, ammettiamolo, il Padre si comporta ingiustamente nei suoi confronti. Mettiamoci nei suoi panni: lui lavora da anni e non ha mai osato chiedere nulla. Ha sempre rigato dritto, non ha mai sgarrato una sola volta, non si è mai preso un giorno, che dico? un’ora di libertà con i suoi amici. Neppure un minuscolo capretto da arrostire e mangiare con i suoi coetanei! Nulla di nulla. Sempre a testa bassa, chino sul lavoro.

Ma, fratelli carissimi, Lui, come chissà quanti di noi, si è fatto di Dio un’idea fasulla: e da qui nasce la sua stizza; egli ha sempre pensato che Dio fosse soltanto uno da tenersi buono, uno per il quale si deve faticare, uno a cui bisogna obbedire: è vero che poi alla fine, questa "fedeltà" ci consentirà di mettere mano alla nostra eredità, ci sarà finalmente pagato quello ci spetta; è questo che conta. Non è necessario "capirlo", entrare in comunione con lui, "amarlo", questo Padre; l'unica cosa che conta è "fare" quello che lui vuole: non importa come, ma "fare": "faccio quello che lui esige, quello che mi ha ordinato, perché così facendo maturo i miei diritti; sono ligio ai suoi ordini perché poi dovrà riconoscermi la fatica che ho sopportato per lui; tutte le messe, i rosari, che nella vita mi sono sciroppato per lui, avranno pure un significato, no?"

Ma sicuro! e così noi pensiamo di essere delle persone per bene, mortificate; apparteniamo a gruppi di avanzata spiritualità, ci sono riconosciuti carismi speciali, siamo persone serie, senza grilli per la testa, ci diamo sempre da fare nelle nostre comunità; in una parola siamo i bravi figli che tutti vorrebbero avere, siamo bravi cristiani, bravi cattolici.

Perché allora il Padre si comporta in questo modo? Allora come oggi?

Bene, fermiamoci qui. Non ci sono bei finali nella parabola: stop!

Luca non dice se il figlio minore apprezzò il gesto del Padre e, finalmente, cambiò idea e si convertì sul serio.

Né dice se il fratello maggiore, capito finalmente il comportamento del padre, si sia intenerito, e sia entrato a far festa.

No: la parabola finisce aperta, senza soluzioni scontate, senza facili moralismi e finali da melodramma.

Un fatto però ci deve far pensare: abbiamo qui una situazione che si adatta molto bene alla nostra vita: può succedere infatti che anche noi stiamo col Padre senza vederlo, lavoriamo con lui senza gioirne, lasciamo che la nostra fede diventi un semplice ossequio rispettoso ma arido, senza che il nostro cuore riesca mai ad esplodere di gioia.

È triste ma è la realtà: a volte noi ci consideriamo di diritto i figli prediletti di Dio, perché siamo convinti di meritarlo e di essere nel giusto; perché non facciamo mai nulla di male; perché non facciamo grossi peccati; perché, tranne qualche volta, siamo sempre puntuali (si fa per dire!) alla Messa domenicale, e spesso partecipiamo anche ad altre attività della parrocchia.

Ci consideriamo dunque figli di Dio "speciali", non come gli altri: e se anche questo nostro essere "buoni cristiani" solo esteriormente, solo per farci vedere, ci pesa come un macigno sulle nostre spalle, tuttavia tiriamo avanti, facendoci male; perché è un dovere, un ruolo imposto, che dobbiamo in ogni caso portare avanti. E siamo tristi, incapaci di far festa. Incapaci di rallegrarci col Padre. Incapaci di abbracciare il fratello che ritorna. Ci consideriamo figli, ma abbiamo ancora un animo da servi; un animo gretto, astioso, limitato: anche se il vangelo ci ripete insistentemente che le cose non stanno così, che Dio ci ama, ci considera figli adulti, razionali, che proprio per questo affida nelle nostre mani tutte le decisioni; un Dio che non si intromette mai nelle nostre scelte.

Ma noi siamo sordi. Come i fratelli della parabola.

Ma ora smettiamola di guardare a questi due figli tanto idioti e così tanto simili a noi! Piccoli e meschini, come noi.

Guardiamo al Padre, per favore. E che fa il Padre?

Io vedo un Padre che lascia andare il figlio anche se sa che si farà del male (voi l'avreste lasciato andare?). Vedo un Padre che scruta l'orizzonte ogni giorno. Vedo un Padre che non rinfaccia né chiede ragione dei soldi spesi (altro che "te l'avevo detto io!"), che non accusa, che non inveisce, ma che al contrario abbraccia, smorza le scuse (e non le vuole), restituisce dignità, fa festa.

Vedo un Padre ingiusto, esagerato, che ama un figlio che gli ha augurato la morte ("dammi l'eredità!") in un delirio di onnipotenza ("mi spetta!"), un Padre che sa che questo figlio ancora non è guarito dentro, ma pazienta e fa festa.

Vedo un Padre che esce a pregare (sic!) lo stizzito fratello maggiore, un padre che tenta di giustificarsi davanti a lui, di spiegare le sue buone ragioni.

Ecco: vedo questo Padre che accetta la libertà dei figli, che pazienta con loro, che insegna, che stimola.

Lo vedo e impallidisco: Dio dunque è così? Fino a questo punto? Così tanto?

Sì, fratelli e sorelle. Dio è questo e non altro. Dio è così e non diversamente. Questo è il Dio in cui devo finalmente credere! Gesù accetta di morire pur di affermare l’autenticità dell'amore di questo Padre, è disposto a farsi crocifiggere piuttosto che rinnegare questa stupenda rivelazione.

È Dio il prodigo, lo scialacquone, lo sciupone, non il figlio.

Perché di esagerato, di eccessivo, in questa storia, c'è solo Dio con il suo infinito amore.

Tutti, care sorelle e fratelli, tutti abbiamo bisogno di un padre così: tutti abbiamo bisogno di una casa come la sua, di una famiglia come questa: una casa in cui, ogni volta che ci allontaniamo, non solo siamo riaccolti con entusiasmo, ma soprattutto abbracciati, coccolati, baciati con gioia e amore vero: sempre, a prescindere da come ci siamo ridotti, a prescindere da quello che abbiamo combinato!

Allora, che dire? Grazie di tutto questo, Padre buono. Grazie: ora tocca a noi tirare le nostre personali conclusioni e finalmente capire e agire di conseguenza.

Si, capire prima di tutto, e capire bene: perché ancora oggi nelle nostre famiglie, in tutte le famiglie, anche in quelle religiose, nella Chiesa stessa, ci troviamo in questo vicolo cieco: la carità fraterna, l’osservanza e la benevolenza, sono condite troppo spesso con le ipocrisie del momento; esprimiamo grandi ossequi e saluti al Padre, ma poi, nel momento delle difficoltà, dei problemi, delle croci, nel momento in cui sarebbe più necessario essere uniti, eccoci invece disgregati e disgreganti, con motivazioni meschine del tipo “a me non è stato dato quel capretto che mi spettava di diritto”, oppure “non posso concepire una festa in onore di quel mio fratello disonesto, che io conosco bene e che, potendolo, piglierei volentieri a calci”…

Domandiamoci allora seriamente: il mio essere in famiglia, in comunità, in comunione con i miei fratelli, si fonda sull’evitare o sull’apprezzare? Si fonda su ciò che piace a me o su ciò che vale per tutta la comunità? A che cosa tengo di più in/per questa famiglia? Chi considero prezioso per me? Il vitello? Gli amici? Il disporre delle ricchezze? Il tenere ben separata dagli altri l'eredità che mi spetta? Il non far entrare nessuno in questa comunità che non sia di mio gradimento? Il non lasciare che nessuno esca senza il mio benestare? Che si accettino sempre e solo le mie condizioni?

Ma scusate: in tal caso il Padre dove lo mettiamo? Dov’è andato a finire il Padre comune, il Dio misericordioso?

Dovremmo chiedercelo nei momenti critici della convivenza, nei momenti drammatici della prova, quando tutti e tutto hanno valore, tranne proprio Lui, il Padre.

Non è forse la mancanza di ogni riferimento a Lui che fa perdere quiete e serenità alle nostre comunità, alle nostre famiglie? Non è forse Lui l’unico valore, l’unica guida, l’unico movente che può dare senso e valore al nostro vivere?

Il banchetto di festa organizzato dal Padre per il figlio ritornato aspetta anche noi: soprattutto noi, figli perditempo che stiamo ancora meditando in compagnia dei porci sulla nostra esistenza vuota: facciamo in fretta, raggiungiamo la casa del Padre, buttiamoci ai suoi piedi, imploriamo pentiti il suo perdono, accettiamo il suo amore, la sua gioia, tuffiamoci nella vita meravigliosa che Lui ci offre di vivere nella sua casa: una vita-premio che non ci spetta di diritto, ma che dobbiamo umilmente meritare, costruire, centrare, revisionare e ricompattare ogni giorno.

In questo cammino di Quaresima apriamo dunque il nostro cuore a Dio; il Suo Spirito illumini la nostra mente per recuperare il senso della nostra fragilità e del nostro peccato e credere che Lui è sempre pronto ad accoglierci a braccia aperte, a rimettere i nostri peccati. Rilanciamo il nostro proposito generoso di voler cercare e incontrare Dio in noi, attorno a noi e in tutte le cose; impegniamoci a conoscere la sua volontà, per metterla in pratica quali suoi discepoli convertiti, purificati, innamorati.

Perché per perdonare basta Dio (Dio è amore!). Ma per riconciliarsi bisogna essere in due.

Il Padre non può gettare le braccia al collo del figlio prodigo se questi non torna liberamente da lui.

Affrettiamoci allora, fratelli e sorelle, affrettiamoci perché Lui ci aspetta con ansia: aspetta che ci decidiamo ad andare da Lui.

Sapete perché? Perché Lui non può aspettare oltre per dimostrarci tutto il suo amore, non può stare un minuto di più senza amarci. Assolutamente. Amen.

 

 


 

V DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C

(21 MARZO 2010)

 

Vangelo: Lc 15,1-3.11-32

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».

Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

 

Non per condannare, ma per salvare

Dio non ci punisce; non abbiamo fatto nulla di male perché il Signore ci mandi un lutto o una malattia.

Spesso l'origine del dolore siamo noi, la nostra fragilità, le nostre scelte sbagliate.

Dio non è un concorrente alla nostra felicità, non ce l'ha con noi, non dobbiamo allontanarci da lui per realizzarci. Dio non è un padre/padrone da tenere buono con mille devozioni e mille preghiere.

Dio è un padre che ci aspetta, che ci rispetta, che ci lascia fare i percorsi e le esperienze della vita sperando di non perderci. Dio è un padre buono che da del pane al figlio che gliene chiede, che fa piovere sui giusti e sui malvagi.

Ci basta per convertirci? Non ancora? Ascoltiamo questa parabola, allora.

Una donna colta in flagrante adulterio (ah già, scusate, e l'uomo che era con lei? Mistero del maschilismo religioso!) portata davanti a Gesù per essere giudicata. Una trappola dei farisei (i benpensanti?) ben congegnata, in fondo: Gesù è un lassista? Oserà contestare Mosè? Dove andremo a finire! Senza regole come può esserci religione! E se la giudica, se la lascia lapidare che ne è dell'immagine del Padre che scruta l'orizzonte aspettando il figlio? Non c'è che dire: trappola splendida, pronta a scattare, a ricondurre a normalità (la nostra) l'eccesso (di Dio).

Piovono pietre su questa donna. Grosse come macigni. Non ha un nome, né un volto: è una peccatrice, un’adultera. Non ha dignità, non ha attenuanti né ragioni: è una peccatrice, punto. Va punita; ha trasgredito la legge. Piovono pietre: come i nostri giudizi taglienti, le nostre parole affilate come lame: noi, che siamo sempre indulgenti a giustificare noi stessi, siamo altrettanto impietosi nel giudicare i comportamenti degli altri: eppure sappiamo bene quanto ai nostri giorni le parole del perbenismo facciano male, feriscano ed anche uccidano. Giudizi, silenzi, smorfie, tutti a dimostrare che c'è qualcosa di strano nell'altro; che non è come sembra, che deve nascondere qualcosa, che non c’è da fidarsi: in una parola non è come noi, noi che, in ogni caso, siamo sicuramente migliori. L'altro è un avversario, è diverso, non rientra nello schema che ci siamo costruito. Diverso per razza, per storia, per sensibilità politica. Alzo i toni, urlo, critico, magari finisco anche sui giornali. Ne ho motivo: si, perché l'altro è diverso: una “diversità” che fa muro, che divide le generazioni, i popoli, i pensieri...

Forza Gesù, su, dì la tua: questa donna ha sbagliato, è chiaro, è evidente, bisogna fare qualcosa. E Dio tace.

Tace perché conosce; tace e scrive in terra (cosa? “I peccati dei presenti”, annota san Girolamo!); Gesù tace sconfortato dalla durezza del cuore dell'uomo.

In che cosa ha sbagliato Dio? Davvero la libertà concessa all'uomo può ridursi a questo? Un Dio libero e vero, un Dio tenero e adulto che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, vede un’umanità caduta così in basso, ridotta ad una chiassosa classe di adolescenti che si accusano l'un l'altro!

Che tristezza nel cuore di Dio! Che sopportazione! E continua a scrivere, e riflette. Che dire? Come portare questa gente (e noi) su un altro piano? Come portarli a capire il modo di vedere di Dio? Come traghettarli nell’ottica di Dio, luminosa e piena di amore misericordioso?

Gesù riflette. E fa ciò che loro non vogliono fare, compie ciò che ogni legge, ogni giudizio (anche religioso) deve fare: chinarsi, cioè piegarsi nell'umiltà, e riflettere.

La legge scritta nella pietra, con le parole stesse di Dio incise a fuoco e consegnata a Mosè, è stata tradita, svilita, asservita a costumi e tradizioni solo umane, piccine e meschine.

“Sì, è vero: questa donna ha tradito il marito. Ma voi, popolo di Israele, voi avete tradito lo spirito autentico della Legge, voi avete tradito il vostro Dio!”. E Gesù, il figlio di Dio, li richiama all'essenziale, riscrive sulla pietra quella legge che gli uomini hanno stravolto, adattandola al loro egoismo. Tutti tacciono, ora.

“Sì, è peccatrice, ha sbagliato. E allora? Chi non sbaglia? Chi è senza colpa?”

Gesù non giustifica, né condanna, invita ad alzare lo sguardo, ad andare oltre, a guardare col cuore la fragilità dell'altro e scoprirvi – riflessa – la propria.

No, Dio non ci giudica. È la vita che ci giudica, sono gli altri che ci giudicano: la società, il datore di lavoro, gli amici, noi stessi. Tutti ci giudicano, Dio no. Dio ama, e basta.

E Gesù, la Parola, continua nel silenzio la sua lezione: “Ma si, avete ragione: fate bene ad ucciderla, occorre essere inflessibili per salvare la Legge. Nessuno di voi sbaglia, tutti siete migliori, a nessuno di voi capiterà di fare lo stesso sbaglio. Bravi. Però statemi bene a sentire: a lanciare la prima pietra deve essere colui che non ha mai sbagliato nella sua vita, neppure una volta!”

Ovviamente tutti tacciono in attesa del suo giudizio: ma Gesù continua a scrivere la Legge: non più quella di una volta, ma la sua legge, la legge nuova, quella della carità, del perdono, dell’amore; la legge che si incide non nella pietra ma nei cuori. Già, perché il Rabbì ha ragione: se noi continuiamo a ragionare sempre col codice in mano, escludendo a priori il cuore e lo spirito della legge, ignorando volutamente qualunque ragione, attenuante o assolutoria che sia, prescindendo da qualunque contesto, chi mai potrà salvarsi? Se è il rancore, la vendetta, l’invidia, che dominano le nostre accuse vicendevoli, chi mai potrà sopravvivere?

I presenti se ne vanno tutti, ad uno ad uno. Le pietre restano in terra.

Gesù, ora, sembra stupirsi.

Dove sono tutti? Lui, l'unico senza peccato, l'unico che potrebbe a ragione scagliare la pietra, non lo fa. Chiede solo alla donna di guardarsi dentro, di recuperare dignità, di volersi più bene.

E questa donna viene liberata. È salva. Salvata dalla lapidazione, Gesù ora vuole liberarla anche dalla sua fragilità. La ammonisce dolcemente: “Non peccare più”.

Credo che questo Vangelo sia il Vangelo della verità di Dio, della freschezza della Chiesa. Una Chiesa fatta da perdonati, non da giusti. Una Chiesa fatta di gente che deve saper perdonare perché perdonata, che deve giudicare con amore, senza mai ferire, guardando sempre avanti; una Chiesa fatta di gente che indica col sorriso una strada da percorrere insieme, non biecamente un tribunale.

Quando vivremo di questo perdono che ci riempie il cuore, allora saremo trasparenza di Dio per l'uomo contemporaneo che cerca, nel suo profondo, amore e luce in una società che ama e privilegia solo i potenti, i bravi, gli scaltri, i “giusti” e dimentica invece i deboli, i miseri, i reietti, gli abbandonati, ritenuti sembianza vivente della precarietà umana, assolutamente disdicevole e da dimenticare.

È un fiume in piena l'incontro con Dio: una forza travolgente che ti fa guardare sempre avanti, come Isaia spiega al suo popolo costretto in esilio: inutile voltarsi indietro, inutile piangersi addosso cercando commiserazione, magari proprio in chi noi disprezziamo: bisogna aprirsi, porgere la mano a chi arranca come noi, e guardare avanti, sempre avanti, con il cuore e la mente fissi in Dio, unica certezza di salvezza.

Questa è la bellezza della nostra vita: lasciarci scuotere dallo Spirito.

È questa la bellezza cui inconsciamente aspira l'uomo moderno, spesso ferito profondamente dalla vita: egli deve aprirsi a questa nuova vita dello Spirito, deve traghettarsi in questa vita diversa: una vita basata certamente sul “diritto”, ma primariamente e soprattutto basata sull’amore, sulla comprensione, sulla carità. Il resto viene da sé. Anche perché tutto il resto, scrive provocatoriamente Paolo, è spazzatura, perdita di tempo; scoria inutile che ci separa dalla vera visione di Dio, che si frappone tra noi e il suo amore gratuito.

E se Paolo avesse anche questa volta ragione?

Spogliamoci allora di questa corazza, abbandoniamo questa pesante zavorra che inutilmente ci trasciniamo dietro. È il primo importante passo da fare: ce la faremo a capire che Dio vuol darci il suo amore e il suo perdono a tutti i costi? Ce la faremo a capire che questo perdono, questo amore, lo dobbiamo vivere con i nostri fratelli? Ecco, sorelle e fratelli: se abbiamo capito ciò, stiamo partendo col piede giusto. E per oggi può bastare!

Preghiamo: Signore Gesù, il tuo silenzio diventi un urlo nei nostri cuori, scuota in profondità le nostre coscienze intorpidite, e ci faccia finalmente capire il significato profondo della tua Parola. Amen

 

 


 

DOMENICA DELLE PALME – ANNO C

(28 MARZO 2010)

 

Vangelo: Lc 23,1-49

Tutta l’assemblea si alzò; lo condussero da Pilato e cominciarono ad accusarlo: «Abbiamo trovato costui che metteva in agitazione il nostro popolo, impediva di pagare tributi a Cesare e affermava di essere Cristo re».  Pilato allora lo interrogò: «Sei tu il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». Pilato disse ai capi dei sacerdoti e alla folla: «Non trovo in quest’uomo alcun motivo di condanna». Ma essi insistevano dicendo: «Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea, fino a qui». Udito ciò, Pilato domandò se quell’uomo era Galileo e, saputo che stava sotto l’autorità di Erode, lo rinviò a Erode, che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme. Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto. Da molto tempo infatti desiderava vederlo, per averne sentito parlare, e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò, facendogli molte domande, ma egli non gli rispose nulla. Erano presenti anche i capi dei sacerdoti e gli scribi, e insistevano nell’accusarlo. Allora anche Erode, con i suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici tra loro; prima infatti tra loro vi era stata inimicizia. Pilato, riuniti i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo, disse loro: «Mi avete portato quest’uomo come agitatore del popolo. Ecco, io l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest’uomo nessuna delle colpe di cui lo accusate; e neanche Erode: infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò, dopo averlo punito, lo rimetterò in libertà». Ma essi si misero a gridare tutti insieme: «Togli di mezzo costui! Rimettici in libertà Barabba!». Questi era stato messo in prigione per una rivolta, scoppiata in città, e per omicidio. Pilato parlò loro di nuovo, perché voleva rimettere in libertà Gesù. Ma essi urlavano: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Ed egli, per la terza volta, disse loro: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte. Dunque, lo punirò e lo rimetterò in libertà». Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso, e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta venisse eseguita. Rimise in libertà colui che era stato messo in prigione per rivolta e omicidio, e che essi richiedevano, e consegnò Gesù al loro volere. Mentre lo conducevano via, fermarono un certo Simone di Cirene, che tornava dai campi, e gli misero addosso la croce, da portare dietro a Gesù. Lo seguiva una grande moltitudine di popolo e di donne, che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso di loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato”. Allora cominceranno a dire ai monti: “Cadete su di noi!”, e alle colline: “Copriteci!”. Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?». Insieme con lui venivano condotti a morte anche altri due, che erano malfattori. Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte. Il popolo stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».

Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà. Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò. Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: «Veramente quest’uomo era giusto». Così pure tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto. Tutti i suoi conoscenti, e le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, stavano da lontano a guardare tutto questo.

 

Amare: voce del verbo morire!

Eccoci dunque fratelli miei: siamo alla fine del deserto: ora il Tabor lo vediamo lontano, all'orizzonte.

Domani inizia la grande settimana, la più grande, la più importante. La settimana piena di stupore e di sangue, di amore e di emozioni.

Inizia la settimana Santa.

Anche quest’anno ci siamo arrivati, come ogni anno. Pronti o meno, consapevoli o meno, abbiamo attraversato il deserto, il tempo dell'essenziale, il tempo della riscoperta di un Dio bellissimo, che non punisce; un Dio che, come un Padre straordinario, non giudica ma fa festa con noi.

Un Dio diverso, un Dio difficile da accettare, un Dio esagerato.

E – come ogni anno – stacchiamo la spina della normalità, ci fermiamo davanti all'inaudito, all'inimmaginabile: giorno per giorno, in quest'ultima settimana, vivremo l'ultima settimana della vita del Maestro, ne celebreremo i sentimenti, ci siederemo a guardare, a stupirci, ad ascoltare.

Dio muore, fratelli, Dio muore.

E oggi ci apriamo a una delle lezioni più belle che l'umanità abbia mai avuto: prepariamoci a rabbrividire!!!

Gesù ci spiega, con la sua vita, cosa vuol dire amare. Amare: voce del verbo morire!

No, non mi sono sbagliato, fratelli! Amare è morire.

Entrando a Gerusalemme Gesù, liberamente, sceglie di donarsi per noi. Completamente. Per essere fedele al suo amore, quando le cose si mettono decisamente male, egli sceglie volutamente di non tirarsi indietro .

Dall'inizio del Vangelo Gesù ha preso con passo risoluto la strada verso Gerusalemme. Oggi ne varca la porta: il suo ingresso nella città santa è trionfale: palme, tappeti e mantelli stesi al suo passaggio, osannato da tutti: "benedetto colui che viene nel nome del signore". La folla è entusiasta di questo profeta che entra nella città santa, perché viene a portare la pace non a fare la guerra, perché viene ad offrire misericordia non giudizio e castigo. La folla ha visto i gesti straordinari che lui ha compiuto, ha inteso le sue parole che vanno dritte al cuore; la folla riconosce la saggezza e la forza dell'uomo di Dio, e lo proclama re.

Ma a Gesù tutto questo non interessa molto, forse rimane più compiaciuto l'asino che lui cavalca, contento, forse, di ricevere anche lui un po' di festa, felice che la persona che lo sta cavalcando sia tanto importante.

Ma questo trionfo dura molto poco: dopo soli quattro giorni, dopo aver celebrato l'ultima cena con i suoi discepoli, Gesù viene preso, processato, condannato a morte, crocifisso: la sua colpa? aver amato tutti, averci rivelato che abbiamo un Padre che ci ama; perfino le sue ultime parole, quasi agonizzante, sono parole di pace, di perdono: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno..."

Chi sei Gesù? Non puoi essere solo un uomo: perché mai nessun uomo avrebbe potuto fare quello che hai fatto tu, qualsiasi uomo si sarebbe ribellato a una fine tanto ignobile, ingiusta. Ma non puoi essere neppure solo un Dio, perché avresti chiamato le tue schiere di angeli e arcangeli per liberarti dalla stupidità dell'umanità.

Chi sei Gesù? È lassù, sulla croce, che riveli totalmente la tua identità, che scopri il velo: lo capiscono proprio tutti chi sei, anche i pagani. Anche il centurione romano, che aveva comandato ai suoi soldati di flagellarti, di inchiodarti alla croce e che guardandoti, mentre muori, dice: "veramente quest'uomo era figlio di Dio!" È una delle proclamazioni di fede più belle che abbiamo.

È la proclamazione di fede che continuamente si ripete nella storia, è la constatazione più naturale che tutti dovrebbero avere nel guardarti mentre muori.

 

In questa domenica, dunque, Luca, discepolo di Paolo, ci ripropone con la sua narrazione intensa e vibrante, la Passione di Cristo.

Lui non c'era, come noi; e forse proprio per questo, ascoltando le sue parole, possiamo condividere i suoi sentimenti e sentirci come lui intimamente sconvolti da questo mistero: il mistero della morte di Dio.

Un mistero ambiguo, difficile, al di fuori delle nostre categorie umane; un mistero nella cui profondità rischiamo purtroppo di perdere di vista l'essenziale, di non capirne il movente, l’Amore assoluto di Dio: da superficiali e distratti, siamo colpiti più dalle scene di contorno, dalla coreografia, dalla crudezza dei gesti assassini, piuttosto che dal compimento di un Disegno divino di salvezza totale del genere umano; ci capita addirittura di voler esorcizzare le nostre paure, le nostre insicurezze, il nostro vittimismo, le nostre tragedie umane, rinfacciando al Cristo crocifisso sul Golgota, le nostre nullità, le nostre sofferenze, i nostri fallimenti, le nostre contrarietà della vita, addossandogli la colpa di tutto, senza riuscire a cogliere, nel nostro delirio di egoismo, il valore del suo gesto di immenso amore.

Fratelli miei, se facciamo così, non abbiamo capito nulla! Ci fermiamo anche questa volta a quello che appare, senza capir nulla di quello che realmente succede.

Ci siamo mai chiesti seriamente e con umiltà: “perché Gesù muore?” Perché tutto questo dolore e queste sofferenze?

Che bisogno c'era? Ma non siamo precipitosi come al solito: meditiamo, prima di darci una risposta: meditiamo veramente, perché intorno a queste domande ruota tutta la nostra fede. Si, perché nella sua avventura terrena, Gesù viene a svelare il vero volto di Dio, il volto del Padre.

È l'ultimo tassello di una lunga, entusiasmante e originale storia d'amore fra Dio e il suo popolo, una storia vissuta in prima persona dal popolo di Israele, tra alti e bassi. È la storia di un Dio che si racconta, che entra in relazione, che ama, che sostituisce quell'immagine della divinità, oscura e deviata, che portiamo nel nostro inconscio. Una relazione che vive momenti esaltanti, da Abramo, attraverso Mosè e Davide, fino ai Profeti, e momenti deprimenti, caratterizzati, il più delle volte, dalla fatica dell'uomo a restare fedele all'immagine che Dio svela di sé attraverso i Profeti.

Stanco infine di questa indifferenza e infedeltà ciclica, Dio diventa uomo. E Gesù diventa il raccontatore del Padre: ne parla, lo vive, lo canta. Come? Con la sua vita, con la sua Parola, serena e incisiva, con le sue vibranti provocazioni. Ci dice tutto di Dio; Dio lui stesso, Gesù difende il Padre contro la visione gretta e approssimativa che noi ne abbiamo fatto.

Ma non ci bastano i miracoli (sono ambigui!), né la tenerezza (è fragilità), né la predicazione (idee controverse).

Tutto ciò non ci basta ancora. E Gesù arriva alla fine dei suoi intensi tre anni di missione con un pugno di mosche in mano: noi, l'umanità, non abbiamo capito. Siamo di testa dura.

Eppure è così chiaro! Noi abbiamo per Padre un Dio che lascia crescere i suoi figli, che ha fatto bene ogni cosa, che fa piovere sui giusti e gli ingiusti: un Dio che scruta con ansia l'orizzonte e accoglie con dignità il figlio che lo voleva morto, ed esce a spiegare le sue ragioni all'altro figlio offeso; un Dio che, unico giusto, potrebbe a ragione condannarmi ma non lo fa': mi chiede solo di uscire dalla mediocrità del peccato; e noi: falsa libertà.

Che scena angosciante: i suoi discepoli, preziosi e amati, sono fermi alla contraddizione del potere e della gloria, inchiodati ai loro (evidenti) limiti; i capi religiosi ne avvertono la forza destabilizzante; la folla segue il vento della moda: Gesù in tale contesto non ha alcuna possibilità di farcela, la sua scommessa è persa. Non è servito, non è bastato, non è sufficiente tutto l'amore che ha donato.

Forse aveva ragione l'avversario, là nel deserto: troppo ingenuo questo modo di operare, caro Dio. Davvero pensavi di trattare con gli uomini alla pari? Di aprire il loro cuore col sorriso? Di presentarti vulnerabile? Come ti sei sbagliato!

La scelta da fare, ormai, è una sola: andarsene, rinunciare, gettare la spugna.

Occuparsi – chissà – di un altro mondo, di altre creature che vivono a distanze siderali. Oppure...

Oppure lasciarsi travolgere, sparire, morire.

Lasciare che le tenebre vincano, lasciare che le cose prendano la loro piega, e osare.

Osare fino fino all'eccesso, osare fino a morire appeso ad una croce.

Altro è dire: "Dio vi ama!", altro morire. Altro dire: "Il Padre vi perdona", altro pendere, nudo, da un palo. Una cosa parlare, un'altra urlare agonizzando; una cosa predicare, un'altra vivere fino in fondo ciò che si è predicato.

Capiranno, gli uomini? O Dio sarà uno dei tanti sconfitti della storia, dimenticati?

La posta in gioco è immensa: l'esistenza stessa di Dio. Gesù accetta, rischia, si dona. Forse sarà tutto inutile, come insinua l'avversario nell'orto degli ulivi. Forse.

Ma questa sua passione è la rivelazione della tenerezza di Dio. Gesù accetta la sua morte e tutto diventa luminoso: Pilato ed Erode diventano amici, il servo Malco, ferito all'orecchio da Pietro, viene restituito alla sua integrità, le donne di Gerusalemme sono consolate, in croce un ladro, disperato, incontra Dio. Tutto è tenerezza e pace e dono. Gesù muore affidando al Padre lo Spirito.

Ecco: Dio è evidente, ora. Osteso, mostrato, nudo. Dio è così, fratelli: arreso.

Questo è tutto quello che rivivremo nei prossimi giorni: un condensato, una full immersion di Dio, del suo amore, della sua vittoria finale.

È piena di inattesa dolcezza la morte di Dio.

Chiudiamo gli occhi, smettiamo di leggere e pensiamo.

Sono molti i personaggi che affollano questo racconto e si muovono intorno a Gesù arrestato, processato e condannato...

I personaggi sono tanti, e anch'io mi ci vedo dentro, mi riconosco un po’ in tutti questi attori comprimari.

E purtroppo neppure io ne vengo fuori molto bene: ciò che di me appare in tutta la sua crudezza, è motivo di confusione e vergogna,  e mi porta nell’anima il gusto acre e salato del rimorso.

Mi sento coinvolto prima di tutto come “credente”. È vero, sono un credente tiepido, un credente del quando mi fa comodo, del quando mi serve: ma con tutti i miei limiti riesco tuttavia a percepire questa storia non come una storia qualunque, piatta, una storia del "c'era una volta...” una storia in cui tutto si risolve poi a favore del mio ego, “e vissero felici e contenti”. No. Questa è una storia che mi sconvolge e coinvolge in pieno, drammaticamente: nella mente, nel cuore, nella vita; oggi, domani, sempre: lo voglia o non lo voglia; ci sia o non ci sia la sua immagine a ricordarmelo: il Cristo in croce è marchiato a sangue nel mio cuore!

Sono poi un apostolo. Uno di quelli che Gesù chiama a preparare e vivere la sua ultima cena per poi continuarla anche quando lui non ci sarà più. Ma io mi dimentico presto che è la cena dell'amore e della condivisione, e mi perdo a discutere di quanto valgo, nella continua ricerca di essere il primo, il più grande... Mentre Gesù mi ricorda che il vero potere è servire, e la vera grandezza è farmi piccolo tra i piccoli, povero tra i poveri.

Sono anche Pietro. Ho tanta voglia di credere e di rimanere fedele alla promessa fatta a Gesù. Ma poi basta l'accusa di una serva qualsiasi per farmi prigioniero della paura. Basta poco e mi dimentico che Gesù ha bisogno di me. Lui con il suo sguardo mi riempie gli occhi di lacrime, e la mia faccia indurita cercherà poi di sciogliersi nell'emozione profonda del suo perdono.

Sono Giuda. Quante volte con un bacio ho tradito Gesù. Tradisco la sua fiducia, tradisco il suo amore di Padre; e nel momento in cui gli sono più vicino con il corpo, nell’Eucaristia, gli sono ancora lontanissimo con il cuore... C'è ancora spazio di perdono per me?

Sono Pilato. Anche se cerco di liberare Gesù perché qualcosa mi dice che è innocente..., mi lascio condizionare dal mondo. Non ascolto più la mia coscienza (che è il luogo vero dell'incontro con Dio) ma ascolto solo quello che viene da fuori di me, dalla gente, dal potere, dai pregiudizi...

Sono uno tra la folla a gridare "Crocifiggilo, crocifiggilo" mentre qualche giorno prima ero li ad osannarlo, mentre entrava in Gerusalemme, per chiedergli una guarigione e un miracolo. Come sono veloce a cambiare parere! Come sono facile a farmi influenzare dalla mentalità comune e dal "si dice...". Ma Gesù sulla croce invece di maledirmi dirà "Padre, perdonalo, perché non sa quel che fa..."

Sono il Cireneo. Preso per caso e senza preavviso, aiuto Gesù a portare la sua croce che per un piccolo tratto diventa come mia. Questo mi ha insegnato almeno ad essere disponibile sempre, ogni volta che qualche derelitto ha bisogno di un sostegno, anche momentaneo? È vero, non gli risolverò il problema, ma almeno gli faccio sentire una vicinanza amica...

Sono il buon ladrone, crocifisso vicino a Gesù. Sento che questo disgraziato è li per me e io con lui. Quando verrà il giorno in cui il dolore e la caducità della mia carne piegherà la mia illusione di immortalità, ti prego, Gesù, fammi sentire quella promessa, fammi sentire nel cuore e nella mente la tua vicinanza e la tua pace. Tra le tue braccia di Padre, sentirò il paradiso vicino a me...

Sono la donna che insieme alle altre donne guarda da lontano quel che succede sul Golgota. Il giorno dopo mi recherò al sepolcro per i riti della morte perché Gesù è finito e con lui il suo regno...

Nossignori: una sorpresa mi attende, una novità è pronta per me e per tutti gli altri, che a loro modo, hanno incrociato il Signore nella loro vita...

Allora, fratelli miei, saremo capaci di stupirci ancora in questa Pasqua?

Sarà per noi solo la celebrazione di una storia morta nel passato?

Saremo capaci di accettare da Gesù l'invito a entrare nella sua storia di salvezza?

Saremo capaci di risorgere ancora una volta con Lui?

Ebbene, fratelli cari, non c'è altra strada per risorgere, che ricominciare da capo: sempre.

Ogni anno, ogni mese, ogni giorno, ogni ora. Ogni nuova caduta deve essere occasione per dare nuovo senso alla nostra vita, una nuova dimensione, un nuovo percorso. Dobbiamo farci carico delle nostre difficoltà, delle nostre sconfitte, delle nostre debolezze: è la nostra croce. Dobbiamo farcene carico senza lasciarci schiacciare; dobbiamo abbracciarla questa croce, superare la sua drammaticità, trasformarla in occasione di salvezza, di felicità, entrando nuovi in una nuova dimensione di vita con Cristo, in Cristo.

Allora capiremo, fratelli e sorelle: allora capiremo che è così che siamo amati, che è così che siamo accolti.

Approfittiamo di questi giorni per meditare con maggior intensità la passione di Gesù:  non rendiamo inutile il nostro pensare, non trasformiamo il nostro essere con l'avere; non riduciamoci ad essere famelici di piacere, di evasione, gente senza casa, senza famiglia, senza valori, senza riferimenti. Non sradichiamo la nostra fede per seminarvi sogni privi di speranza. Guardiamo con fiducia a Lui e capiremo che è Lui l’unica strada da percorrere, l’unica strada in grado di cambiare il mondo.

Meditiamo la sua passione: e non potremo che restare ancora una volta allibiti, costernati: perché assisteremo ancora una volta allo spettacolo della morte di Dio, del dono totale di sé.

Si, il dono di Dio: un Dio che pende dalla croce, morto per amore. Pensate: un Dio che muore d'amore. Una verità che ci sovrasta.

E venerdì, inginocchiandoci davanti al crocifisso, sussurriamogli nel silenzio del nostro cuore:

Signore eccomi, sono qui. Ti prego, fammi capire.

Come posso rimanere cieco e sordo di fronte a tanto amore? Come posso rimanere indifferente davanti a tanta sofferenza? Come posso pensare che questa tua morte non mi salvi, che sia stata inutile? No: io credo, Signore, che tu sei il mio Dio di salvezza.

Io credo, Signore, che imparare ad amare significa, anche per me, imparare a morire per l'altro.

Buon cammino dunque fratelli e sorelle in questa settimana santa.

Santa, perché tutti possiamo uscirne un po’ più santi, nella gioia del Cristo risorto. Amen.

 

 


 

PASQUA: RISURREZIONE DI NOSTRO SIGNORE – ANNO C

(4 APRILE 2010)

 

 

 

 

Vangelo:  Gv 20, 1-9

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.

Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».

Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.

Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.

Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

 

 

 

Buona Pasqua!

Fratelli, chiudiamo per un momento gli occhi, isoliamoci dai rumori della nostra quotidianità, ritiriamoci nel silenzio del nostro cuore, viviamo con la mente lo svolgersi dei fatti di quella mattina a Gerusalemme.

Ci siete?

Le pie donne che hanno seguito Gesù nel suo cammino di maestro e messia fin dall'inizio, ora stanno arrivando qui, al sepolcro, per l'epilogo tragico della vicenda del loro amato maestro.

Tutto è ormai finito, e non rimane altro da fare che compiere i gesti simbolici della morte: gli aromi, gli oli profumati, la tomba, sono il simbolo del tragico fallimento di un sogno.

Ma che succede? Esse cercano un morto, e trovano invece un vuoto, un’assenza....

E tornano trafelate dai discepoli.

Il tempo per capire qualcosa e Pietro e Giovanni corrono già nel silenzio della città ancora immersa nel sonno, mentre i venditori tirano fuori le mercanzie per la giornata dopo il sabato di riposo.

Il sole si sta alzando e inonda di luce la pietra color ocra della città. Percorrendo in fretta gli angusti vicoli, pestando il selciato appena rifatto dal grande re Erode, il fiato corto, i due escono dalla città, seguiti a distanza da Maria di Magdala.

Corrono in fretta lasciando al loro fianco la cava di pietra in disuso, il Golgota, riutilizzata dai romani come luogo di esecuzione. I pali verticali, come alberi rinsecchiti, svettano in alto, aspettando nuovi condannati.

Il sangue rappreso tinge ancora di rosso il legno scuro.

Corrono, senza sosta, il fiato manca; la tunica impaccia la corsa. Pietro, meno giovane, si attarda; scendono rapidamente oltre la cava. I soldati romani di guardia sono spariti, la tomba di Giuseppe di Arimatea è aperta, la pesante pietra che ne bloccava l'ingresso ribaltata.

Giovanni aspetta, le tempie pulsano, ansima. Le donne avevano ragione. Ripensa al volto sconvolto di Maria che, dieci minuti prima, lo aveva tirato giù dal letto parlando del furto del corpo Gesù.

Arriva Pietro. Giovanni lo guarda lungamente, poi abbassano la testa ed entrano.

Nulla. Gesù è scomparso.

Nulla, solo il lenzuolo, come sgonfiato, afflosciato, e il sudario, il telo che fasciava la testa, piegato: entrambi giacciono al loro posto, come se Gesù si fosse dissolto.

Nulla, Gesù è scomparso e nessuno sa che fine abbia fatto!

 

Ecco: tutto è iniziato da quella corsa, fratelli.

Quella tomba vuota, ultimo drammatico regalo a Gesù da parte del discepolo Giuseppe di Arimatea, ricco e potente, che non aveva potuto salvare dalla morte il suo Maestro, è rimasta lì, vuota, a Gerusalemme, muta testimone della resurrezione.

Ed è ancora lì: vi hanno costruito sopra un'immensa basilica, oggetto di continui pellegrinaggi per un millennio e mezzo; ripetutamente uomini miscredenti tentarono di distruggerla, pezzo per pezzo.

Ma è ancora lì.

Ora è ricoperta di marmi preziosi, divisa e contesa (idiozia degli uomini) tra mille confessioni cristiane che ne rivendicano la proprietà. Ma non importa, fratelli.

Quella tomba è sempre lì: esattamente dove la trovarono Maria, Pietro e Giovanni.

Ed è ancora vuota.

 

"Perché cercate tra i morti colui che è vivo?... Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea..."

Anche noi, come già le donne, siamo invitati a ritornare con la mente alle parole del maestro, perché in quelle parole ci deve essere la chiave di qualcosa di nuovo, di straordinario, di incompreso ancora fino ad oggi!

Non erano false promesse le sue, come se ne sentono tante in giro! No, Gesù è la Verità.

Qui, insieme a Cristo, nelle donne è risorta anche la loro fiducia, è nato un nuovo modo di essere discepole: Gesù non è da cercare tra i morti, va cercato tra i vivi, perché egli è vivente, per sempre!

Da qui esse iniziano un nuovo cammino e con loro anche i discepoli, e anche noi oggi...

Si, fratelli e sorelle: anche per noi Gesù non è da cercare tra i morti!

È risorto!

Se lo vogliamo trovare e se vogliamo far risorgere in noi la voglia di vivere, dobbiamo cercarlo dove Lui vive!

«Gesù non ti troviamo tra i morti...

non ti troviamo tra coloro che uccidono la speranza con il pregiudizio,

non ti troviamo tra coloro che inquinano la vita e le relazioni umane,

non ti troviamo tra gli indifferenti, gli egoisti e i pessimisti,

non ti troviamo tra coloro che si nutrono solo di beni e non di amore,

non ti troviamo tra gli incapaci di perdonare e tra chi cerca la vendetta,

non ti troviamo tra coloro che non hanno speranza e non credono in un futuro di pace per tutti,

non ti troviamo tra i morti...

Tu sei vivo!

...e sei in un pane spezzato insieme,

sei in una parola amica che ridona coraggio a chi si sente escluso,

sei in un gesto di carità anche semplice,

sei in un parola di perdono,

sei in un povero che ci invita ad amarlo,

sei nel piccolo che cerca la nostra mano,

sei nella pace che a piccoli passi cerchiamo di costruire attorno a noi,

sei nei miei fratelli e sorelle che, ricordando le tue parole, costruiscono ogni giorno il Regno di Dio...»

Egli è risorto, fratelli.

Si, è risorto!

Ci pensate? Tutta la nostra fede, la nostra vita di cristiani, è basata sull'assenza di un cadavere.

Ma non basta: con Lui la morte è stata sconfitta. La Vita ha sconfitto la morte.

Il Dio nudo, appeso, osteso, evidente, il Dio sconfitto e straziato, il Dio deposto sulla fredda pietra non è più qui, è risorto, è il vincitore.

Dico “risorto”, fratelli. Non rianimato, non ripresosi, non vivo nel nostro ricordo e amenità consolatorie del genere. Gesù è davvero vivo, risorto, presente per sempre, in carne ed ossa.

Non è facile credere a questa notizia, lo so bene.

Incontreremo, in questi prossimi cinquanta giorni, la fatica che hanno fatto gli apostoli, che poi è anche la nostra stessa fatica, per convertire il cuore a questa sconcertante novità.

Apriamoci alla gioia della risurrezione. Con i nostri fratelli. Gioiamo con loro!

È vero: tutti sappiamo che per superare il dolore ci vuole fede; tutti abbiamo una qualche ragione per sentire nelle nostre sofferenze la vicinanza di Gesù crocifisso; tutti ci commuoviamo davanti allo strazio della sua passione; tutti sappiamo condividere il dolore che è esperienza comune di ogni uomo.

Ma gioire no, è un altro paio di maniche; questo non lo sappiamo tutti: è difficile gioire, significa uscire dal proprio dolore, dai propri problemi, dal proprio io: non amarlo, superarlo, abbandonarlo: spersonalizzarsi per condividere la gioia dell’altro. Difficile ma non impossibile!

E allora stamani corriamo anche noi, fratelli. Facciamo capire a quanti incrociamo che Pasqua, al di là delle uova di cioccolato e delle campane in festa, è la vittoria dell'amore, la pienezza della vita.

La scommessa, terribile, di un Dio abbandonato alla nostra instabile volontà, è vinta.

A noi, ora, di credere, di vivere da risorti, di vedere i teli di lino e di credere, come Maria, Giovanni e Pietro.

A noi, discepoli affannati nella corsa, sempre in ritardo rispetto alla forza dirompente di Dio, non rimane che accettare la sfida della fede.

Gesù è risorto, fratelli, smettiamola di cercare il crocifisso, smettiamola di piangerci addosso e di lamentare un Dio assente. Gesù è risorto fratelli. È qui, al nostro fianco! Viviamo Cristo, nostra Pasqua!

 

Buona Pasqua a tutti, amati fratelli.

Buona Pasqua a chi mi sta leggendo, in qualunque parte del mondo si trovi.

Buona Pasqua ai tanti consacrati e consacrate che hanno scelto di servire Dio: non siate calcolatori, non risparmiatevi, non accontentatevi di fare il dovuto: tuffatevi nell’amore infinito e gratuito del Risorto, attingetene a piene mani e riversatelo sui cuori aridi di chi non capisce o non vuol capire…

Buona Pasqua agli amici che conservano la fede nelle orribili città moderne che divorano e omologano.

Buona Pasqua ai tanti cercatori di Dio, così diversi eppure tutti toccati dalla Parola che ci cambia.

Buona Pasqua a chi ostinatamente ama senza risultati.

Buona Pasqua a chi sta tirando su un figlio o due, a fatica e nelle ristrettezze, e conserva il buonumore.

Buona Pasqua a chi è in lutto, a chi sente di avere sbagliato tutto nella vita.

Buona Pasqua a chi sa che forse è l'ultima, prima che il cancro lo sconfigga.

Buona Pasqua a tutti voi, discepoli del Maestro, come me fragili e un po’ distratti: coraggio, Gesù è davvero risorto. Ascoltatelo!

È questo il mio augurio a tutti voi. Amen!

 

 


 

III DOMENICA DI PASQUA ANNO C

(18 APRILE 2010)

 

 

Vangelo: Gv 21, 1-19

In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.

Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.

Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.

Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

 

Signore, dovunque mi conduci, io ti seguo

È proprio difficile convertirsi alla gioia, abbandonare il sepolcro, rovesciare la pietra che ci impedisce di essere totalmente donati, affidati, come un bimbo nelle braccia di sua madre.

È che la vita quasi mai va come avremmo voluto e, nonostante la fede che sappiamo di avere, poi alla fine triboliamo più degli altri.

Così Tommaso ha dovuto fare un lungo e doloroso percorso per superare la propria fragilità. Lui, il grande credente deluso e amareggiato, ha dovuto fidarsi di quella scalcagnata compagnia di testimoni che il Nazareno si era cercato.

Ma la cosa che mi ha sempre turbato e commosso, è la fatica che ha fatto Pietro e superare il proprio dolore.

Sappiamo tutti, più o meno, com'è andata: Simone il pescatore che è chiamato a diventare discepolo del falegname di Nazareth, i tre anni di entusiasmante sequela con un crescendo di fama e di popolarità, la promessa fatta a Simone (a lui!) di essere il referente del gruppo, il custode della fede, le cantonate incredibili di Pietro che non riesce a moderare il suo temperamento troppo impulsivo e sanguigno e, infine, la catastrofe della croce.

Pietro, nel cortile del Sinedrio, nega di conoscere l'uomo che credeva di amare e di servire fedelmente, senza incrinature, l'uomo e il Messia per cui – diceva – avrebbe dato la vita.

Basta la domanda di una serva, di una pettegola, per far crollare le fragili certezze del principe degli apostoli.

Poi l'arresto, il processo sommario, l'uccisione. Anche Pietro, come tutti, era fuggito.

Riusciamo solo vagamente a capire quanto dolore, quanta desolazione, quanto strazio aveva travolto la vita degli apostoli. Pietro, sanguinante per la morte del Maestro e per la propria morte di discepolo, era stato travolto anche dal rimorso del suo peccato.

 

Poi Gesù risorge. Ed appare agli apostoli: Pietro, insieme a Giovanni, è il primo a correre alla tomba: era presente al Cenacolo alla sera di Pasqua, diversamente da Tommaso. Luca accenna anche ad una apparizione privata a Pietro che non lasciò traccia.

Pietro, insomma, era stato il più presente alle apparizioni del Risorto.

Ma niente, nulla, deserto, il suo cuore era rimasto duro e arido.

Gesù era vivo certo, ma non per lui. Gesù era risorto e glorioso, vivo, ma lui, Pietro, era rimasto in quel cortile.

Pietro credeva, certo. Ma la sua fede non riusciva a smuovere il suo dolore. Come succede a molti di noi.

L'inizio del vangelo di oggi, è uno dei più tristi momenti del cristianesimo: Pietro torna a pescare. L'ultima volta che era andato a pescare, tre anni prima, aveva incontrato sulla riva quel perdigiorno che parlava del Regno di Dio. Quanto tempo perso!

Torna a pescare: fine dell'avventura, della parentesi mistica, si torna alla dura realtà.

Gli altri apostoli – teneri! – lo accompagnano sperando di risollevare il suo morale.

E invece nulla, pesca infruttuosa: il sordo dolore di Pietro allontana anche i pesci.

Ma Gesù, come spesso accade, aspettava Pietro proprio lì, alla fine della sua notte.

 

Il clima è pesante. Nessuno fiata. Solo quel rompiscatole si avvicina per attaccare bottone e chiede notizie sulla pesca.

Nessuno ha voglia di parlare, sono tutti affaccendati a riordinare le reti, la schiena curva, il capo chino.

«Riprendete il largo e gettate le reti». Tutti si fermano. Andrea guarda Giovanni che guarda Tommaso che guarda Pietro.

Come scusa? Cos'ha detto? Cosa?

Ma nessuno fiata, nessuno si oppone: riprendono il largo, gettano le reti dalla parte debole e... accade.

Ma certo, è lui. Ed il silenzio, ora, diventa ancor più gravido.

Gesù si comporta con naturalezza, scherza, ride, mangia con loro.

Poi tenta il tutto per tutto e prende da parte Pietro.

L'ultima volta che si erano visti era stato lì, al sinedrio.

«Mi ami, Simone?»

«Come faccio ad amarti, Rabbì, come oso ancora dirtelo, come faccio?» pensa Pietro.

«Ti voglio bene» risponde Simone.

«Mi ami, Simone?»

«Basta, basta Signore, lo sai che non sono capace, piantala!» pensa Pietro.

«Ti voglio bene» risponde Simone.

«Mi vuoi bene, Simone?»

Pietro tace, ora. È scosso, ancora una volta. È Gesù che abbassa il tiro, è lui che si adegua alle esigenze umane. Pietro ha un groppo in gola. A Gesù non importa nulla della fragilità di Pietro, né del suo tradimento, non gli importa se non è all'altezza, non gli importa se non sarà capace. Chiede a Pietro solo di amarlo, così come riesce.

«Cosa vuoi che ti dica, Maestro? Tu sai tutto, tu mi conosci, sai quanto ti voglio bene»

Sorride, ora, il Signore. Sorride. Pietro è pronto: saprà aiutare i fratelli poveri ora che ha accettato la sua povertà, sarà un buon Papa.

Sorride, ora, il Signore e gli dice: «Seguimi».

 

Se leggiamo questo vangelo con occhio critico, come se fosse la cronaca, la storia di quanto è realmente accaduto quella mattina, rimaniamo spiazzati: non ne veniamo fuori. Troppe stranezze, troppe cose che non tornano. Per esempio: i discepoli, che erano pescatori e quindi sapevano bene il fatto loro, gente che conosceva perfettamente il loro mestiere, pescano tutta la notte senza prendere niente e poi quand'è mattina – e tutti sanno che non si pesca di mattina – decidono di riprendere il largo su invito di uno sconosciuto, e guarda caso, prendono una enormità di pesci. I discepoli, che erano stati tre anni con Gesù, non lo riconoscono quando lo vedono: com'è possibile? Quando hanno il Signore davanti, vicinissimo, non si accorgono che è lui – avevano rischiato la vita e abbandonato tutto quello che avevano per lui, figurarsi se non lo conoscevano! – e poi Giovanni, improvvisamente e da molto lontano, lo vede! Perché Pietro si cinge la veste, si mette il vestito, prima di buttarsi in acqua? Per caso quando si fa il bagno ci si veste prima di scendere in acqua? Che senso ha? E poi, perché bisogna buttare la rete proprio dal lato destro? Come facevano a conoscere il numero esatto dei pesci che stavano nella rete; li avevano già contati prima? Gesù che sta sulla riva chiede se hanno qualcosa da mangiare, se hanno del pesce, e poi quando anch'essi scendono a riva, lui ha già preparato tutto, con tanto di pesce alla brace! E se la colazione è già pronta perché chiede loro di portare un po' di pesce? Prima tutti i discepoli insieme non riescono a trascinare la rete a riva, tanto è carica di pesci; ma poi Pietro torna alla barca e ce la fa da solo! Mah! Vai a capire!

 

Comunque, ciò che interessa a noi qui, non è tanto dare una spiegazione logica a dei punti oscuri e apparentemente contraddittori, quanto cercare di capire in che cosa questa Parola ci possa aiutare nella nostra vita quotidiana.

Già la nostra vita! Ci fosse una medicina magica che fornisce una soluzione a tutti i problemi della nostra vita! Invece è una corsa frenetica, uno scontro costante contro tutto e tutti! Ci alziamo la mattina, ci vestiamo, facciamo colazione al volo, portiamo i bimbi a scuola e poi via al lavoro. Se ci va bene facciamo mezz'ora di coda, se ci va male, c'è sicuramente da imprecare, soprattutto se dobbiamo timbrare il cartellino in orario. Al lavoro poi sembra una giungla: ci sono pericoli dappertutto. Al capo bisogna sempre mettere dei paletti altrimenti quello ti sfrutta e "ti succhia" fino all'osso; dei colleghi non ci si può fidare perché appena possono "ti pugnalano alle spalle"; ma bisogna anche reggere la scena per cui bisogna anche sorridere e far finta di niente. Vorremmo parlarne con qualcuno, ma non sappiamo mai se facciamo bene o se facciamo peggio. Vorremmo cambiare lavoro, ma chi ci dice che andrà meglio?

Poi si torna a casa: i bambini vorrebbero la loro attenzione, la moglie vorrebbe la sua, la casa ha bisogno delle sue attenzioni e delle nostre pulizie; e il cane pure. Così quando arriviamo a casa riparte un'altra giornata. Che se poi ci si mette il vicino "rompiscatole" perché il nostro cane abbaia o la suocera che esige che noi la si porti a fare delle analisi in ospedale, il disastro è completo.

Così non vediamo l'ora di dormire: finalmente pausa! Ma come mettiamo la testa sul cuscino già un altro incubo si profila: oddio, domani è un altro giorno! Uno stuolo di ombre nemiche si nascondono nell'oscurità, pronte per assalirci l'indomani.

Ma dobbiamo vivere tutta la vita così? Dobbiamo subire sempre tutto questo? Ma che gusto c'è nella vita?

Allora, fratelli, se ci è rimasto un po' di cervello, non possiamo far altro che aggrapparci a Gesù. Eh sì: perché è proprio vero: quanti di noi sono contenti del lavoro che fanno e dell'ambiente in cui lavorano? Quanti di noi sono contenti della propria vita?

Molti si adattano… ma contenti, contenti?

 

Eccoci qua: anche noi, in fin dei conti, non siamo molto diversi dagli apostoli. Poveri uomini loro, poveri uomini noi.

Ma immedesimiamoci in loro, riviviamo gli stessi eventi, le stesse circostanze, i loro stessi stati d'animo di quel particolare giorno.

C'è da andare a pescare: e nessuno ne ha voglia. L’uragano Gesù, il progetto rivoluzionario tanto sognato, i grandi entusiasmi, i radiosi progetti, sono tutti tramontati. Sono "out". Fuori. Fine.

Ma bisogna purtroppo lavorare, bisogna pur vivere, no?; "dobbiamo" fare questo, "dobbiamo" fare quello. Non c'è nessun entusiasmo neppure fra gli apostoli quella mattina; non c'è entusiasmo vero in nessuna delle nostre mattine. Andiamo avanti sempre così col "dobbiamo": facciamo le cose perché “bisogna”: ma che vita è? Dov'è il gusto della vita? Che tristezza: uno fa una cosa e tutti lo seguono, così, per inerzia. "Vado a pescare", dice Pietro; e tutti che si accodano dietro: "Veniamo anche noi". Mancanza di fantasia e di iniziativa.

E scusate, non sembra di vedere e di sentire proprio noi stessi, oggi, altrettanto appecoronati? Guardiamoci un po' attorno: la pubblicità dice che tutti hanno una determinata cosa? E noi zac: dobbiamo averla assolutamente anche noi! Che ne so, va di moda il navigatore? E noi, come facciamo a vivere senza? Il videofonino, il Tablet, il netbook, lo smartphone o l’iPhone, fanno la tendenza del momento? Beh, saremmo proprio degli "sfigati" se non ce lo procurassimo subito e uguale!  Certamente: uguali in tutto e per tutto.

Ma come!?, tuo figlio non fa uno sport? Ma come!?, non hai l'abbonamento a Sky? Ma come!?, non vesti Armani, Biagiotti, Gucci, Versace? Ma come…?  In realtà, tutto questo risponde ad un modello standard di vita, uno specimen ben delineato, al quale tutti aspirano di uniformarsi: lavorare lui e lei, avere una bella casa, uno o due figli, una vita tranquilla, avere un discreto gruzzolo per gli extra, per i viaggi, per le vacanze; lui poter avere una "buona" automobile e lei permettersi un "buon" vestito. Tutto qui? In realtà sembra proprio pochino: l'intelligenza, la sete di sapere, il genio, l'inventiva, dove li mettiamo?

Una volta almeno c'era chi pensava a farsi prete, suora, ad andare in missione, a buttarsi nell'insegnamento, in una politica contro la corruzione, a lottare per un mondo migliore, per una società diversa, e questo con generosità, rispondendo ad ideali ben precisi senza biechi calcoli di solo tornaconto.

Una volta c'erano ben più possibilità di scelta, più progetti personali; oggi sembra invece che ci sia un'unica strada, quella dello star bene, del mangiare bene, dell'avere il più possibile, del divertimento ad ogni costo: una strada che tutti scelgono di percorrere, e tutti la vogliono percorrere allo stesso modo: potenza dell'egualitarismo!

Oggi la gente si sente tranquilla e appagata perché "è come tutti", ma non si accorge di aver venduto l'unica cosa che possedeva, l'individualità, il proprio volto. Fare i cristiani, i preti, le suore, i religiosi in maniera più convinta, più “diversa” dagli altri? Vi diranno che siete "fuori"! Come genitori scegliete che i vostri figli non facciano orario prolungato perché è assurdo che studino così tanto? Vi prenderanno per matti. Come persone credenti decidete che sabato e domenica non si lavora? Vi prenderanno per "fuori dalla realtà". Andare a messa la domenica e vivere apertamente da cristiani, senza falsi condizionamenti? Siete semplicemente dei "soggettoni"!

Se fate come tutti, come il “branco”, la società vi accetta; altrimenti vi esclude, vi giudica, vi mette al bando.

Ma fare come tutti, è come essere nessuno; fare come tutti, è rinunciare a se stessi. Fare come tutti, ti protegge sì dal giudizio e dall'essere sotto i riflettori, ma produce il vuoto. Perché per fare come gli altri, devi rinunciare a te stesso, esattamente a ciò che ti rende diverso dagli altri.

 “In quella notte non presero nulla”. Lo sentite il vuoto, il nulla, l'assurdo di certe esistenze che ci circondano? Nessuna comprensione, nessuna fiducia, nessuna condivisione, nessun colloquio: persone alla deriva, isolamento completo. Ma, ripeto, è vita questa?

Fate questa domanda alle persone che incontrate: "Perché vivi?"

Se non vi prenderanno per idioti, alcuni non sapranno cosa dirvi e faranno silenzio. Altri vi daranno risposte a cui neppure loro credono.

Poche persone infatti possono dire di sé: vivo per realizzare il potenziale che Dio ha messo dentro di me; vivo e metto tutte le mie energie per fare questo mondo migliore, più vero di quello che è; vivo perché la gente possa essere se stessa; sono un terapeuta dell'anima: vivo per disseppellire e valorizzare l'anima dalle persone; vivo perché le persone credano di poter essere  liberi; sono un balsamo per molti cuori sofferenti (Etty Hillesum); sono una matita nelle mani di Dio (Madre Teresa); voglio essere per gli uomini l'amore (Teresa di Lisieux).

La gente non crede che si possa essere felici. Crede che "bisogna tirare avanti", che "bisogna accontentarsi", che "bisogna farsela andar bene", che "bisogna prendere quello che viene". Sentite quanta tristezza si nasconde dietro queste parole: rassegnazione, vuoto, sconforto. La rete è completamente vuota!

 

A quel punto arriva Gesù ma loro, i discepoli  e noi, non lo vediamo. È sempre così: Dio c'è già, ma noi non lo vediamo, quindi non c'è.

Lui chiede: "Avete qualcosa da mangiare?" C'è qualcosa che nutre la vostra vita? Se siamo onesto dobbiamo rispondere: "No". È  giustamente l'ammissione della nostra infelicità, del nostro sentirci vuoti, depressi, frustrati, di come è faticoso alzarci la mattina e di come dormiremmo sempre.

Ma rispondere “no” equivale a non risolvere il problema, soprattutto un problema che per noi non esiste: se non ammettiamo, se non accettiamo di avere un problema, non lo potremo mai risolvere. Quindi la prima cosa da fare è poterci dire: "Così non va!"

E, vi assicuro, ci vuole coraggio per farlo.

Preferiamo illuderci, fingere di star bene: "Ho il lavoro, ho la casa, ho i figli, non mi manca niente" e ci attacchiamo all'illusione di stare bene; così indossiamo la maschera del "Mulino Bianco", della famiglia felice. Invece dentro, tutti moriamo di solitudine, di insoddisfazione, di rabbia, di vuoto.

Ma attenzione: bisogna ammettere di essere ammalati per guarire; dobbiamo convincerci che noi, e non gli altri, siamo ammalati.

Dio, del resto, non ci cambia la vita come pensiamo noi. Ce la cambia, ma non come vorremo noi. Come lo immaginiamo noi?

Mah, più o meno in questo modo: una bella mattina succede un miracolo, un evento dal cielo, una cosa incredibile e la vita ci cambierà in un attimo, all'improvviso. Vinceremo al Superenalotto e tutti i nostri problemi spariranno. Troveremo la frase magica o la soluzione miracolosa che in un colpo solo ci risolverà tutti i nostri problemi.

Invece no, fratelli e sorelle. Gesù ci rimanda in alto mare: ancora, ancora una volta, anche se ci siamo stati quella stessa notte. Solo che adesso ci rimanda con un ordine ben preciso: "Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete".

Gesù ci rimanda ancora nella nostra vita, in quella di sempre; non ci dice di cambiare lavoro, di cambiare moglie, di piantare tutto e di andare in Africa o chissà dove.

Ci dice semplicemente di fare attenzione alla “destra”: la destra, per gli antichi, era la parte consapevole, del ragionamento, la parte del cuore. Quindi: "Fai le cose di prima, le stesse, ma adesso falle in maniera consapevole, con amore. Non vivere più con la testa fra le nuvole; fatti domande, osservati, guardati, vedi come reagisci, chiediti cosa vuoi da te e cosa ti appassiona.

Allora, invece di fare come fanno tutti, iniziamo per esempio a chiederci: "Ma io cosa voglio? Io di cosa ho bisogno? Cosa mi va di accettare e cosa non mi va di accettare? Mi sta bene questa cosa?". Osserviamo noi stessi con occhio critico, in maniera consapevole, per vedere come agiamo, come parliamo, come ci muoviamo, per capire cosa avviene dentro di noi: "Quali dinamiche mi muovono? Quali paure ho dentro che mi fanno pensare e agire in una certa maniera? Quali traumi hanno prodotto le porte sbarrate della mia esistenza? Che cosa mi blocca? Sono autentico, sincero? Sono me stesso? Quali maschere indosso?".

Facciamolo, fratelli: perché solo una vita consapevole può produrre felicità. Dobbiamo arrivare a dare un nome, il suo nome, ad ogni cosa, ad ogni aspirazione, anche quella più nascosta in noi: "In che cosa io sono unico? Che cosa mi attrae nel mio profondo (perché lì dove c'è il tuo cuore, lì c'è il tuo tesoro)? Per quali valori vale la pena di vivere e per quali non mi interessa? Quanto sono disposto a giocarmi, ad espormi, a rischiare?".

L'illusione della gente è che ciò che ci riempie sia al di fuori di noi. Ma al contrario ciò che riempie le nostre reti, ciò che ci fa cantare dalla gioia, ciò che ci fa sentire fratelli uniti e amati dallo stesso Dio, ciò che ci rende così vivi da tessere lodi e inni per la nostra vita, ciò che plasma l'energia enorme che abbiamo dentro, non sta al di fuori di noi, ma dentro di noi.

In altre parole dobbiamo “fare contatto” con noi stessi; dobbiamo entrare dentro di noi, stare dentro di noi, se vogliamo che le reti (l'anima) si riempiano e rimangano piene. Dobbiamo stare con noi stessi, fratelli, e con il Dio che ci abita dentro. Dobbiamo conoscerci, non possiamo scappare di fronte ai nostri mostri, non dobbiamo nascondere i nostri istinti, ma dobbiamo familiarizzare con loro, farceli amici, dobbiamo essere padroni e conoscitori della foresta che è il nostro mondo interno, se vogliamo trovare qui il sacro tempio della Vita (Dio).

 

Fu questo il miracolo degli apostoli. Trovarono Dio nella loro vita ordinaria, di tutti i giorni. E la loro vita non fu la stessa, perché tutto cambiò.

Nel vangelo, Giovanni è il discepolo che Gesù amava: se non amiamo Gesù, se non amiamo, se non siamo attratti da ciò che abbiamo dentro, se non desideriamo fare silenzio e incontrarlo, non potremo mai "vedere" il Signore. È proprio facendo quello che faceva sempre (il pescatore) che Giovanni all'improvviso si rende conto: "È il Signore!".

Ecco, la nostra vita inizierà a cambiare il giorno stesso in cui, pieni di entusiasmo, di stupore, di meraviglia, di sorpresa, potremo anche noi dire: "È il Signore!".

Poterlo "vedere" (non pensarlo), percepirlo, sentirlo, nei piccoli eventi di tutti i giorni: una risposta diversa che diamo, una cosa nuova che iniziamo, un "no" che finalmente riusciamo a dire, una paura che riusciamo ad ammettere, uno "scusa" che riusciamo a pronunciare, un lasciarci andare alle emozioni, un incontro che non ci aspettavamo, un tramonto o una passeggiata che ci riempiono, uno sguardo amoroso di nostro figlio, una complicità con nostra moglie, un sorriso del confratello o della consorella, ecc. ecc.; piccole cose, ma che ci permettono di dire: "È il Signore!".

La gente cerca Dio nelle visioni, nelle apparizioni, perché non "lo vede" nella propria vita.

Per questo lo cerca fuori. Ma Dio, se appare, ti incontra nella chiesa della tua anima. A volte tutto questo cercare nuove esperienze religiose, questo smaniare per fare particolari cammini di fede, per eletti, è più segno di mancanza di fede che del contrario.

Dio c'è se noi stessi lo vediamo in noi e nei fratelli. Altrimenti possiamo infatuarci dell’idea che altri hanno, rischiamo di “credere” in qualcosa che non conosciamo, di un'idea che magari anche noi coltiviamo ma soltanto a livello cerebrale, non emotivo: forse sì, forse no. Ma se lo "vediamo" con gli occhi della nostra fede, soprattutto se lo “sentiamo” nel nostro cuore, allora non c'è più alcun dubbio. "È il Signore!"

 

Pietro rappresenta noi, la chiesa. Pietro è il primo Papa e Giovanni lo sa. Pietro nel vangelo è l'uomo razionale, efficiente, ma che non dà molto spazio al cuore. Solo Giovanni vede il Signore. Era già successo: le idee, i programmi, senza l'amore, senza il cuore, senza la vita, "non vedono" il Signore.

Pietro è quella chiesa che stancamente, senza iniziativa, nel suo isolamento va a pescare, ma non può pescare nulla perché vive nella routine, nella noia, nell'abitudinarietà.

Pietro deve "bagnare" la propria presunta sicurezza. È troppo rigido, è troppo fermo nei suoi schemi mentali e quando siamo fissati su idee vecchie, su posizioni di paura, sul conservare ad ogni costo piuttosto che sul rinnovare, allora ci immobilizziamo, moriamo dentro. La vita è "morbida": ogni rigidità la fa morire.

È per questo che Pietro si veste; ce lo siamo già chiesto: che senso ha vestirsi prima di buttarsi in acqua? Ma certo, egli deve vestirsi: deve cioè far fare alla propria autorità (il vestito), al proprio ruolo, alla propria funzione, un bagno di umiltà, un bagno di morbidezza.

A volte la chiesa, noi, ci poniamo ancora così, rigidamente: "Abbiamo Gesù Cristo, quindi noi soli abbiamo la Verità: che volete da noi? Se non diventate come noi non possiamo farvi nulla!". Il vangelo invece direbbe: "Tutti in acqua!, a fare un bel bagno di umiltà!".

Pietro deve immergersi nel suo mare, deve affrontare le sue paure, deve riconoscere le proprie rigidità: solo così può essere capo di una barca (chiesa) che porterà frutto e che rimarrà per sempre viva nel suo spirito.

È sempre Pietro che sale sulla barca (che è la chiesa). È sempre lui che trae a terra la rete piena. È Pietro (il Papa) che ha il compito di condurre la chiesa (la rete tratta a terra). Ma è Dio, la risurrezione, che accorda gli strumenti stonati e dissonanti, elimina le lacerazioni impossibili, integra ciò che per noi è in contrasto. È Dio che armonizza l'impossibile per gli uomini; che ci fa fare quello che non crediamo di essere in grado di fare e che ci fa vincere ciò che ci sembra invincibile. Si, Dio è più forte di ogni contrasto, di ogni contraddizione, di ogni opposizione. Ma Dio non può far nulla senza l'uomo. È sempre Dio che fa (Gesù ha già acceso il fuoco con il pesce sopra), ma egli non può far nulla senza la chiesa e senza gli uomini: "Portate un po' del pesce che avete preso or ora".

 

La chiesa (Pietro) dovrà sempre interrogarsi e monitorare bene ciò che dice e ciò che professa. Nel testo italiano noi non riusciamo a cogliere la profondità di ciò che avviene nel racconto; nel testo greco invece tutto è molto più chiaro: qui Giovanni per indicare il grado di amore mette in bocca a Gesù due verbi: Agapao e Filein. L’Agapao è l'amore libero, quello vero, autentico, generoso, incondizionato. Il Filein è anche amore, ma meno coinvolgente, meno assolutizzante: è l’affetto, il voler bene, l’amore dell'amicizia, del rispetto, dell’ammirazione: ma si ferma lì.

Gesù quindi chiede alla chiesa (Pietro) se lo ama a fondo (Agapao), incondizionatamente, più di tutto e di tutti, senza calcoli o fini secondari. La risposta della chiesa (Pietro) fa però capire che non è proprio così: essa non è il luogo dei santi, innamorati persi, dei perfetti o dei puri; è il luogo degli uomini fragili che cercano, che vogliono imparare da Gesù, seguire Gesù, amare Gesù; ma è ancora il luogo dell'amore-amicizia, del rispetto e del timore (Filein).

Certo questo è già un inizio, ma non basta: perché non c'è Chiesa, corpo di Cristo, se non c'è l'amore vero, profondo, intenso e gratuito, se non c’è l'Agape.

La via della santità, dell’Amore assoluto, è lunga e impervia. Purtroppo la chiesa (gerarchia) in talune situazioni ancora oggi si erge a giudice impassibile: non pastori che amano e offrono la vita per le proprie pecore, ma amministratori e contabili, speculatori dell’utile che ne può venire dalla gestione delle pecore: "Tu puoi, tu non puoi; tu sì, tu no; tu mi servi, tu non vali nulla”. Ma essa (e i suoi pastori) non può e non deve mai dimenticare che il suo compito non è di giudicare, stabilire, organizzare, amministrare, ma di amare. Punto.

Per questo il Signore la interroga più volte su come "sta con l'amore": e se non è "più degli altri", se non è convinta di esistere solo perché deve amare più degli altri, se non eccelle in questo, allora non è chiesa, non è Comunità di Cristo.

Pertanto tutti noi, chiesa dei battezzati, dobbiamo porci sempre questa domanda: "È amore ciò che diciamo, ciò che facciamo"? Perché solo l’amore ci abilita ad inserirci, a cercare, aiutare, assistere i nostri fratelli, l’intero gregge del popolo di Dio ("pasci i miei agnelli").

È fondamentale pertanto riconoscerci sempre in debito, in deficit d'amore nei confronti di Gesù. "Mi ami?" chiede dunque Gesù; "Ti voglio bene", risponde Pietro.

Pietro è consapevole che il suo amore non è del tutto vero, autentico: e anche noi non possiamo chiudere gli occhi sul fatto che abbiamo bisogno di crescere, di metterci in gioco, di rinnovarci, di ammettere le nostre zone d'ombra e di falsità, e che a volte chiamiamo "amore" ben altre cose rispetto all’amore!

Per questo la chiesa deve sempre vigilare su sé stessa, altrimenti tradisce il Signore.

Quando infatti  Gesù mette alla fine in dubbio l'amore di Pietro (la terza volta anche Lui usa il verbo Filein e non Agapao), è proprio allora che Pietro ricorda le tre volte in cui lui ha rinnegato il Signore. Per tre volte gli ha detto no: e per tre volte il Signore lo interroga per saggiare la profondità, la sincerità e l’autenticità delle sue motivazioni.

E Gesù chiude: "Quando eri giovane ti cingevi la veste da solo…”

È proprio vero: nella vita, c'è un tempo (gioventù) in cui tu decidi autonomamente dove andare e cosa fare, ma c'è anche un tempo (vecchiaia) in cui non sei più tu a decidere dove andare e cosa fare: lo stesso vale per la tua vocazione, per la tua missione; sei tu a deciderne la direzione, i contorni, i progetti; ma abbandonati comunque a lui, lascia docilmente che sia lui a condurti  là dove egli vuole portarti. Seguilo su questa via: anche se non sai dove sta andando, anche se non vorresti andarci, anche se ti viene di resistergli con tutte le forze. Ciascuno di noi vorrebbe decidere in tutto per la propria vita, tenerla in pugno, stabilire cosa fare, dove andare, cosa ci deve o non deve capitare. Ma non è da noi credenti; avere fede è infatti lasciare spazio a Dio: avere fede significa lasciarci condurre, lasciarci portare, lasciare che sia Lui a dirigere la nostra vita.

Come fece Maria: “Fai di me secondo la tua parola” (Lc 1,38). È la scelta migliore e più appagante.

Chi dice infatti che Dio non voglia rovesciare la nostra vita? Chi dice che Dio non voglia qualcosa di grande da noi e per noi? Chi dice che Dio non ci faccia lasciare il lavoro, le amicizie, le nostre idee, la nostra casa, le nostre convinzioni, per seguirlo? Chi dice che Dio non faccia guarire la nostra anima? Chi dice che Dio non cambi radicalmente il nostro carattere e ci trasformi in persone completamente diverse? Chi dice che un giorno Dio non ci cali in realtà e situazioni oggi magari neppure immaginabili? Chi dice che Dio non scombini la nostra vita e le nostre idee? Noi magari oggi ci pensiamo sposati, con moglie, con figli… e invece la nostra vita d’improvviso, completamente, potrebbe stravolgersi: chissà, forse prete, frate, monaca, missionario..!

Ma sempre e comunque, seguendo lui, tutto sarà per il nostro meglio. Non dimentichiamolo mai!

 

Ecco, fratelli e sorelle, questo ci indica la Parola di oggi: su questo si innesta la nostra storia individuale, il nostro cammino; questo è il nostro percorso di cristiani, questa è la nostra vita.

E allora usciamo dalla nostra tristezza tutti insieme, radunati dal Maestro nella gioia pasquale, dimentichi delle nostre povertà e delle nostre miserie, obbediamo alla sua Parola che ci invita a prendere il largo, senza paura, facendo attenzione a riconoscerlo sempre presente, con il suo grande amore, nel nostro quotidiano.

Superiamo la tristezza, vi prego, fratelli: il Signore è risorto. E noi con lui.

E rispondiamo con entusiasmo al suo Seguimi!: “Signore: dovunque tu mi condurrai, io ti seguirò”. Sempre. Amen!

 

 


 

IV DOMENICA DI PASQUA – ANNO C

(25 APRILE 2010)

 

 

 

 

 

Vangelo: Gv 10, 27-30

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

 

 

“Nessuno le strapperà dalla mia mano”

 

Presupposto fondamentale e imprescindibile: la vita è un tempo che ci è dato per imparare ad amare. Scoprirsi amati da Dio è scoprire in lui la sorgente dell'amore, è l'esperienza più bella che possiamo fare.

Ma la vita – lo sapete bene – è faticosa, contraddittoria, piena di insidie, tese proprio da chi ci sta più vicino, dai nostri fratelli, da chi siamo convinti dovrebbero amarci più degli altri.

Lo stesso Paolo sperimenta personalmente la contraddizione che abita il cuore dell'uomo: da una parte egli viene rifiutato dai suoi stessi fratelli nella fede, e dall'altra i pagani, gli esclusi, quelli lontani, lo ammirano e gioiscono perché scoprono di essere i destinatari dell'annuncio.

La fede arriva a noi attraverso mille difficoltà e mille dolori.

Diventare adulti nella fede significa scoprire ciò che Gesù dice: nulla mai ci potrà allontanare dalla mano di Dio. E Gesù, per nostra fortuna, ci tiene per mano, con forza. Di più, siamo addirittura nel palmo della mano di Dio: Isaia dice che Dio scrive il nostro nome sul palmo della sua mano, come fanno i ragazzi delle medie per annotarsi il telefono di una ragazzina carina...

Ecco, fratelli e sorelle che leggete: non si tratta di rancido spiritualismo, ma di una sconcertante verità, di una promessa già realizzata; ascoltiamo ciò che la Parola del Maestro ci dice: siamo tutti nella mano di Dio! Ecco la ragione in più per gioire, il motivo che Gesù ci suggerisce con passione e trasporto, per continuare nel nostro lungo cammino della conversione alla gioia: nessuno ci rapirà dalla mano del Padre…

 

Ma come nasce la fede, qual è la sua vera fonte? Semplicemente l’ascolto.

“Le mie pecore ascoltano la mia voce”. L'ascolto è il nostro primo lavoro, il primo servizio da rendere a Dio e al prossimo, il primo modo per dare all'altro - sia Dio, sia un fratello - l'evidenza che esiste, che è importante per me. Amare è ascoltare. Ascoltare è ubbidire.

In molti dialetti il verbo ubbidire non esiste più: è sostituito da “ascoltare”. Quante volte abbiamo sentito i genitori lamentarsi: quel figliolo non ascolta; quel ragazzo ormai non ascolta più nessuno. E intendono dire: non ubbidisce più a nessuno. È lo stesso lamento di Dio che

riempie la bibbia: ascolta, Israele! Ascolta la mia Parola!

Dobbiamo saper ascoltare nel silenzio del nostro cuore, con umiltà e senza scontati criticismi – guizzi aprioristici del nostro orgoglio – la voce di Gesù che ci arriva attraverso i canali più disparati, ma che lui ritiene più consoni a noi. Dobbiamo ascoltare il nostro cuore, rispettare la nostra intima sete di bene e di luce, che ci predispone all’ascolto della Parola . quella Parola che Gesù ci rivolge svelandoci il Padre.

Un ascolto che ci permette di vedere la nostra vita in maniera diversa, un ascolto che si trasforma in pratica, che ci sprona all’obbedienza, che ci fa mettere il Vangelo a fondamento delle nostre scelte. Perlomeno che ci fa provare a metterle: perché purtroppo conosciamo la nostra debolezza, sappiamo bene quanto siamo incoerenti e inaffidabili!

Ma il Maestro ci conosce bene. Conosce i nostri limiti, la nostra fatica, i nostri ruzzoloni continui; ma conosce anche la nostra buona volontà, la costanza nel voler ricominciare sempre da capo, nel voler risalire la china, e la gioia incontenibile che proviamo ad ogni nostra piccola conquista nell'amarlo!

Ecco, questo oggi Gesù ci dice: di questo oggi ci rassicura: niente e nessuno potrà strapparti dal mio abbraccio. Non il dolore, non la malattia, non la morte, non l'odio, non la fragilità, non il peccato, non l'indifferenza, non la contraddizione di esistere. Nulla.

Nulla ci può rapire, strappare, togliere da Lui.

Siamo suoi: Egli ci ha pagati a caro prezzo.

Siamo di Cristo.

Ma non pensiamo per questo di essere superiori, di godere di speciali riconoscimenti.

No fratelli: al discepolo, a colui che si sforza di seguire Gesù, non è sicuramente risparmiata la sofferenza; la sua vita non è per questo più semplice e meno difficoltosa: è soltanto illuminata, diversa, in qualche modo trasfigurata. E scusate se è poco!

Altro infatti sbattere la testa qua e là per tutta la vita chiedendoci qual è la misteriosa ragione del nostro passaggio in questa valle di lacrime, altro scoprire che siamo inseriti nell'immenso progetto d'amore che Dio ha sull'umanità.

Un amore, il suo, infinito, totale, irremovibile, voluto ad ogni costo, caparbio: un progetto d’amore che non è poi così lontano, chimerico, irraggiungibile: ma anzi un progetto a cui tutti siamo chiamati e di cui tutti possiamo far parte.

È questo, fratelli e sorelle il nostro destino. È questo il tesoro nascosto nel nostro campo. E questa l’unica vera ragione per la quale siamo stati chiamati ad esistere.

Cerchiamo di fissarcelo bene in testa: e facciamo in modo che il nostro sogno sia lo stesso che Dio ha su ciascuno di noi. Perché solo così potremo essere veramente in cammino, sulla strada giusta.

Non importa se diventeremo dei premi Nobel, i più grandi scienziati, scrittori, navigatori, manager o chissà cos’altro ancora.

L’importante è che scoprendoci nel cuore di Dio, nel suo pensiero, nella sua mano, smettiamo di restare ripiegati su noi stessi, sul nostro egoismo, sulle nostre piccole paure; dimentichiamo le nostre quotidiane frustrazioni, la nostra fragilità endemica, e amiamo finalmente senza riserve mentali, con cuore aperto e sincero!

 

Il breve testo del vangelo di oggi, ritagliato e staccato dal suo contesto – il grande discorso del buon pastore – ci suggerisce anche altre considerazioni.

La nostra vita è come uno stretto sentiero di montagna – vi è mai capitato? –  estremamente difficile, delicato e impegnativo, da percorrere in equilibrio sul crinale, con burroni a destra e a sinistra: solo chi lo supera può proseguire nella salita, lassù, molto più in alto, dove il sentiero termina nella vetta; gli altri, gli incauti, i sicuri di sé, coloro che non vogliono essere sorretti dalla mano del Maestro, cadono nello strapiombo, da una parte o dall'altra, o scivolano per i ghiaioni, da dove poi diventa estremamente difficile risalire.

Ma quali sono questi burroni? Il primo che si apre al nostro fianco è, per esempio, quello del super attivismo. Il credere che tutto dipenda da noi, dalle nostre iniziative, dalle nostre belle parole, dalle nostre buone azioni. Nella vita personale, ognuno di noi può perdersi ad ammirare compiaciuto le sue devozioni, le sue imprese pastorali, le sue opere di volontariato, la sua vita familiare indefettibile... mentre a livello comunitario, parrocchiale, religioso, in una parola nell'evangelizzazione, le sue numerose iniziative, la ricerca delle strategie comunicative vincenti, dell'organizzazione più efficiente... Ma Gesù ci ricorda: "Le mie pecore ascoltano la mia voce". Ciò che prima di tutto deve risplendere, quando evangelizziamo o cerchiamo di educare alla fede, non sono le nostre iniziative o belle parole, ma la sua voce. E anche nella nostra vita personale, la nostra integrità non conta nulla, se non richiama all'Unico, che ci chiama dalle tenebre alla luce, e ci rende forti e coerenti con il dono del suo Spirito.

Solo la voce di Gesù ha una attrattiva autentica, solo la sua voce può radunare il gregge dei fratelli, e nostro compito è aiutarla a risuonare ancora, unica e originale, non di coprirla con le nostre parole e i nostri gesti.

Dall’altro lato,un secondo burrone: ossia una interpretazione elitaria ed esclusivistica delle parole del Maestro: "Le mie pecore ascoltano la mia voce". Quindi: noi che ascoltiamo siamo sue pecore; gli altri che non ascoltano, non lo sono. È una visione molto insidiosa, anche perché sembra supportata dalla Scrittura stessa. È una tentazione che prima o poi si insinua in tutti i gruppi ecclesiali (anche quelli parrocchiali, soprattutto quelli che funzionano...), ma soprattutto nelle associazioni e nei movimenti cosiddetti “carismatici”. Credersi il gruppo eletto, privilegiato, delle pecore "conosciute da Gesù", che "nessuno strapperà dalla sua mano". Ma la Parola di Gesù non si lascia imbrigliare nelle nostre visioni campanilistiche e meschine. "Io le conosco, ed esse mi seguono". Gesù conosce noi, e non allo stesso modo in cui noi ci illudiamo di conoscerlo. Gesù ci conosce, solo lui ci conosce veramente; e con questo viene a cadere ogni nostra pretesa di delimitare i confini del suo gregge, adattandoli a quelli del nostro gruppo. Solo lui sa chi lo segue veramente, con animo sincero e retto. I grandi raduni, i grandi movimenti di massa, servono spesso a mimetizzare tanta miseria individuale. Numeri sterili a traino passivo della sacra esaltazione di pochi.

Altro pericolo incombente: un vago spiritualismo. Ascoltare la voce del Maestro potrebbe ridursi ad un vago spiritualismo, ad una emozione, ad un sentimento del cuore.

Siamo molto assetati di esperienze spirituali, profonde, calde e commoventi. È come un ghiaione insidioso, che ci risucchia dal giusto sentiero, e da cui è difficile risalire. Ci sono nel cammino spirituale esperienze privilegiate, ma sono appunto momenti particolari, momenti di illuminazione, in cui sembra davvero di udire la voce del Maestro che chiama.

Non sono assolutamente la regola: "ascoltare la voce" significa ubbidire, camminare umilmente, andare avanti al buio.

C’è poi la frequente possibilità della caduta: di quelli che si perdono lungo il cammino.

La parola del Maestro potrebbe anche suonare deludente per loro: che significa "nessuno le strapperà dalla mia mano?". In realtà vediamo tante persone che si perdono, che perdono la fede, che si allontanano dalla Chiesa, che non pregano più, che non sanno più rivolgersi a Dio...; come si può pensare che valga anche per esse il "nessuno le strapperà dalla mia mano?". È invece così, fratelli: esse non sono definitivamente perse; è anche di queste pecore che parla il Signore. “Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre”. Nessuna persecuzione esterna, nessun nemico, nessuna difficoltà potrà mai separarle dall'amore di Cristo perché “Io e il Padre siamo una cosa sola”. L’importante è restare nel suo amore. L’importante è che ci aggrappiamo alla sua mano. Nessuna frana ci potrà travolgere, se ci appoggiamo alla roccia, se anche nel buio, quando ci abbandona la vista, seguiamo la voce sicura del nostro pastore.
Infatti se veramente seguiamo le sue parole, passo dopo passo, senza deviare nei burroni del nostro orgoglio, senza lasciarci sedurre dai sentieri più facili e in discesa, senza lasciarci scoraggiare dall'opposizione del nemico, arriveremo sicuramente sulla vetta della montagna:

quel Tabor che ci introdurrà nella conoscenza del Padre, nel rapporto luminoso con Dio. Lui ci ha "dati" al suo Figlio, perché potessimo essere "raccolti" e "ritrovati". Lui risplende nel volto amoroso di Cristo, perché i due sono "una cosa sola",  proprio Lui ci chiama, nel suo Figlio, a vivere la stessa comunione di amore.

 

Oggi la Chiesa concentra la sua attenzione sulla figura del Pastore, del prete: invita a pregare per quella esaltante e destabilizzante vocazione che è l'annuncio del Vangelo, per quei fratelli, cioè, che dedicano la loro vita a costruire comunità.

Poveri preti, categoria in via di estinzione!

È così difficile parlare del "prete" e dei suoi meriti, oggi in particolare: ma dobbiamo ribellarci, soprattutto oggi, in cui la sua figura è così vilmente sporcata, così denigrata, screditata, vituperata  per le colpe di pochi, dobbiamo guardare con ammirazione a quella massa di santi preti che rispondono eroicamente, nascostamente, in silenzio, alla loro chiamata.

È difficile pensare al prete in astratto: forse perché "il" prete, quello per antonomasia, non esiste: noi vediamo sempre "questo" prete, “quel” prete: Don Tizio, Padre Caio. Idealizzato da una teologia che lo ha staccato dalla gente comune, oppure inchiodato alle sue incoerenze più o meno palesi, o ancora catalogato e confrontato, aggiornato e contestato, il prete si trova, oggi come oggi, a chiedersi spesse volte chi è e cosa deve fare.

A sentire i consigli che arrivano gratuitamente da tutte le parti, bisognerebbe avere mille occhi, mille vite, e, ahimè, una difficile e improbabile vita santa ed eroica!

Papa Benedetto, domenica a Malta, ha pianto con le vittime degli abusi di indegni preti pedofili, travolto dalla commozione per il loro dolore e, immagino, per il grande dolore che prova per la Chiesa.

Dolore che provo anch'io, forte, quando vedo il danno arrecato al volto di Cristo da parte della nostra mediocrità (mia, in primis) e di come invece di essere trasparenza, siamo diventati velo che offusca il luminoso volto di Cristo. È questo il momento di pregare per i nostri pastori, questo il momento di fare penitenza, di andare all'essenziale. Di chiedere preti santi, a immagine del Santo.

Forse val la pena abbassare le nostre pretese e ricordarci semplicemente che il prete è solo un fratello che dedica la sua vita ad annunciare il Regno a tempo pieno, cercando di vivere le cose che dice.

Il Signore chiama, ha bisogno di uomini e donne che si dedichino in maniera particolare, "full-time", all'annuncio del Vangelo radunando le comunità attorno alla mensa della Parola e dell' Eucarestia e donando a piene mani il perdono e la tenerezza di Dio. Quanto cammino dobbiamo fare ancora tutti, preti, laici impegnati, religiosi, comunità intere, per arrivare a questo traguardo!

"Vogliate bene ai vostri sacerdoti" raccomandava un giorno un Vescovo.

Certo, dobbiamo voler bene ai preti, ai “nostri” preti, a quelli che lavorano, soffrono, combattono con noi e per noi: prima di criticarli, preghiamo per loro, prima di confrontarli, cerchiamo insieme il bene, prima di isolarli, pensiamo che, come tutti gli uomini, hanno bisogno di un sorriso e di un amico.

Gesù cerca proprio dei “matti” disposti a seguirlo: lavoro assicurato, tanta fatica e la gioia, inaudita, di vedere Dio che passa e stravolge i cuori: i cuori di tutti, i nostri, i loro e quelli di tutti i poveri preti del mondo! La Chiesa non è il popolo dei perfetti, ma dei perdonati. Non il popolo dei giusti, ma dei figli!

 

Concludo: «Nessuno mai ti rapirà dalla mia mano»: dice Dio. C' è un verbo non al presente, ma al futuro a indicare un'intera storia, lunga quanto il tempo di Dio. L'uomo è, per Dio, una passione in grado di attraversare l'eternità.

«Dalla mia mano». Mani che hanno disegnato i cieli e gettato le fondamenta della terra, di vasaio sull'argilla dell'Eden, di cesellatore su Adamo ed Eva; mani inchiodate alla croce per un abbraccio che non può più terminare. Nessuno potrà mai separarci da queste mani: sono parole che ci infondono nuovo coraggio, nuova forza.

Come passeri abbiamo fatto il nido nella sua mano.

Come bambini ci aggrappiamo forte a quella mano che non ci lascerà cadere.

Come crocifissi ripetiamo: nelle tue mani, Padre, affido la mia vita.

Signore, desidero la verità e l’amore vero.

Ecco perché mi domando: Io di che cosa vivo? Qual è il senso della mia vita?

Per chi vivo? Quale pastore seguo? Quale gioia cerco? Verso quale pascolo vado?

Seguirti è difficile, il cammino è duro. Ma gioisco per la meravigliosa notizia che oggi mi dai: Se ti seguo, se ti ascolto, se ti riconosco se ti ricevo come Signore della mia vita... niente e nessuno potrà mai rapirmi dalla tua mano; niente e nessuno potrà mai impedirmi, alla fine, di gioire della vita; della tua Vita, con te in eterno. Amen.

 

 


 

V DOMENICA DI PASQUA – ANNO C

(2 MAGGIO 2010)

 

 

 

 

 

Vangelo: Gv 13, 31-33a. 34-35

Quando Giuda fu uscito dal cenacolo, Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.

Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

 

 

Il grande segno dell’amore

 

Siamo nel tempo della Pasqua: tempo di gioia per la risurrezione di Gesù; tempo di tutta una serie di “aperture”: si apre la tomba che lascia il posto alla vita nuova; si aprono i cuori che riconoscono il Vivente; si apre alle nazioni pagane la porta della fede; si aprono i cieli, così che Giovanni può testimoniare: «Vidi un cielo nuovo e una terra nuova».

Convertirsi a Cristo, alla gioia, significa smettere di cercare tra i morti uno che vive, superare il proprio dolore, come Tommaso, riprendere il largo, come Pietro, tenere stretta la mano del buon Pastore. E, arrivando quasi alla fine del tempo pasquale, convertirsi alla gioia significa amare.

Al cuore di questa quinta Domenica c’è il “testamento” che Gesù affida ai suoi, mentre sta per andare verso la morte: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri».

Le circostanze in cui vengono pronunciate queste parole conferisce loro una serietà ed una consistenza particolari: il modo in cui Gesù ha amato i suoi non si è certo risolto in un’atmosfera sentimentale, ma è arrivato fino alle conseguenze estreme, si è manifestato come dono totale di sé, fino alla morte per i propri amici.

A questo punto, di fronte all'imminente partenza di Gesù, la comunità non ha che un’unica possibilità per continuare a camminare unita a Lui: vivere l'amore, il "suo" amore. É questo il comandamento nuovo: Amatevi gli uni gli altri. Attenzione, Gesù non dice: "amate me come io ho amato voi". Non chiede ringraziamenti e riconoscimenti per se stesso; chiede solo che noi, suoi discepoli, ci amiamo gli uni gli altri, come Egli ci ha amato.

L'amore che Gesù qui ci insegna non prevede da parte nostra una posizione passiva di semplice attesa, un comportamento statico, indifferente: quello che lui vuole è un amore attivo, dinamico, rivoluzionario; non può essere accantonato, lasciato a decantare, ma deve essere trasferito immediatamente, e deve essere manifestato non a parole, ma con i gesti, con i fatti, nella pratica.

Perché è in questo modo che la rivelazione di Gesù si prolunga e si diffonde: nell'amore verso gli altri, verso i fratelli, verso le persone della comunità. "Da questo riconosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri".

Ecco, il vangelo di oggi, nella sua essenzialità, ripropone la toccante scena dell’addio, del commiato di Gesù dai suoi: siamo durante l’ultima cena, quindi prima della passione. Ed è nell’intimità di questo evento che Gesù fa le sue ultime raccomandazioni ai discepoli, cerca di spiegare ai suoi “figlioli” il significato di quello che succederà poco dopo e nei secoli futuri. Gesù ha appena finito di dire ai suoi che uno di loro stava per tradirlo, stava per consegnarlo nelle mani dei suoi carnefici: ed è turbato, Gesù. Ora che la sua missione sta per completarsi egli sente nel suo cuore tutto il peso del gesto immenso e tragico che sta per compiere. Gli apostoli si guardano smarriti l'un l'altro e pensano che il traditore sia l’altro, uno qualunque, uno seduto di fronte a loro: e non capiscono che in realtà il traditore è dentro ciascuno di loro. Giovanni, il confidente, poggia il capo sul cuore di Gesù e gli chiede: «Chi è, Signore?»

Gesù intinge il pane e lo offre a Giuda che lo mangia e si irrigidisce. Dare il pane è il più bel segno di accoglienza e di amicizia nel popolo di Israele. Ma Giuda, nel suo cuore ottenebrato, lo interpreta come un'offesa: non ha capito nulla. Non ha capito che Gesù gli sta rivelando che è proprio lui il discepolo più amato. Vorrebbe stringerlo al suo cuore perché si possa rendere conto della quantità e della qualità del suo amore per lui.

Giuda è scosso, esce nelle tenebre. Ma con sé, nel suo cuore, porta il pane, l'eucarestia.

Gesù donandosi a lui si è consegnato alle tenebre. Ma la luce del suo amore spezzerà anche il buio più fitto di queste tenebre.

A questo punto Gesù insiste, esagera: arriva a dire: “ora sono stato glorificato”. Ma come: ora che Giuda sta andando a tradirlo, ora che il suo cuore si è ottenebrato ed è diventato ostile, ora che sta organizzando con i suoi nemici la tragedia finale, proprio ora Gesù si sente "glorificato"? Si, fratelli: Gesù si sente glorificato perché è per mezzo suo che il Padre "manifesta la sua gloria", ossia può dimostrare a tutti che, nonostante il tradimento, Egli ama Giuda a tal punto da lasciar morire anche per lui il suo unico Figlio. È infatti anche attraverso il tradimento di Giuda che possiamo vedere la misura totale e universale dell'amore di Gesù.

Giuda si è perduto, è vero; ma non è forse altrettanto vero che il Signore è venuto a salvare proprio chi si era perduto? La perdizione non è forse il luogo teologico della salvezza? Non veniamo salvati proprio perché prima ci eravamo smarriti?

Ecco, con Giuda Gesù potrà dimostrare qual è la misura dell'amore di Dio: l'assenza di ogni misura.

Ogni uomo che ad un certo momento prende coscienza di sé, del suo ruolo di "salvato", della sua vita, si pone sempre la stessa domanda: sono perduto o salvato? E Gesù risponde: sei perduto e sei salvato!

Gli apostoli non capiscono tutto ciò, come non avevano capito il gesto della lavanda dei piedi.

Pietro infatti, poco dopo, dirà che egli è disposto a dare la vita per Gesù; nel suo delirio ormai si considera un suo pari, vorrebbe sostituirsi a lui. Ma Gesù gli ricorderà che è lui, lui solo e nessun altro, che darà la vita per loro, per i suoi discepoli; infatti, ricordate? qualche minuto dopo il canto di un gallo ricorderà a Pietro le sue contraddizioni, tutti i suoi limiti; non servono gesti eclatanti, grandi imprese; non è chiesto a Pietro di morire “per” Dio, “al posto di” Dio: ma gli è chiesto di morire “con” Dio, in unione con lui: tutto ciò che può fare lui, il discepolo, è imitare il Maestro, rimanere al suo fianco, nella sua amicizia, nei suoi insegnamenti, nient'altro! Certamente di non sostituirlo!

Tra queste due figure emblematiche, Giuda e Pietro, gli altri evangelisti pongono il racconto dell'ultima Cena. Giovanni invece lo salta a piè pari (“mentre cenavano”) e lo sostituisce con la lavanda dei piedi: quasi a dimostrare che la liturgia è falsa se non diventa vero servizio al fratello debole. E non basta: Giovanni qui osa ancora di più: tra i due tradimenti e le due salvezze (Giuda è salvato dal male, Pietro dal finto bene) l’evangelista dell’amore inserisce il comandamento dell'amore, l'unico, quello che lui stesso ha capito meglio di chiunque altro. Un poema d'amore che costituisce il più sublime condensato del suo lungo discorso di addio: Gesù ci chiede di amarci (amare me, amare te) con lo stesso amore con cui egli ci ha amato: "dello" stesso suo amore, "con" lo stesso suo amore.

Non con l'amore di simpatia, di scelta, di sforzo, di virtù. Ma con l'amore che, proprio perché proviene da Cristo, può riempire completamente il nostro cuore per poi defluire verso il cuore degli altri. Questa è l'essenza dell'insegnamento di Gesù.

Allora dobbiamo chiederci seriamente: cosa mi contraddistingue come cristiano? Cosa mi identifica come tale?

Forse il fatto di andare a Messa? Il fatto di non commettere peccati? Il fatto di pregare? Il fatto di sottoscrivere l'8x1000 alla Chiesa Cattolica? Cosa, dunque? Gesù dice: vi riconosceranno dall'amore. Dall'amore, solo dall'amore. Non dalle devozioni, non dalle preghiere, non dai segni esteriori, non dalle organizzazioni elitarie, ma dall'amore. Perché l'amore è ciò che maggiormente deve stare a cuore nella Chiesa. Un amore che sia vero, che sia libero, che diventi evidente. Un amore in equilibrio tra emozione e scelta, tra enfasi e volontà, che diventi concreto e fattivo, tollerante e paziente, autentico e accessibile, che sappia manifestarsi nel momento della prova e del tradimento.

Questo è l’amore che deve essere la nostra carta d’identità; perché solo da questo amore veniamo riconosciuti. Un amore che ci deve guidare, muovere, esaltare; sempre!

 

Ma occorre ripeterlo e precisarlo, perché nulla di più ambiguo, oggi, si nasconde dietro la parola "amore": una grande varietà di significati, con mille sfumature: passione, attrazione, coinvolgimento, oblazione...

Ma non possiamo avere dubbi. L'amore dei cristiani, il "nostro" amore,  si distingue proprio perché è un amore disinteressato, gratuito, ricevuto, accolto. Non necessita di particolari sforzi, non di una lodevole iniziativa umanitaria; non facciamo parte di un club di bravi ragazzi, di un circolo di asettiche e composte signorine; no, noi siamo esplosivi, siamo entusiasti perché amiamo, “ci” amiamo, siamo amati e lo sentiamo. Ci scopriamo piccole tessere di un mosaico grandioso, ci sentiamo pensati in un progetto universale e soprannaturale, cercati ad uno ad uno e svelati a noi stessi; ci scopriamo meravigliosi non per i nostri meriti ma perché illuminati dal Signore; capaci di amare oltre il possibile, perché riempiti dall'amore di Dio. Scopriamo che è l'amore e solo l'amore che riempie il mondo e regge l'universo, sentiamo che è possibile superare la parte oscura, le tenebre,  quell'oscurità che spesso nella nostra fragilità umana annebbia la nostra anima e lo sguardo del nostro cuore.

Per questo dobbiamo anche amare noi stessi e accogliere noi stessi: proprio perché è Lui che per primo ci ha amati e ci ama. Di qui non si scappa. E – alla maniera di Dio – dobbiamo avere pazienza verso noi stessi: il Signore paziente e misericordioso ci ha dato la vita intera perché potessimo imparare ad amare noi stessi, pur sapendo che le nostre chiusure e fragilità, i nostri traumi e paure, le nostre deficienze e debolezze, a volte limitano la nostra possibilità di amare: la limitano sì, la rallentano, ma non la possono mai impedire. Siamo creature fragili, ma siamo creature di Dio!

Ho visto persone finite nel baratro della disperazione e dell'annientamento, travolte da esperienze insostenibili di violenza; ma una volta toccate dalla discreta e serena onnipotenza di Dio quelle stesse persone sono rinate e hanno imparato ad amare.

L'amore tra i cristiani è certamente un amore sofferto e faticoso, come raccontano Paolo e Barnaba: un amore che passa nel confronto reciproco con noi stessi e con gli altri. Amarsi tra cristiani in definitiva significa: "Voglio il tuo bene e faccio di tutto per realizzarlo"; ma è anche l'amore di chi, scelto da Cristo, non fonda il suo rapporto sulla simpatia, ma sulla fraternità; ha il coraggio del perdono reciproco, dicendo: "Voglio più bene a te che alle mie ragioni".

Che ne dite, fratelli? Non vi pare che sia arrivato il momento di chiederci se le nostre comunità, le nostre famiglie, le nostre parrocchie siano veramente luoghi in cui nasce, cresce, si esercita e si coltiva l’amore fraterno vero, quello cristiano? Non dobbiamo forse chiederci se i nostri insuccessi nella vita spirituale non derivino da quel nostro voler vivere egoisticamente, in modo isolato, intimistico e interessato? Non c'è forse da chiederci se veramente la nostra indifferenza nei confronti della Mensa Eucaristica e della preghiera comune sia – come noi pensiamo – un semplice “peccatuccio” del cuore, o al contrario un peccato grave, conseguente al nostro isolamento, al nostro voler stare soli, orgogliosamente attaccati ad una nostra idea di un Dio esclusivo ed immaginario, da preferirsi ad un fratello concreto, in carne ed ossa?

Si, fratelli: peccato grave è toglierci dalla comunione, dal pane quotidiano condiviso in casa ed immolato sulle croci della coerenza. Perché il Verbo si è fatto carne. Si è fatto ciascuno di noi, di ogni razza, religione, cultura, società.

La Chiesa ha avuto in dono la garanzia dello Spirito di Gesù, possiede cioè i mezzi per aprire le porte dei nostri piccoli cenacoli individuali o le grandi cattedrali dei gruppi esclusivisti. Può e deve far rifiorire tutti nell'esercizio della condivisione e del perdono. La Chiesa infatti rinasce quando sa dire "no" all'ingiustizia e all’odio; quando punta i piedi con fermezza contro i tentativi di chi cerca di sovvertire il mandato di Cristo; quando i suoi membri, amandosi come fratelli e sorelle, diventano testimoni del divino; quando infine, abbattendo le distinzioni terrene dei meriti onorifici, delle cariche altisonanti e pergamenate, crea vita nuova per riunirsi attorno all’umile tavola della solidarietà, dell’amore.

Gesù, abbiamo detto, si congeda dai suoi cari; sa che è giunta la sua ora. Non chiede niente per se stesso, e a noi chiede semplicemente di amarci, come Lui ci ha amato; soltanto così Egli potrà continuare a vivere in noi.

Altrimenti, lo seppelliremo con tutte le pompe e gli incensi; non sarebbe più vivo in noi, ma solo un'immagine esterna, morta, solo da contemplare, senza coinvolgimenti; in altre parole non sarebbe più un progetto da seguire, da vivere, da cui trarre linfa vitale.

E poi… è proprio così difficile amarci come lui ci ha amato? No, fratelli. A volte è più semplice di quanto immaginiamo. Tanto per cominciare, dobbiamo essere convinti che solo in Gesù siamo in grado di ricondurre la nostra vita sul binario dell’amore vero.

Come? Ripulendola da quelle incrostazioni puramente esteriori e solo maniacali, di puro e impuro, di lecito e illecito, e soprattutto da quelle ridicole convinzioni, come per esempio quella, ancora molto diffusa, di poter “guadagnare” la salvezza eterna semplicemente pellegrinando tra templi e santuari famosi, tra luoghi di sacre apparizioni, collezionando una buona scorta di indulgenze biascicando un congruo numero di “pateravegloria”.

Ecco, questo è il primo passo per “rinascere”, questo il presupposto di base su cui lavorare: abbandonare completamente questa mentalità sterile e deviata, basata sull'esteriorità, il formalismo, le pratiche meccaniche e vuote, ma compiute con maniacale precisione; una mentalità radicata ancora in molti cristiani, che riesce a soppiantare in essi la vivacità dello spirito, la tenerezza e l’entusiasmo di un cuore che sentendosi amato si realizza nel riversare amore. Sembra una situazione paradossale, ma non lo è, fratelli miei. Il fascino del rito esteriore, delle sacre “parate”, della corsa all'esibizione, riesce ancora a sovvertire la scala dei valori fondamentali del cristianesimo. Per carità, ben vengano pellegrinaggi, processioni, rosari, giaculatorie a raffica, e quant’altro. Purché siano causa ed effetto di Amore. Siano onde "portanti" sulle quali si moduli il messaggio d’amore di Cristo. Altrimenti credetemi, ai pomposi santuari con celebrazioni oceaniche, sono di molto più preferibili le nostre chiese parrocchiali, intese realmente come case di Dio, da dove le persone, nel giorno del Signore, possono uscire ricreate e rinnovate, cariche dell’esperienza dell’amore divino, pronte a vivere tra i fratelli la stessa profonda umanità di Gesù, donando a tutti il suo e nostro amore. Si, fratelli e sorelle, perché nostro compito, lo ripeto, è quello di amare – ad imitazione del Maestro – fino a far diventare la nostra vita un dono completo.

Facciamolo, fratelli: senza misticismi, senza ingenue fantasie, ma con una concreta e faticosa quotidianità, disposti anche a subire qualche incomprensione e qualche fregatura pur di seguire l’esempio di Gesù.

Certo arrivare fin qui è già un ottimo traguardo. Ma quanto dobbiamo ancora lavorare per arrivare all'autenticità del vivere e del donare! Quanta strada dobbiamo ancora percorrere perché nelle nostre preghiere domenicali si respiri autentica accoglienza e calore, invece della noiosa, solita fatica, di assolvere a un dovere...

Doniamo invece amore, fratelli. Solo questo. Dovunque: fuori dalle chiese, in ufficio, al lavoro, a scuola, in casa. Un amore vero, a volte anche duro, ruvido, ma evidente, sincero, leale.

Sogno? Utopia? No: verità, concretezza. Perché Cristo è morto per realizzare questo sogno, il "suo" sogno, che è la Chiesa, comunità di innamorati.

"Io faccio nuove tutte le cose", ha detto Gesù. Questa è la grande novità, il grande dono che ci ha fatto: l’aver trasformato il nostro cuore di pietra in un cuore nuovo, la nostra vita in una vita nuova, perché così, nuovi, rinnovati e amati, possiamo a nostra volta amare tutti i fratelli.

Non vi pare che questa "novità" sia già sufficiente ad “aprirci” il cuore e a riempirlo di gioia? Lo spero tanto per tutti. Amen.

 

 


 

VI DOMENICA DI PASQUA – ANNO C

(9 MAGGIO 2010)

 

 

 

 

Vangelo: Gv 14, 23-29

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».

 

 

La pace del cuore

 

Domenica scorsa Giovanni poneva il sacramento dell'amore come elemento qualificante della comunità cristiana. Noi veniamo riconosciuti come cristiani unicamente dall'amore che nutriamo gli uni per gli altri, amore che non è frutto delle nostre simpatie ma il risultato del nostro accogliere l'amore di Cristo; l’amarci vicendevole ci è infatti possibile solo attraverso l'amore che Cristo dona a noi; è lo stesso amore divino di cui noi ci facciamo semplici dispensatori verso i fratelli.

Ma, in definitiva, che cos'ha questo amore di tanto speciale? Abbiamo cercato di capire meglio le sue prerogative, entrando all’interno della sua essenza. Abbiamo così visto che se l’amore, in genere, implica un concetto vago, ambiguo, legato quasi sempre e solo all'emotività, l’amore cristiano, l’amore di Gesù, si realizza invece sempre su entrambi i livelli della psiche, quello emozionale e quello razionale. In altre parole ci coinvolge totalmente, in tutte le aree della nostra personalità: dalla volontà al sacrificio, dalla fantasia alla concretezza, dall'attrazione spirituale alle nostre scelte vitali, esistenziali ed essenziali. L’amore di Gesù esula dalla pura e semplice fantasia, dal campo strettamente emozionale; non si limita a sospiri, paroline dolci, grandi slanci della fantasia, esclamazioni estatiche inconcludenti; è invece molto concreto, pratico: e proprio questa concretezza egli esige da noi, sia quando amiamo Lui che quando ci facciamo dispensatori del suo amore verso i fratelli: un amore quindi che non si perde in parole inutili ma va dritto al cuore, ai fatti, al nostro concreto vivere quotidiano, a come dobbiamo attuare fedelmente le sue parole, i suoi insegnamenti, la sua dottrina.

E qui, cari fratelli, messi di fronte a queste considerazioni, a questi presupposti, non abbiamo certo potuto fare a meno di cogliere lo squilibrio esistente tra la fede che diciamo di professare e quella che invece testimoniamo nella pratica, nella nostra vita di ogni giorno! Quanta distanza, quanta miseria, quante contraddizioni esistono tra il nostro professarci cattolici, seguaci innamorati di Gesù, e la nostra vita concreta, reale, così poco evangelica! Certo, ci siamo proposti (quante volte?) di rimediare, di osservare più fedelmente la sua Parola, di meditarla, di metterla al centro del nostro cuore, di renderla essenziale nella nostra vita, di servircene come bussola per la nostra difficile navigazione di quaggiù. Ma, cari miei, quanta fatica e quanta strada dobbiamo ancora fare, quanto lavoro da compiere! Si, perché noi continuiamo imperterriti ad accomodarci le cose a nostro piacimento; siamo dei fini interpreti della Parola, la sappiamo manipolare, da attori consumati riusciamo a trasformare la sua forza vitale in un vago e sterile moralismo; arriviamo a stravolgere il messaggio evangelico riducendolo ad una asfittica teoria socio-culturale, destinata a cadere nella indifferenza generale: no, fratelli, lo sappiamo bene; non è questo il “cristianesimo” di Cristo! Dobbiamo accoglierla, questa Parola di Dio; ma accoglierla nella sua autenticità, con quella convinzione, con quella generosità, con quell’impeto ed energia che sono le caratteristiche di un incontro personale e vivo con Cristo. Lasciamo che il Vangelo contagi le nostre scelte, le nostre città, le nostre economie, il nostro invivibile mondo del lavoro. Perché solo una fede convinta e sincera, ci permette di essere l’amore di Cristo, di viverlo amando gli altri, come Egli ci ha insegnato.

Oggi Gesù affina ulteriormente il concetto di amore vissuto e lo collega con quello beatifico di “pace”: “Vi do la mia pace – egli dice – ma non come la dà il mondo". Quella di Gesù è una pace intima, beatificante, conseguenza del nostro vincere il male con l’amore che Gesù ci ha insegnato; sì, perché il conflitto tra bene e male non avviene fuori di noi; è nel nostro cuore che si deve combattere e risolvere; perché il nemico è dentro di noi, non fuori; è la nostra violenza, la nostra rabbia, quella parte oscura di noi stessi, che i discepoli chiamano "peccato"; ecco perché la nostra prima autentica vittoria, la nostra prima pacificazione, deve avvenire nel nostro intimo, tra noi stessi.

Solo così vivremo la pace di Dio: non certo quella “pace” cui alludono molto spesso i cristiani, quando pensano al cimitero! ma quella pace che è il primo dono che egli fa', risorto, apparendo agli impauriti discepoli.

Un cuore nella pace di Cristo è un cuore saldo, irremovibile, che ha accolto la sua chiamata, che ha compreso qual è il suo ruolo nel mondo; un cuore che non si spaventa nelle avversità, non si dispera nel dolore, non si scoraggia nella fatica.

La scoperta di Dio nella propria vita, l'incontro gioioso con lui, la percezione della sua bellezza, la conversione al Signore e il riconoscerlo come Dio, suscitano nel cuore delle persone una gioia profonda, una pace sconosciuta, diversa da ogni altra pace e gioia. È la gioia e la pace del sapersi conosciuti, amati, preziosi. È la scoperta dell'amore di Dio che ci apre nuovi scenari, inattesi e impensabili: il mondo infatti ha un suo destino di bene, risponde ad un amorevole disegno che, malgrado la fatica della storia e dell'umanità, confluisce inarrestabile verso Dio. Un progetto in cui io, se voglio, posso avere un ruolo determinante. Sono una infinitesimale tessera di un immenso mosaico, grandioso, luminoso; sono parte di un tutto che realizzo amando e lasciandomi amare. Ecco, scoprire il mio destino, la mia chiamata intima, la mia vocazione, mi mette le ali, mi cambia l'umore, mi fa capire cos’è realmente l’amore, la pace.

Pensate, fratelli: malgrado i nostri limiti, le nostre fragilità, le nostre paure, possiamo amare e, amando, cambiare il mondo intorno a noi; è questa la pace che Gesù ci ha dato: saperci inseriti nel cuore della volontà benefica e salvifica di Dio; scoprirci dentro il mistero nascosto di un mondo, da Lui amato e riscattato. Credere in questo, aderire sempre a questo, con tanta fede, anche se spesso tormentata e sofferta: è proprio questo che dona pace, la pace del cuore, dell’amore.

Io sono amato; tu, amico lettore, sei amato. Insieme a Dio, se vuoi, tu ed io possiamo cambiare il mondo.

Ecco: sapere questo ci procura pace, la pace di Dio; una pace profonda, una pace salda, una pace irremovibile, ben diversa dalla pace del mondo, basata sulla soddisfazione di milioni di bisogni indotti, quasi sempre inutili. Pace diametralmente opposta alla pace del benessere, dell'avere, dell'apparire, del mettere il proprio immenso ego al centro del palco della vita.

È la Pace del sapersi amati, fratelli, la Pace che permette di affrontare con serenità tutte le paure: paura del futuro, paura della malattia, paura del lavoro precario, paura del non sapersi amati. È la pace del cuore, dono e conquista, fiamma da alimentare continuamente alla fiamma del risorto, che aiuta ad affrontare il domani con fiducia, a non avere il cuore turbato.

Allora, fratelli, invochiamo il Consolatore, lo Spirito donato dal Padre, per affrontare la nostra quotidianità con la certezza della sua pacifica presenza, giorno dopo giorno, passo dopo passo.

Amiamo la Parola di Dio? Oppure (sai che novità) ci lamentiamo del silenzio di Dio, senza neppure prendere in considerazione il fatto che lui continua a parlarci? Conosciamo bene la sua Parola? Riusciamo a distinguerla? La custodiamo nel cuore come la fonte viva a cui dissetare la nostra umana aridità?

Gesù è risorto; ci porta la pace. Di quanta pace ha bisogno il nostro mondo!

Quanti macro e micro conflitti affliggono l’umanità! Guardiamo al nostro piccolo, ai piccoli screzi quotidiani (un test: come reagiamo al volante? Sempre un po’ nervosetti, vero?); guardiamo all'intolleranza palese e a quella sottile violenza che è l'accentuazione della diversità altrui; guardiamo a quella indifferenza, a quel disinteresse ostentato che uccide l’anima; guardiamo alle lotte in ufficio, più o meno proditorie, per fare carriera ad ogni costo.

Siamo onesti, fratelli e sorelle: abbiamo un sacco di lavoro ancora da fare anche in questo ambito.

Scegliere la pace significa davvero cambiare prospettiva, mentalità.

Ma non basta: questo che viviamo è anche il tempo del martirio, il tempo del gridare le proprie convinzioni, di urlare ai quattro venti il proprio amore per Cristo, per la sua Chiesa; è tempo di schierarci al fianco di un vecchio Papa, che – pur ferito profondamente da infamanti menzogne e da una campagna mediatica velenosa e falsa – reagisce serenamente, con la dolcezza del padre, insegnandoci e raccomandandoci senza tentennamenti il messaggio del perdono, dell’amore e della pace di Cristo.

È vero, non dobbiamo essere disfattisti: sono tante le persone che vivono sulla propria pelle il perdono, altre che cercano l'onestà e la sincerità nel lavoro, altre che rispondono con generosità e dedizione alla “chiamata” di Dio, altre che costruiscono l'amore e la fedeltà nel matrimonio e nella famiglia.

Potremmo continuare con tanti altri esempi. Del resto i comandamenti di Dio sono la strada più bella per costruire bene la nostra vita e quella degli altri su questa terra, per costruire e meritare giorno per giorno il nostro paradiso nell'eternità.

Non scoraggiamoci allora se fatichiamo a mettere in pratica i comandamenti; se spesso vediamo cattiveria dentro e intorno a noi; dobbiamo avere tanta fede: perché quando cadiamo il Signore ci è accanto per darci la sua mano; quando sbagliamo egli è sempre pronto a offrirci il suo perdono e ad aiutarci a ricominciare con buona volontà.

Ricordiamolo sempre: l'importante, nella vita, è amare Dio e il prossimo! ("Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore... e il prossimo come te stesso"). Non sono i risultati che contano, ma la volontà di ricominciare ogni giorno ad amare gli altri, come Dio fa tutti i sacrosanti giorni con noi.

Diceva un santo: " Ama, dunque, senza farti troppe domande. Ama tutti, ama sempre, ama con gioia, perché Dio ama chi dona con gioia".

Si, Dio vive nel cuore dell'uomo, Dio vive nel mio cuore! E se Dio vive nel mio cuore, tutto è possibile, tutto acquista valore, tutto è speranza, santità e grazia. Diceva san Gregorio Magno: "Pensate che festa, fratelli carissimi, avere in casa Dio!".

Ecco, questa deve diventare la nostra vera vita cristiana: La Trinità in noi e noi nella Trinità; un rapporto reale, intimo, concreto della nostra persona con le persone della Trinità; un rapporto vero da persona a persona, con il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo. "Chi rimane nell'amore, rimane in Dio e Dio rimane in lui", scriveva Giovanni.

Dove c'è fatica, peccato, scoraggiamento, debolezza, Gesù manda il Consolatore, lo Spirito Santo: "egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto". Lo Spirito Santo è la nostra forza, la nostra speranza, la nostra pace, la nostra gioia. E lo Spirito ci aiuterà ad affrontare la vita e i suoi problemi: la vita personale, la vita di famiglia, la vita nella comunità cristiana.

Certamente qualcuno potrebbe dire: “Fai presto tu a parlare; ma tutto questo è molto difficile!”

D'accordo: a volte può anche essere difficile; ma dobbiamo essere sicuri che è comunque possibile, che è bello, che è importante, che è la cosa più bella.

L’importante e saper guardarci dentro: lo Spirito del Signore ci spiegherà tutto, sarà lui a suggerirci come superare le difficoltà! Beh, bisogna convenire che non è facile credere che noi siamo l'abitazione di Dio; ancor meno capire perché proprio a noi è destinata quella pace che Gesù dona e che noi poi dobbiamo donare. Si, fratelli, proprio a noi: a ciascuno di noi. Perche siamo proprio noi i chiamati a custodire le sue Parole; siamo noi i suoi sacerdoti in virtù delle nostre promesse battesimali: e questa è l'altra sfida in cui oggi dobbiamo impegnarci. È impensabile, fratelli miei, rinchiudere nell’oscurità queste sue parole di vita e continuare a sopravvivere con la paura, lo scoraggiamento e la morte nel cuore. “Conservare” le sue parole, significa non imbrigliarle, non sclerotizzarle in azioni pastorali senza tono, limitate e temporali, facendole invece passare per eterne. Eterne sono solo le parole di Gesù vissute con amore, parole che ci insegnano sempre nuovi modi di vivere incessantemente il suo amore: il mondo delle tenebre e della globalizzazione non sa dare la pace. Solo Gesù la sa dare. E noi con Lui!

Quante volte abbiamo provato nel vivere fedelmente il messaggio di Gesù, una grande serenità, e una profonda pace nel cuore. Come è bello, fratelli miei, aprirsi all’amore di Dio; aprirsi agli altri, sacrificando noi stessi, donando gioia e pace, offrendo disponibilità, collaborazione, fede, preghiera, sacrificio.

Lo abbiamo sicuramente provato: ed è questa la testimonianza che oggi Cristo ci chiede di testimoniare.

Allora animo, fratelli e sorelle, rialziamoci! Alziamo lo sguardo alla fine di questo tempo pasquale; guardiamo oltre, alla pienezza dei tempi, al sogno realizzato, alla Gerusalemme celeste che splende come una gemma; a quella città santa che non ha più bisogno di luce perché Dio la illumina.

Guardiamo in alto, fratelli e sorelle: guardiamo a questa nostra Chiesa, tanto incompresa, bistrattata e insultata. Reagiamo; cerchiamo di essere noi tutti insieme la vera Chiesa di Gesù: uomini e donne che costruiscono il sogno di Dio, che lo vivono, che lo annunciano. Perché è qui, nella piccolezza e nella fragilità delle nostre comunità, nella povertà e nelle difficoltà delle nostre parrocchie, che Dio abita; è qui che Dio ci chiama, ci aiuta, ci sostiene. E noi dobbiamo essere testimonianza di Gesù risorto, vivo, esattamente in mezzo a questi nostri fratelli, in mezzo agli uomini di oggi.

In una parola, dobbiamo essere il sorriso di Dio per quelle persone che incontreremo oggi... sempre. Amen!

 

 


 

ASCENSIONE DEL SIGNORE – ANNO C

(16 MAGGIO 2010)

 

 

 

 

Vangelo: Lc 24,46-53

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

 

 

Il tempo della Chiesa

 

«Uomini di Galilea, perché continuate a guardare il cielo?»

Sono stupiti e amareggiati, i discepoli. Il Maestro se ne va proprio ora che, finalmente, avevano capito il grande disegno di Dio su Gesù; proprio ora che avevano superato il dolore della sua morte e si erano convertiti alla gioia della sua risurrezione! Proprio ora che, come nel finale di un bel racconto d’avventura, tutto sembrava chiaro, lineare, comprensibile: il Regno di Dio era finalmente iniziato e Gesù avrebbe regnato per l'eternità con i suoi fedeli (si fa per dire) apostoli.

E invece no. Eccoli nuovamente spiazzati: Gesù decide di tornare dal Padre, da dove era venuto, e li lascia qui “da soli”, con la raccomandazione di continuare ad annunciare il Regno.

 

«Uomini di Galilea, perché continuate a guardare il cielo?»

Quante domande la Parola rivolge al cercatore di Dio! “Perché piangi, anima mia, perché su di me gemi?” “Perché cercate fra i morti uno che è vivo?”

Dio ci interroga, ci scuote, ci invita ad andare oltre, a crescere, a credere.

Noi, infatti, non dobbiamo cercare soltanto in cielo il volto di un Dio che ha abitato e camminato sulla terra. È più logico cercarlo qui, dove ha deciso di abitare, per sempre, in mezzo ai fratelli più poveri, in mezzo alla Sua Chiesa, comunità di coloro che credono in lui.

Paradosso del cristianesimo!

Prima Cristo ci chiede di credere che il Dio invisibile, l’Eterno, si è fatto uomo, è sceso nel tempo, assumendo la natura umana. Poi, come se non bastasse, ci chiede di credere che lui, il Dio-uomo, l’invisibile diventato finalmente visibile e riconoscibile, si affida completamente nelle fragili mani di uomini peccatori e incoerenti!

Ed è proprio così, fratelli: siamo noi, ahimè, il volto di Gesù per le persone che incontriamo sulla nostra strada. Pensate: voi che leggete, fratelli e sorelle, siete esattamente lo sguardo di Dio per le persone che incontreremo.

 

L'ascensione segna la fine di un momento: il momento della presenza fisica di Dio, dell'annuncio del vero volto del Padre da parte di Gesù

Ora è il tempo di costruire relazioni e rapporti a partire dal sogno di Dio che è la Chiesa, comunità di fratelli e sorelle radunati nella tenerezza e nella franchezza nel Vangelo.

Che aspettiamo allora? Accogliamo l'invito degli angeli: smettiamo di guardare tra le nuvole cercando il barlume della gloria di Dio; piuttosto, cerchiamola qui questa gloria, disseminata nella quotidianità di ciò che siamo e viviamo.

Cerchiamo Dio, ora, nella gloria di quel Tempio che è l'uomo, tempio del Dio vivente; smettiamola di guardare le nuvole, se il Dio che cerchiamo è nel volto povero e teso del fratello che incrocio.

Il Signore infatti ci dice che è possibile, qui e ora, costruire il suo Regno.

L'ascensione segna anche l'inizio di un altro momento, il momento della Chiesa, l'avvio di una nuova avventura che vede noi come protagonisti. La missione che abbiamo come cristiani e come Chiesa è infatti decisamente bella e grande. Ma anche impegnativa.

Tante volte però abbiamo paura, ci scoraggiamo, sentiamo il peso della nostra debolezza e dei nostri peccati, ci ritroviamo poveri di fede e di amore, a dover comunque combattere nelle speranze e nelle scelte più impegnative. Ma non dobbiamo scoraggiarci.

Sì, è vero, Gesù è salito al cielo, se n’è andato: ma Egli, sempre e comunque, rimane al nostro fianco, è accanto a noi: ce lo ha promesso in maniera esplicita e chiara; la sua è una presenza di amore, di perdono, di fiducia, di incoraggiamento; è con noi con la sua Parola e la sua Eucarestia; è con noi con lo Spirito Santo, che è la potenza e l'amore infinito del Padre e del Figlio, infuso nei nostri cuori; e, lo sappiamo bene fratelli, con la forza dello Spirito tutto è possibile.

E a questo punto noi staremmo ancora a naso in su a guardar le nuvole? Continueremmo a piangerci addosso? A implorare altri interventi divini?

O non sarebbe ora, invece, di accorgerci che Dio continua ad essere presente tra noi, una presenza reale e tangibile, che dobbiamo saper cogliere nella nostra fatica di accogliere i fratelli bisognosi, nel nostro vivere degnamente la fede e il Vangelo, nello sforzo di costruire giorno dopo giorno una Chiesa che sia sempre più somigliante a Lui?

“Ascendiamo”, dunque fratelli: smettiamola di fare i bambini devoti. Dio ora ha bisogno di discepoli adulti, di discepoli capaci di far vibrare il Vangelo nella loro vita, capaci di annunciare e testimoniare la fede in un modo decisamente nuovo. Amen.

 

 


 

PENTECOSTE – ANNO C

(23 MAGGIO 2010)

 

 

 

Vangelo: Gv 14, 15-16. 23-26

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre.

Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».

 

 

Lo Spirito Santo, nostro Consolatore

 

No, ammettiamolo, non siamo all’altezza!

Né tu, né io, né nessuno che sia un po’ realista lo può fare veramente, a fondo, con continuità, con la giusta convinzione.

È vero: nessuno di noi è in grado di annunciare il Regno con sufficiente trasparenza, con una minima coerenza, con la passione necessaria.

Il peccato, il nostro peccato, è il grande nemico da combattere, come ci ha ricordato un illuminato Papa Benedetto domenica scorsa. In un mondo in cui tutti danno la colpa agli altri (anche nella Chiesa!), Pietro ci ricorda che il nemico è dentro di noi, non fuori.

“Questa storia dell'affidare alla Chiesa, a questa Chiesa, le redini del Regno è uno scherzo, o un inganno o una follia. Siamo seri. Lui non c'è, e lo sappiamo bene, lo vediamo mille volte, lo sperimentiamo in ogni momento. Eppure ci deve pur essere una soluzione!...”

Mi sembra di leggere i pensieri che turbinavano per ore e ore nella mente dei Dodici radunati nel cenacolo. Gesù se n'è andato davvero e loro devono capire cosa fare.

"Annunciare il Regno, d'accordo, lo abbiamo capito: ma dove? come? a partire da quando? dicendo cosa?"

In effetti, fuori, tira ancora una brutta aria per i discepoli del Nazareno; per quale masochistica ragione dovrebbero uscire e farsi nuovamente arrestare?

Pietro e gli altri lo sanno bene, lo hanno vissuto sulla propria pelle: non sono all'altezza del compito. Diamine: solo un mese prima erano tutti fuggiti a rotta di collo! Come aspettarsi, ora, una reazione diversa, un comportamento all'altezza della situazione?

Pensano e discutono, i Dodici...

Un po' si fanno coraggio, un po' non alzano lo sguardo. No, non ce la possono fare, non da soli, non adesso.

Improvvisamente si alza il vento. Strano, non succede quasi mai in primavera, a Gerusalemme.

Ma non è un vento normale: è un uragano! Un uragano che li strappa alle loro certezze, che li devasta, che li scompiglia e li scapiglia, che li converte, infine. Il fuoco scende nel loro cuore e li consuma. No, certo, non ce la possono fare. D'accordo.

Ma sarà lo Spirito ad agire. Questo Spirito che li sconvolge ora. È arrivato, è questo il dono (annunciato) del Risorto.

Un dono che è più folle e più travolgente di quanto non avrebbero mai osato immaginare.

Il loro cuore ora è gonfio, escono per strada, fermano i pellegrini di passaggio a Gerusalemme per la Pentecoste.

Parlano del Maestro: lo professano Messia, lo proclamano Signore, lo dichiarano presente.

È arrivato lo Spirito; è finalmente arrivato lui: il Consolatore, per sradicare ogni solitudine, per fare della Chiesa la compagnia di Dio agli uomini; il Vivificatore, per togliere le incrostazioni che ostinatamente ricoprono il volto di Dio e la Parola; il Paràclito, per difenderci dalla paura e dalla parte oscura che è in noi e che ci turba impedendoci di essere veramente discepoli.

Egli ricostruisce i linguaggi, ci dona la grazia di capirci, di intenderci, di comunicare.

Supera l'arroganza dell'uomo che costruisce torri per manifestare la propria forza e usa il linguaggio del potere che non fa capire, che confonde, che allontana.

Pentecoste è l'Antibabele, l'altro modo di capirci, di sentirci accomunati dalla stessa ricerca interiore.

Eccolo il fuoco, che scalda e illumina, che indica una strada nella notte.

Eccola la nube, che tiene lontani gli egiziani e illumina il cammino del popolo che fugge verso la libertà del cuore, la nebbia che toglie ogni punto di riferimento per affidarsi soltanto a Dio, e solo a lui.

Ecco la colomba, portatrice di buone notizie, quando torna nelle mani sicure di Noè che l'ha inviata per sapere se il diluvio è finito.

Tenetelo ben presente per favore, fratelli e sorelle: è lo Spirito. È sempre lui, lo Spirito.

È pericoloso, devastante, inquietante.

Quando la Chiesa si siede stanca o si arrocca in se stessa, è lui che fa nascere i santi che la ribaltano.

Quando pensate che la vostra vita sia finita, annientata, è lui che vi spalanca lo sguardo del cuore.

Quando le nostre parrocchie languono, si clericalizzano, si svuotano, si abituano, si stancano, si illudono, è lui che scuote dalle fondamenta, che fa crollare i palazzi della retorica e che ci spinge a uscire nelle strade del nostro quartiere a dire Dio.

È lui, lo Spirito, che guida la Chiesa, anche se noi cerchiamo continuamente di correggerne la rotta.

È lui, solo lui che soltanto che lo vogliamo, cari fratelli e sorelle può orientare la nostra vita verso i cammini della santità.

È lui che soffia, lui che ci avvolge, lui che ci ispira: inutile ostinarsi, inutile scuotere la testa, inutile girotondare a vuoto!

Fermiamoci un istante: lasciamoci sopraffare, lasciamolo lavorare!

Perché lui, lo Spirito, è il Consolatore.

Abbiamo un grosso problema nella nostra vita: siamo tutti “soli”; siamo "soli" (non "isolati"), perché ciascuno di noi è "unico". Ecco allora che la con–solazione (cum–solo) è il modo migliore, anzi l'unico modo, con cui possiamo essere vicini l'uno all'altro.

Lo Spirito di Dio è sempre con noi e in noi, è lui che riempie la nostra solitudine. Dio non è la soluzione dei nostri limiti, dei nostri problemi. Dio non è un talismano miracoloso che ci tira fuori automaticamente da ciò che ci assilla, dal dolore legato al nostro esistere, da tutto ciò che non possiamo risolvere noi direttamente.

No. Dio non toglie il dolore. Dio sta con il dolore, Dio sta con chi soffre: è il Con–solatore. Quando soffro non devo pregare Dio perché mi tolga il dolore ma perché io possa sentire la sua presenza vicino al mio dolore, perché lui mi possa consolare e così il mio dolore possa essere più affrontabile. (Avrei dovuto ricordarmelo in questi giorni!)

Fratelli miei, ci saranno momenti della nostra vita in cui nessuno potrà raggiungerci, in cui saremo di fronte a scelte così personali che spetteranno solo a noi, in cui nessuno potrà scegliere per noi, in cui saremo soli con noi stessi.

Ma anche allora non saremo mai veramente soli perché Lui, il Consolatore, sarà sempre al nostro fianco. Non prenderà decisioni al nostro posto, ma starà al nostro fianco. Non ci toglierà la solitudine fisica, ma ci prenderà la mano: sempre, fratelli miei, perché lui è il Consolatore.

 

È vero: oggi, molti di noi camminano ancora a luci spente, si affidano alla fioca luce della ragione umana; ma è altrettanto vero che nel mondo oggi sta crescendo anche il bisogno di luce autentica, il bisogno del sole del vero Amore, il bisogno di solidarietà operativa, di giustizia a tutto campo.

Bene: se è così, speriamo che almeno noi, la Pentecoste di quest'anno, trovi particolarmente assetati di luce e di verità.

Sì, fratelli: perché lo Spirito urge per il nostro mondo, per la nostra società, per le nostre comunità, per le nostre famiglie, dopo i ricorrenti fallimenti di ogni genere; lo Spirito urge alla chiesa, sempre bisognosa di rinnovamento, sempre protesa a nuove illuminazioni soprannaturali. Urge ai pastori e ai sacerdoti perché siano testimoni di verità con la parola e con l'esempio. Urge a coloro che governano le sorti del mondo perché diventino operatori di pace. Urge alle famiglie affinché attingano amore autentico e siano capaci di fedeltà e di indissolubilità. Urge ad ogni credente in Cristo perché non abbia a mancare l'obiettivo finale della propria esistenza.

E soprattutto urge anche a me, misero estensore di queste note affinché, "illo adiuvante", io possa infondere speranza e fiducia ai fratelli, e dare luce e calore ai loro cuori.

 

 «Vieni Spirito Santo, accendi in noi il fuoco del tuo amore».

Oggi è festa di Dio; è la festa dello Spirito che è in noi, con noi e per noi. È la festa del nostro "essere" e del nostro "fare": in una parola è la festa del nostro "essere testimoni".

Si, fratelli e sorelle: perché noi dobbiamo essere testimoni di noi stessi, trasformati, incontrati, perdonati, redenti, santificati, rinnovati nell'essere e nel fare personale, famigliare, sociale, comunitario, religioso, insomma in ogni aspetto della nostra vita dalla presenza cosciente dello Spirito Santo.

 

«Spirito di Dio che come fuoco scendi dal cielo,

Insegnaci il linguaggio dell'amore, della pazienza, del perdono...

Donaci le parole giuste e i silenzi necessari,

in modo da comunicare il tuo amore e tacere il nostro odio.

Apri anche le nostre orecchie in modo da ascoltare

anche la più flebile richiesta di aiuto della persona più povera e lontana.

Donaci il coraggio di muoverci verso i nostri fratelli più bisognosi

senza fermarci alle prime incomprensioni e differenze.

Alle famiglie e alle coppie insegna a ricercare la via della pace

in ogni più piccolo gesto e scelta.

Spegni nella nostra società i rumori dell'arrivismo e della violenza verbale,

accendi invece i piccoli fuochi della solidarietà e dell'accoglienza.

Spirito Santo scendi come fuoco,

perché senza il tuo miracolo la nostra società della comunicazione

muore dell’incapacità di comunicare».

Amen!

 

 


 

SS. TRINITA' ANNO C

(30 MAGGIO 2010)

 

 

 

Vangelo: Gv 16, 12-15

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

 

 

Coinvolti in un mistero d'amore

 

Tutti gli uomini portano nel cuore un'immagine di Dio. Ne sono più che convinto.

Sinceramente però non sempre è un’immagine bella, positiva; è comunque un'idea inconsciamente spontanea, legata alla nostra cultura, alla nostra educazione, forse nutrita da qualche distratto ascolto di predica o di catechismo.

Dio c'è, certo, ma per noi, uomini troppo impegnati, è incomprensibile, lunatico, inaccessibile.

Dice di amarmi, ma poi mi lascia quasi sempre nei pasticci, nelle malattie, nei dolori, nell’isolamento…

Non fa quasi mai il mio bene. E allora è meglio blandirlo questo Dio, non si sa mai.

Meglio trattarlo bene, sperando che non mi capiti una disgrazia!

Beh, fratelli cari, questa idea di Dio che portiamo nel cuore, siamo onesti, è sinceramente orribile. Appena passabile per dei cavernicoli!

Eppure…  ricordate?

Sulle vie della Palestina è arrivato un profeta, potente in parole e opere, uno che non aveva studiato da prete, neanche tanto devoto, uno che - ormai adulto - si è messo a fare il Rabbì: un certo Gesù, falegname in Nazareth, figlio di Giuseppe.

Tre anni di vita intensi e folli, di segni e di passione, di fatica e di dono.

Tre anni di stupore crescente per le sue parole, per la sua autenticità, per il suo amore divorante come un fuoco.

Tre anni di dono di sé e di predicazione.

Poi Rabbì Gesù è morto: morto ammazzato. Finiscono tutte così le persone scomode, no?

Ma alcuni dei suoi sostengono che egli è risorto, che non è morto, che è accessibile.

Che non soltanto ci ha parlato di Dio in maniera nuova e potente: ma che Egli era Dio stesso.

E ci ha raccontato, e continua a raccontarci, qualcosa di folle.

Ci svela che Dio è Trinità, cioè comunione.

Ci dice che se noi guardiamo dal “di fuori”, dall’esterno, vediamo sì un Dio unico, ma in realtà questa unità è frutto della comunione del Padre col Figlio nello Spirito Santo. Talmente uniti da essere uno, talmente orientati l'uno verso l'altro da essere totalmente uniti.

Dio non è solitudine, immutabile e asettica perfezione, ma è comunione, festa, famiglia, amore, tensione dell'uno verso l'altro.

Solo Gesù poteva farci entrare all’interno di Dio; solo Gesù poteva svelarci l'intima gioia, l'intimo tormento di Dio: la comunione.

Una comunione piena, un dialogo talmente armonico, un dono di sé talmente realizzato, che noi, da fuori, vediamo un Dio unico.

La nostra idea di Dio, l’idea di Dio dell’uomo moderno super tecnicizzato, ne esce frantumata! Si polverizza, è nulla!

Sissignori, perché Dio è Trinità, è relazione, è amore, armonia, passione, dono, cuore.

Se Dio è comunione, allora questa comunione abita anche in noi: noi che in lui siamo battezzati e a sua immagine siamo stati creati. Ricordate la bella parabola della Genesi, di come Dio si sia guardato allo specchio, sorridendo, per progettare l'uomo?

Ebbene, fratelli e sorelle: se questo è vero, le conseguenze sono enormi e molto serie!

Ora capiamo perché la solitudine ci è insopportabile: certamente, perché essa non è pensabile in una logica di comunione; perché noi siamo creati a immagine della relazione.

Se giochiamo la nostra vita da solitari non riusciremo mai a trovare la luce interiore, perché ci allontaniamo dal progetto di Dio. “Siate perfetti nell'unità”, ci raccomanda infatti Gesù.

Certo, fare comunione è difficile; ma essa ci è indispensabile, vitale; e più puntiamo alla comunione, più realizziamo la nostra storia, più ci mettiamo alla scuola della comunione di Dio, più ci realizzeremo.

Ecco perché la Chiesa è costruita a immagine della Trinità: essa prende ispirazione da Dio-Trinità, e noi dobbiamo guardare a lui per intessere i nostri rapporti, per rispettare le diversità, per superare le difficoltà.

Guardando al nostro modo di essere, di relazionarci, di rispettarci, di essere autentici, chi ci sta intorno capirà chi è Dio e per noi: l'idea di un Dio, che è Trinità; che attraverso noi diventerà luce che illumina il mondo.

È questo, fratelli, è solo questo il Dio che Gesù è venuto a raccontarci.

Un Dio quindi che è comunione, che è relazione, famiglia.

Un Dio che non è un'entità isolata nella solitudine ma una realtà dinamica, viva, relazionale.

La Trinità quindi non è un problema matematico, di come conciliare il fatto che Dio sia Uno oppure Trino; ma è la suprema espressione di quell'esperienza di amore e di comunione umana che tutti noi facciamo.

L'amore vero è quello trinitario: un amore unito ma non uniforme, separato ma non diviso.

Dietro alla Trinità c'è l'esperienza di Dio. E per capire la Trinità, dobbiamo anche noi prima di tutto vivere l'esperienza di Dio. Dobbiamo assolutamente provarla. Poi capiremo.

Non scervelliamoci per capire cos'è la Trinità, non avendo ancora conosciuto Dio!

Dio non è un pensiero, una filosofia, una psicologia, un frutto del ragionamento; Dio è Vita, cammino, esperienza: una esperienza che si fa Parola, comprensione.

Quando diciamo che Dio è Trinità, diciamo che Dio è l'esperienza dell'amore e della comunione.

Un Dio unico in tre persone distinte.

Anche ciascuno di noi è distinto rispetto agli altri: e anche noi possiamo essere uniti, ma non fusi. Quello che più importa è che lo Spirito poi ci tenga uniti, che lo stesso Spirito ci abiti, che sia Lui che ci leghi.

I rapporti fra un uomo e una donna, fra una mamma e un figlio, fra amici, fra confratelli e consorelle, dovrebbero essere proprio così: tra persone distinte ma unite; diverse, ma non separate. E l'amore, lo Spirito, dovrebbe essere la "colla" che le unisce tutte.

Nelle comunità in cui viviamo si parla ovviamente di unità, di comunione, di fraternità: ma poi vediamo che chi non fa come vogliamo noi, come vuole il capo o come fanno tutti, è automaticamente fuori, escluso.

Non si accetta la diversità. Molte persone anche se stanno insieme, rimangono comunque distinte, separate e distanti. C'è unione fisica, ma non c'è unione dei cuori. E quando si è lontani nel cuore, si può anche agire per amore, ma non si è amore. Perché manca l’unione dello Spirito.

"Unità" dunque non è vivere insieme in comunità, avere le stesse idee, fare tutti le stesse cose insieme; non è appartenere al medesimo ordine, alla medesima comunità, al medesimo gruppo etnico. L'unità è il frutto del nostro amore, del darci vicendevolmente il nostro Spirito, del condividere ciò che di più prezioso e caro abbiamo dentro il nostro cuore.

E concludo: la festa di oggi, cari fratelli, ci parla di un Dio che è amore, famiglia, relazione, rapporto.

Una vita senza relazioni non è degna di essere vissuta; una vita senza relazioni non si può definire vita; perché le relazioni sono lo strumento con cui impariamo a vivere, sono lo strumento con cui “portiamo fuori” la vita che abbiamo dentro.

Ma attenzione: se avere relazioni è tutto sommato facile, essere capaci di relazionarci, no!

La festa della Trinità ci insegni allora di portare amore, solo amore, nei nostri rapporti e nelle nostre relazioni interpersonali, in modo che i nostri legami di vita non diventino mai occasioni discriminanti che generano odio e morte nello spirito.

“Timeo Deum transeuntem”, diceva sant’Agostino: “Ho paura che Dio mi passi vicino senza che io me ne accorga”. Pensiamoci, fratelli: facciamo in modo che ogni occasione sia buona per dispensare agli altri il grande amore che Dio riserva a ciascuno di noi!

E questo è vivere la Trinità.

Il vangelo dice: “Ho molte cose ancora da dirvi…”. Sì, ci sarebbero molte altre cose da dire, ma per ora va bene così.

Amen.

 

 


 

SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO - ANNO C

(6 GIUGNO 2010)

 

 

 

 

Vangelo: Lc 9, 11b-17

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta».
Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C'erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

 

Eucarestia, dono d’amore

 

Corpus Domini. Abbiamo celebrato la luce sfolgorante della Pasqua, abbiamo invocato il fuoco dello Spirito, abbiamo innalzato la mente nel Mistero di Dio Trinità. L’anno pastorale corre verso la fine, le vacanze incombono, tutto quello che abbiamo vissuto e provato in quest’anno, diventa inesorabilmente “passato”, non più di attualità immediata e quindi da accantonare, da dimenticare.

Oggi però ci dobbiamo fermare davanti ad un altro grandissimo mistero, un mistero fondamentale che ci segue passo passo nella nostra vita, e che quindi ci è molto famigliare, e forse proprio per questo non sempre apprezzato; un mistero che merita invece tutta la nostra attenzione e una autentica ri-scoperta: la memoria del SS. Corpo e Sangue di Gesù, l’Eucaristia.

Dico ri-scoperta, poiché l’Eucaristia non è una novità per noi, visto che, almeno per la gran parte, siamo abituati a celebrare l'Eucarestia almeno una volta alla settimana, ogni domenica. Ma, come tutte le cose che riguardano Dio, il rischio che incombe come un macigno sulla nostra fede è la banalità, l'abitudine, il "so già tutto!".

Vi confesso che parlare oggi del dono di sé che Gesù ci ha fatto nel pane e nel vino è abbastanza impegnativo. Perché? Perché questo sacramento per troppi anni è stato oggetto di insistenze (dovete andare a Messa!), di percentuali (quanti cattolici vanno a Messa?), di preparazioni inconsistenti (fate due o tre anni di preparazione alla Prima Comunione?), in una parola di appiattimenti… Frasi del tipo: "Prendere Messa" che banalizzano e cosificano il Mistero; cristiani non-praticanti che si giustificano ogni volta che vedono un prete ("sa, verrei volentieri a Messa, ma proprio di domenica la dovete fare?" – "quelli che vanno a Messa, poi, ne fanno peggio degli altri!"), come se si potesse essere contemporaneamente "innamorati” e “non-praticanti" o come se la Messa fosse una sfilata, necessaria anche se noiosa, per far vedere a Dio quanto siamo buoni, e così via. No, fratelli, abbiamo veramente bisogno di ricrederci; abbiamo bisogno urgente di porre fine alle nostre troppe Messe subite e assenti, per riprendere in mano la Parola e, come Paolo fa scrivendo ai Corinti, ridirci e capire meglio ciò che abbiamo ricevuto e che stiamo vivendo.

L'Eucarestia, la Messa, è il segno della presenza di Cristo che ci raduna ogni settimana, è il Cristo di Dio che fa "memoriale" della sua presenza, che si dona nel segno semplice e sconvolgente del pane e del vino. "Memoriale", non ricordo, o commemorazione, ma presenza concreta, attuale, reale, come sottende l'originale termine ebraico "zikkaron". E noi, da duemila anni ripetiamo quel gesto, riproponiamo alla lettera le stesse parole, le stesse frasi, in obbedienza al desiderio del Rabbì Gesù che ha voluto continuare ad essere presente tra noi. Ma, come succede per una coppia un po' stanca, che non sa più stupirsi e sta insieme più per abitudine che per passione, temo che la nostra fede si sia appiattita proprio davanti a tanta grandezza. Infatti, è facilmente constatabile come il momento cardine della nostra settimana, l'Eucarestia, sia troppe volte ridotto a cerimonia, a rito, che ci mette a posto la coscienza; un “impegno” che troppo spesso mettiamo all'ultimo posto, che releghiamo all’ultimo momento (prima c’è il sacrosanto diritto al riposo, lo svago, lo sport, poi la famiglia, i figli, gli amici ecc. ecc.); insomma la Messa è diventata una specie di “cartellino” da timbrare, e da presentare a Dio, da buoni cristiani, nel giorno della resa dei conti.

Le nostre Messe quindi non mancano solo di fantasia, ma di fede; eppure, fratelli cari, solo che le nostre assemblee avessero il coraggio di uscire dalla logica del dovere, verrebbero sicuramente trasformate dall'incontro con Cristo; le nostre Eucarestie, invece di finire in cinquanta sbrigativi minuti, finirebbero con l'uscire dalle nostre Chiese per entrare nelle nostre case e diventare noi, come Lui, pane spezzato per un mondo che muore di indifferenza e d'inedia.

E fortunatamente c’è anche un altro aspetto da considerare, un fatto innegabile, che è motivo di grande consolazione in questo deserto di mondo: ed è che innumerevoli folle di fedeli chiedono sempre il Pane, lo chiedono con fede quel pane che è la pienezza della felicità, che è l’unico senso della vita: e Gesù si consegna puntualmente, domenica dopo domenica, alle nostre comunità.

Ecco perché dobbiamo avere il coraggio di piegare il cuore, oltre che le ginocchia, davanti a quel pane e a quel vino in cui, anche se purtroppo con molta superficialità, crediamo ci sia la presenza concreta, reale, misteriosa di Cristo. Paolo ci suggeriva che ogni volta che compiamo questo gesto, su esplicita richiesta del Signore, non facciamo che ripercorrere la morte in croce di Cristo, il dramma di Dio che si consegna a noi per amore.

Diceva madre Teresa di Calcutta: "Le nostre città muoiono di fame, le vostre città muoiono di fame d'amore". È vero fratelli: dobbiamo riscoprire il valore di quella sorgente che abbiamo sotto casa, abbiamo bisogno di dissetarci alla Parola e al Pane. Che il Signore ci aiuti ad abbandonare le nostre comode poltrone per metterci completamente in gioco! Come hanno fatto gli apostoli che accettarono la sfida di condividere quel po' che avevano, alcuni pani e alcuni pesci, per mettere in gioco la loro stessa vita. Il pane del cammino che il Maestro ci ha donato conservato nelle nostre chiese, l'assemblea dei cercatori di Dio radunati nel giorno glorioso della resurrezione del Signore, l'ascolto della Parola che è più penetrante di una spada a due tagli, tutto, proprio tutto, sia vissuto con trepidazione, con verità, con stile, con intima gioia.

È l'ultimo dono che il Maestro fece ai suoi discepoli; rimettiamolo al centro della nostra vita così debole di fede.

Corpus Domini dunque: chi non ricorda le processioni del Corpus Domini che si facevano una volta? Il sacerdote con dietro i chierichetti e tutta la folla, passava per le strade e le piazze del paese portando in esposizione il Pane consacrato; canti, preghiere, bande cittadine, tra due ali di folla che spargeva fiori sulla via. Una bellissima tradizione che fortunatamente ancora oggi vive in molte zone, anche se in forma ridotta.

Ma come è nata questa solenne ricorrenza? Due parole di storia: la festa liturgica nasce dal miracolo di Bolsena a cui dobbiamo il duomo di Orvieto. Un sacerdote dubita della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino. Così durante una messa, quando spezza il pane, un po' di sangue scorre dalla piccola ostia e macchia abbondantemente il corporale steso sull'altare. Poi, dal 1264, questa festa viene estesa a tutta la chiesa.

Una festa, a pensarci un attimo, che ci mette di fronte ad una grande verità: Dio è visibile solo attraverso un corpo; Dio ha avuto bisogno del corpo di Gesù per incarnarsi e per rendersi visibile personalmente al mondo; Dio ha bisogno di pane e vino per rendersi presente, ogni domenica, a noi, per entrare in noi, per rendersi assimilabile dal nostro corpo: il nostro corpo quindi non è un optional, un di più, un semplice contenitore; è la realtà visibile di Dio in ciascuno di noi.

A questo punto, fratelli e sorelle, chiediamoci: se Dio è capace di fare di un pezzo di pane il suo Corpo, cosa mai può fare di noi?

Quando andiamo a fare la Comunione e andiamo a “mangiare” il corpo di Cristo, in effetti, riconosciamo due grandi verità. La prima: "Dio mio, cosa riesci a fare con un po' di pane! All’apparenza è niente e invece sfami migliaia di persone; questo pane Signore placa non solo la mia fame d'amore, disseta il mio cuore arso, indirizza il mio sguardo cieco; ma trova la ragion d’essere per tantissime vite senza senso, illumina il buio e i tunnel di innumerevoli persone che soffrono. Ebbene: questo pane è Dio stesso che viene in me, che non si vergogna di entrare nella mia casa, che ha voglia di venirmi a trovare, che vuole incontrare me, che vuole saziarmi, che vuole amarmi. Quando mangio questo pane mi sento a casa: Lui viene in me ma in realtà sono io che vado da Lui. Lui mi prende così come sono, senza maschere, né uniformi, né nascosto da paraventi e mi dice: "Vai bene così. Io sto bene con te quando tu sei quello che sei, quando tu ti mostri per quello che realmente sei, senza nasconderti". Allora io tiro un grande respiro e mi sento finalmente a casa mia, solo con Lui. Qui, fratelli, non c'è proprio nulla da dimostrare: perché è solo con Lui che possiamo essere veramente noi stessi, quelli che siamo nella realtà!

La seconda verità: "Se io, tuo Dio, trasformo, cambio, questo pane, hai mai pensato cosa posso fare di te?". Beh, ecco allora, fratelli, che fare la comunione implica automaticamente da parte nostra un atto rivoluzionario, trasformativo, evolutivo. Quel pane che riceviamo è il Signore stesso; e il Signore stesso, adesso, è dentro di noi (ce lo siamo mangiato!) e noi stessi siamo Lui. Lui in noi e noi in Lui: di che potremo mai aver paura? Quel pane è una forza enorme per noi, uno scudo, una corazza: "Tu puoi, solo perché Io sono in te". Smettiamola allora, fratelli miei, di fare del vittimismo, di raccontarcela come piace a noi, di offenderci perché non siamo “apprezzati”, di dirci che sono gli altri a non meritarci, a non capirci; di guardare più a noi stessi che ai nostri fratelli; ecco: ora non possiamo più campare scuse. Entriamo in noi stessi con Lui, e sintonizziamo il nostro cuore sulla sua frequenza. Che è un’altra cosa!

Allora vedremo che tutto è più semplice. Magari non riusciremo a farcela in tutto, magari sbatteremo ancora la testa, ma sentiamo che Lui è in noi, e ci basta! Proprio così: dobbiamo sempre pensarlo in noi: e non farlo, equivale a non credere in Lui.

Quando andiamo a fare la comunione il sacerdote ci dice: "Corpo di Cristo"; che vuol dire:"Questo è il Corpo di Cristo" e si riferisce ovviamente al pane che ci porge; ma nello stesso tempo, a pensarci bene, allude anche a noi, al nostro corpo che lo sta per assumere: “questo vostro è Corpo di Cristo”. Capite che meraviglia? Abbandoniamoci a lui: perché in quel preciso istante è impossibile non sentire un fremito, un sussulto, una potenza nucleare dentro di noi: sì, "Noi siamo Corpo di Cristo".

Se possiamo accettare questa verità, questa realtà, questa forza, allora veramente possiamo tutto; veramente può accadere nella nostra vita la moltiplicazione dei pani (di noi). Se accettiamo e amiamo il poco che ci sembra di essere ("cinque pani e due pesci"), e lo mettiamo in gioco, scopriremo di essere il molto che non conosciamo ("tutti mangiarono… e furono portate via dodici ceste").

Fratelli miei, noi andiamo a messa ogni domenica e partecipiamo alla proclamazione della Parola del Signore e alla sublime preghiera che fa mutare il pane e vino in corpo e sangue di Gesù. E a tutto questo diciamo "Amen", cioè "si, ci credo, lo voglio..." Poi però usciamo di Chiesa e ci capita di cadere nuovamente nella triste realtà, di rientrare, forse, nella nostra consueta maschera di cinismo.

Abbiamo pregato e abbiamo fatto la comunione, ma poi, è più forte di noi, nella quotidianità ci sentiamo nuovamente soli e non mostriamo un minimo di fiducia nella presenza del Signore, tanto che i nostri vicini si domandano se veramente siamo convinti che il Signore sia con noi. Bene: questo dobbiamo assolutamente evitarlo. E quando, questa domenica, come pure in ogni domenica, celebriamo il Corpo e Sangue del Signore, abbandoniamoci veramente e di più alla Provvidenza, confidiamo di più nel Signore. Perché, vedete, dipende solo da noi fare in modo che l’Eucaristia non rimanga un gesto auto-celebrativo, un gesto isolato, un gesto neutro; e del resto non c'è altra soluzione, delle due l’una: o l'Eucarestia contagia la nostra vita, la riempie, la modella, la plasma, la informa, o resta sterile, morta, inutile con tutta la nostra vita. E soprattutto ricordiamoci, fratelli, che la Messa inizia nel preciso momento in cui usciamo dalla porta della chiesa. E dura un'intera settimana.

Così facendo vedrete che quel pane ricevuto ci aiuterà a sfamare la folla, ci aiuterà ad accorgerci della fame insaziata di quanti incontreremo durante la settimana e a mettere a loro disposizione quel poco che siamo, per sfamare ogni uomo nel corpo e nell'anima.

L'Eucarestia, insomma, il pane di Dio, il pane del cammino, è il dono prezioso che ci fa diventare credenti, che ci sostiene nella fede e ci costruisce in comunità. E questo è l'essenziale.

Un augurio finale? che l'Eucarestia torni ad essere per tutti noi ciò che è realmente: l’incontro col Risorto, il Pane del cammino, farmaco e consolazione per le nostre debolezze, luogo di accoglienza, di conversione, di fraternità e di perdono. Amen

 

 


 

XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO C

(13 GIUGNO 2010)

 

 

 

 

Vangelo: Lc 7,36–8,3

In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. Vedendo questo, il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!». Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa». Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro». «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati». Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!». In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni.

 

Le è perdonato molto, perché molto ha amato

 

Simone il fariseo pensava di avere fatto un gesto nobile nell'invitare il discusso Rabbì di Nazareth alla sua mensa. Non lo vedeva con disprezzo, come facevano molti del suo movimento, anzi. Era davvero incuriosito dalla predicazione di questo falegname del Nord scopertosi Profeta.

Dopo i convenevoli tutti si erano distesi ai bordi della stuoia che fungeva da tavola, colma di ogni ben di Dio. Era normale, in occasione dei banchetti, lasciare le porte di casa aperte, affinché i passanti potessero entrare ed ammirare la suntuosa ospitalità del padrone di casa.

Ma quando Simone e gli altri invitati vedono entrare "quella", di colpo tutti tacciono.

L'imbarazzo cresce, la donna si avvicina a Gesù, si inginocchia e scoppia a piangere bagnandogli i piedi. Scioglie i capelli, gesto ambiguo, gesto di seduzione, sufficiente in una coppia per chiedere il divorzio, e asciuga i piedi di Gesù.

L'imbarazzo, ora, è generale, sinistramente palpabile.

In cuor suo Simone tenta di difendere Gesù. Non può essere un Profeta, altrimenti saprebbe che razza di donna è questa e non si lascerebbe toccare, per non contrarre l'impurità rituale.

Gesù sorride: ha di fronte a sé due prostitute, la donna e il fariseo.

La donna è una prostituta, è una di "quelle", una segnata, una peccatrice, una dannata. Non importa perché è arrivata fino a quel punto di abiezione, non importa al perbenismo ipocrita la ragione di una scelta dolorosa, è condannata da sempre e per sempre. In nome della religione e della moralità che erge i muri per non mettersi in discussione, questa donna si identifica col suo ruolo, con il suo mestiere. Nessuna comprensione, nessuna possibilità, solo disprezzo, anche quando viene desiderata e usata.

Piange, ora. Piange senza disperazione, piange sentendosi amata da un uomo vero, sentendosi capita e accolta da Dio. Senza giudizio, senza peso, senza ambiguità. Piange tutto il suo dolore, tutta la sua tenebra, tutta la sua rabbia. La bambina che c'è in lei scopre il volto dell'assoluta misericordia.

Anche Simone è una prostituta. Si vende a Dio, e si vende bene. Conosce bene la religione, vive fino in fondo i precetti di Israele, non come il popolino ignorante che si danna perché non conosce la Legge. Paga la decima anche sulla ruta e sulla menta, prega con fervore, studia la Torah giorno e notte. È in una posizione di privilegio nella classifica dei meriti. È devoto, ma freddo. Può permettersi di giudicare – la legge è dalla sua parte – può mantenere le distanze.

E Gesù converte entrambi.

Alla donna insegna che il metro di giudizio di Dio è l'amore e il perdono. La donna ha amato, tanto, male, facendosi del male, ma ha amato. A Dio basta, lui, che è l'Amore, riconosce l'amore anche quando è fatto a pezzi e fragile e disperato. Per Dio basta questo, salta ogni logica – religiosa, morale, perbenista – e va dritto all'essenziale: guarda al dentro, al desiderio, al dolore, alla verità. Quell'amore è l'origine del perdono; il perdono che Dio dà, sempre gratis, sempre senza condizioni, smuove l'amore.

A Simone, con delicatezza, senza rabbia, Gesù pone un caso da risolvere, quello dei due debitori, uno debitore di qualche euro, l'altro di qualche centinaia di migliaia di euro, che si vedono inaspettatamente condonati ogni pendenza. Chi sarà più contento? Simone ragiona, riflette, giudica bene: sta imparando il punto di vista di Dio. È chiamato, il fariseo, a mettersi nei panni del debitore. Un altro evangelista ci dice che Simone è stato lebbroso: ragione in più, lui che ha sperimentato la solitudine e l'emarginazione, per annullare la distanza che crea la lebbra del giudizio. A Dio non importa la devozione se non è sorretta dalla passione, non cerca giusti ma figli, a lui non importa (a noi sì: molto!) la nostra immagine spirituale. Vuole dai suoi discepoli verità, passione, forza, anche a costo di sbagliare.

Così anche Davide sperimenta la compassione di Dio che lo stana dalla falsa immagine in cui si è rifugiato. Davide, potente, realizzato, sazio, annoiato cerca di salvarsi la faccia dopo avere avuto una relazione con Bersabea, che ora aspetta un figlio da lui. Invece di ammettere il proprio errore e assumersi le proprie responsabilità si inventa una tragica commedia in cui, alla fine, diventerà assassino di Uria, marito di Bersabea. Per salvarsi la faccia Davide l'ha persa di fronte al popolo. Ma Natan, profeta scomodo, lo mette di fronte alle proprie responsabilità. Davide prende coscienza del proprio limite. E, riconoscendolo, diventa grande, il più grande. Dio preferisce chi sbaglia per troppa passione a chi non sbaglia per troppa tiepidezza. Chi è tiepido, lo sappiamo, è vomitato.

Paolo, grande fariseo, era un assassino in nome di Dio. Poi Dio l'ha gettato in terra.

Ora, scrivendo ai Galati, riflette sulla sua precedente esperienza di fede: non è la legge che salva, non la norma, non il comandamento, che posso osservare non per sovrabbondanza di passione, ma per scrupolo e per compiacimento. Da zelante osservante della legge Paolo riconosce di essere diventato un assassino, pensando così di compiacere Dio. No, la legge non serve a nulla, è l'amore che salva.

Fratelli miei, lasciatemelo dire, siamo tutti delle prostitute. Ci vendiamo per un complimento, per coltivare il nostro ego (anche spirituale), per avere un ruolo sociale ed ecclesiale riconosciuto ed apprezzato, per essere, se non migliori, almeno non inferiori agli altri, disposti, come Davide, a tradire un'amicizia sincera pur di non ammettere i nostri errori.

Però tutti siamo perdonati e amati. La donna, Simone, Davide, Paolo; io e anche tu, fratello o sorella che leggi. Amati e perdonati da Dio, redenti e salvati, figli e uomini, discepoli e cercatori di Dio.

Tutti, se vogliamo, possiamo costruire la Chiesa, il sogno di Dio, comunità di persone che hanno sperimentato nella propria vita la tenerezza del Padre e, perciò, diventano capaci di perdono e di misericordia.

Purtroppo però la conclusione è quella di Gesù: amiamo poco, e quindi perdoniamo poco; non ci sentiamo amati perché bastiamo a noi stessi, siamo autonomi nell'auto-giudizio della nostra religiosità.

Non abbiamo bisogno dell'amore di Dio, manifestato dagli esclusi, dagli emarginati. E proprio coloro che escludiamo dalla nostra tavola, dai nostri incontri, dalla nostra incapacità di accoglienza, proprio costoro ci precedono, ci stanno davanti nella costruzione del Regno di Dio.

Noi amiamo una religione teorica, un mosaico di tante belle e buone teorie: bisogna fare così, bisogna fare cosà, Dio è questo e la Madonna è quello e dimentichiamo il "grembo" in cui il Dio vivente si fa carne: la nostra storia, le persone, il tempo di oggi. Perché oggi si compie la salvezza, oggi il Regno di Dio bussa alla nostra porta e ci interroga, ci mette dubbi sui nostri modi di interpretare la sua realtà. Oggi ci dice che la religione non è un indice di precetti, bensì una proposta di amore e perdono concreti, tra di noi, prima ancora di doverli a Lui. La fede è fidarci della sua misericordia e metterla poi in pratica tra di noi. È fede credere che l'invito alla salvezza è fatto a tutti, non solo ai giusti ed ai puri, agli osservanti ed ossequienti. È fede credere che i peccatori e le prostitute ci precedono nel Regno dei cieli.

Ma allora io chi sono? Mi sono sempre sforzato di vivere i comandamenti, i precetti, di essere un buon cristiano, di andare a messa e recitare le preghiere...

Ecco, sono semplicemente uno che ha bisogno di essere amato per imparare ad amare.

Uno che deve imparare dal Maestro l'arte e la grazia della misericordia, uno che deve lasciarsi toccare dai segni attuali del Regno di Dio.

Oggi, nella Chiesa, questo è un discorso che continua sì a risuonare, ma è praticamente inascoltato.

Oggi siamo troppo occupati a parlare di identità, di identità cristiana. E discriminiamo.

Fratelli miei, ricordiamoci che è proprio la ricerca dell'identità che ci porta a dividere e a discriminare. Crea i confini. I buoni e i cattivi, i puri e i peccatori. I bianchi e i neri. I ricchi e i poveri. Gli uomini e le donne. Più cresce la tensione verso l'identità, la purezza… più viene abbandonata l'esigenza della comunità.

Ed è proprio a noi che Gesù chiede un moto di conversione sincero.

Ed egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va' in pace!».

Meditiamo, fratelli e sorelle, meditiamo! Amen.

 

 


 

XII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO C

(20 GIUGNO 2010)

 

 

 

 

 

 

Vangelo: Lc 9, 18-24

Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia; altri uno degli antichi profeti che è risorto». Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà».

 

Ma voi chi dite che io sia?

 

“Le folle, chi dicono che io sia?” E qui i discepoli a sforzarsi di dare una spiegazione: per la gente – quella gente che lo aveva ascoltato e conosciuto, lui  il rabbi venuto da Nazareth che diceva parole nuove con un'autorità che gli altri maestri della legge non avevano – beh, per queste persone, egli era qualcuno che assomigliava a quei personaggi del passato, uomini eccezionali, che avevano parlato da parte di Dio: profeti di un tempo lontano come Elia, o più recentemente come Giovanni il Battista che aveva scosso i cuori con il richiamo alla conversione e con l'annuncio dell'imminente instaurazione del regno di Dio tra gli uomini.

Nessuno di queste folle infatti poteva avere la capacità di cogliere la vera identità di Gesù; tutti quelli che lo seguivano potevano solo ammirarne la sapienza, la bontà e la facoltà di compiere prodigi; ma che quell'uomo fosse il Figlio di Dio nessuno poteva ancora comprenderlo.

“Ma voi, chi dite che io sia?”.

È la stessa domanda, ma questa volta più circoscritta, più diretta: quel “ma” è importante e ci dice che qualcosa è cambiato nelle intenzioni del maestro: questa volta si rivolge agli amici, a quei pescatori scelti per condividere con lui una missione: “Vi farò pescatori di uomini” aveva detto loro (Mc 1,17); uomini che lui aveva scelto, ma che spontaneamente lo avevano seguito, perché anche loro avevano fatto una scelta; e questa scelta era Gesù di Nazareth.

È a loro che Gesù rivolge questa domanda diretta e inquietante: “Ma voi, chi dite che io sia?”.

Pietro, quasi scosso improvvisamente dal suo torpore, risponde per tutti: “Sei il Cristo di Dio”.

Pietro, il povero pescatore di Galilea, che un giorno tradirà per paura di una serva, ora afferma con forza la vera identità del Maestro: non è un rabbi come tanti, non è un grande profeta che parla da parte di Dio, ma è lo stesso Messia, il  promesso, l'Unto del Signore, colui che sarebbe apparso tra gli uomini per liberarli.

Ma la domanda che Luca propone in maniera così brutale, quasi impertinente, non si esaurisce qui: “Voi – e lo dico proprio anche a voi discepoli del terzo millennio – voi, chi dite che io sia?”; sono parole che attraversano come un flash il tempo e giungono, quanto mai attuali, a coinvolgerci tutti; in prima persona, individualmente: “Ma tu, chi dici che sia Gesù il Nazareno?”

Eh sì, fratelli miei, c’è di che rimanere interdetti: quante risposte insensate abbiamo sentito negli anni, e noi stessi quante risposte di comodo abbiamo dato!

Ma chi è veramente Gesù per ciascuno di noi? Chi sei tu, Nazareno? Chi sei tu, per me? Certo, ogni domenica milioni di persone si radunano per ascoltare la tua Parola, per celebrare – obbedendo al tuo comando – la cena che ti rende presente nel segno del pane e del vino; e che tu sei il Salvatore, lo sanno più o meno tutti. Ma, calandoci nel profondo del nostro cuore, nel silenzio della nostra anima, ci siamo mai chiesti veramente: “chi sei tu per me, Gesù?”

Sicuramente una domanda simile, in questi termini, non ce la siamo posta certo per Garibaldi, o per Napoleone, o per i vari “potenti” della terra, piccoli eroi di cartapesta, spazzati via dal tempo: lo facciamo invece con te, oscuro falegname di Nazareth, un ebreo marginale perso nei meandri della storia, la cui presenza onnipotente viene però professata ancora da milioni di persone, completamente diverse tra loro per razza, lingua, e nazione, comunque affascinate e rese credenti dalla semplice testimonianza di coloro che dicono di “averti incontrato”.

Si parla spesso, anche oggi, del Nazareno, dei suoi discepoli, e di tutto ciò che lo riguarda. È un argomento che ciclicamente viene rimesso in discussione, viene passato al vaglio della “scienza”.

Chi sei, dunque, Gesù Nazareno?

Gesù non è una figura amorfa: è invece una figura viva, che fa discutere, che fa schierare, che accende gli animi: ognuno, almeno un poco, si sente di difenderlo, di proteggerlo, di capirlo, di interpretarlo; credenti o non credenti; un uomo – che paga con la vita la sua coerenza e la sua non-violenza –  ancora scuote e interroga profondamente.

E la domanda, inevitabilmente, arriva alla fine anche a me: e mi arriva, come ho detto, diretta, senza scantonamenti: “Lascia stare cosa ne pensa la gente. Chi sono, io per te?”.

Ecco, fratelli: a questo punto non possiamo esimerci, far finta di niente: la risposta spetta a ciascuno di noi, soltanto a noi; una risposta sincera, senza tentennamenti, senza se e senza ma; senza ricorrere a luoghi comuni, a risposte preconfezionate, da catechismo.

Una risposta cuore a cuore, soli davanti alla nostra coscienza, finalmente denudati dai tanti pregiudizi nei confronti di Cristo e della sua Chiesa, con cui il nostro intollerante mondo ci riempie la testa.

Chi è dunque per me il Nazareno? Un compagno? Un amico? È Dio? È il Maestro? È nostalgia? È ricerca? È rabbia?

Pietro, chiamato personalmente in causa, rispose con forza e convinzione, osando dire ciò che gli altri discepoli neppure avevano il coraggio di pensare: “Tu sei il Cristo”; ma neppure lui immaginava cosa poi lo aspettasse. E Gesù conferma: sì, è vero: è lui l'atteso, lo svelatore di Dio, il raccontatore del suo volto. Un volto quello di Dio – che Gesù conosce bene, perché lui e il Padre sono una cosa sola – completamente diverso da quello che Pietro (e noi) ci saremmo aspettati: non un Dio forte che mostra i bicipiti, non un Dio onnipotente che distrugge gli avversari, non un Dio vincitore da corrompere e convincere, da blandire e sedurre; no. Ma un Dio schivo e amorevole, timido, quasi; un Dio nascosto che vuole essere amato per ciò che è, non per ciò che dà. Un Dio che vale la pena di seguire, talmente bello da far dimenticare noi stessi pur di conoscerlo. Un Dio che vale la pena di conoscere al costo di perdere ogni cosa, un Dio che è più di ogni affetto, più di ogni gioia, più della cosa più bella che potremmo desiderare. Un Dio che vale la pena di conoscere, anche a costo di perdere la faccia davanti al mondo: perdere la faccia per lui, venire umiliati pubblicamente, accettare come lui la vergogna più grande, quella di essere crocifissi, nudi, ostesi al pubblico ludibrio: la più temuta e odiata forma di umiliazione che i romani, tra gli altri, infliggevano ai condannati come somma punizione. Una vergogna tale, da costringere le prime comunità cristiane ad astenersi dall’usare la croce come segno di appartenenza.

Bene, fratelli miei; ma questo non è ancora tutto. Perché anche quando noi ci saremo appassionati di Lui fino al punto di condividere con lui il massimo dell’ignominia, anche allora potremo dire di non conoscerlo completamente; anche allora avremo molta strada da fare per conoscerlo pienamente nella sua vera identità. È come voler trasferire in un piccolo recipiente tutta l’acqua del mare, di agostiniana memoria!

E allora, fratelli miei: “chi è Gesù Cristo per noi?” Decidiamoci, diamoci una risposta, perché da essa dipende tutta la nostra vita; si, perché Cristo è coinvolgimento, Cristo è passione, Cristo è mente e cuore che vibrano; perché, aderendo a lui con la nostra totale convinzione, ci conformiamo a lui; perché allora noi stessi siamo Cristo! Amen.

 

 


 

XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO C

(27 GIUGNO 2010)

 

 

 

 

Vangelo: Lc 9, 51-62

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio. Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio». Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».

 

Discepoli di Gesù?

 

Diventare discepoli del Dio di Gesù non è una cosa da sottovalutare: non è una passeggiata, ma un impegno che dura tutta la vita, che richiede molta energia e molta sincerità con noi stessi.

La posta in gioco è alta: è il senso stesso della nostra vita; è scoprire la ragione del nostro esistere, il disegno nascosto che regge gli eventi della nostra storia.

Gesù non è un Rabbì smanioso di avere discepoli, né abbassa il tiro per risultare simpatico alla folla, né scende a compromessi per raccogliere consensi: diversamente dai guru di ieri e di oggi non desidera essere famoso, né di avere folle plaudenti. Egli vuole solo annunciare il Regno, mostrare a tutti lo splendido e inatteso volto del Padre.

Contrariamente a quanto avveniva con i rabbini del suo tempo, Gesù non si fa scegliere, ma è lui che sceglie i suoi discepoli e pone loro condizioni tutt'altro che scontate... La sua è una sfida con la vita: vuole discepoli autentici, provati, disposti a mettersi in gioco totalmente e sempre, non soltanto in quei particolari momenti della vita, in cui si è spinti da una incontenibile infatuazione mistica.

Il tema di questa autorevolezza è introdotto dalla formula semitica molto espressiva “rese duro il suo volto”: Gesù decide "risolutamente", prende la “ferma decisione”, di incamminarsi verso Gerusalemme, luogo dove l'annuncio del Vangelo, prima e dopo la sua crocifissione, verrà messo a dura prova. Gesù non teme, indurisce il volto, accetta pienamente la sfida: si incammina senza indugio verso quella città che uccide i profeti, che massacra ogni opinione, che annienta ogni novità creduta pericolosa.

Gesù è disposto a morire per raccontare il vero volto di Dio. E dai suoi discepoli pretende la stessa convinzione; un uomo dallo stile così adamantino, vuole discepoli altrettanto decisi e radicali. E soprattutto liberi, leggeri, diretti, come una freccia che punta dritta al suo bersaglio, senza remore né ostacoli.

Il discepolo che lo segue, non deve cercare Dio per mettersi personalmente al sicuro, per placare le proprie insicurezze. Tanti, troppi cristiani, hanno un rapporto con un Dio intimista e rassicurante, esclusivamente protettivo; si rivolgono a Dio solo per avere certezze, fanno della propria fede una cuccia, un nido, perché spaventati dal "mondo", luogo irto di pericoli; non escono – ignavi – dalla propria comunità, dalla propria parrocchia, dal proprio movimento, perché intimoriti dalla logica esterna anti-evangelica che non riescono a valutare e contrastare con serenità e criticità.

Il Maestro Gesù, invece, che non ha dove posare il capo, non dispone di un comodo nido in cui nascondere i propri discepoli: Gesù è costantemente in cammino, egli “vive” la strada.

“Mentre andavano per la strada” scrive Luca: Gesù e i suoi discepoli; e quindi, al seguito di Gesù, anche per i discepoli c’è solo una strada da abitare, un cammino da compiere: un progredire continuo che consiste nel credere il lui, nell’avere in lui una fede assoluta, incrollabile, nel seguire giorno dopo giorno i suoi passi.

Non si deve né staccare né stancare mai, perché tutta la vita di Gesù è un viaggio: un lungo percorso che parte da Betlemme e si compie a Gerusalemme. Un viaggio difficile, tortuoso, irto di ostacoli e difficoltà, ma anche bello... bello perché è un cammino vissuto sempre in compagnia, in comunione; mai da soli, ma sempre con tanti incontri.

È questa la nostra vocazione evangelica, cari fratelli e sorelle: abitare fino in fondo la strada, anche se purtroppo a volte ci si imbatte in cose sgradevoli; è per strada infatti – i discepoli stessi ce lo insegnano – che incappiamo nelle nostre intolleranze, nelle nostre intransigenze, nelle nostre miserie. Eh sì: quanta intransigenza anche tra noi cristiani, quanta intolleranza tra noi fratelli in Cristo, quanti aut-aut! Quante contraddizioni! È deludente vero? Beh, ci consoli almeno un po’ il fatto che anche loro, i discepoli, non erano poi così tanto “abituati” alla strada: ricordate? Chi pescava, chi era al banco delle imposte, chi era fermo sotto il fico, chi tramava contro i romani.

Anche noi però, come già loro, dobbiamo “convertirci” alla strada; dobbiamo capirla come una realtà complessa e contraddittoria, frequentata da molti con le nostre stesse aspirazioni e da tantissimi altri con interessi opposti; dobbiamo accettarla per quello che è, senza volerla adattare ai nostri schemi, asservendola ai nostri perentori ed egoistici “o dentro o fuori”: possiamo infatti incontrare anche il rifiuto lungo la strada, ma non è con la violenza che si cambiano le cose.

Dobbiamo perciò adeguarci a questo nuovo modo di percorrere la strada che è relazione con gli altri: poiché è interagendo con Gesù e gli altri che scopriremo chi siamo, che arriveremo alla Verità cui aspiriamo: è interagendo, che scopriremo ciò che ci piace, scopriremo le nostre emozioni, scopriremo le nostre intuizioni, scopriremo la nostra alterità, la nostra originalità, i nostri desideri.

Torniamo dunque come Chiesa, fratelli, ad abitare la strada... torniamo ad essere quelli della “via” e non quelli della “dottrina”... torniamo ad essere quelli che aiutano i fratelli a mettersi in cammino dietro a Gesù e non quelli che li trattengono per "ammaestrarli" con aride e inutili chiacchiere. Facciamolo, indurendo il volto, e seguendo i passi decisi di Gesù. Facciamolo, convinti che il discepolo che segue il Signore della vita – Colui che è più di ogni affetto, più di ogni relazione, più di ogni emozione – deve necessariamente ridimensionare anche i propri rapporti familiari e interpersonali, nella logica del Vangelo, sapendo che anche l'amore più assoluto, più intenso è sempre e solo penultimo, rispetto alla totalità assoluta di Dio.

Per questo dobbiamo abbandonare i sentimenti mortiferi, le relazioni all'apparenza splendide ma che, a volte, nascondono ambiguità e schiavitù morali. L'uomo è fatto per Dio, la sua felicità piena sta nella comunione con Lui; non c'è cosa, persona o amore che lo possa saziare. Guai a chi assolutizza anche il più fortunato amore umano. Alla fine ne rimarrà inevitabilmente deluso.

Il discepolo vive l'amore, ogni amore, i rapporti, ogni rapporto, come un riflesso adulto e maturo dell'amore che Dio riversa nel suo cuore, sapendo che anche i rapporti più belli rischiano di diventare letali, se cadono nella trappola di un viverli privi di autenticità e di rispetto.

Anche nella famiglia, non basta aver generato un bambino per essere padre, non basta allattare un neonato per essere madre: Gesù sa bene che i rapporti di discepolato, spesso sono più intensi e veri degli stanchi rapporti famigliari; da ciò ci invita a “lasciare i morti seppellire i morti” e a giocare la nostra vita nella totalità del dono di sé al suo esclusivo servizio.

Rifiutato da un villaggio samaritano, Gesù non cede al castigo invocato da Giacomo e Giovanni; anzi, "si voltò e li rimproverò". Cristo vuol conquistare il cuore con l'amore, non imporsi con potenza. Per questo Dio è paziente, e sa perdere molte volte anche con noi. Con la nostra dura cervice. Senza scoraggiarsi.

Ma guai a perdere gli appuntamenti con Lui! Nella vita ci possono essere ore difficili e critiche, in cui ci scoraggiamo e abbandoniamo la direzione giusta, lasciandoci trascinare alla deriva: attenzione allora, dobbiamo sempre cogliere l’attimo propizio, dobbiamo spiegare completamente le nostre vele, approfittando del soffio del vento, perché poi, quando sarà caduto, la nostra navicella cadrà in balia delle onde e il nostro rimpianto sarà grande.

Il discepolo che segue Gesù, sempre proteso al futuro, non resta inchiodato al proprio passato, non resta tassellato alle proprie abitudini, non si nasconde dietro il "si è sempre fatto così", ma guarda avanti, punta la fine del campo, laggiù dove termina il solco; deve essere più attento a tenere in profondità l'aratro, che a verificare ciò che ha fatto, voltandosi indietro.

Troppe volte le nostre comunità sono più preoccupate a conservare, che a far vivere il Vangelo. Troppe volte la logica soggiacente alle nostre scelte di Chiesa è quella della tutela di un privilegio, del mantenimento disperato di uno status quo che, però, ci allontana dal Maestro.

Inquietante, vero?

Allora interroghiamoci, fratelli e sorelle: come viviamo noi la nostra “strada” al seguito del Maestro? Al seguito di un maestro – ci verrebbe da aggiungere – oltretutto così poco malleabile e inflessibile? Calma, fratelli, non siamo precipitosi: rassicuriamoci; il Gesù che nel brano evangelico parla in termini così severi e categorici non vuole certo essere intransigente per il gusto di esserlo; non si esprime così, con parole forti, inappellabili, semplicemente per scoraggiarci; tutt'altro. Egli vuole da noi, anzi esige per il nostro bene, verità, autenticità, amore incondizionato; vuole persone disposte a mettersi completamente a nudo di fronte all'assoluto di Dio. Non gli interessano falsi banditori, doppiogiochisti, elementi inaffidabili. Egli è così esigente, proprio perché non vuole sulla sua strada persone inadeguate e pavide, mummie da sacrestia, né gradisce evangelizzatori fanatici, pazzi, esaltati: egli vuole – lo ripeto – uomini e donne autentici, convinti, appassionati; gente equilibrata, uomini e donne spinti dalla gioia della ricerca e attratti dal suo fascino di Rabbì, che mettono lealmente le proprie energie a servizio del Regno. Questo è quanto, fratelli cari.

Ce la faremo noi dunque a seguirlo, a vivere “la nostra strada” con questa prospettiva?

Certamente si, ma solo quando riusciremo a specchiarci in lui, faccia a faccia, e a riconoscere in noi non dei surrogati ma la sua vera, autentica immagine: perché solo allora potremo dire con Paolo “omnia possum in eo qui me confortat – tutto posso in colui che mi dà la forza” (Ef 4,13). Amen.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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